Come rendere la vendetta ancora più gradevole

  1. di Amira Hass | 16 novembre, 2016 | Haaretz

Perché Israele ha bisogno di tenere in prigione per 12 anni un ragazzino palestinese di quattordici anni che non ha ferito nessuno?

Ogni palestinese conosce l’espressione infantile del suo viso, che il dolore ha trasformato [in quella] di un adulto. Nei media israeliani è permesso pubblicare solo la prima lettera del suo nome, A. Quello, e il fatto che questo processo si è tenuto a porte chiuse è stata la sommatoria di un trattamento speciale adeguato ad un adolescente di 13 anni e 9 mesi quando avrebbe commesso i reati per i quali è stato condannato.

E tutto il resto – il suo arresto dopo che la folla l’aveva aggredito, le sue ferite, l’interrogatorio brutale, l’accusa più grave, il giudizio e la sentenza – il sistema giudiziario lo ha trattato esattamente nel modo in cui l’opinione pubblica israeliana chiedeva: vendetta, vendetta, vendetta.

I giudici Yoram Noam, Rivka Friedman-Feldman e Moshe Bar-Am lo hanno giudicato colpevole di due tentativi di omicidio, sebbene non abbia accoltellato nessuno. Fin da principio ha raccontato a coloro che lo interrogavano e ai giudici che lui e suo cugino, Hassa Manasra, sono andati circa un anno fa a Pisgat Ze’ev [colonia israeliana, ndt.]per spaventare gli ebrei con i coltelli che avevano con sé ( a causa del modo in cui il regime israeliano opprime i palestinesi ), forse per accoltellare qualcuno, ma senza volere ammazzare nessuno. È stato condannato perché il quindicenne Manasra ha accoltellato un giovane e un ragazzo ( la squadra della polizia di frontiera avrebbe potuto arrestarlo ma lo hanno ucciso come è di moda da queste parti).

I giudici non hanno dato importanza alla testimonianza di A, che lui e Manasra avevano deciso fin dall’inizio che non avrebbero ferito donne, bambini o anziani; di proposito non hanno provato a colpire un vecchio che hanno incrociato sul loro cammino. I giudici non hanno dato credito al racconto di A, che ha provato a evitare che suo cugino ferisse il ragazzo. I giudici non hanno dato il debito peso al fatto che A. avrebbe potuto confessare subito il tentato omicidio, così sarebbe stato condannato prima di raggiungere i 14 anni ( e così non sarebbe stato mandato in prigione). Semplicemente non ha accettato di confessare qualcosa che non aveva intenzione di fare.

L’ ufficiale responsabile della libertà vigilata, che ha dato parere favorevole per un processo di rieducazione di A, ha raccomandato la corte di seguire il consiglio dell’assistente e di tenere il ragazzo fino all’età di 18 anni in una comunità residenziale vigilata. Ma i giudici hanno imposto una condanna di 12 anni di prigione al ragazzo quattordicenne che non aveva ferito nessuno. Non hanno nemmeno dato ascolto alla richiesta di mettere A in una comunità residenziale vigilata fino al raggiungimento dei 18 anni.

“Fin da oggi!” ha decretato il giudice Noam la scorsa settimana nel giorno della sentenza. Il ragazzo deve essere immediatamente condotto in prigione(Megiddo). La vendetta è gradevole e per renderla ancora più dolce i giudici hanno ordinato al minore di pagare un risarcimento di 180.000 shekel (pari a 44mila euro) alle parti lese. Che la famiglia si rovini completamente, perché no?

I giudici avrebbero potuto considerare altre sentenze , che affermano come sia impossibile giudicare i comportamenti dei bambini con gli stessi criteri di quelli usati per un adulto. Avrebbero potuto prendere spunto dai giudici che hanno decretato condanne di 24 mesi e di 54 mesi rispettivamente [da scontare] in una comunità residenziale vigilata a due minori ebrei che hanno ucciso un vecchio che aveva rifiutato di dargli una sigaretta. Ma Noam e i suoi colleghi hanno preferito considerare “l’ondata di terrore” e “il fattore nazionalistico” piuttosto che il ragazzino.

Se avessero tenuto in considerazione il fatto che si trattava di un ragazzino avrebbero giudicato così:

“Dinanzi a noi sta un altro adolescente che dal momento della nascita a Gerusalemme ha subito una discriminazione metodica e intenzionale a favore dei bambini ebrei suoi coetanei: riguardo alla casa, alla scuola, alle opportunità lavorative, alle infrastrutture, alla libertà di movimento e alle scelte, al diritto ad avere un’identità collettiva.

Dinanzi a noi sta un altro ragazzo che sfortunatamente ha subito quotidianamente la brutalità della polizia, il disprezzo della municipalità e la malvagità del sistema. Un altro ragazzo che è confuso dalla [reazione]debole degli adulti nei confronti di tutta questa malvagità e la tendenza all’emulazione lo ha spinto a compiere un gesto assurdo e pericoloso a cui i suoi genitori si sono opposti e di cui oggi egli stesso si è pentito. Lo manderemo in una comunità residenziale vigilata per pochi anni, per riflettere, per capire e per rieducarsi.

“Il mutamento della situazione generale non dipende solamente da noi, ma è stato già dimostrato che le uccisioni, le demolizioni di case e le sproporzionate condanne alla detenzione e al pagamento di multe non sono dei deterrenti. Al contrario. Mandano un messaggio ad altri palestinesi che gli ebrei li odiano, li perseguono, li opprimono e li espellono solo perché sono palestinesi.”

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Pregare per la libertà: perché Israele impedisce l’appello alla preghiera a Gerusalemme?

di Ramzy Baroud

14 novembre 2016,Middle East Monitor

Negli anni della mia infanzia mi rassicurava sempre la voce del “ muezzin” che chiamava alla preghiera nella principale moschea del nostro campo profughi a Gaza.

Quando alla mattina presto sentivo il richiamo che annunciava con voce melodiosa che stava arrivando il momento della preghiera dell’aurora (‘Fajr’), sapevo che potevo andare a dormire tranquillamente.

Ovviamente il richiamo alla preghiera nell’Islam, così come il suono delle campane nelle chiese, implica un profondo significato religioso e spirituale, come accade ininterrottamente, per cinque volte al giorno, da 15 secoli. Ma in Palestina queste tradizioni religiose hanno anche un profondo significato simbolico.

Per i rifugiati del mio campo la preghiera dell’aurora significava che l’esercito israeliano era andato via dal campo, ponendo fine ai suoi terribili e violenti raid notturni, lasciandosi alle spalle rifugiati in lutto per i loro morti, feriti o arrestati, e consentendo al muezzin di aprire le vecchie porte arrugginite della moschea ed annunciare ai fedeli l’arrivo del nuovo giorno.

Era quasi impossibile andare a dormire in quei giorni della prima rivolta palestinese, quando la punizione collettiva delle comunità palestinesi nei territori occupati superava ogni livello tollerabile.

