Dopo l’attacco di Tel Aviv i palestinesi manifestano poca gioia ma comprendono le ragioni di chi ha sparato

Ogni settimana, centinaia di palestinesi sono soggetti a colpi di arma da fuoco da parte degli israeliani e scappano terrorizzati. Secondo loro quello che hanno provato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

di Amira Hass | 10 giugno, 2016 |

Haaretz

Wafa, l’agenzia ufficiale di notizie dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [OLP], ha messo sul suo sito una spettacolare fotografia dei fuochi d’artificio a Gaza in onore del sacro mese musulmano del Ramadan e non per inneggiare all’attacco armato di mercoledì a Tel Aviv. Anche se ci sono stati palestinesi che hanno espresso soddisfazione per l’attacco di fronte alle telecamere che li hanno trovati proprio nel momento e nel luogo giusti, né la soddisfazione né l’appoggio[all’attacco] potrebbero descrivere con precisione i sentimenti della maggior parte dei palestinesi sulla sparatoria.

C’è una generale comprensione riguardo al motivo che ha spinto [ad agire]i due attaccanti della città cisgiordana di Yatta, insieme all’apprezzamento per quello che è apparso il loro coraggio. Vi è anche molta preoccupazione rispetto a quale sarà la risposta di Israele.

L’agenzia Wafa ha anche pubblicato una condanna dell’attacco proveniente dall’ufficio del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas. Sicuramente gli israeliani non si accontenteranno di questo, mentre allo stesso tempo i palestinesi si arrabbiano per la sua equidistanza. “L’ufficio di presidenza ha espresso la sua ripetuta condanna di ogni azione da qualunque parte provenga che prenda di mira i civili indipendentemente da quello che potrebbero essere le motivazioni,” afferma il comunicato. Ha anche affermato che la creazione di un clima positivo e la realizzazione di una giusta pace potrebbero garantire la sicurezza dei civili.

L’opposizione di Abbas a qualsiasi escalation ha avuto un riflesso concreto. Per esempio, le sue forze di sicurezza stanno arrestando e imprigionando gli attivisti che non sono stati arrestati da Israele e che hanno guidato le manifestazioni contro il muro di separazione a Betlemme. Di conseguenza sono cessati gli scontri in uno dei punti più caldi. Ma con questo suo comunicato moderato, Abbas ha evidentemente cercato di evitare di urtare la suscettibilità del suo pubblico.

Il suo partito Fatah non ha potuto condannare l’attacco di Tel Aviv. Un comunicato dell’organizzazione ha definito la sparatoria “una risposta individuale e naturale” alla violenza dello Stato israeliano. Un portavoce ha spiegato che per “violenza dello Stato” si intendeva la politica delle demolizioni delle case e lo sradicamento dei palestinesi dalle loro comunità, le “irruzioni dei coloni” sulla spianata delle moschee di Al-Aqsa a Gerusalemme e “gli omicidi a sangue freddo di palestinesi ai checkpoint”.

Da parte sua il movimento Hamas ha elogiato l’attacco, mentre il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [FPLP] lo ha definito un punto di svolta nell’attuale intifada e una condivisibile reazione al gran numero di palestinesi uccisi da Israele. Riferendosi al luogo dell’attacco di Tel Aviv, avvenuto di fronte al Ministero della difesa, [il FPLP] ha detto che si è trattato di una sfida al nuovo ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, e che è la conferma che la lotta armata è il modo migliore per garantire i diritti dei palestinesi.

Il comunicato del Fronte Popolare si avvicina allopinione prevalente nell’opinione pubblica palestinese rispetto alle posizioni di Abbas o di Fatah, come riportato dal sondaggio pubblicato questa settimana dal Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro palestinese di ricerca e analisi politica]. Il sondaggio ha rivelato che il 58% degli intervistati (il 68% nella Striscia di Gaza e il 52% in Cisgiordania) è convinto che la rivolta degli attacchi individuali esplosa a ottobre, caratterizzata in prevalenza da attacchi all’arma bianca e che si sta trasformando in un’intifada armata, potrebbe essere più utile agli interessi nazionali palestinesi rispetto ai negoziati con Israele.

L’appoggio agli attacchi all’arma bianca è diminuito. Solamente il 36% degli intervistati nella Cisgiordania è solidale. Nella più lontana Gaza, invece, gli attacchi all’arma bianca sono stati appoggiati dal 75% degli intervistati.

In altre parole, vi è un ampio sostegno a parole da parte di coloro che sono lontani e che non sono coinvolti, mentre quelli che possono agire sono restii a farlo.

L’uso delle armi conserva nelle analisi e nelle dichiarazioni la propria aura quale punto più alto della lotta nazionale contro l’occupazione israeliana. Ma né il FPLP, né Hamas o Fatah hanno cercato o osato trasformare l’escalation dell’anno scorso in una lotta armata, perché non possono oppure sanno che fallirebbe, o che la gente non è realmente interessata o preparata.

I programmi televisivi che hanno mostrato gli israeliani che scappavano terrorizzati dagli attentatori sono scene familiari ai palestinesi. Giorno dopo giorno, sperimentano la paura asfissiante degli israeliani armati. Ogni settimana centinaia di palestinesi sono esposti alle sparatorie degli israeliani e fuggono terrorizzati; qualche volta sono feriti o uccisi. Secondo la loro opinione, quello che hanno passato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

I palestinesi si prendono qualche rivalsa se viene sconvolta la normalità di Tel Aviv, solo a un’ora di macchina dalle zone di disperazione individuale e nazionale a Gaza e in Cisgiordania. La maggior parte è ben consapevole che questo sconvolgimento non cambierà l’orientamento e il comportamento degli israeliani. Tuttavia neppure le dimostrazioni pacifiche, le trattative diplomatiche e i resoconti dei media hanno trasformato gli israeliani in sostenitori del Meretz [partito sionista della sinistra moderata sostenitore della soluzione dei due Stati, ndt]. Quindi tutto quello che rimane è una soddisfazione momentanea di vendetta.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Perché le donne palestinesi attaccano i checkpoint israeliani ?

 

Che cosa spinge le donne palestinesi ad attaccare i checkpoint israeliani rischiando la morte?

I palestinesi temono che parlare delle motivazioni personali possa sollevare Israele dalla responsabilità di uccidere le donne che si avvicinano ai checkpoints armate di coltelli.

Di Amira Hass – Haaretz, 12 giugno 2016

 

La figura di una donna avvolta in una veste nera con il viso coperto da un velo ha attirato l’attenzione degli automobilisti. Il suo vestito sembrava ancora più nero sullo sfondo grigio degli alberi di ulivo impolverati dalle vicine pietraie.

Giovedì 2 giugno camminava verso ovest, in direzione del checkpoint di Einav, in un tratto di strada dove raramente si vedono passanti (eccetto i residenti dei villaggi vicini diretti ai loro uliveti) – certo non nelle ore più torride della giornata.

