Quello che i soldati israeliani non dicono mai alle loro madri

Haaretz Gideon Levy, 15 gennaio 2017

Non c’è praticamente nessun servizio operativo nell’esercito israeliano che non comporti per i soldati il compiere missioni spregevoli come quella descritta qui di seguito.

Si sono radunati in una stretta via, in una notte fredda e scura. Erano tesi. Il grido di un lontano sciacallo ha rotto il silenzio. Per alcuni questa era la prima missione operativa. L’avevano sempre sognata ed erano stati a lungo addestrati. L’adrenalina scorreva, proprio come volevano. Era quello per cui si erano arruolati.

Prima di uscire hanno mandato messaggini ai propri familiari per dire loro di non preoccuparsi. Quando si è levato il sole e sono tornati in salvo alla base, li hanno nuovamente inviato dei messaggi. Le loro madri non hanno chiesto che cosa avevano fatto e loro non glielo hanno detto. Succede sempre così. I familiari sono orgogliosi di loro: sono dei soldati che combattono.

Quando si sono messi in riga prima di partire, i comandanti hanno controllato il loro equipaggiamento e munizioni ed impartito gli ultimi ordini. L’ufficiale di intelligence ha parlato loro dei due ricercati: devono essere trovati, ad ogni costo. Poi i soldati sono usciti nella notte. Trenta soldati. Sono saliti a piedi in cima alla collina.

Hanno raggiunto l’obiettivo poco dopo mezzanotte. Il villaggio era profondamente addormentato, i fari di sicurezza arancione della colonia di là dalla strada ammiccavano distanti. Ed è stato dato l’ordine: attaccare!

Si sono avventati contro la porta posteriore della casa e l’hanno scossa finché non è stata quasi scardinata. Dal secondo piano è uscita una luce fioca ed un uomo è sceso in pigiama, ancora mezzo addormentato, per aprire il cancello di metallo. Nessuno di loro si è chiesto che cosa ci facesse là. Forse questo accadrà quando saranno maturati ancora un po’.

I primi quattro sono entrati con i fucili spianati, i volti coperti da maschere nere; si vedevano solo gli occhi. Hanno spinto indietro lo sbalordito palestinese. Lui ha tentato di spiegare loro che i bambini stavano dormendo e non voleva che si svegliassero vedendo un soldato mascherato sopra il loro letto.

I soldati volevano Tariq. Ed anche Maliq. Hanno ordinato al palestinese di portarglieli. I due ricercati dormivano in una stanza tutta blu, comprese le lenzuola. I soldati li hanno svegliati con delle grida. I ricercati si sono destati nel panico.

I soldati gli hanno ordinato di alzarsi. Poi li hanno afferrati per le braccia, li hanno spinti in due stanze separate e chiusi dentro. Altri soldati hanno fatto irruzione nella casa, i cui abitanti nel frattempo si erano tutti svegliati. Mahmoud, di sei anni, ha incominciato a gridare: “Papà, papà!”

I soldati hanno ammonito i due di non osare partecipare ad altre manifestazioni. “La prossima volta vi spareremo o vi arresteremo”, hanno detto a Maliq. Lui è rimasto chiuso dentro per 40 minuti, finché i soldati non se ne sono andati. Andandosene, hanno lanciato delle granate stordenti nei cortili delle case cui passavano accanto – la ciliegina sulla torta.

Tutto questo è successo circa 10 giorni fa a Kafr Qaddum. Succede ogni notte in tutta la Cisgiordania.

I due ricercati avevano 11 e 13 anni. Tariq non ha ancora ripreso a parlare e Maliq ha un sorriso spaventato. Da quella notte dormiranno solo nel letto dei genitori. Mahmoud ha incominciato a bagnare il letto. Il grande spiegamento di soldati è arrivato a notte fonda solo per spaventarli e forse anche per tenere alta la tensione.

L’unità dei portavoce dell’esercito israeliano non si è vergognata di dire: “I soldati hanno parlato con dei giovani che avevano preso parte ad una regolare manifestazione a Qaddum.” Ecco che cosa fanno i soldati israeliani: tengono colloqui intimidatori di notte con dei bambini. Per questo si sono arruolati. Di questo vanno fieri.

Vale la pena notare che Kafr Qaddum è un luogo degno di rispetto. Ha lottato per circa cinque anni, con coraggio e determinazione, per riaprire la sua strada di accesso – che era bloccata a causa della colonia di Kedumim. La colonia era cresciuta proprio ai bordi della strada, provocando la sua chiusura.

Venerdì scorso Amos Harel ha parlato su Haaretz della drastica diminuzione del numero di giovani di buona famiglia che vogliono fare il servizio militare in unità di combattimento. La polizia di frontiera attualmente è l’unità più ambita e le sue porte sono prese d’assalto dalle frange più deboli della società, che Israele cinicamente istiga contro i palestinesi, al punto che tutti loro vogliono essere come il sergente Elor Azaria [condannato per aver ucciso un attentatore palestinese inerme, ndtr].

Forse è un bene che i benestanti abbandonino il servizio militare nei territori. O forse è un male, perché lasciano il posto ad altri. Oggi non c’è praticamente nessun servizio operativo nell’esercito israeliano che non comporti il compiere spregevoli missioni come l’operazione a Kafr Qaddum.

Questo venerdì, oppure il prossimo, Tariq e Maliq torneranno a manifestare in strada e forse tireranno anche pietre. Non dimenticheranno tanto velocemente il terrore di quella notte; quel terrore plasmerà la loro coscienza.

E i soldati? Continueranno ad essere degli eroi, ai propri occhi ed a quelli della loro gente.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Netanyahu mette in relazione l’attacco di Gerusalemme con l’ISIS. I media israeliani lo smascherano

Middle East Eye Redazione di MEE – 10 gennaio 2017

I giornalisti israeliani affermano che è l’occupazione della terra palestinese che sta guidando gli attacchi terroristici e che Israele non è la Francia o la Germania

Alcuni commentatori israeliani hanno condannato duramente Benjamin Netanyahu per aver messo in relazione con lo Stato Islamico un attacco a Gerusalemme, sostenendo che il primo ministro sta diffondendo una narrazione per inserire Israele nell’ondata di attacchi in Occidente e distogliendo l’attenzione dall’occupazione della terra palestinese.

Sabato un palestinese, Fadi al-Qunbar, ha lanciato un camion in mezzo a un gruppo di soldati israeliani nei pressi della Città Vecchia, uccidendone quattro. Subito dopo, Netanyahu ha affermato: “Conosciamo l’identità dell’aggressore, che, in base a tutti gli indizi, era un sostenitore dell’IS.”

Ma, scrivendo sul “Times of Israel” [giornale on line che si definisce “apolitico”. Ndtr.], l’esperto Avi Issacharoff afferma che non è “ancora chiaro cosa o chi lo abbia spinto a mettere in atto l’attacco” e che “non ci sono chiari indizi” che provino l’affermazione di Netanyahu.

“E’ possibile che la dichiarazione di Netanyahu possa spingere l’IS ha dichiarare la propria responsabilità per l’attacco, ma è dubbio se ci sia un qualche rapporto diretto tra il gruppo e Qunbar.”

“L’affermazione, comunque, è utile all’argomentazione di Netanyahu nei confronti dell’Occidente secondo cui “Lo Stato Islamico è qui”, e a quella del gruppo di avere una presenza nella “Palestina occupata”, sostiene.

Issacharoff avanza un’altra teoria: “Per il momento, pare che Qunbar abbia agito in base allo stesso modus operandi che abbiamo visto in precedenza a Gerusalemme: un terrorista senza un’affiliazione organizzativa, ispirato dai media informativi, da una moschea o dalle reti sociali, che ha condotto un attacco senza assistenza esterna.”

“In seguito, le organizzazioni terroristiche lo rivendicano come uno di loro per cavalcare l’onda del suo ‘successo’.”

Afferma che la “chiave della tensione” che guida questi attacchi non è la presunta presenza dell’IS, ma “la mancanza di qualunque prospettiva diplomatica, la costante frustrazione nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’odio verso Israele e i continui massicci incitamenti sulle reti sociali.”

“Tutto ciò crea un’atmosfera tesa, permeata di odio, che può portare in qualunque momento a ulteriori attacchi ‘spontanei'”, sostiene.

Su Haaretz, sotto il titolo “la teoria di un attacco dell’ISIS sta bene a Netanyahu, ma Gerusalemme non è Berlino”, l’editorialista Nir Hasson scrive: “Per quanto riguarda il primo ministro…la teoria dell’ISIS si addice al messaggio che cerca di diffondere – cioè che Gerusalemme, come Berlino e Nizza, è solo un’altra città occidentale che affronta un terrorismo brutale, irriducibile, messo in atto da membri dell’islamismo internazionale.”