Questo accadeva prima che la moschea del nostro campo – il campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza – fosse attaccata e l’Imam arrestato. Quando le porte della moschea furono sigillate per ordine dell’esercito, la gente salì sui tetti delle case durante il coprifuoco militare per annunciare comunque il richiamo alla preghiera.

Lo fece persino il nostro vicino ‘comunista’ – un uomo di cui si diceva che non avesse mai messo piede in una moschea in tutta la sua vita!

Non era soltanto una questione religiosa, ma un atto di sfida collettiva, che dimostrava che nemmeno gli ordini dell’esercito avrebbero fatto tacere la voce del popolo.

Il richiamo alla preghiera significava continuità, sopravvivenza, rinascita, speranza e una serie di significati che non furono mai capiti, ma sempre temuti, dall’esercito israeliano.

L’offensiva contro le moschee non è mai terminata.

Secondo fonti del governo e dei media, un terzo delle moschee di Gaza è stato distrutto durante la guerra di Israele contro la Striscia nel 2014. 73 moschee sono state completamente distrutte da missili e bombe e 205 parzialmente demolite, compresa la moschea Al-Omari di Gaza, che risale al 649 d.C.

E’ accaduto anche alla principale moschea di Nuseirat, dove il richiamo alla preghiera durante la mia infanzia mi portava la pace e la tranquillità sufficienti per andare a dormire.

Ora Israele sta tentando di bandire il richiamo alla preghiera in diverse comunità palestinesi, a cominciare da Gerusalemme est occupata.

Il bando è stato emesso solo poche settimane dopo che l’UNESCO ha approvato due risoluzioni di condanna delle attività illegali di Israele nella città araba occupata.

L’UNESCO ha chiesto ad Israele di cessare tali imposizioni, che violano il diritto internazionale e minacciano di modificare lo status quo della città, che è centrale per tutte le religioni monoteistiche.

Dopo aver organizzato una fallimentare campagna per contrastare l’iniziativa dell’ONU, arrivando ad accusare l’istituzione internazionale di antisemitismo, i dirigenti israeliani adesso stanno attuando misure punitive: la punizione collettiva dei residenti non ebrei di Gerusalemme per le decisioni dell’UNESCO.

Questo comporta la costruzione di ulteriori abitazioni ebree illegali, la minaccia di demolire migliaia di case arabe e, da ultimo, il divieto dell’invocazione alla preghiera in diverse moschee.

Tutto è cominciato il 3 novembre, quando una piccola folla di coloni dell’insediamento illegale di Psigat Zeev si è riunita davanti alla casa del sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barakat. Chiedevano che il governo ponesse termine all’ “inquinamento acustico” proveniente dalle moschee della città.

L’ ‘inquinamento acustico’ – così definito dalla maggior parte dei coloni europei arrivati in Palestina solo recentemente – sono i richiami alla preghiera che si svolgono nella città fin dal 637 d.C., quando il califfo Omar entrò nella città e ordinò di rispettare tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla loro fede religiosa.

Il sindaco israeliano si è prontamente e immediatamente preso l’impegno. Senza perdere tempo, i soldati israeliani hanno incominciato ad irrompere nelle moschee, comprese quelle di al-Rahman, al-Taybeh e al-Jamia di Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme.

Secondo quanto riportato da International Business Times, citando Ma’an ed altri media, “prima dell’alba sono arrivati ufficiali militari per informare del bando i muezzin, gli uomini responsabili del richiamo alla preghiera attraverso gli altoparlanti della moschea, ed hanno impedito ai musulmani del posto di raggiungere i luoghi di culto.”

La preghiera per cinque volte al giorno è il secondo dei cinque pilastri dell’Islam e il richiamo alla preghiera è la chiamata ai musulmani perché adempiano a tale dovere. E’ anche un elemento essenziale dell’identità intrinseca di Gerusalemme, dove le campane delle chiese e il richiamo alla preghiera delle moschee spesso si intrecciano in un armonico monito che la coesistenza è una possibilità reale.

Ma la coesistenza non è possibile con l’esercito, il governo ed il sindaco della città israeliani, che trattano Gerusalemme occupata come una base d’appoggio per la vendetta politica e la punizione collettiva.

Bandire il richiamo alla preghiera è unicamente un modo per ricordare il dominio israeliano sulla Città Santa ferita ed un messaggio che il controllo di Israele va oltre quello sulle situazioni concrete, arrivando ad incidere su tutti gli altri ambiti.

La versione israeliana del colonialismo d’insediamento non ha quasi precedenti. Non mira semplicemente al controllo, ma alla totale supremazia.

Quando la moschea del mio vecchio campo profughi venne distrutta, e subito dopo che furono estratti da sotto le macerie alcuni corpi per essere bruciati, i residenti del campo pregarono in cima ed intorno alle rovine. Questa prassi si è ripetuta altrove a Gaza, non solo durante l’ultima guerra, ma anche durante quelle precedenti.

A Gerusalemme, quando viene loro impedito di raggiungere i loro luoghi sacri, spesso i palestinesi si radunano dietro ai checkpoint dell’esercito e pregano. Anche questa è stata una pratica testimoniata per circa cinquant’anni, da quando Gerusalemme è caduta sotto l’esercito israeliano.

Nessuna coercizione e nessun ordine del tribunale potrà mai cambiare questo.

Se Israele ha il potere di imprigionare gli imam, demolire le moschee ed impedire i richiami alla preghiera, la fede dei palestinesi ha dispiegato una forza molto più imponente, per cui comunque Gerusalemme non ha mai smesso di chiamare i suoi fedeli ed essi non hanno mai smesso di pregare. Per la libertà e per la pace.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi temono che Abbas stia sempre più diventando un dittatore

di Amira Hass

11 novembre 2016 Haaretz

La Corte Costituzionale Palestinese ha stabilito che il presidente palestinese Mahmoud Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese (Parlamento provvisorio nei territori occupati,ndtr.), consentendogli così di emarginare i suoi rivali.

Un accademico della Striscia di Gaza ha scritto su Facebook in risposta alla vittoria elettorale di Trump: “Come primo provvedimento, Trump ordinerà di redigere dei rapporti di sicurezza riguardo ai traviati del suo partito che hanno votato per Clinton, e istituirà una corte costituzionale pronta ad eliminare i membri che non hanno votato per lui.”

Il palestinese comune non ha difficoltà a cogliere la frecciata. Il presidente Mahmoud Abbas ha condotto per anni un’epurazione e una campagna per tacitare coloro che considera sostenitori di Mohammed Dahlan (dirigente di Fatah a Gaza ed espulso dall’organizzazione, ndtr.), o che dissentono dalla linea ufficiale del partito. Persino Nikolay Mladenov, coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, ha fatto allusione in pubblico ai tentativi di Abbas di mettere a tacere (gli avversari).