Questo checkpoint, che separa l’enclave di Tul Karm verso est dalle colonie della zona, non consente il passaggio di pedoni, ma solo di veicoli.

Almeno un automobilista, che trasportava bombole del gas, si è fermato per chiedere alla donna se avesse bisogno di aiuto. Lei ha detto che stava aspettando qualcuno che la venisse a prendere. Questo accadeva a circa 200 metri di distanza dal checkpoint.

Un’altra persona si trovava sul lato ovest ed ha visto con spavento quando la donna ha raggiunto le lastre di cemento intorno al posto di blocco. Ha raccontato ad Haaretz di aver diretto velocemente la vettura verso di lei. Si è fermato e l’ ha avvertita che le sarebbe accaduto qualcosa, che i soldati l’ avrebbero uccisa se fosse rimasta là.

“Non mi ha risposto,” ha raccontato. Non si potevano vedere i soldati tra i blocchi di cemento o lungo la corsia delle auto. Ha sentito uno di loro gridare dalla cima della torretta intimandogli di proseguire, e che se non lo avesse fatto gli avrebbero sparato.

“Sono andato avanti, non volevo morire”, ha detto. E’ convinto che gli automobilisti che la oltrepassavano erano giunti alla conclusione, come lui, che lei avesse deciso di morire. L’opinione diffusa è che i soldati israeliani oggi sparano per uccidere.

Una terza persona l’ha vista e gli ha fatto ricordare Maram Hassouna, che il primo dicembre si presentò allo stesso checkpoint con un coltello e fu uccisa dai soldati. Questa volta i soldati gli hanno permesso di avvicinarsi a piedi e di parlare con la donna.

“I soldati ti spareranno, vieni con me,” le ha detto la terza persona. “Allahu Akhbar,” ha risposto lei, ed ha estratto dalla borsa un lungo coltello, puntando la lama contro di lui in modo minaccioso. Si è spaventato ed è corso via.

Il primo automobilista, quello con le bombole del gas, è tornato indietro. Ha detto che, quando si è fermato davanti al checkpoint, ha notato la donna che usciva dai blocchi di cemento e stava in piedi di fronte a due soldati.

Stavano a due o tre metri da lei, forse un po’ di più. Lei ha alzato le braccia, ha riferito al ricercatore di B’Tselem Abed al-Karim Saadi, che ha rintracciato anche gli altri testimoni ed ha parlato con loro. E allora sono stati esplosi i colpi.

Le parole “voleva morire” non sono state dette chiaramente a Qaffin, il villaggio da dove proveniva la venticinquenne Ansar Hirsha, la donna che i soldati hanno ucciso. La sua famiglia e l’amministrazione locale erano preoccupati in merito a quando le autorità israeliane avrebbero restituito il corpo per poterlo seppellire. Poiché fino a sabato [11 giugno, ndt.] il suo cadavere non era ancora stato consegnato, non si sa ancora quante pallottole l’hanno colpita e dove.

Un figlio e una figlia  

L’Ufficio del portavoce dell’esercito israeliano non ha risposto alla domanda di Haaretz, che è anche la domanda posta dalla famiglia: perché non era possibile arrestare Hirsha o al limite soltanto ferirla? Dopotutto, era già rimasta alcuni minuti al checkpoint e la sua presenza là non aveva preso di sorpresa i soldati, che l’hanno vista dalla torretta da cui sono poi scesi.

Il portavoce dell’esercito non ha neanche risposto su come tre o quattro soldati non siano stati in grado di aver ragione di una donna senza doverla ammazzare. Il giorno dopo l’uccisione, il sito web Sikha Mekomit (della rivista +972) ha pubblicato quattro fotografie tratte dal filmato della telecamera di sicurezza, che mostrano che i soldati si tenevano ad una distanza da Hirsha tale da non poter essere feriti.

Un’altra domanda rimasta senza risposta è se l’esercito intenda pubblicare il filmato come prova della sua versione dei fatti, secondo cui i soldati erano in pericolo.

Il portavoce dell’esercito ha solamente detto che “in base all’esame preliminare eseguito giovedì scorso, 2 giugno 2016, le forze dell’esercito israeliano al checkpoint di Einav hanno identificato una persona sospetta che si avvicinava al checkpoint ed hanno iniziato la procedura prevista per l’arresto di un sospetto. La terrorista era armata di un coltello ed ha cercato di accoltellare i soldati. Per impedire la minaccia questi hanno risposto con colpi di arma da fuoco, dai quali la terrorista è stata uccisa.”

Ansar Hirsha lascia il marito Shadi e due bambini. Nei primi due giorni dopo la sua morte, Yaman, di quattro anni, ha continuato a chiedere dove fosse sua mamma e non voleva credere che lei fosse a Tul Karm, come gli hanno detto gli adulti.

Quando la casa ed il cortile del nonno si sono riempiti di visitatori, lui ha chiesto con rabbia chi fossero e che cosa ci facessero lì. Poi ha detto: “La mamma è morta, vero?”

“Capisce quello che è successo meglio di un ragazzo di vent’anni”, dice il nonno, Mohammed Hirsha. Mohammed e suo figlio Shadi hanno cercato invano di calmare il bambino, con gelato, pizza, una macchina giocattolo.

La sua sorellina Talia di due anni ancora non capisce. Quando hanno appeso dei poster in memoria di sua mamma nella casa e sui muri del villaggio, Talia è corsa verso il ritratto sul poster chiamando “Mamma, mamma” ed ha cercato di abbracciare il suo viso con le mani.

Ansar Hirsha non ha lasciato alcuna lettera o post su Facebook, ha detto Shadi Hirsha, di 28 anni, che lavora nel settore edilizio in Israele. Sia a lui che a suo padre è stato ora vietato di lasciare la Cisgiordania per andare a lavorare. Suo padre ha lavorato in Israele per decenni ed ora il suo permesso è stato revocato, come i permessi di una dozzina di altri parenti.

Shadi ha detto che Ansar ha cominciato a coprirsi il volto circa sette mesi fa. Gli ha detto che era la sua volontà; lui non sa perché. Nel poster, il suo volto è scoperto. La fotografia risale ad un anno e mezzo fa, alla cerimonia di laurea dell’Università Aperta di Al-Quds (Gerusalemme, ndt.), dove studiava amministrazione aziendale.

Nel poster, che il movimento giovanile di Qaffin si è affrettato a stampare, lei viene definita una shahida, una martire. Dei versetti del Corano ed una poesia proclamano che la morte di un martire è fonte di orgoglio. Ma nei discorsi del villaggio nessuno ipotizza che lei sia andata verso il checkpoint in quanto membro della lotta contro l’occupazione. E’ l’unica persona del villaggio ad essere stata uccisa durante l’ultima ondata di violenza.