“In base a questo messaggio, questa forza del male assoluto non ha motivazioni né ragioni e non ha niente a che vedere con l’occupazione o con qualunque altra politica israeliana.”

“Gerusalemme non è Nizza, Nizza non ha il 40% dei suoi abitanti che vivono senza diritti civili, sotto occupazione e in condizioni di vita umilianti.”

“A Nizza il primo ministro non annuncia la chiusura di un quartiere che ospita decine di migliaia di persone solo perché uno di loro è un terrorista.”

“Anche se l’attacco di domenica fosse stato ispirato dall’ISIS, ha comunque avuto origine a Gerusalemme ed è parte di un’infinita serie di attacchi di cui la città ha sofferto negli ultimi due anni e mezzo.”

Aggiunge che ogni potenziale spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme potrebbe solo gettare benzina sul fuoco.

“Non lontano dalla scena dell’attacco mortale c’è il luogo candidato ad ospitare la nuova ambasciata USA a Gerusalemme. Mentre il 20 gennaio [data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Ndtr.] si avvicina, lo stesso avviene con la possibilità che l’ambasciata venga spostata lì,” afferma.

“Una simile iniziativa potrebbe benissimo aggiungere benzina sul fuoco che sta bruciando in città da oltre due anni e mezzo.”

Dan Cohen, un altro giornalista ebreo, su Twitter critica i media occidentali che ripetono pappagallescamente la narrazione di Netanyahu e sostiene che il primo ministro sta cercando di utilizzare l’attacco per promuovere politiche repressive contro i palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le pazienti di Gaza[malate]di cancro: il divieto israeliano di lasciarci entrare per curarci è “una condanna a morte”

Jack Khoury | 7 gennaio 2017 | Haaretz

Le pazienti di Gaza definiscono il divieto e i ritardi che impediscono loro di accedere alle cure mediche in Israele e in Cisgiordania“ una condanna a morte premeditata ”

Decine di donne malate di cancro nella Striscia di Gaza hanno reso pubblica una protesta contro il rifiuto di Israele di farle entrare nel Paese per curarsi. Le donne affermano che gli impedimenti o i ritardi per essere curate sono “una condanna a morte premeditata”.

Questa è la prima protesta di pazienti gazawi contro il divieto israeliano di curarsi fuori dalla Striscia di Gaza organizzata da quando, nel 2006, è iniziata la chiusura dell’enclave. Le donne dicono che la protesta è la conseguenza di un forte aumento di malati, in particolare quelli di cancro, che non possono uscire da Gaza per curarsi in Israele, a Gerusalemme Est o in Cisgiordania dopo anni in cui ciò era consentito.

La protesta è guidata da Iman Shanan di 47 anni, a cui nel 1999 è stato diagnosticato un cancro al seno e le cui condizioni da allora sono migliorate grazie alla cura. Recentemente nel timore di una recrudescenza del male, è stata indirizzata all’ospedale Assuta di Tel Aviv per degli esami per individuare cellule cancerogene.

Per tre volte ha chiesto di andare all’ospedale [a fare] gli esami, ma ogni volta la sua richiesta è stata respinta. Shanan, che è a capo dell’ONG “Programma di aiuto e speranza per l’assistenza ai malati di cancro a Gaza”, ha riferito a Haaretz che l’iniziativa della protesta è partita dopo la richiesta di numerose donne per le quali il divieto di curarsi fuori da Gaza ha significato letteralmente una condanna a morte.

Shanan dice che il numero di rifiuti di lasciare Gaza per cure mediche è drammaticamente aumentato, per motivi definiti da Israele problemi di sicurezza.

Nelle ultime due settimane le donne hanno manifestato due volte davanti agli uffici della Croce Rossa e alla sede di Gaza degli uffici del Comitato di affari amministrativi palestinesi, che coordina con le autorità israeliane le partenze dei malati dalla Striscia. Nelle due proteste le donne portavano cartelli in cui chiedevano un permesso per andare a curarsi in Cisgiordania e in Israele. Hanno anche attuato per un giorno uno sciopero della fame .

Una delle manifestanti, la 27enne Majar Naizi, anche lei un tempo malata di tumore al seno, è stata indirizzata all’Assuta per esami al fine di localizzare cellule cancerogene. Ha subito cure a Gerusalemme Est nel 2014 e nel 2015, ma la sua richiesta di uscire per degli esami programmati per il 1 novembre [2016] è stata respinta.

“La mia salute peggiora e devo capire come andare avanti”, ha detto questa settimana. “Non posso assumere medicine senza conoscere le mie condizioni, i medici stanno pensando di prescrivermi le medicine senza che io abbia fatto gli esami per il fatto che non posso avere il permesso per farli, ma ciò potrebbe procurarmi gravi conseguenze”.

Sausen Kadih, di 49 anni, a cui è stato diagnosticato un tumore al cervello lo scorso giugno, in un primo tempo è stata autorizzata a curarsi in un ospedale di Ramallah, ma nell’ultimo mese i permessi non sono stati concessi e la sua domanda è stata respinta. L’esercito israeliano non ha risposto alle sue richieste di rispettare le visite previste.

Sihan al-Tatri di 53 anni, soffre di leucemia linfatica e deve sottoporsi alla chemioterapia una volta ogni tre settimane all’Ospedale Vittoria Augusta di Gerusalemme Est. Tatri è entrata in Israele due volte e ha fatto il trattamento, ma, nel momento in cui ha cercato di fare il terzo, le è stato negato l’ingresso. La sua domanda è “sotto esame” e [nel frattempo] ha già perso due appuntamenti per la cura. Il prossimo è fissato per lunedì [9 gennaio].

“A causa del ritardo nella cura, mi sento debole e devo ricominciare tutto da capo” ha detto. “Se non mi danno il permesso mi stanno condannando a morte. Quale Paese può acconsentire che noi moriamo perché non abbiamo avuto il diritto a curarci?

L’ONG “Medici per i Diritti Umani (PHR)”, che aiuta i malati di Gaza ad ottenere il permesso per uscire dalla Striscia di Gaza e curarsi, sostiene che lo scorso anno il numero dei dinieghi del permesso ai malati per andare a curarsi è aumentato del 44%. L’ONG afferma che nel 2016 sono state respinte 69 domande, rispetto alle 48 del 2015 e alle 23 del 2014.

L’ONG PHR ha chiesto al coordinatore dell’attività di governo nei territori occupati (COGAT) di permettere ad alcuni malati di partire da Gaza per curarsi. Il COGAT ha risposto che, per quanto riguarda Gaza, la politica di Israele verso i civili non cambia e che centinaia di persone entrano in Israele attraverso il checkpoint di Erez per ricevere cure mediche in Israele, in Cisgiordania e all’estero, e che il loro numero negli ultimi anni è persino aumentato.

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Primo fine settimana del 2017: Israele ha demolito le case di 151 palestinesi, circa quattro volte la media dello scorso anno

Amira Hass – 7 gennaio 2017 Haaretz

L’amministrazione civile dell’IDF [l’esercito israeliano] sta adempiendo alla promessa di Netanyahu di demolire per vendetta le case degli arabi.

La promessa del primo ministro Benjamin Netanyahu ai coloni dell’avamposto illegale di Amona di applicare la legge “equamente”, demolendo le case di arabi, sta essendo pienamente rispettata.

Il numero di edifici palestinesi demoliti nella prima settimana del gennaio 2017 è quasi quattro volte maggiore della media settimanale nel 2016: 20 strutture. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel 2015 la media era stata di 10 alla settimana.

Nell’area C, sotto totale controllo civile e militare israeliano, tra lunedì e giovedì l’Amministrazione Civile dell’esercito israeliano ha demolito 65 strutture e 7 cisterne per la raccolta di acqua piovana in comunità palestinesi. Il Comune di Gerusalemme ha demolito altre due case a Gerusalemme est. Circa 151 persone, compresi 90 bambini, vivevano negli edifici che sono stati demoliti.

Lunedì, il giorno in cui la commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.] ha discusso l’annessione a Israele della cittadina di Ma’aleh Adumim (a est di Gerusalemme), l’amministrazione civile e l’esercito israeliano hanno demolito dodici capanne in legno e lamiera – di cui otto utilizzate come abitazioni – in due comunità beduine della tribù Jahalin, a sud della colonia; tre baracche a Bir al-Maskub e nove a Wadi Sneysel. In totale 84 persone, 68 delle quali bambini, sono rimaste senza tetto nel giro di poche ore.