Mercoledì sera si è tenuta a Ramallah una cerimonia solo su inviti per l’ inaugurazione del museo “Yasser Arafat”. Il museo ha aperto al pubblico ieri (10 novembre, ndtr.), nel 12^ anniversario della morte di Arafat. Mladenov, che era tra i relatori, ha sottolineato le tappe fondamentali della vita del “leader che ha trasformato i rifugiati in una nazione.”

Era un uomo che rispettava le opinioni dei suoi avversari”, ha detto. Giusta o sbagliata che sia, questa affermazione è in linea con il modo in cui l’OLP e Fatah ricordano Arafat, quando mettono a confronto la sua leadership con quella di Abbas.

Il 3 novembre la Corte Costituzionale palestinese ha stabilito che Abbas possa revocare l’immunità parlamentare dei membri del Consiglio Legislativo Palestinese, permettendogli così di emarginare i suoi rivali. Nel breve termine questo significa la conferma dell’ordine di Abbas del 2012 di revocare l’immunità parlamentare a Dahlan.

La Corte Costituzionale non interveniva in ambito legislativo dal 2006. La vibrata protesta dei suoi membri e dei gruppi palestinesi per i diritti umani contro questa sentenza non deriva dalla preoccupazione per la reputazione e per la sorte di Dahlan. Egli, che era negli anni ’80 un focoso attivista contro l’occupazione e capo delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, si è trasformato in un uomo d’affari con interessi globali. Se le voci sono vere, Dahlan spende decine di milioni di dollari per garantirsi la fedeltà dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza e la loro opposizione alla fazione di Abbas.

I contestatori vedono la sentenza della corte come un altro passo nella direzione di quella che sembra essere la strategia di Abbas verso un regime dittatoriale.

La legge istitutiva della Corte Costituzionale è stata emanata nel 2003, al fine di esprimere pareri ed interpretare norme costituzionali poco chiare in caso di disaccordo tra l’autorità esecutiva e legislativa.

Nel gennaio 2006, alla vigilia della vittoria elettorale di Hamas, quando Abbas era già presidente, la legge è stata drasticamente modificata. Sono state revocate la partecipazione della Corte Costituzionale nella nomina dei giudici e l’autorità della Corte nel monitorare e supervisionare l’attività del presidente. Ciononostante la Corte Costituzionale è rimasta inattiva, perché nessun giudice è stato nominato.

Lo scorso aprile sono stati nominati nove giudici della Corte Costituzionale. Le nomine sono state immediatamente contestate da 18 gruppi palestinesi per i diritti umani, che denunciavano che tutti i giudici erano membri di Fatah o vicini ad essa. Hanno anche sostenuto che, benché i giudici dovessero ricevere il mandato da parte dei vertici dei tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), lo hanno ricevuto in assenza di quello legislativo.

In un’ulteriore dichiarazione diffusa questa settimana, le stesse organizzazioni per i diritti umani hanno contestato la sentenza della Corte che autorizza il presidente a revocare l’immunità ai membri del Consiglio Legislativo. Sostengono che la Corte (prima di diventare la Corte Costituzionale) ha affermato che la Legge Fondamentale Palestinese ( costituzione provvisoria in attesa di uno stato palestinese, ndtr.) non è superiore alle altre leggi. Hanno anche detto che lo stato di emergenza, in base al quale l’ANP ha operato a partire dal 2007, conferisce al presidente poteri quasi illimitati.

Un membro di una delle organizzazioni ha detto che questi passi segnalano una tendenza verso una Corte sottomessa al potere esecutivo. Ha affermato che, sulla base della bozza di costituzione dello “Stato di Palestina”, che è stata emanata pochi mesi prima dell’insediamento della Corte Costituzionale, l’obiettivo è autorizzare questa Corte a decidere chi sarebbe nominato nelle funzioni di presidente, se dovesse morire quello in carica.

Allo stato di cose presente, questo significa una sola cosa, impedire che il portavoce del Consiglio Legislativo Palestinese Aziz Dweik, di Hamas, diventi presidente ad interim, come stabilito dalla Legge Fondamentale dell’ANP. Ma la decisione consentirà anche di revocare l’immunità ad altri parlamentari critici verso il governo palestinese. Anche se la loro immunità non venisse revocata, la sentenza produrrebbe comunque un effetto che potrebbe mettere a tacere le critiche.

Questa settimana un giornalista palestinese ha osato scrivere su Facebook: “Il sogno palestinese è svanito ed è iniziato l’incubo. Il sogno di uno stato palestinese indipendente è scomparso, perché il potere politico ha trasformato il progetto nazionale in un progetto personale e di parte.”

E’ una dimostrazione di coraggio, in un momento in cui, secondo quanto riferito da fonti palestinesi, le forze di sicurezza palestinesi stanno arrestando gli autori di post critici.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




L’ipocrisia del boicottaggio da parte di Israele

La coalizione di Netanyahu è determinata a boicottare la Lista Araba Comune (alleanza politica di 4 partiti arabi in Israele, ndtr.).

di Neve Gordon –Counterpunch

22 ottobre 2016, Nena News

Paradossalmente, si tratta della stessa coalizione che si è espressa esplicitamente contro l’adozione della strategia del boicottaggio come strumento non violento e politicamente legittimo per lottare contro l’oppressione israeliana del popolo palestinese.

Il 9 ottobre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato di aver intenzione di sostenere l’iniziativa della sua coalizione di boicottare la Lista Comune, il terzo maggior partito nella Knesset. L’iniziativa, promossa dal ministro della difesa Avigdor Lieberman, ha lo scopo di punire la decisione del partito di non recarsi al funerale dell’ex Presidente Shimon Peres, a cui hanno partecipato personalità provenienti da non meno di 70 paesi, incluso il Presidente Barak Obama e il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas. “I membri della Lista Comune hanno dimostrato che non c’è più niente di cui discutere né dibattere con loro”, ha asserito Lieberman, aggiungendo che “dobbiamo prendere la decisione di boicottare ogni loro presenza e intervento alla Knesset.”

Parlando all’israeliano Canale 2, il capo della Lista Comune Araba, Ayman Odeh, ha spiegato che il funerale di Peres era parte di una “giornata nazionale di lutto in cui io non mi riconosco; non nella narrazione, non nella simbologia che mi esclude, non nella storia di Peres come uomo che ha creato il sistema di difesa di Israele.” Ha poi proseguito ricordando episodi della lunga carriera pubblica di Peres: dal suo ruolo nel governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966, per passare al suo ruolo centrale nel realizzare l’arsenale nucleare di Israele, fino all’attacco dell’esercito israeliano del 1996 ad una base ONU nel villaggio libanese di Qana, in cui furono uccisi 106 civili. Ha persino citato l’assenza di Peres al funerale di Arafat (insieme al quale aveva ricevuto il Premio Nobel per la Pace) e, ovviamente, di tutti gli altri leader arabo-israeliani.