Secondo l’associazione per i diritti B’Tselem il numero dei palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme che sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane (e dai civili) da settembre è di 171. Alcuni hanno compiuto attacchi terroristici letali, alcuni hanno provocato feriti, altri hanno minacciato persone o erano sospettati di prepararsi ad attaccare un israeliano.

Parole d’ordine

Hirsha è una delle 16 donne uccise, la maggior parte ai checkpoint. La prima è stata Hadeel al-Hashlamoun, che come Hirsha aveva il volto coperto ed era vestita di nero. E’ arrivata ad un checkpoint di Hebron con un coltello, e l’inchiesta dell’esercito israeliano ha rivelato che i soldati avrebbero semplicemente potuto arrestarla.

Una giovane donna, Samah Abdallah, è stata uccisa a fucilate dai soldati dell’esercito mentre si trovava nell’auto di suo padre. Neppure l’esercito sostiene che abbia cercato di attaccare i soldati. Riguardo ad un’altra madre, Mahdia Hammad, è stato sostenuto che aveva cercato di investire dei soldati. Un’inchiesta di B’Tselem solleva dubbi su questa tesi.

Riguardo alle donne che hanno cercato di accoltellare israeliani o che brandivano coltelli, c’è un forte divario tra ciò che la gente pensa e dice in privato ed il modo in cui i media e le autorità palestinesi presentano il fenomeno. Fino alla morte di Hadeel al-Hashlamoun l’opinione comune era che le donne che si recavano ai checkpoint e minacciavano i soldati con un coltello volessero essere arrestate – ed in tal modo fuggire dai problemi che avevano in casa: diverse forme di violenza, una lite con il padre o il fratello, una depressione non curata.

Le parole d’ordine erano “motivazioni sociali”, contrapposte a “ragioni nazionaliste”. A livello ufficiale e pubblico, attraverso l’arresto, il processo e il rilascio, le donne erano dipinte come persone che lottavano contro l’occupazione.

Negli scorsi anni, a causa del numero crescente di incidenti in cui i soldati israeliani hanno ucciso i palestinesi ai checkpoint, il “ desiderio di essere arrestate per motivi sociali” è stato sostituito dalla “volontà di suicidarsi”.

In una società tradizionale e religiosa che non vede di buon occhio il suicidio, è possibile che la morte per mano di un soldato appaia come una valida via d’uscita. Se la morte è una via d’uscita, significa che le donne non sanno come e a chi chiedere aiuto. La discussione sul pericolo di questo fenomeno in crescita esiste – soprattutto tra le attiviste femministe ed in diversi gruppi della società civile – ma non pubblicamente.

Alla domanda sul perché, le attiviste femministe hanno dato ad Haaretz diverse risposte. Soprattutto all’inizio dell’attuale rivolta individuale, le donne erano arrabbiate per il fatto che la gente sospettava che una giovane donna che si univa alla sollevazione e cercava di aggredire un soldato fosse spinta da motivi non “nazionalisti”. Vedevano questo come un ulteriore elemento di denigrazione delle donne.

Inoltre, come ha detto una militante di una storica organizzazione femminista, “come tutta la popolazione, noi rifiutiamo le pretese israeliane che ogni palestinese, uomo o donna, ucciso ad un checkpoint intendesse veramente aggredire un soldato o un civile israeliano. In ogni caso, siamo convinte che non ci fosse bisogno di uccidere. I soldati adesso ci terrorizzano più di prima, sono più violenti che mai.”

I palestinesi temono che la discussione sulle motivazioni personali possa contribuire ad esonerare Israele dalla responsabilità delle uccisioni. Ma le donne attiviste di varie organizzazioni ora vogliono fare distinzione tra le due cose e concentrare l’attenzione sul loro ruolo sociale, ma lontano dai riflettori dei media.

“Non sono solo donne ad andare ai checkpoint in modo sospetto e per disperazione, ma anche giovani uomini.”, ha detto un’attivista.

“E indipendentemente dal fatto che la disperazione dipenda da motivi personali, come è possibile distinguerla dalla generale disperazione della giovane generazione, che proviene direttamente dalla dominazione israeliana, che non consente di guadagnarsi da vivere e di produrre un cambiamento, dall’umiliazione quotidiana, dalla paura costante?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Duecento ex ufficiali della sicurezza presentano un piano per porre fine alla situazione di stallo

Associated Press, Ynet

28/05/2016

Generali dell’IDF e loro pari grado di Mossad, Shin Bet [rispettivamente servizi segreti e servizio di sicurezza interna di Israele. Ndtr] e polizia chiedono il congelamento della costruzione nelle colonie, l’accettazione dell’iniziativa di pace araba [proposta di un accordo di pace con Israele formulata dall’Arabia Saudita ed accolta dalla Lega Araba nel 2002. Ndtr.] e il riconoscimento che Gerusalemme est dovrebbe fare parte del futuro Stato palestinese; gli ex ufficiali della sicurezza invocano anche il completamento della barriera di sicurezza [o Muro di separazione. Ndtr.].

Venerdì [27 maggio] un gruppo di oltre 200 militari ed ufficiali dell’intelligence hanno criticato il governo per la sua inazione nella soluzione del conflitto israelo-palestinese ed hanno presentato un piano dettagliato che secondo loro potrebbe porre fine alla situazione di stallo. La pubblicazione del rapporto segue di poco la nomina del leader del partito Yisrael Beytenu [partito ultranazionalista. Ndtr], Avigdor Lieberman, a ministro della Difesa.

Con i colloqui di pace completamente bloccati, venerdì il piano dei “Comandanti per la Sicurezza di Israele” ha indicato le “condizioni di garanzia” per negoziare con i palestinesi. Chiede un complesso di iniziative politiche e per la sicurezza insieme alla contestuale concessione di miglioramenti economici per i palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

 Auspica un congelamento della costruzione di colonie, l’accettazione in linea di massima dell’ “Iniziativa di Pace Araba” e il riconoscimento che Gerusalemme est debba essere parte di un futuro Stato palestinese “quando ciò sia stabilito come parte di un futuro accordo.”

Il leader del gruppo, Amnon Reshef, un ex-generale dell’IDF, ha detto che il piano “smentisce i venditori di paura” che sostengono che attualmente non ci sia una controparte palestinese per la pace o che le condizioni non sono adeguate per i negoziati. Ha affermato che questo argomento, comune in Israele dopo anni di conflitto e di fallimenti dei negoziati, “non dovrebbe essere una scusa per la passività e l’inazione.”

Reshef ha messo in guardia:”L’attuale status quo è un’illusione” che danneggia una soluzione dei due Stati del conflitto.

Il piano chiede anche alle autorità di completare la costruzione del Muro di sicurezza, in modo tale da non impedire la soluzione dei due Stati. In particolare, invita le autorità a completarne la costruzione attorno a Gush Etzion, Ma’ale Adumim [due colonie nei pressi di Gerusalemme, in Cisgiordania. Ndtr.]e nel sud della Cisgiordania.