Lo scorso agosto l’amministrazione civile ha demolito strutture in quelle comunità. Ma i residenti non hanno un altro posto in cui vivere e sono state obbligate a costruire nuove baracche. Negli anni ’90 dozzine di famiglie della tribù Jahalin furono espulse dalla zona per consentire l’espansione della colonia.

Martedì l’amministrazione civile ha demolito 49 strutture a Khirbet Tana, nel nordovest della valle del Giordano: 13 strutture abitative, 9 gabinetti mobili e per il resto costruzioni agricole di vario genere. Ventotto adulti e 22 bambini hanno perso la casa a causa delle demolizioni. Altre 71 persone sono state danneggiate dalla distruzione delle strutture agricole.

Circa 40 famiglie (250 tra uomini e donne) vivono in quell’antico villaggio di grotte a est del villaggio di Beit Furik. In quattro precedenti incursioni lo scorso anno l’amministrazione civile ha demolito 150 baracche, ovili, tende e varie strutture igieniche – così come una scuola che è stata costruita grazie a fondi europei. Durante l’attacco di martedì, è stato anche consegnato un ordine di interruzione dei lavori per la nuova scuola, che sta per essere costruita, di nuovo con donazioni europee. L’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso degli abitanti di Khirbet Tana contro l’ordine di abbandonare definitivamente le loro case, ma i residenti hanno semplicemente costruito nuove abitazioni e una scuola perché si rifiutano di abbandonare il villaggio in cui le loro famiglie hanno vissuto molto prima del 1948 e prima che l’IDF dichiarasse la zona servitù militare.

Mercoledì una consistente forza militare ha fatto un’incursione sulle terre del villaggio di Tekoa, a sudest di Betlemme. Qui i bulldozer dell’amministrazione civile hanno demolito sette cisterne per l’acqua piovana e altre tre rimesse per scopi agricoli. Il capo del consiglio di villaggio ha raccontato ad Haaretz che una delle cisterne era stata scavata 25 anni fa, mentre le altre erano più recenti. Circa 180 persone dipendono da quelle cisterne per la loro vita. E giovedì mattina l’amministrazione civile ha demolito una struttura agricola nel villaggio di Jinsafut, a est di Qalqiliyah, in Cisgiordania.

A metà dicembre l’Amministrazione Civile ha detto ad Haaretz di essere in possesso di 11 macchine agricole, per lo più trattori, confiscate a contadini palestinesi dopo che l’IDF ha trasformato le loro terre nella zona settentrionale della valle del Giordano in servitù militare.

I palestinesi devono pagare all’Amministrazione Civile un’ammenda di qualche migliaio di shekel [1.000 shekel= 247 €. Ndtr.] per il rilascio di ogni trattore, e impegnarsi a non commettere una seconda volta l’ “infrazione”. Nel 2016 solo due trattori sono stati restituiti, previo pagamento dell’ammenda. Oltre ad uso agricolo, i trattori servono anche a trasportare acqua agli abitanti ed ai loro armenti dalle sorgenti che si trovano a qualche chilometro dalle stalle. Israele non consente alle comunità palestinesi residenti in zone sotto il suo controllo di collegarsi alle infrastrutture idriche.

Il 21 dicembre un altro trattore è stato confiscato ai contadini nel nord della valle del Giordano, dopo che avevano tentato di raggiungere le loro terre sul lato orientale dell’autostrada 90 (chiamata come quel sostenitore del trasferimento della popolazione palestinese, l’ex ministro Rehavam Ze’evi [del partito di estrema destra Modelet e assassinato nel 2001 da un palestinese. Ndtr.]).

Negli ultimi tre mesi del 2016 l’IDF ha condotto 20 esercitazioni di addestramento con proiettili letali sulla terra delle comunità palestinesi nella zona settentrionale della valle del Giordano. Secondo l’organizzazione israeliana dei diritti umani B’Tselem, queste esercitazioni significano che a circa 220 persone – compresi circa 100 minori delle comunità di Al-Ras al-Ahmar, Khirbet Khumsa e Abzik – è stato ordinato di lasciare temporaneamente le proprie case in 19 diverse occasioni.

B’Tselem ha segnalato che nel villaggio di Al-Farisiyah, che non è stato evacuato, l’esercito ha proibito agli abitanti di portare al pascolo le greggi nelle terre circostanti, poi si è addestrato su terreni coltivati e vi ha persino sistemato bagni provvisori. Inoltre le truppe hanno dissodato parte delle terre dell’area per rendere più agevole il passaggio dei mezzi militari, e in questo modo hanno provocato ulteriori danni ai terreni agricoli.

L’ufficio del portavoce dell’IDF ha detto ad Haaretz che “le zone di servitù militare, soprattutto nella valle del Giordano, e in generale in Giudea e Samaria, sono state dichiarate tali con un’ordinanza dell’autorità del comando militare della regione fin dagli anni ’70, in base a necessità di sicurezza. Gli abitanti che si trovano in quelle zone di addestramento lo stanno facendo in violazione della legge.

“Prima di ogni addestramento militare, si prendono iniziative con lo scopo di evitare danni fisici o alle proprietà, tali come controlli a vista, pattugliamenti, piazzando protezioni e dialogando con gli abitanti della zona attraverso l’Amministrazione Civile. Durante le esercitazioni, agli abitanti viene richiesto di lasciare la zona delle manovre. Le attività menzionate al riguardo sono state approvate dalla Corte Suprema in richieste che sono state presentate in modo simile,” ha affermato l’ufficio del portavoce dell’IDF.

Martedì 20 dicembre 2016 Dafna Banai, di Machsom Watch [associazione di pacifiste israeliane che controllano il comportamento dei militari nei Territori Occupati. Ndtr.] ha riferito: “Tutti i sentieri che collegano la valle del Giordano palestinese alle località di Aqraba, Beit Furik e Tubas, in Cisgiordania, sono ora bloccati da mucchi di terra, fossati, enormi massi e cancellate chiuse. Persino quelli aperti negli scorsi anni sono stati ora nuovamente interrotti.”

“Solo il cancello di Gokhia, che separa la valle del Giordano da Nablus e Tubas oggi è aperto (da domenica, secondo gli abitanti del posto). Tutto ad un tratto non ci sono “ragioni di sicurezza”, né “pericolo per i palestinesi perché l’area è utilizzata per le manovre militari” – da sempre, quando le manovre sono in corso, il cancello è aperto (per consentire il libero passaggio ai mezzi militari senza perdita di tempo ogni volta che deve essere aperto o chiuso). Nei pressi del cancello si vedono tre veicoli blindati e soldati annoiati. Si sta di nuovo svolgendo un’esercitazione militare nella valle del Giordano. Siamo entrate ad Al-Ras al-Ahmar, ma non abbiamo potuto andare oltre il primo accampamento a causa del fango spesso. Stava piovendo a dirotto quella mattina e tutta la regione si è trasformata in un grande pantano,” ha scritto.

“Da mezzogiorno alle 16,30 del pomeriggio la strada che sale a Tyassir ed il resto della Cisgiordania sono state interrotte a causa delle manovre militari. Si vedevano lunghe file di veicoli palestinesi da Al-Malih, dove due soldati annoiati stavano bloccando il traffico. I soldati non avevano nessuna idea di quando sarebbe stata riaperta la strada,” ha raccontato Banai.

“I palestinesi, per lo più maschi, lavoratori a giornata sulla strada di casa dal loro lavoro nelle colonie, stavano ad oziare sulla strada, fumando. Qualcuno ci ha domandato di chiedere ai soldati di lasciarli andare a casa – qui, là, a 200 metri di distanza, a Al-Burj. Ma i soldati sostenevano di avere l’ordine di non lasciar passare nessuno, senza eccezioni. Eravamo anche in contatto telefonico con Mahdi, che si trovava sull’altro lato (occidentale) del blocco, ed ha parlato di lunghe code in attesa anche là. Peggio di tutto, bambini dell’asilo e delle elementari (come Rina, di 5 anni) hanno dovuto aspettare sulla strada per 4-5 ore! Gironzolavano in mezzo ai carri armati israeliani, chiedendo un po’ di cibo ai soldati; non avevano mangiato niente dalla mattina,” ha scritto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Adeguarsi alla perniciosa occupazione israeliana

 Amira Hass – 1 gennaio 2017, Haaretz

A.B. Yehoshua si mette in riga dividendo i palestinesi in varie categorie e quindi ignora le loro difficoltà complessive.