Pensando forse che il pubblico israeliano non avrebbe potuto sopportarlo, Odeh non ha ricordato che Peres è stato in tutto e per tutto un colonialista. In documenti recentemente resi pubblici, si citano dichiarazioni di Peres in cui afferma di non credere in uno “stato di Arafat” e che la Giordania è l’unico stato palestinese, rammaricandosi dell’esistenza di cittadini palestinesi in Galilea (nel nord di Israele, ndtr.). “Vedo come si stanno mangiando la Galilea ed il mio cuore sanguina”, disse all’ex primo ministro Menachem Begin durante un loro incontro nel 1978. Molto più recentemente Peres si è spinto fino ad affermare che “le operazioni dell’esercito israeliano hanno reso possibile la prosperità in Cisgiordania, hanno sollevato i cittadini del sud del Libano dal terrore di Hezbollah ed hanno permesso agli abitanti di Gaza di avere nuovamente una vita normale.” Certamente fino alla sua morte è stato la voce esemplare della missione civilizzatrice del colonialismo.

Comunque, nel corso della stessa intervista a Canale 2, Odeh ha ricordato al suo pubblico ebreo israeliano che il sabato seguente la comunità arabo-israeliana avrebbe celebrato il 16^ anniversario dei disordini dell’ottobre del 2000, in cui 13 cittadini della comunità furono uccisi dalla polizia durante una serie di manifestazioni di protesta nei confronti delle azioni di Israele contro i palestinesi all’inizio della seconda intifada. “Vi parteciperà qualcuno del governo?” si è domandato Odeh; “Qualcuno riesce a capire le nostre sofferenze oppure non interessano a nessuno?”

Nonostante il sincero sforzo di Odeh per descrivere l’approccio razzista di Israele nei confronti dei suoi cittadini palestinesi, la coalizione di Netanyahu è decisa a boicottare la Lista Comune Araba.

Paradossalmente si tratta della stessa coalizione che si è espressa esplicitamente contro l’adozione della strategia del boicottaggio come strumento politico legittimo e non violento di lotta contro l’occupazione israeliana del popolo palestinese. Attualmente il governo Netanyahu sta spendendo milioni e milioni di dollari per contrastare il movimento palestinese di boicottaggio, criminalizzando chiunque osi sostenerlo pubblicamente. Il ministro dell’interno Aryeh Deri ed il ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato la creazione di un comitato per impedire agli attivisti del movimento BDS di entrare nel paese e per espellere quelli che già si trovano in Israele/Palestina.

Netanyahu ed i suoi compari affermano che boicottare il progetto coloniale israeliano è antisemitismo, e intanto boicottano i leader palestinesi che hanno osato non onorare le spoglie di Peres. Sono talmente prigionieri della loro logica contorta che hanno perso il senso del paradosso.

Neve Gordon è co-autore (insieme a Nicola Perugini) del libro appena uscito ‘The human right to dominate’ (Il diritto umano di dominare. Edizione italiana: Perugini N., Gordon N. “Diritti umani e dominio”, Nottetempo, Firenze, 2016).

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Lettera aperta a ‘Invest in Peace’: prima della pace viene la libertà

A settembre del 2016 il Freedom Theatre è stato contattato da ‘Invest in Peace’, un’iniziativa statunitense impegnata nel “creare partnerships economiche e da popolo a popolo tra palestinesi ed israeliani”, come riporta il suo sito web.

Invest in Peace’ si oppone al movimento BDS, di cui il Freedom Theatre è un forte sostenitore. ‘Invest in Peace’ ha scritto per informarci che la nostra organizzazione era stata prescelta per essere inserita nel suo sito web. Noi abbiamo risposto il 21 settembre declinando l’offerta e spiegandone il motivo. Non vi sono state ulteriori comunicazioni da parte di ‘Invest in Peace’.

Freedom Theatre

Questa la nostra risposta:

Cari membri del team di ‘Invest in Peace’

Ci fa piacere leggere che apprezzate il lavoro del Freedom Theatre e che intendete utilizzare la vostra piattaforma per promuovere il nostro lavoro. Noi investiamo nella pace e crediamo in un futuro condiviso tra tutte le persone che amano la pace nella nostra regione. Però crediamo che prima della pace venga la libertà.

Purtroppo nell’attuale situazione, in cui i palestinesi sono sottoposti ad una combinazione di occupazione, apartheid e colonialismo, noi crediamo che prima di ogni altra cosa debbano cessare l’occupazione, l’apartheid ed il colonialismo. La coesistenza e la riconciliazione possono darsi solo tra eguali, non tra occupante ed occupato, o tra oppressore ed oppresso. Ciò di cui crediamo ci sia bisogno adesso è un movimento forte ed unitario che chieda la fine dell’occupazione israeliana, dell’apartheid e del colonialismo e che gli stessi criteri giuridici vengano applicati a tutti i cittadini della terra santa attualmente presenti ed a quelli che ne sono stati espulsi. Solo allora potremo impegnarci in un percorso verso la riconciliazione.

Se gli appelli alla riconciliazione e alla coesistenza vengono fatti prima che siano stabilite la giustizia e l’eguaglianza, temiamo che possano venire usati per alimentare la diffusa ed errata percezione della situazione politica come un conflitto tra due parti uguali, o addirittura tra due nazioni indipendenti, piuttosto che ciò che veramente è: un’occupazione militare della terra e della sovranità della Palestina.

Inoltre noi pensiamo che uno dei più forti movimenti che unifica la società civile palestinese (dimostrando al tempo stesso il potere della non-violenza) e crea una vera partnership tra attivisti israeliani e palestinesi contro l’occupazione, sia il movimento BDS. Il Freedom Theatre, insieme alla grande maggioranza dei palestinesi impegnati nell’ambito artistico, appoggia fermamente il boicottaggio culturale, così come formulato dalla PACBI (http://pacbi.org).

Per quanto noi rispettiamo il lavoro di alcune delle organizzazioni che promuovete sul vostro sito web, e per quanto il Freedom Theatre investa con tutto sé stesso nella pace, non possiamo approvare una terminologia che può essere intesa nel senso di mettere sullo stesso piano l’occupante e l’occupato, evitando di prendere una netta posizione a favore del diritto internazionale e delle molte risoluzioni ONU che chiedono la fine dell’occupazione, il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, Gerusalemme est come capitale di un futuro stato palestinese, ecc. Crediamo che si possa veramente investire nella pace se si ascoltano gli oppressi e non abbiamo la sensazione che il linguaggio da voi usato rappresenti la voce della società civile palestinese.

Saremmo felici di collaborare con voi per riformulare i vostri obiettivi e il vostro punto di vista, in modo che riflettano i desideri della società civile palestinese, e quindi creare una piattaforma su cui gli attivisti israeliani, come anche i fautori statunitensi di una pace giusta, possano unirsi a noi in una lotta comune contro l’occupazione, l’apartheid ed il colonialismo e per un futuro in cui possiamo vivere insieme in vera pace ed uguaglianza.