Reshef ha detto che il suo gruppo intende garantire le condizioni per futuri colloqui di pace con i palestinesi ottimizzando nel frattempo la sicurezza nazionale di Israele e le relazioni regionali e internazionali. ” Sappiamo per esperienza che non puoi sfidare il terrore solo con mezzi militari, devi migliorare la qualità della vita dei palestinesi,” ha affermato.

Il gruppo di veterani militari ha detto di sperare che il piano sia preso in considerazione dai decisori politici e dall’opinione pubblica in Israele e negli USA, dove la prossima settimana verrà lanciata una campagna con l’ ong “Israel Policy Forum” [organizzazione statunitense di ricerca, studio e formazione impegnata per la realizzazione della soluzione dei due Stati. Ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Centinaia di accademici chiedono il boicottaggio della conferenza sui genocidi in Israele

23 maggio,2016

In una lettera alla Rete Internazionale degli Studiosi dei Genocidi (International Network of Genocide Scholars – INoGS), 270 accademici di 19 Paesi hanno chiesto la cancellazione della quinta “Conferenza Globale sul Genocidio”, prevista dal 26 al 29 giugno all’Università Ebraica di Gerusalemme.

La lettera, inviata agli organizzatori della conferenza il 3 maggio, punta il dito contro l’ipocrisia di tenere la conferenza in Israele nel momento in cui le azioni israeliane sono “sempre più viste alla luce della pulizia etnica e del genocidio legato al colonialismo di insediamento.” I firmatari chiedono agli studiosi ed ai professionisti di boicottare la conferenza se non dovesse essere annullata.

John Dugard, ex relatore ONU per i Diritti Umani nei TPO [Territori Palestinesi Occupati] e uno dei firmatari della lettera, ha commentato: “Ci sono serie accuse che Israele abbia commesso crimini contro l’umanità nel suo attacco del 2014 contro Gaza. In queste circostanze è assolutamente sbagliato tenere una conferenza sui genocidi in Israele.”

Citando il trattamento riservato da Israele ai palestinesi, la lettera esprime stupore per il fatto che “l’INoGS abbia programmato di tenere la sua conferenza globale del 2016 nel campus sul monte Scopus dell’Università Ebraica, costruita in parte sulla terra palestinese rubata a Gerusalemme est occupata.” Il sito web della conferenza dell’INoGS reclamizza Gerusalemme come parte di Israele, sfidando il consenso internazionale sulla questione e ignorando la continua e sistematica campagna israeliana di espulsione dei palestinesi dalla città.

Secondo il professor John Docker, che ha ampiamente scritto nel campo degli studi su genocidi e massacri: “Sembra ormai chiaro che lo studio sui genocidi stia ora attivamente cercando opportunità per essere complice delle violazioni israeliane delle leggi internazionali, non ultima la Quarta Convenzione di Ginevra.”

L’ INoGS non ha risposto alla lettera aperta ed ha ignorato un precedente appello della Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACB)I [Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel].

Il professor Haidar Eid, membro del PACBI, ha affermato: “Sono un docente universitario che vive sotto assedio a Gaza. Ho assistito a tre massacri compiuti da Israele, ho quasi perso la vita e ho visto molti compagni, colleghi, familiari e studenti morire durante questi attacchi. Ho letto con angoscia i nomi di 44 dei nostri studenti e colleghi che hanno perso la vita e di 66 famiglie spazzate via dalle armi israeliane. L’ INoGS si sta prestando il proprio nome ai perpetratori dei questi crimini con una scelta che sarebbe come tenere una conferenza sul razzismo nel Sud Africa dell’apartheid.”

La conferenza é sponsorizzata da cinque istituzioni accademiche israeliane, compresa l’Università Ebraica, che è stata attivamente complice della pluridecennale oppressione dei palestinesi da parte di Israele. Migliaia di accademici nel Regno Unito, in Irlanda, in Italia, in Sud Africa, negli USA e in Brasile hanno firmato impegni a livello nazionale per boicottare le istituzioni accademiche israeliane. Gli appelli sono parte del crescente movimento per rendere le università israeliane responsabili del loro ruolo nella sistematica violenza di Stato israeliana contro il popolo palestinese.

L’appello rimane aperto per le adesioni al seguente link.

(Traduzione di Amedeo Rossi)

fonte PACBI

 




Israele sta ripristinando la politica di confisca di ampi territori

15 marzo, 2016

Maannews

Betlemme(Ma’an). Martedì un rapporto di Peace Now [associazione israeliana che monitorizza lo sviluppo delle colonie ndt] ha affermato che Israele ha ripristinato la politica di confisca di vasti appezzamenti di terra palestinese per [consentire] l’espansione delle colonie con una frequenza mai vista dagli anni ’80, prima degli accordi di Oslo.

L’osservatorio delle colonie israeliane ha individuato principalmente una vasta area di territorio palestinese a sud di Gerico che è stata dichiarata la scorsa settimana dall’amministrazione civile di Israele “terra statale” in uno dei più grossi furti di terra degli ultimi anni da parte degli israeliani.

L’associazione ha verificato che il 10 marzo sono stati incamerati come proprietà del governo israeliano 2.342 dunam [234.2 ha, ndt] di terra dell’area meridionale della Cisgiordania occupata.

Secondo l’osservatorio l’ampiezza [del furto] ha di gran lunga superato i 1.500 dunam [150 ha, ndt] inizialmente approvati a gennaio per essere espropriati da parte del ministero della difesa.

Ciò apre la strada alla costruzione di 350 unità abitative nella colonia illegale di Almog e, sebbene appartenga al territorio palestinese occupato, destinerà ampie porzioni di territorio al commercio di Israele e al settore del turismo.

Definendo la recente dichiarazione di terra dello Stato come “una confisca di fatto”della terra palestinese, l’associazione ha notato che un certo numero di siti turistici israeliani, negozi di souvenir e una stazione di servizio operano da lungo tempo nel territorio.

L’associazione afferma che “invece di provare a calmare la situazione, il governo getta benzina sul fuoco mandando un chiaro messaggio ai palestinesi, ed anche agli israeliani, che non ha la minima intenzione di lavorare per la pace e per i due Stati.”

Il primo ministro Netanyahu ancora una volta mostra che la pressione dei coloni è più importante per lui che il deteriorarsi della situazione della sicurezza”.

L’associazione afferma che Israele non aveva confiscato un così ampio appezzamento di terra per espandere le colonie fin dal periodo precedente agli accordi di Oslo, negli anni ’80, indicando con le recenti mosse un chiaro cambiamento di politica.

La crescita delle colonie in quel lontano periodo ha giocato un ruolo importante nel provocare le tensioni che hanno poi portato agli accordi di Oslo del 1993.

Peace Now afferma che la recente presa di possesso segue quella di circa 5.000 dunam [50 ha, ndt] di terra palestinese nel distretto di Betlemme, dichiarata terra dello Stato nell’aprile e nell’agosto del 2014.