Lo scrittore A.B. Yehoshua (“Alleviare la perniciosità dell’occupazione”, Haaretz, 31 dicembre) ha ragione quando collega la parola “perniciosità” a occupazione. Ma sotto le mentite spoglie dell’innovazione, dell’audacia e di considerazioni umanitarie, la sua proposta per un temporaneo e parziale allentamento della perniciosità si adegua alla tradizionale politica israeliana: dividere il popolo palestinese in varie categorie burocratiche, in enclaves separate e distanti, e naturalmente senza chiedere la loro opinione.

Per sembrare audace, ma per proporre qualcosa che è proprio quello che il governo del ministro dell’Educazione Naftali Bennett e la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (entrambi di Habayit Hayehudi [estrema destra dei coloni. Ndtr.]) vogliono, alcuni dei fatti citati da Yehoshua vengono stravolti. Qui di seguito alcuni di questi stravolgimenti:

* “Uno spazio binazionale”. Non c’è bisogno di andare fino ai miseri quartieri congegnati da Israele a Gerusalemme est per giocare con l’idea di un “laboratorio” di vita binazionale. E’ vero che il popolo palestinese è stato disperso da quando è stato espulso dalla propria terra d’origine nel 1948. Ma non ha mai smesso di essere una nazione per questa ragione, compreso il milione e mezzo di palestinesi che sono attualmente cittadini israeliani. Israele nei suoi confini riconosciuti è uno spazio binazionale, indipendentemente della sue definizioni e dalle discriminazioni che opera a danno dei suoi cittadini palestinesi.

* “La Striscia di Gaza è del tutto separata da Israele.” Non è vero. I due milioni di residenti della Striscia di Gaza sono registrati nell’anagrafe controllata da Israele. Come i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Come Yehoshua e come me. La carta d’identità rilasciata ad ogni sedicenne di Gaza necessita dell’approvazione israeliana. E’ Israele che decide se, quanti e quali palestinesi che tornano dall’estero otterranno la residenza in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La moneta corrente in uso nella Striscia è lo shekel.

Circa un quarto dei gazawi ha familiari in Cisgiordania, nella Gerusalemme est occupata e nello stesso Israele. Tutti i residenti di Gaza hanno proprietà immobiliari del passato, di famiglia, e legami affettivi all’interno di Israele, indipendentemente da quello che noi decidiamo per loro.

* “L’Area A è soggetta alla legislazione civile e militare palestinese.” Non è esatto. Nell’Area A i palestinesi hanno poteri civili e di polizia, ma non militari. Quando ogni settimana i nostri soldati fanno incursioni nei quartieri e nelle case in questa zona, le forze di sicurezza palestinesi si devono nascondere nelle loro basi. Se si oppongono all’invasione dell’esercito israeliano – le uccidiamo o le condanniamo per terrorismo.

* “(Sono) i palestinesi che vivono nell’Area C che si confrontano con l’occupazione israeliana, affrontando sia i coloni che l’esercito.” Di cosa stai parlando? I coloni non discriminano e vessano chiunque, e sono impazienti di mettere le mani nella “C” sulla terra di palestinesi che vivono ovunque in Cisgiordania

* “Il numero di palestinesi che abitano nell’Area C è solo di circa 100.000.” Da dove esce questo numero? Bimkom [associazione di urbanisti e architetti israeliani che opera per una gestione collettiva del territorio. Ndtr.], “Pianificatori per diritti di progettazione”, nel 2008stimava che nell’Area C vivessero 150.000 palestinesi. Un mini-censimento condotto dall’ufficio Onu per il coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati ha trovato che alla fine del 2013 il numero era raddoppiato -300.000. Alcuni vivono in comunità che si trovano totalmente nell’Area C, altri in comunità divise tra C, A e B, che sono in ogni caso categorie artificiose, in contraddizione con qualunque logica di pianificazione. Quello che è certo è che circa 30.000 beduini nell’Area C sarebbero contenti di tornare nella loro terra nel Negev, da cui sono stati espulsi nel 1948. Accanto alle comunità di Al-Arakib e di Ummal-Hiran, che, come sappiamo, sono prospere e godono dei molti diritti che Israele ha concesso loro… [riferimento polemico al modo in cui sono trattati i beduini con cittadinanza israeliana. Ndtr.]

* “Residenza con diritti (sociali) di base.” Naturalmente il modello è quello dello status di residenti dei palestinesi di Gerusalemme est, o, per essere più precisi, i deliri israeliani su quanto sia bella lì la vita dei palestinesi. Se fosse così bella, come mai abbiamo trasformato circa l’80% di loro in poveri a carico dell’assistenza sociale? Oltre alla situazione di inferiorità socio-economica in cui abbiamo gettato i palestinesi di Gerusalemme, il loro stesso status di residenti è molto precario. Dipende dalle norme di ingresso in Israele, in altre parole, si riferisce a questi cittadini come se avessero scelto di spostarsi e vivere in Israele, piuttosto che essere stati invasi da Israele.

Pertanto è uno status sottoposto a condizioni, che Israele può revocare a suo piacimento, secondo criteri che esso stesso ha stabilito (provare di avere lì il “centro della propria vita” o “lealtà allo Stato”). Prima del 1994 (quando le autorità civili sono state trasferite all’Autorità Nazionale Palestinese), Israele poteva espellere residenti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come voleva, e revocare il loro status. Gli accordi di Oslo hanno abolito questa prerogativa dell’occupante (una delle poche clausole positive). A Gerusalemme i palestinesi rimangono più che mai esposti al pericolo di espulsione e di revoca della residenza. Ora Yehoshua vuole aggiungervi altre 100.000 persone?

* “Questo permesso di residenza impedirebbe l’espropriazione delle loro terre (o renderla molto più difficile).” Di cosa sta parlando Yehoshua? La residenza – proprio come la cittadinanza – non protegge i palestinesi dal furto della loro terra e dall’espulsione dalle loro case. Silwan. Isawiyah. Jabal Mukkaber. Sakhnin. Jaffa. Al-Arakib. Sono esempi sufficienti?

La deformazione rende più facile creare una separazione emotiva ed intellettuale dal siginificato dei fatti. La separazione è comprensibile. E’ difficile ammettere che l’ideologia sionista e la sua creazione – Israele – abbiano dato vita a un mostro ladro, razzista, arrogante che ruba acqua, terra e storia, che ha le mani insanguinate con la scusa della sicurezza, che per decenni ha deliberatamente pianificato l’attuale pericolosa situazione di bantustan, da entrambi i lati della Linea Verde [che divide Israele dai territori occupati. Ndtr.]. Tutto ciò che Yehoshua sta facendo è mettersi in riga e suggerire un’altra sotto-definizione che aiuti la burocrazia israeliana a dividere in categorie il popolo palestinese e separarlo dai suoi luoghi e dalla sua terra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il discorso di Kerry è stato magnificamente sionista, a favore di Israele e in ritardo di tre anni

Nota redazionale: il presente articolo rappresenta posizioni che non corrispondono alle opinioni condivise da Zeitun, in quanto, come afferma lo stesso Barak Ravid fin dal titolo, Kerry ha confermato la sua adesione alla logica sionista. Quindi gli aspetti che il giornalista ritiene positivi dal nostro punto di vista non lo sono affatto. Inoltre è evidente che le responsabilità di un mancato accordo tra le parti non può ricadere equamente su Netanyahu e Abu Mazen, data l’enorme differenza di potere tra i due ed il fatto che il mediatore, in questo caso Kerry, si è sempre dimostrato acquiescente rispetto all’espansione delle colonie israeliane nei Territori occupati. Lo status quo in realtà ha rappresentato la continuazione dei cambiamenti sul terreno imposti da Israele. Anzi, nessun presidente e nessun segretario di Stato statunitensi sono stati sbeffeggiati come Obama e Kerry da un governo israeliano, senza che ciò abbia provocato serie reazioni da parte della superpotenza.

Nonostante queste ed altre obiezioni riteniamo utile tradurre questo articolo in quanto smentisce le informazioni e le interpretazioni del discorso di Kerry circolate sui nostri media, che, facendo eco alle proteste di Netanyahu e dei suoi ministri e diplomatici, hanno sostenuto che si è trattato di un duro attacco contro Israele.

 Barak Ravid – 29 dicembre 2016,Haaretz

Se lo avesse messo sul tavolo [delle trattative] nel 2014, lo schema presentato da Kerry avrebbe potuto spingere Israele ed i palestinesi ad un accordo. Ma le risposte ipocrite di Netanyahu e Abbas hanno dimostrato perché i suoi sforzi per la pace sono falliti | Analisi

Il segretario di Stato USA John Kerry ha scelto di dedicare la maggior parte del suo discorso ai suoi personali legami con Israele fin dalla sua prima visita quando era un giovane senatore 30 anni fa. Ha detto di essere salito a Masada, di aver nuotato nel Mar Morto, di essere andato da un sito biblico all’altro, di aver visto le atrocità dell’Olocausto allo Yad Vashem e ha persino parlato di come guidò un aereo dell’aviazione militare su Israele per comprendere le sue necessità in materia di sicurezza.