Distinti saluti

Il Freedom Theatre

(Traduzione di Cristiana Cavagna per BDS Italia)




Con una mossa inedita, Israele ha approvato in segreto la costruzione di edifici palestinesi in Cisgiordania

di Barak Ravid e Chaim Levinson, 27 ottobre 2016

Haaretz

Il gabinetto di sicurezza ha tenuto segreto il voto sull’area C, sperando di impedire ai coloni di esercitare pressioni politiche per ostacolare il piano, promosso dal ministro della difesa Avigdor Lieberman.

Il mese scorso il gabinetto di sicurezza di Israele ha votato l’autorizzazione di una serie di progetti abitativi palestinesi nell’area C della Cisgiordania – la zona più ampia dei territori occupati in cui sono stanziate tutte le colonie e su cui l’Autorità Nazionale Palestinese non esercita alcun controllo.

E’ stata la prima decisione di questo genere da molti anni ed è stata tenuta segreta, o non resa pubblica, nel tentativo di impedire ai coloni israeliani di cercare di fare pressioni per contrastarla.

La proposta è stata avanzata e portata alla votazione del gabinetto dal ministro della difesa Avigdor Lieberman, come parte della sua cosiddetta politica “del bastone e della carota” per incoraggiare i palestinesi moderati, piano da lui stesso presentato ai media israeliani in agosto.

“L’obbiettivo del piano è favorire coloro che sono disposti a convivere con noi e al contempo rendere la vita più difficile a chi pianifica attacchi terroristici”, ha dichiarato all’epoca Lieberman.

Ha continuato: “Ho dato ordine di migliorare il più possibile le strutture umanitarie ed economiche. Il mio obbiettivo è dimostrare ai palestinesi che è vantaggioso vivere insieme e non lasciarsi coinvolgere dalla spirale del terrorismo. Questo dovrebbe portare alla coesistenza e a migliori rapporti economici a prescindere dal processo diplomatico.”

La votazione del governo ha avuto luogo a metà settembre. Hanno votato a favore: il primo ministro Benjamin Netanyahu, Lieberman, il ministro dell’interno Arye Dery, il ministro dell’energia Yuval Steinitz e il ministro dell’edilizia Yoav Galant. Il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha lasciato scritto il suo voto favorevole. I voti contrari al piano sono stati quelli dei leaders di Habayit Hayehudi (‘La casa ebraica’, partito sionista di estrema destra nazionalista, ndtr.), il ministro dell’educazione Naftali Bennet e il ministro della giustizia Ayelet Shaked, che non era presente ed ha lasciato una dichiarazione di voto scritta.

Il piano, stilato dal Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) general maggiore Yoav (Poli) Mordechai, comprende progetti edilizi complessivi ed anche permessi di costruzione per strutture pubbliche e unità abitative per palestinesi in parecchi villaggi della Cisgiordania.

Le nuove costruzioni si estenderanno fino ai villaggi del nord della Cisgiordania e della Foresta di Qalqilya. Il piano prevede la creazione di un corridoio economico tra Gerico e la Giordania, una zona industriale ad ovest di Nablus e la costruzione di un ospedale vicino a Betlemme. Verranno anche costruiti nuovi campi di calcio e parchi giochi in aree rurali.

Anche se il piano è di portata relativamente modesta, Israele non prendeva una simile iniziativa da anni.

Benché non rilevante per ragioni diplomatiche o di sicurezza, il piano è stato tenuto segreto, senza far trapelare il minimo dettaglio alla stampa. Un alto funzionario israeliano ha detto che il motivo era che la decisione veniva considerata politicamente sensibile.

Secondo il funzionario, i leaders dei coloni hanno molta influenza nel Likud e ci sono forti obiezioni alle costruzioni palestinesi in area C da parte del partito Habayit Hayehudi. La contrarietà alla questione è cresciuta con la pressione dei coloni sul governo perché revocasse un ordine di demolizione entro la fine dell’anno dell’insediamento illegale di Amona da parte del tribunale.

Quando Lieberman ha presentato il piano per la prima volta il 18 agosto, i capi del Gruppo Eretz Yisrael alla Knesset, i deputati Yoav Kish (del Likud) e Betzalel Smotrich (di Casa Ebraica), hanno inviato una lettera al primo ministro chiedendogli di eliminare tutte le parti del piano che riguardavano i permessi di costruzione per i palestinesi. “Sanare le costruzioni illegali palestinesi darebbe una mano ai tentativi del presidente palestinese Mahmoud Abbas e dei suoi amici di prendere il controllo dell’area C”, hanno dichiarato.

I capi del Yesha Council of settlers (organizzazione che raggruppa i consigli municipali delle colonie ebraiche in Cisgiordania, ndtr.) hanno pubblicato a quel tempo una dichiarazione che denunciava che “il ministro della difesa sta dando una carota ai palestinesi ed un bastone ai coloni”.

Tra novembre e dicembre del 2015 Netanyahu e l’allora ministro della difesa Moshe Ya’alon tentarono di proporre un piano simile, di ampiezza molto maggiore, per costruzioni palestinesi nell’ area C. Ma esso venne bloccato dal gabinetto di sicurezza a causa delle obiezioni di ministri di Casa Ebraica e del Likud. I ministri di Casa Ebraica minacciarono addirittura di essere pronti a far cadere il governo sulla questione. Questa volta, comunque, Bennet e Shaked hanno votato contro il piano.

In risposta, l’ex capo negoziatore e co-presidente dell’Unione Sionista (alleanza politica di centro-sinistra, ndtr.), deputata Tzipi Livni, ha dichiarato che la decisione è “corretta” e “contribuisce alla sicurezza. Se fosse stata resa pubblica, potremmo meglio promuovere i nostri interessi con i paesi della regione e del mondo. La sua segretezza è un timore di Bennet ed un danno per noi”, ha detto.

 

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Lieberman: La prossima guerra di Gaza sarà l’ultima

Middle East Monitor – 24 ottobre 2016

Nota redazionale .Un’intervista a un personaggio dell’estrema destra israeliana che non promette niente di buono. Anche se poi cerca di vestire i panni del politico con la ricetta per risolvere il conflitto israelo-palestinese.  Abbiamo ritenuto utile pubblicarla per dovere di informazione.

 

Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, in un’intervista al quotidiano Al-Quds, ha promesso che la prossima guerra contro Gaza sarà l’ultima.

Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, in un’intervista al quotidiano Al-Quds, ha promesso che la prossima guerra contro Gaza sarà l’ultima.

L’intervista in sé è stata oggetto di critiche, in quanto alcuni palestinesi hanno sostenuto che il giornale non avrebbe dovuto concedere a Lieberman una tribuna per le sue idee.

Lieberman ha sostenuto che “non abbiamo nessuna intenzione di scatenare una guerra con i nostri vicini nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Siria.” Ma, ha aggiunto, “nella Striscia di Gaza c’è l’intenzione di eliminare lo stato di Israele, proprio come gli iraniani.”