L’area a sud di Gerico, ora dichiarata territorio dello Stato, si trova sul lato opposto della fine del corridoio E1, una striscia di territorio che da Gerusalemme attraversa la parte centrale della Cisgiordania occupata.

I palestinesi sono stati lentamente espulsi da E1con l’espansione delle colonie nel cuore della Cisgiordania, e i palestinesi pensano che una totale acquisizione del corridoio spaccherebbe in due la Cisgiordania occupata, rendendo impossibile [la realizzazione ] di uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Martedì il segretario generale dell’OLP Saeb Erekat ha condannato la confisca della terra [vicino a] Gerico come una continuazione “del progetto coloniale israeliano mantenendo la sua aggressiva occupazione e annettendosi altre terre palestinesi all’interno della Cisgiordania occupata”.

Egli ha detto che “ la consapevolezza dell’impunità garantita dalla comunità internazionale” è stata il maggiore ostacolo alla fine dell’occupazione israeliana e alla realizzazione “dei diritti fondamentali del popolo palestinese sistematicamente negati”.

Con una rara critica alle politiche israeliane, l’ambasciatore USA in Israele Dan Shapiro a gennaio ha condannato l’acquisizione israeliana di vaste porzioni di terre palestinesi come terra dello Stato.

Egli ha detto che la formazione dei due Stati “ sarebbe diventata sempre più difficile se Israele pianificasse la continua espansione dell’area delle colonie”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Gli insegnanti danno lezione di democrazia e di cooperazione ai palestinesi

L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta ancora di trattare con i rappresentanti eletti degli insegnanti mentre 700.000 studenti stanno perdendo le lezioni.

di Amira Hass

Haaretz

6 marzo , 2016

Hasib, di Ramallah, è stato insegnante per 27 anni. Il suo stipendio base è di 2.400 shekel [560.19 euro, ndt] che, insieme agli scatti di anzianità, arriva a 3.600 shekel al mese [837.35 euro, ndt].

Il suo fratello più giovane, che lavora nelle forze di sicurezza preventiva palestinesi, è pagato 4.700 shekel al mese [1.095 euro, ndt]. Diversamente da Hasib non possiede una laurea. Hasib, come altre migliaia di insegnanti, sfidando un divieto ufficiale, ha un secondo impiego, e lavora ogni pomeriggio in un ufficio. Altri insegnanti integrano il loro stipendio lavorando in panetterie, vendendo falafel o come tassisti.

La protesta dei docenti palestinesi la settimana scorsa ha raggiunto la quarta settimana [di lotta] e la domanda di una rappresentanza democratica sta diventando sempre più forte. L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta di trattare con i delegati eletti dagli insegnanti. Circa 700.000 studenti, dei quali 87.000 si stanno preparando agli esami, sono le principali vittime dello sciopero.

Alla fine della settimana scorsa, il comitato che rappresenta gli insegnanti in sciopero ha accettato una soluzione proposta da una commissione unitaria dei vari gruppi parlamentari e da varie ONG. Secondo questa proposta, gli insegnanti dovrebbero riprendere immediatamente il lavoro, mentre il governo entro tre mesi pagherà gli arretrati e aumenterà lo stipendio base del 70% nell’arco di tre anni.

Finora l’ANP ha insistito che gli insegnanti riprendano il lavoro prima di discutere le loro rivendicazioni. Tuttavia gli insegnanti sono stanchi delle promesse del governo, delle dilazioni, delle scuse e non si sono fatti scoraggiare neppure dalle numerose morti palestinesi provocate dalle forze israeliane, dagli arresti e dalle incursioni militari nei paesi e nei villaggi.

Gli insegnanti chiedono un aumento del loro stipendio base, degli scatti di anzianità e una [possibilità di] carriera come per gli altri lavoratori del pubblico impiego, oltre che uguale trattamento per le donne ed elezioni democratiche nel sindacato degli insegnanti.

Alcuni dicono che l’annuncio di alcuni mesi fa secondo cui il governo aveva promosso 180 alti funzionari civili e aumentato gli stipendi delle scorte dei palestinesi importanti di 400-600 shekel [100-120 euro circa, ndt]] ha scatenato la nuova protesta.

A giudicare dalla reazione dell’ANP fino ad ora, sembra che lo sciopero minacci le regole del suo sistema di governo. L’assemblea legislativa è paralizzata dal 2007 e non esiste nessun controllo dell’operato dell’ esecutivo. Fatah domina in tutte le istituzioni governative (compresi i sindacati); nonostante lo sgretolamento del suo movimento, un solo uomo prende le decisioni e stabilisce la linea politica: il presidente Mahmoud Abbas.

Lo sciopero ha prodotto fermenti di democratizzazione e di collaborazione tra i gruppi politici e della società civile di opposizione e ha rinnovato la critica dell’opinione pubblica sul bilancio [dell’ANP] e sulle eccessive dimensioni delle forze di sicurezza.

Il ministro dell’Educazione Sabri Saidam ha detto questa settimana che circa il 70% degli insegnanti è tornato al lavoro. I rappresentanti degli insegnanti negano che sia vero, affermando che la maggior parte degli insegnanti sta ancora scioperando. Un sondaggio reso noto giovedì scorso evidenzia che la maggioranza dell’opinione pubblica (l’84%) pensa che lo sciopero sia giustificato.

La scorsa settimana circolavano molte voci sulle intenzioni delle forze di sicurezza di stroncare la protesta e le manifestazioni degli insegnanti. Finora la polizia palestinese non è riuscita a prevenire le manifestazioni degli insegnanti nelle varie città della Cisgiordania, neppure [quelle] non autorizzate. La gente è troppo favorevole agli insegnanti per provarci ed impedire la protesta. Tuttavia, nel campo profughi di Balata vicino a Nablus è stato recapitato un minaccioso messaggio agli insegnanti. Un gruppo di uomini mascherati che si sono autodefiniti “Shuhada al-Aqsa” e “i falchi di Fatah” hanno tenuto una conferenza stampa martedì. Hanno parlato “ di un complotto ordito dai nemici del popolo palestinese” e hanno avvertito che, come in passato hanno colpito i traditori e i collaborazionisti, attaccheranno chiunque voglia danneggiare Abbas e l’ANP. Il collegamento tra i “traditori” e gli scioperanti era evidente.

Si pensa che dietro questo minaccioso comunicato ci siano i funzionari del sistema di sicurezza, molti dei quali s’identificano con il dispotismo di Abbas

Tuttavia molti esponenti di Fatah appoggiano gli scioperanti. Due, che hanno osato manifestare apertamente il loro appoggio, sono stati convocati per essere interrogati dalla polizia. Bassam Zakarneh, membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah, che è stato anche presidente del sindacato dei dipendenti pubblici fino al suo scioglimento, è entrato “in clandestinità” dopo che le forze di sicurezza lo hanno cercato a casa sua. E Najat Abu Baker, un’esponente di Fatah all’Assemblea legislativa, è stata convocata due settimane fa dall’ufficio del Procuratore Generale per essere interrogata dopo che in un’intervista televisiva ha affermato di avere delle prove di [episodi di] corruzione.