Non ci sono molti altri politici americani che conoscano Israele quanto John Kerry. Non c’è un solo politico americano in carica che abbia scavato quanto Kerry così in profondità nel conflitto israelo-palestinese e lo abbia studiato e tentato di risolverlo. Queste cose erano chiaramente riflesse nel suo discorso. Il segretario di Stato ha fatto un’analisi convincente dello stato delle cose attuale del processo di pace. Ha evidenziato la profonda sfiducia tra le parti, la disperazione, la rabbia e la frustrazione dei palestinesi, e l’isolamento e l’indifferenza da parte israeliana.

Il discorso di Kerry è stato magnificamente sionista e filo-israeliano. Chiunque appoggi davvero la soluzione dei due Stati e un Israele ebraico e democratico dovrebbe approvare le sue considerazioni ed appoggiarle. E’ un caso duplice, senza mezzi termini. Non c’è da sorprendersi che quelli che si sono affrettati a condannare Kerry, persino prima che parlasse e ancor di più dopo, siano stati il segretario di Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni israeliani. Ndtr.] Naftali Bennett ed i capi della lobby delle colonie. Nel suo discorso Kerry ha notato che è questa minoranza che sta guidando il governo israeliano e l’apatica maggioranza verso la soluzione dello Stato unico.

Negli ultimi quattro anni, il segretario di Stato americano spesso ha agito goffamente, ossessivamente e persino con un tocco di messianismo, ma lo ha fatto per una causa buona e giusta. Ha tentato con tutte le sue forze di porre fine a 100 anni di conflitto per garantire un futuro a Israele, il maggiore alleato dell’America, ed alle sofferenze dei palestinesi. Purtroppo i suoi due partner in questa missione, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, semplicemente non l’hanno voluto tanto quanto lui. Negli ultimi quattro anni, Abbas e Netanyahu sono stati uno l’immagine riflessa dell’altro. Si sono impegnati nel conservare lo status quo, sono rimasti trincerati sulle loro posizioni e non hanno voluto prendere neanche il minimo rischio o spostarsi di un millimetro per cercare di ottenere un miglioramento.

Il discorso di Kerry è stato lungo e dettagliato, ma il suo centro è stato il piano per la pace che ha presentato. Il progetto non intendeva essere una soluzione imposta, ma includere i principi fondamentali su cui dovrebbe essere condotto il futuro dei negoziati israelo-palestinesi. Era centrato sul documento complessivo formulato nel marzo 2014 dopo parecchi mesi di colloqui con entrambe le parti.

Quando si leggono le parole di Kerry, si vede immediatamente che egli ha accettato un numero significativo di richieste di Israele, in primo luogo e soprattutto quella secondo cui ogni futuro accordo di pace includa il riconoscimento palestinese di Israele come Stato ebraico. Kerry ha anche affermato che una soluzione del problema dei rifugiati dovrebbe essere giusto e praticabile, che non minacci le caratteristiche dello Stato di Israele. Egli ha detto che ogni futura frontiera dovrebbe essere basata sul fatto di lasciare in mani israeliane i principali blocchi di colonie; ha messo in evidenza che l’accordo definitivo deve costituire la fine del conflitto e precludere qualunque ulteriore richiesta palestinese, ed ha sottolineato che le misure per la sicurezza devono essere una componente fondamentale di ogni accordo.

Nel contempo lo schema di Kerry include una serie di compromessi richiesti ad Israele, il primo e principale è consentire che Gerusalemme sia la capitale di entrambi gli Stati. Kerry ha chiarito che i confini dello Stato palestinese dovrebbero essere basati su quelli del 1967 con un scambio consensuale di territori delle stesse dimensioni, e che Israele deve riconoscere le sofferenze dei rifugiati palestinesi.

Il principale problema dello schema di Kerry è che lo ha presentato troppo tardi. Egli sa di aver fatto un errore quando, nel marzo 2014, non ha messo ufficialmente sul tavolo [delle trattative] il suo documento quadro contenente gli stessi principi che ha enumerato nel suo discorso. I suoi principali consiglieri ammettono che Kerry, se potesse tornare indietro di 33 mesi, proporrebbe questo progetto di pace alle due parti e imporrebbe loro di negoziare su queste basi.

Questa mossa “prendere o lasciare” a quel tempo avrebbe obbligato entrambe le parti a prendere decisioni strategiche. Un simile passo avrebbe anche definito lo schema di Kerry come base per ogni futuro colloquio. Per quanto importante, il fatto di averlo presentato solo tre settimane prima che Donald Trump entri alla Casa Bianca ha solo un valore simbolico.

Come in altri esempi del passato, Netanyahu non si è neanche preso il disturbo di ascoltare le osservazioni di Kerry o di valutarle nel merito. Ha risposto con affermazioni aggressive contenenti pesanti critiche personali a Kerry. C’è chi dirà che la profondità di queste dichiarazioni riflette la profondità delle indagini su di lui [Netanyahu è indagato per corruzione. ndtr.] .

Le critiche di Netanyahu sono condite di ipocrisia e cinismo. I principi che Kerry ha elencato nel suo discorso sono gli stessi che Netanyahu aveva accettato nel marzo 2014. Il primo ministro aveva delle riserve, che aveva previsto di esprimere pubblicamente, ma in pratica aveva accettato di negoziare sulla base di un progetto molto simile. Ad oggi Netanyahu rifiuta di ammetterlo.

Il suo gemello politico, Abbas, ha reagito con la stessa ipocrisia. Quando il presidente USA Barack Obama ha presentato lo schema ad Abbas nel marzo 2014, Abbas ha promesso di pensarci e di tornare da Obama. Obama sta ancora aspettando. Persino dopo il discorso di Kerry di mercoledì Abbas ha rifiutato di dire se per lui lo schema è accettabile o meno.

Il presidente eletto Trump, che sembrava aver accettato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU della scorsa settimana sulle colonie, rispondendo con un tweet formulato in modo generico, non ha potuto esimersi dal commentare il discorso di Kerry. Solo un attimo prima che Kerry iniziasse il suo discorso, Trump ha lanciato tre tweet che hanno reso evidente il suo dissenso.

Negli ultimi mesi Trump ha ripetutamente detto che uno dei suoi obiettivi è raggiungere una pace tra Israele e i palestinesi. Ha chiarito che vuole chiudere “la madre di ogni problema” e porre fine alla “guerra infinita” tra le due parti. Trump ha persino nominato inviato speciale per il processo di pace il suo avvocato e stretto collaboratore Jason Greenblatt. Trump e Greenblatt presto scopriranno che se vogliono fare questo storico accordo, assomiglierà molto a quello delineato da Kerry nel suo discorso.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La Gran Bretagna ha tirato le fila e Netanyahu ha avvertito la Nuova Zelanda che sarebbe stata una dichiarazione di guerra: nuovi dettagli sulla battaglia di Israele contro il voto dell’ONU

di Barak Ravid – 28 dicembre 2016,Haaretz

La gran Bretagna ha lavorato segretamente con i palestinesi e ha spinto la Nuova Zelanda a portare avanti la risoluzione, e una telefonata di Netanyahu a Putin ha innescato un vero dramma alla sede dell’ONU un’ora prima del voto.

Venerdì scorso, poche ore prima del voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulle colonie, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha telefonato al ministro degli Esteri neozelandese Murray McCully. La Nuova Zelanda, insieme a Senegal, Malaysia e Venezuela, ha promosso la ripresentazione al voto della risoluzione da cui l’Egitto si era ritirata il giorno precedente.

Poche ore prima un importante funzionario del ministero degli Esteri di Gerusalemme ha telefonato all’ambasciatore della Nuova Zelanda in Israele, Jonathan Curr, e l’ha avvertito che se l’iniziativa della Nuova Zelanda fosse arrivata al voto, Israele avrebbe potuto chiudere la propria ambasciata a Wellington per protesta. L’ambasciatore Curr ha preso nota di ciò ed ha informato il suo governo, ma all’alba a New York Israele ha capito che le cose stavano ancora andando avanti.

La telefonata di Netanyahu a McCully è stata praticamente l’ultimo tentativo di evitare il voto, o almeno di rimandarlo e guadagnare un po’ di tempo. Diplomatici occidentali affermano che la conversazione è stata dura e molto tesa e Netanyahu si è lasciato andare a dure minacce, forse senza precedenti nelle relazioni tra Israele e un altro Paese occidentale.