Ed ha continuato. “Anche se non intendiamo dare inizio ad un nuovo conflitto con loro (nella Striscia di Gaza), se scatenano una nuova guerra contro Israele, sarà per loro l’ultima guerra. Voglio ribadire che sarà la guerra finale per loro perché noi li distruggeremo completamente.”

L’ampia intervista ha toccato una quantità di argomenti, compresa l’idea di Lieberman di un rapporto permanente con i palestinesi.

Lieberman ha affermato di aver “ accettato la soluzione dei due stati e sostengo personalmente questa soluzione”, ma “il problema sta nella….leadership palestinese.” Ha poi aggiunto: “Io non credo in una efficace occupazione e penso sia meglio per i due popoli essere separati.”

Approfondendo ciò che intende con soluzione dei due stati, Lieberman ha detto: “Credo che il giusto criterio non sia terra in cambio di pace; io preferisco lo scambio di terra e abitanti.” Nello specifico, Lieberman ha dichiarato che importanti colonie illegali, quali “Ma’ale Adumim, Giv’at Ze’ev, Gush Etzion e Ariel [le prime due a Gerusalemme est, la terza a sud di Gerusalemme nei pressi del confine con la Cisgiordania, Ariel in mezzo alla Cisgiordania. Ndtr]”, saranno “parte di Israele in ogni tipo di soluzione.”

Al contempo, in base al piano di Lieberman, i cittadini palestinesi di zone come Umm el-Fahm [città arabo israeliana di 45.000 abitanti che si trova vicino alla Cisgiordania. Ndtr.] si troverebbero all’interno di un futuro stato palestinese; “questa gente si definisce palestinese,” perciò “lasciamo che siano palestinesi”, ha detto. “Ci saranno due patrie”, ha affermato, “una ebrea e una palestinese, e non uno stato palestinese ed uno stato binazionale.”

Alla luce del fatto che “è difficile convincere palestinesi ed israeliani ad arrivare ad un accordo su uno status definitivo”, Lieberman pensa che “il primo passo per convincere il popolo che questo è possibile potrebbe consistere in un drastico miglioramento della situazione economica e nella lotta alla disoccupazione, alla povertà e alla frustrazione tra i palestinesi.”

Al contempo, agli israeliani “dobbiamo garantire sicurezza ed assenza di terrorismo e spargimenti di sangue per un determinato periodo di tempo.” Secondo Lieberman, soltanto dopo “tre anni di vero progresso economico per i palestinesi e tre anni senza terrorismo e vittime israeliane” sarà possibile ” creare un clima di fiducia.”

Lieberman, lui stesso un colono della Cisgiordania, ha detto al giornale: “Ho molti vicini palestinesi e parlo con la gente comune, come gli agricoltori, non con la leadership politica.”

Negli ultimi quattro mesi ho incontrato parecchi palestinesi, soprattutto uomini d’affari, e sono stati incontri piacevoli. Ho chiesto loro quale fosse il maggiore ostacolo allo sviluppo dell’economia e mi hanno detto apertamente che il maggiore intralcio è rappresentato da Abu Mazen (Mahmoud Abbas) e dalla sua cerchia.

Lieberman ha detto ad Al-Quds che c’è bisogno di “ripartire da zero” e che quindi “dobbiamo anzitutto costruire la fiducia tra i due campi, non tra i leader, ma tra la gente.” Ha aggiunto: “Il problema è che non c’è fiducia tra i due popoli ed un rapporto solamente tra i leader non è sufficiente. Noi abbiamo bisogno di più sicurezza e i palestinesi di più benessere.”

Riferendosi alla Striscia di Gaza, Lieberman ha detto che Israele “ha intenzione di approvare i progetti della Turchia per elettricità, acqua, desalinizzazione e depurazione.” Secondo il ministro della difesa, “il problema è che Hamas ha ricevuto centinaia di migliaia di dollari da quando è andato al potere e, invece di investirli in impianti di energia e in infrastrutture idriche, li ha investiti in armi.”

Alla domanda se fosse intenzionato a parlare con Hamas, Lieberman ha risposto: “Non posso parlare con qualcuno che ogni giorno fa dichiarazioni che dicono noi vi odiamo, vogliamo distruggervi, cancelleremo Israele dalla carta geografica, vi getteremo in mare, ecc.”

Ha aggiunto che “prima che Hamas prendesse il controllo, Gaza era aperta” e che “c’era un passaggio sicuro tra Gaza e la Giudea e Samaria (la Cisgiordania).” Ha poi continuato: “Quando vedremo che la smetteranno con i tunnel e i razzi, noi saremo disposti ad aprire le aree industriali a Erez e Karni. Vogliamo anche investire nel porto e nell’aeroporto.”

Riguardo agli sviluppi nella regione, Lieberman ha dichiarato: “Non abbiamo alcuna richiesta o rivendicazione da parte dei nostri vicini. Abbiamo dato il Sinai all’Egitto, abbiamo un trattato di pace con la Giordania e relazioni diplomatiche con il Libano e non abbiamo rivendicazioni.”

Ha aggiunto: “La primavera araba o l’inverno arabo hanno completamente modificato la situazione nel mondo arabo e noi non abbiamo avuto niente a che vedere con tutto questo. Il 99% di tutte le vittime e il bagno di sangue si verifica tra gli stessi musulmani e non con gli israeliani.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Perché Israele sta inasprendo il blocco di Gaza?

di Ben White

Middle East Monitor 21 ottobre 2016

Iniziamo con i fatti: nel corso dell’ultimo anno le autorità israeliane hanno inasprito il blocco di Gaza che dura da molto tempo.

Iniziamo con i fatti: nel corso dell’ultimo anno le autorità israeliane hanno inasprito il blocco di Gaza che dura da molto tempo.

Anche prima delle ulteriori recenti restrizioni, il blocco israeliano – una politica illegale di punizione collettiva secondo le parole del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon – stava continuando a danneggiare gravemente la vita dei due milioni di abitanti di Gaza, accentuando il processo di de-sviluppo nell’enclave.

Nell’aprile di quest’anno l’ONU ha affermato chiaramente che il passo più urgente necessario per la ricostruzione di Gaza rimaneva “la fine delle restrizioni (israeliane) sull’importazione di materiale da costruzione, nella prospettiva di una conclusione completa del blocco.” Invece le cose sono andate in senso opposto.

In luglio il giornale israeliano Haaretz ha informato che ” sono state inasprite le restrizioni contro i palestinesi che cercano di partire dalla Striscia di Gaza e sulle importazioni consentite nel territorio”, compreso il divieto imposto a “certi uomini d’affari di importare le loro merci a Gaza.

I dati dell’ONU confermano che il blocco si è inasprito in luglio, mentre in agosto solo 110 camion di prodotti sono usciti da Gaza, meno della metà di quelli di gennaio (e il 14% di quelli del 2005). Anche agosto ha mostrato il livello più basso da sette anni del tasso di pareri favorevoli israeliani per la concessione di permessi a pazienti di lasciare Gaza e per essere curati.