Ha sostenuto che un ministro ha preteso soldi dalle persone che attingevano l’acqua da un pozzo ristrutturato. “L’acqua è una risorsa nazionale” ha detto alla stampa. Il ministro ha detto che il pozzo è situato su un terreno privato della sua famiglia e l’ha accusata di diffamazione. Lei è convinta che la convocazione sia una violazione della sua immunità parlamentare. “Con la paralisi dell’assemblea legislativa non abbiamo altra scelta se non rivolgerci ai media” ha detto.

Invece di andare all’ufficio del Procuratore Generale, si è insediata nella sede dell’Assemblea Legislativa a Ramallah ed è rimasta [lì] per quasi due settimane. Una fiumana di persone è andata a solidarizzare con lei e tutte le fazioni, compresa Hamas, hanno manifestato nel cortile in sua difesa.

Abu Baker e altri sono convinti che l’ordinanza per interrogarla e arrestarla dipenda da due ragioni complementari, una il sostegno agli insegnanti l’altra il fatto di essere stata fotografata al Cairo alcuni mesi fa insieme a Mohammed Dahlan, l’ex leader di Fatah a Gaza caduto in disgrazia presso Abbas.

Lo scorso martedì, Hasib era tra le centinaia di insegnanti che protestavano vicino all’edificio dove Abu Baker è barricata. Ingenti forze anti sommossa sono state schierate su entrambi i lati di via Khalil al-Wazir, impedendo agli insegnanti di avvicinarsi al Ministero dell’Educazione o alla via degli uffici governativi. Così i dimostranti hanno marciato verso piazza Manara nel centro di Ramallah. Anziani e giovani, donne e uomini, religiosi e laici, esponenti di sinistra e conservatori, militanti di Fatah e di Hamas hanno marciato insieme rappresentando tutto lo spettro della società palestinese.

Gli studenti delle scuole superiori si sono uniti al corteo cantando il motivo di Piazza Tahrir, “Alzate la testa, siete insegnanti”.

Analoghe proteste, organizzate dal movimento Unitario degli Insegnanti, un comitato provvisorio di coordinamento degli insegnanti in sciopero, sono avvenute contemporaneamente in altre città della Cisgiordania.

Il comitato è stato eletto recentemente da tutti gli insegnanti dopo che la loro dirigenza ufficiale, affiliata all’OLP, cioé il sindacato generale degli insegnanti, si è dimessa in seguito alle critiche da parte degli insegnanti all’accordo firmato con il ministro dell’educazione.

Finora il governo si è rifiutato di incontrare i rappresentanti eletti, insistendo che il sindacato degli insegnanti è il loro legittimo rappresentante.

Sabato il ministro dell’educazione ha annunciato che gli aumenti di stipendio attesi da lungo tempo saranno gradualmente pagati agli insegnanti, ma solamente a quelli che ritorneranno al lavoro.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




L’ANP tratta il proprio popolo come se fosse il nemico

di Amira Hass,

Haaretz

La politica israeliana produce l’impoverimento e la disoccupazione in Cisgiordania, ma affrontarli ricade sulle spalle dell’ANP, cuscinetto tra il principale responsabile ed il popolo.

“Dove vivi? Non sai che cosa sta succedendo?”

“ Mi sto occupando delle demolizioni.”

“Lascia perdere le demolizioni; i checkpoints circondano tutte le città.”

“Vuoi dire che l’esercito pensa ancora che questo sia un deterrente?”

“ Non si tratta degli ebrei; stamattina tutti i servizi dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno installato dei checkpoints alle uscite dalle città e all’ingresso di Ramallah/El Bireh, per impedire agli insegnanti di partecipare ad una manifestazione contro il mancato rispetto degli accordi salariali firmati con loro nel 2013. Dove siamo arrivati? Dove siamo arrivati?”

Ieri i servizi di sicurezza dell’ANP hanno installato cordoni di posti di blocco nelle enclaves dell’area A, dove Israele consente alla polizia palestinese di portare armi. Hanno fatto scendere gli insegnanti dagli autobus e li hanno minacciati di confiscare le loro carte di identità. Gli autobus affittati per il trasporto degli insegnanti sono stati fatti tornare indietro. Ai tassisti è stato detto che avrebbero perso le loro licenze se avessero trasportato i dimostranti.

Chi è riuscito a raggiungere l’enclave di Ramallah e El Bireh è incappato in ulteriori checkpoints ed è rimasto bloccato in lunghe file di auto che non si muovevano. Nella stessa Ramallah il personale di sicurezza ha bloccato le vie tra il palazzo del Consiglio Legislativo Palestinese e l’ufficio del Primo Ministro.

Alle 11 di ieri mattina circa 1000 insegnanti si erano già radunati nella piazza Mahmoud Darwish, di fronte all’ufficio del Primo Ministro. Altre centinaia stavano arrivando a piedi dalle strade vicine in un flusso senza fine. Lentamente la piazza si è riempita.

“Noi, che riusciamo a superare i checkpoints israeliani, non possiamo superare quelli dell’ANP?” hanno detto gli insegnanti che arrivavano dalla zona di Hebron. “Non li abbiamo visti mettere dei checkpoints per impedire all’occupante (l’esercito israeliano) di invadere i nostri villaggi e le nostre case,” ha detto un ascoltatore irato ad una stazione radio locale.

Le proteste e gli scioperi parziali sono ricominciati circa due settimane fa. Fin dalla metà degli anni ’90 gli insegnanti del settore pubblico hanno cercato di spiegare all’ANP che i loro salari e sussidi umilianti offendono gli studenti ed il futuro dell’intera società palestinese. Martedì scorso circa 20.000 persone hanno preso parte ad una manifestazione di insegnanti a Ramallah. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno arrestato circa 20 insegnanti e due dirigenti e li hanno rilasciati dopo due giorni. L’accusa dell’ANP che la manifestazione fosse organizzata da Hamas è stata accolta con sdegno dagli insegnanti.

Giovedì è stato raggiunto un accordo con i rappresentanti dei sindacati degli insegnanti, che è affiliato all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt.) e dipende da Fatah, il partito principale dell’ANP [e di Abu Mazen,ndt]. Ma gli insegnanti hanno respinto l’accordo, che non era retroattivo. Sabato e domenica gli altoparlanti della moschea hanno diffuso ordini di rientrare a scuola, ma lo sciopero è continuato.