“E’ una decisione scandalosa. Sto chiedendo che non la appoggiate e non la promuoviate,” ha detto Netanyahu a McCully, secondo diplomatici occidentali che hanno chiesto l’anonimato a causa della delicatezza dell’argomento. “Se continuate a promuovere questa risoluzione dal nostro punto di vista si tratterà di una dichiarazione di guerra. Romperà le relazioni e ci saranno conseguenze. Richiameremo il nostro ambasciatore a Gerusalemme.” McCully ha rifiutato di rinunciare al voto. “Questa risoluzione è coerente con la nostra politica e noi la porteremo avanti,” ha detto a Netanyahu.

Solo un mese prima, quando McCully ha visitato Israele ed ha incontrato Netanyahu, lo ha trovato un uomo completamente diverso. Netanyahu era gentile, amichevole e molto cordiale. Ha fatto vedere a McCully la famosa presentazione PowerPoint che aveva mostrato in un giro di incontri di formazione per i media la scorsa estate. Con un puntatore laser in mano, Netanyahu ha detto a McCully che Israele sta estendendo le proprie relazioni estere, entrando nella regione e facendosi amici in Africa, Asia e America latina.

I diplomatici occidentali affermano che McCully, che durante gli ultimi due anni aveva considerevolmente spinto sulla questione israelo-palestinese al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha parlato con Netanyahu della risoluzione che il suo Paese voleva promuovere. Era una versione molto più morbida e moderata di quella che è stata approvata lo scorso venerdì. La risoluzione della Nuova Zelanda parlava del congelamento delle costruzioni nelle colonie, ma anche di congelare le iniziative dei palestinesi all’ONU e alla Corte Penale Internazionale dell’Aya, e chiedeva negoziati diretti senza precondizioni.

Netanyahu l’ha categoricamente rifiutata. Se fosse dipeso da lui, il problema palestinese non sarebbe affatto stato sollevato durante l’incontro. Il suo messaggio a McCully era simile ha quanto ha detto continuamente in pubblico nelle scorse settimane. Il mondo non si preoccupa molto della questione palestinese. L’automatica maggioranza contro Israele all’ONU sta per diventare una cosa del passato. Un diplomatico occidentale ha affermato: “Il voto di venerdì ha provato il contrario e ha mostrato che l’affermazione di Netanyahu era sbagliata.”

Colloqui con diplomatici occidentali ed israeliani rivelano molti dettagli interessanti a proposito del quello che è successo dietro le quinte nella sede ONU di New York tra giovedì pomeriggio, quando l’Egitto ha annunciato il ritiro della risoluzione sulle colonie, e venerdì mattina, quando Nuova Zelanda, Senegal, Malaysia e Venezuela hanno annunciato che avrebbero continuato a insistere perché si votasse.

Secondo i diplomatici occidentali ed israeliani, dal momento in cui l’Egitto ha fatto marcia indietro giovedì, Nuova Zelanda, Senegal, Malaysia e Venezuela hanno subito pressioni per portarla avanti comunque. I palestinesi sono stati i primi a fare pressioni, ma sono stati affiancati dagli Stati del Golfo e dalla Gran Bretagna. I diplomatici occidentali affermano che la Gran Bretagna ha incoraggiato la Nuova Zelanda a continuare a insistere per il voto anche senza l’appoggio dell’Egitto.

La Gran Bretagna ha iniziato ad attivarsi sulla risoluzione pochi giorni prima. I diplomatici israeliani dicono che da informazioni ricevute dal ministero degli Esteri di Gerusalemme, consulenti legali e diplomatici inglesi hanno lavorato direttamente con i palestinesi nella stesura della risoluzione anche prima che venisse distribuita dall’Egitto per la prima volta mercoledì pomeriggio. Secondo i diplomatici israeliani, la Gran Bretagna ho ha fatto in segreto e senza informare Israele.

A Gerusalemme si sospetta che la Gran Bretagna abbia lavorato durante tutti quei giorni per gli americani per garantire che la risoluzione fosse gradita al presidente USA Barack Obama, ma senza che dovesse intervenire direttamente per formularla.

“Sappiamo come leggere le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza,” ha detto un importante diplomatico israeliano. “Non è un testo scritto dai palestinesi o dall’Egitto, ma da una potenza occidentale. “L’ambasciatore israeliano negli USA, Ron Dermer, lunedì ha affermato durante interviste con media americani che Israele ha le prove che l’amministrazione Obama stava dietro la risoluzione e l’ha stilata. Non è chiaro se questo era ciò che intendeva dire.

Diplomatici occidentali hanno in parte confermato la descrizione dei loro colleghi israeliani. Sostengono che la Gran Bretagna ha effettivamente giocato un ruolo importante nella formulazione della risoluzione e nella sua revisione con i palestinesi. Tuttavia dicono di non avere le prove che dietro tutta la manovra ci sia stata l’amministrazione USA.

“La Gran Bretagna ha contribuito ad abbassare i toni del testo in modo che corrispondesse al limite accettabile per gli americani e potesse così essere approvata senza un veto,” sostiene uno dei diplomatici occidentali.

La conversazione telefonica di Netanyahu con il ministro degli Esteri neozelandese non ha posto fine ai tentativi di impedire il voto venerdì pomeriggio. Poche ore prima del voto, il primo ministro ha chiamato il presidente russo Vladimir Putin ed ha tentato di convincerlo. Solo il giorno prima Israele aveva acconsentito ad una richiesta russa e si è astenuto da un voto nell’Assemblea Generale dell’ONU su una risoluzione riguardante crimini di guerra in Siria.

Non è del tutto chiaro cosa sia avvenuto nella conversazione tra Netanyahu e Putin, ma meno di un’ora prima del voto un vero dramma ha avuto luogo nella sede ONU di New York. Mentre gli Stati-membri del Consiglio di Sicurezza stavano preparando il proprio discorso prima del voto e la discussione pubblica che si era tenuta immediatamente prima, l’ambasciatore russo all’ONU Vitaly Churkin improvvisamente ha chiesto una consultazione riservata.

Un diplomatico occidentale afferma che Churkin ha stupito gli altri ambasciatori dei 14 Stati-membri del Consiglio di Sicurezza quando ha proposto di rimandare il voto a dopo Natale. Non c’è stata una discussione sufficiente sulla stesura della risoluzione, ha sostenuto Churkin, e ha detto di essere sorpreso della fretta di alcuni Paesi per votare al più presto. Martedì mattina il vice ambasciatore russo in Israele, Alexy Drobinin, lo ha confermato in un’intervista con la radio dell’esercito

Drobinin ha detto alla radio dell’esercito che la Russia ha fatto delle obiezioni per la tempistica della risoluzione e che il rappresentante della Russia a New York è stato l’unico ad aver chiesto di continuare la discussione. Drobinin ha affermato che bisognerebbe prendere in considerazione che dopo poche settimane ci sarebbe stata una nuova amministrazione negli Stati Uniti e che la Russia non era contenta del modo in cui la risoluzione era stata portata al voto. Ha sostenuto che il problema non era il contenuto, ma la tempistica e il fatto che la risoluzione riguardsse solo una delle molte questioni cruciali del conflitto.

Ma le osservazioni di Churkin non sono state ascoltate. All’incontro la maggior parte dei rappresentanti le ha respinte e ha chiesto di andare avanti sulla votazione come previsto. Un diplomatico occidentale ha detto che l’ambasciatore russo, che ha capito di non essere riuscito a ottenere appoggio, si è ritirato ed ha sintetizzato la consultazione con una notazione tipicamente cinica sulla proposta abbandonata dall’Egitto – ha detto di non aver mai visto in vita sua tanta gente desiderosa di adottare così in fretta un orfano.