Poi a settembre l’ong israeliana Gisha [che si occupa di difendere la libertà di movimento dei palestinesi, soprattutto di Gaza. Ndtr.] ha pubblicato statistiche che mostrano che “1.211 gazawi sono stati convocati al valico di Eretz per interrogatori su questioni relative alla sicurezza durante la prima metà dell’anno”- circa 2,5 volte il numero di persone interrogate durante lo stesso periodo un anno prima.

All’inizio di ottobre un alto funzionario della Camera di Commercio ed Industria di Gaza ha descritto l’attuale situazione come “la peggiore di sempre”. Il 13 ottobre il funzionario dell’ONU Nickolay Mladenov ha messo in guardia “quanti pensano che sia possibile punire la Striscia di Gaza e mantenerla sotto assedio.”

Nel frattempo, tuttavia, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha dato istruzioni all’esercito israeliano di inasprire il blocco, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti “beni con un doppio uso [cioé civile e militare. Ndtr.]” soggetti a restrizioni. Secondo Gisha, questa lista “include prodotti il cui uso è eminentemente civile ed essenziale per la vita dei civili.”

Oltre a quanto detto finora, un alto funzionario dell’ONU ha descritto di recente come “le condizioni siano diventate molto più difficili” per le “la comunità umanitaria”. In gennaio è stato rigettato il 3% delle richieste di permesso per entrare in Israele da Gaza da parte dei suoi dipendenti palestinesi; in agosto questa percentuale è salita al 65%.

Questa settimana alle sue parole ha fatto eco il direttore operativo dell’UNRWA [agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi. Ndtr.] a Gaza, Bo Schack, che a sua volta ha scritto un editoriale in cui ha auspicato la fine del blocco. Parlando al telefono con me, Schack ha confermato che le restrizioni israeliane all’ingresso di cemento stanno ritardando i tempi della ricostruzione.

Secondo Schack, 400 famiglie le cui abitazioni devono ancora essere ricostruite stanno tuttora aspettando l’approvazione (come parte del “Meccanismo di Ricostruzione di Gaza” [accordo temporaneo, appoggiato dall’ONU, tra il governo palestinese e quello israeliano. Ndtr.]). Oltretutto negli ultimi 6 mesi, fino a maggio di quest’anno, “non abbiamo ricevuto nessun permesso per nessuno dei casi che abbiamo presentato”, ha detto Schack.

Il funzionario dell’ONU, che si trova a Gaza, ha anche affermato che, insieme all’ “incremento delle restrizioni sui palestinesi a Gaza”, ci sono anche “maggiori restrizioni di movimento del personale dell’ONU – in misura molto maggiore di quanto fosse prima.”

Ai commercianti e agli operatori umanitari di Gaza possiamo ora aggiungere importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese, dopo la recente notizia che lo Shin Bet ha annullato i permessi di uscita permanenti per 12 dei 14 responsabili per la mediazione tra i civili palestinesi e le autorità israeliane. In altre parole i funzionari incaricati di garantire i permessi di uscita hanno perso i loro permessi di uscita.

Numerosi osservatori hanno sostenuto che Israele non ha intenzione di iniziare una nuova offensiva contro la Striscia di Gaza, per lo meno a breve termine, e che Lieberman, ora che occupa il ministero della Difesa, ha moderato, se non cambiato, il suo atteggiamento, la precedente aggressività e la promessa di abbattere il regime di Hamas a Gaza.

Ma cosa spiega le evidenti misure restrittive? Non è che le conseguenze del blocco siano un grande mistero. Pare che le stesse “istituzioni per la sicurezza” israeliane siano preoccupate dell’ “instabilità” a Gaza, facendo riferimento a una crescente crisi di Hamas ed a impressionanti livelli di povertà.

Un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese ritiene che Lieberman, annullando i permessi di uscita da Gaza di 12 funzionari, stia mettendo in atto la sua preannunciata politica di interruzione della comunicazione israeliana con le istituzioni rette da Mahmoud Abbas e di “creazione di rapporti diretti con gli abitanti palestinesi.”

Amira Hass, scrivendo questa settimana del rifiuto dei permessi di uscita per i palestinesi di Gaza, ha affermato con sferzante sarcasmo che lo Shin Bet “mi vuole convincere che una donna banchiere è diventata pericolosa e che lo è diventato anche un adolescente con il cancro, che è stato curato in Israele fin dall’infanzia e ora ha bisogno di un trapianto di mascella ad Haifa.”

Lo Shin Bet sa che “tutto ciò è insensato”, ha scritto Hass. Ma cosa c’è dietro? “Non abbiamo bisogno di aspettare che gli archivi vengano aperti per rispondere alla nostra domanda iniziale,” sostiene. “Lo Shin Bet e i suoi responsabili sono interessati ad un altro terribile spargimento di sangue – perché la Striscia di Gaza non obbedisce ai suoi ordini e continua a rimanere parte della società e della geografia palestinesi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Invece di scortare i bambini palestinesi dalla scuola a casa, i soldati israeliani tirano pietre.

di Amira Hass | 30/10/ 2016, Haaretz

Usando qui una fionda, costringendo con l’inganno due donne israeliane ad andare su una strada vietata lì, questo è l’esercito israeliano nella sua essenza.

Il video immortala due persone che tirano pietre. Sui 18 o 19 anni, a viso scoperto. Non vi facciamo più aspettare: possiamo dirvi subito che entrambi sono soldati delle Forze di Difesa Israeliane [IDF] che tirano pietre ad alcune ragazze vestite con l’uniforme scolastica. Il portavoce dell’IDF dice che le pietre non erano dirette contro i bambini. Ciò è discutibile, giacché almeno uno dei soldati stava di fronte ai bambini e le sue pietre li hanno costretti a fermarsi sul loro percorso

Questo è successo lo scorso giovedì 27 ottobre alle 13,30 circa. Il luogo: tra i villaggi di Tuba e di Twaneh nelle colline a sud di Hebron, sulla strada che passa sotto l’illegale e non autorizzato avamposto Havat Ma’on I due tiratori di pietre, con la divisa dell’IDF, si trovavano vicino ad un automezzo blindato in cui c’erano almeno altri due soldati. I soldati hanno anche usato una fionda , per aumentare la gittata.

Stavano solo giocando, direte. Non hanno ferito nessuno. Sono ragazzi anche loro. Erano annoiati, [volevano] sfogarsi un po’. Osiamo sfidare il “political correct” e annotare che uno di loro era nero, ovviamente etiope, per cui avrà avuto un sacco di ragioni per essere arrabbiato e volersi sfogare.

In base all’accordo del 2004, l’IDF ha il compito di scortare due volte al giorno gli scolari che vivono a Tuba e che frequentano la scuola a Twaneh. La strada, lunga circa 2 km, è stata sempre utilizzata dai residenti di Tuba e dagli altri villaggi della zona. Dopo la costruzione dell’avamposto, i suoi abitanti hanno cominciato a molestare i palestinesi sulla strada che passa sotto. I bambini erano traumatizzati. Non potevano dormire la notte e i loro genitori non potevano pagare il costo del trasporto su un percorso molto più lungo per evitare le violenze dei coloni.