La protesta degli insegnanti ha portato in piazza più gente di qualunque protesta contro l’occupazione israeliana negli ultimi cinque mesi, da quando è iniziata la sollevazione dei singoli individui [la cosiddetta “Intifada dei coltelli”, ndt]. Nella situazione permanentemente provvisoria instaurata dagli Accordi di Oslo, Israele continua a determinare le condizioni di non sviluppo nel territorio palestinese, attraverso il controllo dei confini, della vasta area della Cisgiordania nota come Area C e della libertà di movimento dei palestinesi. Ma la responsabilità di affrontare l’impoverimento e la mancanza di lavoro ricade sulle spalle dell’ANP, il cuscinetto tra il principale colpevole ed il popolo.

I manifestanti lo sanno bene, ma conoscono anche l’iniqua distribuzione del reddito nazionale, indipendentemente da quanto ciò sia dovuto alle restrizioni israeliane. Vedono le eccessive risorse destinate ai servizi di sicurezza, gli sprechi e la corruzione, il clientelismo e gli esorbitanti stipendi dei principali dirigenti. Non si aspettano niente dall’occupante. Ma certo hanno qualcosa da chiedere al subappaltante che si autodefinisce governo, autorità nazionale e movimento di liberazione.

“L’ANP è impazzita,” ha detto al telefono un insegnante di Nablus che non è riuscito a superare i checkpoints. “Lei ed i suoi servizi di sicurezza si comportano come se il popolo fosse il nemico.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un palestinese in sciopero della fame sta morendo in un ospedale israeliano

di Amira Hass – 17 febbraio 2016

Il detenuto palestinese Mohammad al-Qiq sta morendo nell’ospedale Haemek di Afula. Qiq, la cui detenzione amministrativa è stata sospesa la settimana scorsa quando le sue condizioni sono peggiorate, è cosciente ma non comunica.

Ha perso l’udito e la capacità di parlare. Sabato il suo sciopero della fame è arrivato all’ottantunesimo giorno.[oggi siamo al89° giorno ndr] Nel villaggio di Dura, nella West Bank, la sua famiglia attende notizie, compresa sua moglie Fayhaa e i loro due figli piccoli, Islam e Lur. Non lo vedono dal 20 novembre.

Nel frattempo gli anonimi funzionari della sicurezza dello Shin Bet che hanno raccomandato che Qiq fosse arrestato senza processo né prove continuano a vivere normalmente nelle loro case e uffici. Loro e i politici non faranno una piega di fronte alla foto d’ospedale che ricordano un “muselmann” (detenuto di campo di concentramento che sta lentamente morendo). Per quanto li riguarda Qiq può morire.

La vita a casa e al lavoro prosegue anche come al solito per i giudici Elyakim Rubinstein (vicepresidente della Corte Suprema), Zvi Zylbertal e Daphne Barak-Erez, i giudici della Corte Suprema che hanno approvato la sua detenzione senza processo, senza accuse né diritto alla difesa.

Hanno deciso la sospensione dell’ordine di detenzione il 4 febbraio, ma solo dopo il deterioramento della sua salute. Non è necessario tenerlo ammanettato al letto, hanno affermato, sentenziando contro lo stato. La sua famiglia può fargli visita, hanno decretato magnanimamente. Tuttavia egli resterà nell’unità di cura intensiva dell’ospedale Afula. Non sarà rilasciato né accusato, restando invece un detenuto sospeso. Una nuova invenzione legale.

Questo è quando hanno scritto nella loro contorta sentenza: “Dopo esserci consultati siamo arrivati alla conclusione che a causa delle condizioni mediche del ricorrente, come risultanti dal rapporto dettagliato e aggiornato, e come esseri umani gli auguriamo una rapida guarigione, che egli ha causato a sé stesso, compresa l’incapacità di comunicare e i gravi danni neurologici, un rischio che obbliga ora all’imposizione di un ordine di detenzione inteso a prevenire piuttosto che a punire. Abbiamo perciò deciso di sospendere l’ordine di detenzione amministrativa … in modo tale che quando le sue condizioni si stabilizzeranno ed egli chiederà di lasciare l’ospedale, potrà rivolgersi alle autorità e saranno rispettati i suoi diritti di appellarsi. Questa è una sospensione, con l’interpretazione implicita, e non un’espressione del nostro parere.”

Due attiviste sociali israeliane, Anat Lev e Anat Rimon-Or, sono arrivate giovedì di fronte alla residenza del presidente a Gerusalemme. Hanno tentato di incontrare il presidente Reuven Rivlin affinché egli potesse intervenire per prevenire la morte per fame di un essere umano. Quando il presidente non si è presentato e si avvicinava lo Shabbat, hanno deciso rimanere lì e di iniziare uno sciopero della fame, sedute su materassi sul marciapiede. Dietro di loro c’è un edificio che un tempo ospitò il tribunale militare del Mandato Britannico “in cui avevano luogo processi di combattenti clandestini ebrei che non accettavano la giurisdizione del tribunale” (come scritto su una targa presso il cancello).

Rimon-Or, che insegna filosofia e pedagogia al Beit Berl College, ha detto giovedì: “Vedo una persona che sta dicendo ‘non sto al vostro gioco’. L’oppressione esiste a così tanti livelli e noi … se non possiamo fare qualcosa la nostra battaglia è persa; lasciateci almeno mostrare un po’ di responsabilità personale pronunciando un enfatico”. In precedenza era rimasta fuori dall’ospedale di Afula per due settimane, reggendo un cartello che sollecitava il rilascio di Qiq. “Ero là perché mi sentivo impotente di fronte a tutto ciò che sta accadendo”, ha spiegato.

Dopo che i giudici hanno sospeso l’ordine di detenzione persone hanno cominciato a visitare Qiq, compresi attivisti palestinesi ed ebrei (tutti cittadini israeliani). Lev è entrata nella sua stanza  e ha visto “un uomo che urlava di dolore, senza voce”. Martedì scorso una dozzina di attivisti di destra è venuta all’ospedale “per esprimere sgomento per le espressioni di interesse per un arabo”, come dice Rimon-Or, e per dimostrare contro gli altri attivisti. Due donne hanno lanciato un’incredibile raffica di invettive che Rimon-Or ha trovato difficile ripetere, tra cui “puttane”, “terroriste” e “sequestratrici ebree”. Un israelo-palestinese ha risposto a tono e le donne hanno sporto una denuncia nei suoi confronti. Ora è sospettato di molestie sessuali.

Mercoledì scorso numerosi attivisti hanno chiamato un’ambulanza per portare Qiq in un ospedale di Ramallah. Hanno presunto che là avrebbe accettato di mangiare. L’ospedale si è rapidamente riempito di personale della sicurezza che ha impedito il trasferimento. Giovedì l’Associazione dei Prigionieri Palestinesi ha presentato un’altra petizione presso l’Alta Corte, chiedendo sia ordinato il trasferimento di Qiq a Ramallah. “E’ la nostra ultima risorsa” ha detto l’avvocato Ashraf Abu Sneineh.