L’incontro è finito, gli ambasciatori sono entrati nella sala del Consiglio di Sicurezza e pochi minuti dopo hanno approvato la risoluzione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il testo della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulle colonie israeliane

“Le colonie israeliane non hanno alcuna validità legale, costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale”.

https://www.un.org/press/en/2016/sc12657.doc.htm

Il Consiglio di Sicurezza,

riconfermando le sue risoluzioni sull’argomento, comprese le 242 (1967), 338 (1973), 446 (1979), 452 (1979), 465 (1980), 476 (1980), 478 (1980), 1397 (2002), 1515 (2003 e 1850 (2008),

guidato dalle intenzioni e dai principi della Carta delle Nazioni Unite e riaffermando, tra le altre cose, l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza,

riconfermando l’obbligo di Israele, potenza occupante, di attenersi scrupolosamente ai suoi obblighi legali ed alle sue responsabilità in base alla Quarta Convenzione di Ginevra riguardanti la protezione dei civili in tempo di guerra, del 12 agosto 1949, e ricordando il parere consuntivo reso dalla Corte Internazionale di Giustizia il 9 luglio 2004,

condannando ogni misura intesa ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme est, riguardante, tra gli altri: la costruzione ed espansione di colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento di civili palestinesi, in violazione delle leggi umanitarie internazionali e importanti risoluzioni,

esprimendo grave preoccupazione per il fatto che le continue attività di colonizzazione israeliane stanno mettendo pericolosamente in pericolo la possibilità di una soluzione dei due Stati in base ai confini del 1967,

ricordando gli obblighi in base alla Roadmap del Quartetto, appoggiata dalla sua risoluzione 1515 (2003), per il congelamento da parte di Israele di tutte le attività di colonizzazione, compresa la “crescita naturale”, e lo smantellamento di tutti gli avamposti dei coloni costruiti dal marzo 2001,

ricordando anche l’obbligo, in base alla Roadmap del Quartetto, delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese di mantenere operazioni concrete intese a prendere misure contro tutti coloro che sono impegnati in azioni terroristiche e a smantellare gli strumenti terroristici, compresa la confisca di armi illegali,

condannando ogni atto di violenza contro i civili, comprese le azioni terroristiche, così come ogni atto di provocazione, incitamento e distruzione,

riprendendo la propria visione di una regione in cui due Stati democratici, Israele e Palestina, vivano uno di fianco all’altro in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute,

sottolineando che lo status quo non è accettabile e che passi significativi, coerenti con la transizione prevista nei precedenti accordi, sono urgentemente necessari per (i) stabilizzare la situazione e ribaltare le tendenze negative sul terreno, che stanno costantemente erodendo la soluzione dei due Stati e rafforzando una realtà dello Stato unico, e (ii) creare le condizioni di efficaci negoziati sullo status definitivo e per il progresso della soluzione dei due Stati attraverso questi negoziati e sul terreno,

1. Riafferma che la costituzione da parte di Israele di colonie nel territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e di una pace, definitiva e complessiva;

2. insiste con la richiesta che Israele interrompa immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est, e che rispetti totalmente tutti i propri obblighi a questo proposito;

3. ribadisce che non riconoscerà alcuna modifica dei confini del 1967, comprese quelle riguardanti Gerusalemme, se non quelle concordate dalle parti con i negoziati;

4. sottolinea che la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è indispendabile per salvaguardare la soluzione dei due Stati e invoca che vengano intrapresi immediatamente passi positivi per invertire le tendenze in senso opposto sul terreno che stanno impedendo la soluzione dei due Stati;

5. chiede a tutti gli Stati, tenendo presente il paragrafo 1 di questa risoluzione, di distinguere, nei loro contatti importanti, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967;

6. Chiede passi immediati per evitare ogni atto di violenza contro i civili, compresi atti di terrorismo, così come ogni azione di provocazione e distruzione, chiede che a questo proposito i responsabili vengano chiamati a risponderne, e invoca il rispetto degli obblighi in base alle leggi internazionali per rafforzare i continui sforzi di combattere il terrorismo, anche attraverso l’attuale coordinamento per la sicurezza, e la condanna esplicita di ogni atto di terrorismo;

7. Chiede ad entrambe le parti di agire sulla base delle leggi internazionali, comprese le leggi umanitarie internazionali, e dei precedenti accordi ed obblighi, di mantenere la calma e la moderazione e di evitare azioni di provocazione, di incitamento e di retorica incendiaria, con il proposito, tra le altre cose, di attenuare l’aggravamento della situazione sul terreno, di ricostituire la fiducia, dimostrando attraverso politiche e azioni concrete un effettivo impegno a favore della soluzione dei due Stati, creando le condizioni necessarie alla promozione della pace;

8. chiede alle parti di continuare, nell’interesse della promozione della pace e della sicurezza, di esercitare sforzi congiunti per lanciare negoziati credibili sulle questioni riguardanti lo status finale nel processo di pace del Medio Oriente e nei tempi definiti dal Quartetto nella sua dichiarazione del 21 settembre 2010;

9. Invita a questo proposito ad intensificare ed accelerare gli sforzi e il sostegno ai tentativi diplomatici internazionali e regionali che intendono raggiungere senza ulteriori ritardi una pace complessiva, giusta e definitiva in Medio Oriente sulla base delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, dei parametri di Madrid, compreso il principio di terra in cambio di pace, dell’iniziativa araba di pace e della Roadmap del Quartetto e una fine dell’occupazione israeliana iniziata nel 1967; sottolinea a questo proposito l’importanza dei continui sforzi di promuovere l’iniziativa di pace araba, della Francia per la convocazione di una conferenza di pace internazionale, i recenti tentativi del Quartetto, così come quelli dell’Egitto e della Federazione Russa;

10. Conferma la propria determinazione ad appoggiare le parti attraverso i negoziati e nella messa in pratica di un accordo;

11. Riafferma la propria determinazione ad esaminare mezzi e modi per garantire la completa applicazione delle sue risoluzioni a questo proposito;

12. Chiede al segretario generale di informare il Consiglio ogni tre mesi sull’attuazione delle decisioni della presente risoluzione;

13. Decide di seguire attivamente la questione.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Gli Stati Uniti sono finalmente usciti allo scoperto

di Gideon Levy – 18 dicembre 2016,  Haaretz

In seguito alla designazione di un rappresentante favorevole alle colonie, l’inganno è finito: gli Stati Uniti non saranno più in grado di sostenere di essere un mediatore imparziale nel conflitto israelo-palestinese | Opinione

Il presidente eletto Donald Trump ha deciso di nominare ambasciatore in Israele un avvocato anti-israeliano e razzista. Che è, naturalmente, una sua prerogativa. Lo scorso giovedì, con la nomina di David Friedman, gli Stati Uniti sono usciti allo scoperto. D’ora in poi appoggiano ufficialmente la costituzione di uno Stato israeliano dell’apartheid tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Friedman non è il primo ambasciatore ebreo in Israele – una questione che ha sempre sollevato domande sulla doppia lealtà – ma è il primo sostenitore dichiarato delle colonie a ricoprire questo incarico. Il suo predecessore, Dan Shapiro, era anche lui favorevole alle colonie, come tutti gli ambasciatori prima di lui – rappresentanti di governi che avrebbero potuto bloccare il progetto di colonizzazione ma non hanno mosso un dito per farlo, ed anzi lo hanno finanziato.

Ma ora abbiamo un ambasciatore che ha anche contribuito di tasca propria alla spoliazione.

Questo cambiamento rappresenta la fine delle ridicole denunce da parte del Dipartimento di Stato USA, che Israele ha sempre ignorato. Non più auto diplomatiche nere dopo la costruzione di ogni nuovo balcone nei territori occupati. D’ora in poi abbiamo un ambasciatore che sarà addolorato per l’evacuazione dell’avamposto di Amona [illegale anche in base alle leggi israeliane e di cui la Corte Suprema israeliana ha deciso l’evacuazione. Ndtr.] e che parteciperà alle cerimonie per la posa della prima pietra in ogni nuova colonia.

Ciò implica il fatto che gli Stati Uniti non potranno più sostenere di essere un mediatore imparziale. Non lo sono mai stati, ma ora la maschera è caduta. Da questo punto di vista, la nomina di Friedman è buona e giusta. I palestinesi, gli europei ed il resto del mondo lo sappiano: l’America è favorevole all’occupazione. Basta inganni.

Friedman è un anti-israeliano, come chiunque altro incoraggi Israele a intensificare l’occupazione. Friedman è un razzista, come chiunque altro spinga per uno Stato dell’apartheid. E’ anche antidemocratico e maccartista (avendo detto che i sostenitori di J Street [organizzazione di ebrei USA moderatamente critici con Israele. Ndtr.] sono “molto peggio dei kapo” [internati nei lager che collaboravano con i nazisti. Ndtr.]) – e già ne abbiamo abbastanza tra noi. Friedman li incoraggerà, ed anche in questo egli è palesemente anti-israeliano.

Ma Friedman non è un iscritto al partito di estrema destra Tekuma [partito dei coloni fondamentalisti. Ndtr.], né, per quanto ne sappiamo, del movimento anti-assimilazionista Lehava. Friedman sta per diventare il rappresentante del governo USA in Israele. Ci deve risposte ad una serie di domande – analogamente al Senato, che deve approvare la sua nomina.