Grazie alla tenacia dei genitori e agli sforzi di alcune organizzazioni israeliane e internazionali, la lotta per il diritto dei bambini di Tuba di andare a scuola non è stata inutile. [Il caso] è stato portato dinanzi alla Commissione per i diritti dei bambini della Knesset. È stato raggiunto un compromesso: lo Stato non avrebbe sanzionato i coloni violenti, ma l’IDF avrebbe provato a tenerli lontano con la sua presenza.

Il corto dei soldati che tirano le pietre è stato spedito a Haaretz venerdì mattina ed è stato immediatamente mandato al portavoce dell’IDF per una risposta, che è arrivata molto presto: “I comandanti sono al lavoro per indagare sulla faccenda” ci hanno risposto al telefono. Poi è arrivata la risposta scritta: “Una prima indagine rivela che le pietre non sono state lanciate verso i palestinesi e appena i soldati li hanno scorti, hanno smesso di tirare, sono andati incontro ai bambini e li hanno riportati indietro dalla scuola che si trova vicino a Havat Ma’on. Non è previsto che i soldati tirino pietre durante una missione militare e quindi l’incidente viene sottoposto a inchiesta.”

L’adulto che per un pezzo ha accompagnato i bambini e che ha filmato l’incidente ha detto a Haaretz che i soldati non sono andati incontro ai bambini, ma piuttosto hanno aspettato che loro si avvicinassero prudentemente, cercando di capire il motivo del lancio di pietre.

E in un altro incidente [accaduto] due giorni fa, non collegato, due donne attiviste dell’ associazione di base Machsom Watch sono partite per il loro turno al checkpoint della barriera di separazione tra Qalqilyah e Tul Karm. Il loro compito: assicurare che l’IDF non impedisca ai contadini di raggiungere le loro terre, che sono separate dal villaggio a causa della barriera.

Le donne si sono fermate al checkpoint nei pressi della colonia di Salit. Alle 16,15 con 15 minuti di ritardo, quattro soldati sono arrivati con una macchina civile per aprire il cancello per permettere il ritorno a casa dei palestinesi con il trattore, con un carro, con l’asino o con un pulmino. Un soldato sorridente, di nome Yuval, si è avvicinato e ha detto che la causa del ritardo era dovuta a motivi di sicurezza. Questo è quello che i soldati dicono sempre quando sono in ritardo per aprire il cancello chiuso con un lucchetto.

Yuval ha chiesto alle due donne di guidare attraverso il checkpoint aperto e di immettersi sulla strada di sicurezza vietata a chiunque non abbia un permesso. Come le donne hanno successivamente riferito, “due signore anziane con una grande esperienza di vita hanno compiuto [il più grande] errore della loro esistenza obbedendo a un giovane soldato gentile” che aveva detto di volere parlare con loro. E poi, una volta che erano sulla strada, i simpatici soldati, che erano in continuo contatto con il loro comando- le hanno informate che le trattenevano in arresto fino all’arrivo della polizia a causa della loro presenza in una zona proibita.

I soldati erano dei simpatici giovanotti, come ho detto. Hanno perfino offerto del caffè alle donne. Ma eseguivano gli ordini del comando di arrestare le due donne e con il loro gentile comportamento le hanno attirate nella zona proibita. “ I soldati hanno sostenuto che eravamo arrivate dalla Cisgiordania” ha raccontato Shosh, una delle donne. “Gli abbiamo detto:”Certo, da quale altra parte avremmo potuto venire? E da quando è proibito viaggiare in Cisgiordania?”

Hanno anche tentato di dire ai soldati che era una perdita di tempo, che la polizia sarebbe venuta e le avrebbe rilasciate immediatamente e si sarebbe arrabbiata per il disturbo.“ Era come parlare a un muro. Non abbiamo niente contro i soldati. Il problema veniva dal’alto. Gli era stato ordinato di arrestarci.” Dopo innumerevoli telefonate tra i soldati e i comandanti, e siccome stava già diventando buio, hanno detto alle donne che erano libere di andarsene. Così non sono state in grado di controllare la situazione in altri due checkpoint. Forse era questo il vero motivo della manovra?

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Forze di sicurezza palestinesi si scontrano con sostenitori del rivale di Abbas nei campi di rifugiati della Cisgiordania

Di Jack Khoury

Haaretz 26 ottobre 2016

Martedì notte dozzine di giovani palestinesi si sono scontrati con forze dell’ordine della Autorità Nazionale Palestinese nei campi di rifugiati della Cisgiordania. Le violenze sono iniziate nel campo di Al Am’ari, vicino a Ramallah, per poi estendersi al campo profughi di Balata a Nablus ed al campo profughi di Jenin.

Gli incidenti segnano un chiaro aumento delle tensioni all’interno di Fatah tra i sostenitori del presidente palestinese e del suo rivale in esilio Mohammed Dahlan.

Le forze dell’ordine hanno adottato misure di controllo degli scontri per disperdere la folla ad Al Am’ari e a Jenin, mentre colpi di arma da fuoco sono stati uditi a Balata, presumibilmente sparati da dimostranti armati.

Secondo fonti palestinesi, gli scontri ad Al Am’ari si sono sviluppati da una manifestazione organizzata da Jihad Muhammad Tamliya, un membro del Consiglio Legislativo Palestinese, per protestare contro la sua espulsione da Fatah, insieme ad altri importanti membri dell’organizzazione. Tamliya, Jamal al-Tirawi di Balata, Rafat Aliyan di Gerusalemme ed altri sono stati cacciati dopo aver tenuto un raduno a El Bireh, in cui hanno chiesto il ritorno di Dahlan tra i ranghi di Fatah. Le forze di sicurezza dell’ANP hanno represso il comizio.

In risposta, Tamliya ha inscenato una protesta ad Al Am’ari durante la quale i manifestanti hanno incendiato pneumatici e sparato in aria, determinando l’intervento delle forze dell’ordine dell’ANP e ulteriori scontri.

Le tensioni tra l’ANP e sostenitori di Dahlan sono aumentate nell’imminenza del congresso del Comitato Centrale di Fatah previsto per il prossimo mese a Ramallah.

Secondo molti membri di Fatah il congresso si sta trasformando in una lotta tra la fazione di Abbas e quella di Dahlan per chi controlla l’organizzazione. Pare che Dahlan abbia recentemente ottenuto l’appoggio di molti Stati arabi e riconquistato influenza nella Striscia di Gaza [da cui era stato cacciato in seguito al conflitto armato tra Fatah e Hamas nel 2006. Ndtr.]. Si ritiene che Abbas voglia tener lontano Dahlan dalle istituzioni di Fatah e inserire nuove leve più giovani nel Comitato Centrale.

(traduzione di Amedeo Rossi)