Il governo USA ed il Senato sono consci della portata delle opinioni del nuovo ambasciatore? Comprendono che è favorevole all’istituzione di uno Stato dell’apartheid sostenuto e finanziato dal Paese leader del mondo libero? Perché chiunque, come Friedman, si opponga alla soluzione dei due Stati sostiene l’unica alternativa, che è uno Stato unico e, nel caso di Friedman, uno Stato dell’apartheid. E’ così che vogliono apparire gli Stati Uniti, persino gli Stati Uniti di Trump?

Gli israeliani di destra che sostengono l’annessione – e ce ne sono molti – possono velare il loro progetto dietro una fitta nebbia che nasconde il suo reale significato. Ma non è il caso del rappresentante del Paese più potente al mondo.

L’ambasciatore designato ci deve delle spiegazioni. Quando dici annessione, cosa intendi? Quando contribuisci economicamente alla colonia di Beit El, sai che per la maggior parte è costruita su terre private rubate ai palestinesi? Cosa dirà il Senato della tua complicità in un crimine? Quale sarà il destino degli abitanti autoctoni dei territori occupati, che sono ciò che rimane della loro terra rubata? Se tu parli di democrazia e uguaglianza per tutti, nello spirito della costituzione americana, allora avremo uno Stato binazionale, ugualitario e giusto – a cui, purtroppo, quasi ogni israeliano si oppone.

Tuttavia non è quello a cui ti riferisci. La tua annessione significa la perpetuazione dello status di padroni della terra ed espropriati, un regime di separazione che il mondo progressista chiama apartheid.

Sua eccellenza, presumibile ambasciatore, lei ci deve delle risposte. Anche quelli a Washington che la mandano qui ci devono delle risposte. Considerate i palestinesi come esseri umani con gli stessi diritti di cui godono gli ebrei in Terra di Israele? Vi pare che lo Stato vostro alleato agisca in modo giusto? Lo vedete come uno Stato che rispetta le leggi internazionali? Pensate che spingendolo avanti in una direzione nazionalista gli fate un favore? L’appoggio ad uno Stato dell’apartheid è utile agli interessi americani? Ciò riflette i valori dichiarati dall’America? In breve, state con noi o con i nostri avversari?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il consulente di Trump su Israele sostiene (di nuovo) l’annessione della Cisgiordania con calcoli sbagliati

di Allison Deger 28 settembre 2016, Mondoweiss

nota redazionale: questo articolo è di fine settembre e già allora si mettevano in luce le pessime credenziali del Signor Friedman  recentemente nominato ambasciatore USA in Israele.

Secondo un reportage del Canale 2 di Israele, che ha ottenuto un video dell’incontro, durante una cena con i rappresentanti di un’organizzazione dei coloni a New York il consulente di Donald Trump per Israele ha di nuovo evocato la possibilità che il suo candidato sostenga l’annessione della Cisgiordania occupata da parte di Israele.

Un video della discussione mostra David Friedman, assistente di Trump, mentre parla, presumibilmente due settimane fa, con il dirigente dei coloni Yossi Dagan.

Le riprese colgono Friedman mentre sostiene un’argomentazione matematica per l’espansione territoriale israeliana in tutta la Cisgiordania. Il nocciolo di questa posizione è che l’annessione può essere “ebraica e democratica”, perché ci sarebbe una maggioranza di ebrei se la popolazione dei territori fosse unita a Israele.

“Il concetto che abbiamo, secondo cui ci si debba disfare della Giudea e della Samaria (la Cisgiordania) per conservare il carattere ebraico di Israele, è sbagliato,” ha detto Friedman. “Secondo la maggior parte dei calcoli, se prendi tutto lo Stato di Israele dal Giordano al Mediterraneo, nel senso di annettere tutta la Giudea e Samaria a Israele, la popolazione ebraica sarebbe ancora attorno al 65%. Questa è la più…l’opinione diffusa attualmente.”

“Nessuno si è preoccupato di fare il calcolo,” ha aggiunto Friedman tra un boccone e l’altro, prima di sfoderare le sue statistiche.

“Ci sono 400.000 ebrei che vivono in Giudea e Samaria, altri 400.000 che vivono a Gerusalemme est. Si stanno moltiplicando proprio adesso,” ha detto.

I calcoli di Friedman sono basati su cifre confutabili. Colloca 800.000 coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme est, un forte aumento rispetto ai 500-650.000 coloni secondo i dati del governo e delle Nazioni unite. Anche la maggioranza ebraica del 65% è smentita. La maggioranza dei demografi sostiene che il numero è all’incirca di 50% ebrei e 50% palestinesi tra il Giordano e il Mediterraneo.

Friedman ha anche affermato che la popolazione ebraica sta aumentando con un tasso superiore a quello dei palestinesi. “Per cui la verità è che se tu chiedi a dieci esperti di statistica quanti arabi stanno vivendo in Cisgiordania non ti potrebbero dare una risposta perché nessuno lo sa davvero,” ha sostenuto.

La popolazione palestinese in Cisgiordania è costantemente aumentata dal 1967, l’anno del primo censimento israeliano del territorio, secondo i dati sia dell’Amministrazione Civile israeliana [l’autorità militare che governa nei territori occupati. Ndtr.] che dell’Ufficio Centrale di Statistica palestinese. Entrambi concordano sul fatto che circa 2.5 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania.

Su Gaza, Friedman ha lasciato intendere che i palestinesi di lì sarebbero esclusi dal piano di pace per il Medio Oriente del presidente Trump. Ha detto: “L’evacuazione [israeliana] da Gaza (nel 2005) ha avuto un effetto positivo, ha escluso due milioni di arabi dal calcolo.”

Prima di schierarsi con Trump in aprile, Friedman era relativamente sconosciuto, un avvocato della zona di New York apparentemente senza nessuna competenza in Medio Oriente se non la direzione di un settore per la raccolta di finanziamenti per una colonia della Cisgiordania, Beit El. (Il gruppo si chiama “Amici Americani della Yeshiva di Beit El” ed invia circa 2 milioni di dollari all’anno per finanziare una scuola religiosa fuori Ramallah).

Fiedman una volta ha lavorato anche come curatore fallimentare di un casinò del candidato presidenziale ad Atlantic City.

Dagan è un portavoce del Consiglio Regionale della Samaria, un gruppo noto per accompagnare delegazioni ufficiali USA nella Cisgiordania occupata.

I dati demografici a cui ha fatto riferimento Friedman, che superano di più di un milione i calcoli ufficiali, sono stati forniti dal “Gruppo di Ricerca Demografica Israelo-Americano”, una congrega di studiosi israeliani e americani che hanno pubblicato i loro risultati su due blog invocando “un unico Stato ebraico” sotto controllo israeliano.

Il gruppo non ha un sito web indipendente, i risultati della loro ricerca sono postati su portali in rete poco frequentati, con titoli come il “Progetto per uno Stato unico: uno Stato democratico ebraico” e “Demografia israeliana”.

I loro dati statistici sono rifiutati dai demografi ufficiali come uno strumento lobbistico molto poco attendibile e con lo scopo di indebolire l’appoggio ad uno Stato palestinese.

Il demografo Della Pergola dell’Università Ebraica ha detto a “Times of Israel” [giornale online israeliano. Ndtr.] che il ricercatore che sta dietro questo studio, l’ex-diplomatico israeliano Yoram Ettinger, è “delirante”.

“Sta spacciando un qualche futuro immaginario in un modo assolutamente non professionale, perché non ha mai studiato demografia. Non è altro che un ciarlatano,” ha affermato Della Pergola.

La registrazione video non è la prima occasione in cui Friedman ha sollevato la questione dell’annessione israeliana. In un’ intervista ad “Haaretz” in giugno ha detto al giornale israeliano che Trump potrebbe abbandonare il piano per i due Stati in favore dell’annessione. Facendo questa ipotesi, ha anche citato i dati forniti dal gruppo di Ettinger.

Negli scorsi mesi le considerazioni di Friedman hanno agitato le acque tra le istituzioni degli ebrei americani. Dopo che in luglio ha parlato alla CNN contro i colloqui di pace a favore di un unico Stato ebraico, il presidente dell’Unione per l’Ebraismo Riformato, il rabbino Rick Jacobs, ha scritto in una lettera aperta a Friedman che il progetto di Trump per uno Stato unico “sarebbe uno Stato ebraico che smetterebbe di essere una democrazia e priverebbe del diritto di voto milioni di palestinesi, oppure sarebbe una democrazia e smetterebbe di essere ebraico.”

Friedman ha risposto: “Devo rifiutare categoricamente la sua affermazione secondo cui Israele deve essere o uno Stato democratico o uno Stato ebraico.” In questo scambio epistolare ha fatto di nuovo riferimento agli stessi calcoli errati che si ritrovano nel video del suo pranzo a New York.

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net.

(traduzione di Amedeo Rossi)