Alcuni degli attivisti hanno utilizzato i loro smartphone per mostrare a Qiq un video in cui la sua famiglia esprime il suo sostegno. Sua moglie Fayhaa ha dichiarato a Haaretz: “Ci opponiamo alla decisione dell’Alta Corte che ci consente di fargli visita. Non parteciperemo a questo gioco di ‘bacia i tuoi figli e resta un detenuto sospeso’. Lo vogliamo fuori. Non sappiamo su che cosa si basi lo stato se pensa di poter reggere alle conseguenze del suo sciopero. Noi, la famiglia, sappiamo di essere in grado di sopportare le conseguenze.” “Le sue condizioni sono molto gravi; i bambini sanno che il loro padre è detenuto dall’esercito e che sta male”, ha aggiunto. “Non capiscono bene il significato di uno sciopero della fame. Io dico loro che il loro padre è un eroe e cerco di dir loro che se, Dio non voglia, dovesse succedergli qualcosa egli sarà in paradiso”.

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/a-palestinian-hunger-striker-is-dying-in-an-israeli-hospital/

Originale: Haaretz

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0




Il divieto del boicottaggio contro Israele

di Oliver Wright

The Independent

 

Evitare i prodotti israeliani potrebbe diventare un reato penale per enti pubblici e organizzazioni studentesche.

I critici sostengono che si tratterebbe di un “gravissimo attacco alle libertà democratiche”

A consigli comunali, enti pubblici e persino ad alcune organizzazioni studentesche sarà vietato dalla

legge boicottare imprese “non etiche”, come parte di un controverso giro di vite che sta per essere annunciato dal governo.

In base a questo progetto tutte le istituzioni pubbliche perderanno la libertà di rifiutarsi di comprare beni e servizi da imprese coinvolte nel commercio di armi, combustibili fossili, tabacco o nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Qualunque ente pubblico continui ad attuare boicottaggi incorrerà in “pene severe”, hanno affermato alcuni ministri.

Autorevoli fonti del governo hanno detto che prenderanno seri provvedimenti contro il boicottaggio da parte dei consigli locali perché esso “ha compromesso le buone relazioni nella comunità, ha avvelenato e polarizzato il dibattito ed ha alimentato l’antisemitismo.”

Ma i critici affermano che questo passo rappresenta un “gravissimo attacco contro le libertà democratiche.”

Un portavoce del leader laburista Jeremy Corbyn ha affermato: “La decisione del governo di impedire a consigli comunali ed altri enti pubblici di dissociarsi dal commercio o dagli investimenti che non considerano etici è un attacco alla democrazia a livello locale.

“Il popolo ha il diritto di eleggere rappresentanti locali che siano in grado di prendere decisioni libere dal controllo politico del governo centrale. Ciò include la revoca di investimenti o appalti sulla base di principi etici e dei diritti umani.”

Il conflitto israelo-palestinese si intensifica

“Questo divieto da parte del governo avrebbe messo fuori legge le azioni delle amministrazioni locali contro l’apartheid in Sudafrica. I ministri parlano di decentramento, ma in pratica stanno imponendo le politiche del partito Conservatore in generale ai consigli comunali eletti localmente.”

Significativamente, ed evidenziando il principale obbiettivo del divieto, l’annuncio formale sarà fatto questa settimana dal ministro di Gabinetto Matt Hancock durante la sua visita in Israele.

Nel passato imprese israeliane, insieme ad altre ditte che hanno fatto investimenti nella Cisgiordania occupata, sono state tra quelle prese di mira dal boicottaggio non ufficiale.

Nel 2014 il consiglio comunale di Leicester ha approvato una politica di boicottaggio di beni prodotti nelle colonie israeliane in Cisgiordania, mentre il governo scozzese ha pubblicato una nota sui bandi di gara per i comuni scozzesi nella quale “sconsiglia vivamente il commercio e gli investimenti con le colonie illegali.”

In base alle nuove norme tutti gli enti appaltanti, compresi i consigli comunali, gli enti parastatali e le università che ricevono la maggior parte dei propri fondi dal governo perderanno la libertà di prendere decisioni etiche riguardo a chi comprare beni e servizi. L’unica eccezione saranno le sanzioni decise dal governo centrale in tutto il Regno Unito. Fonti governative affermano che il divieto si potrebbe anche applicare al boicottaggio da parte delle organizzazioni studentesche, ma hanno aggiunto che si tratta di una “zona grigia”.

Una portavoce dell’Unione Nazionale degli Studenti ha affermato che sono “preoccupati di qualunque pressione esterna che potrebbe impedire alle organizzazioni studentesche di prendere decisioni su ogni questione che riguardi gli studenti che rappresentano.”

L’onorevole Hancock ha detto che l’attuale situazione, in base alla quale le autorità locali hanno l’autonomia di prendere decisioni etiche di acquisto, sta “ignorando” la sicurezza nazionale della Gran Bretagna.

“Dobbiamo sfidare e prevenire questi boicottaggi comunali che creano divisioni” ha detto.

“Le nuove linee guida sugli appalti, che si accompagnano a cambiamenti che stiamo facendo su come i fondi pensione possono essere investiti, aiuteranno a prevenire danni e inziative di politica estera in sede locale controproducenti che danneggiano la nostra sicurezza nazionale.”

Ma il responsabile del programma delle relazioni economiche in Gran Bretagna di Amnesty International ha condannato l’iniziativa, avvertendo che potrebbe incoraggiare le violazioni dei diritti umani. I conservatori sono stati accusati di aver chiuso gli occhi in passato sulle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

“Ogni ente pubblico dovrebbe verificare l’impatto sociale ed ambientale di ogni impresa con cui sceglie di entrare in rapporti commerciali,” ha affermato.

“Dov’è l’incentivo per le imprese a garantire che non ci siano violazioni dei diritti umani come rapporti di lavoro di tipo schiavistico nella propria catena di fornitori, quando gli enti pubblici non possono chiedere loro conto rifiutando di contrattarli?”

“Non avrà solo un pessimo effetto sugli enti locali contrattare imprese-canaglia, ma lo avrà anche sulle attività economiche responsabili, che rischiano di rimanere escluse a favore di quelle che hanno prassi scorrette.”

Hugh Lanning, presidente della Campagna di Solidarietà con la Palestina, ha condannato quest’iniziativa in quanto si tratta di “un gravissimo attacco alle nostre libertà democratiche e all’indipendenza degli enti pubblici dalle ingerenze del governo.” “Come se non fosse abbastanza grave che il governo della Gran Bretagna non abbia preso nessuna iniziativa quando il governo israeliano ha bombardato ed ucciso migliaia di civili palestinesi e ha rubato le loro case e la loro terra, il governo ora sta cercando di imporre la sua inazione a tutte le altre amministrazioni pubbliche,” ha detto.

“Ciò mette in chiaro da che parte sta il governo riguardo alle leggi internazionali ed ai diritti umani. Nonostante ammetta che l’occupazione israeliana e la negazione dei diritti dei palestinesi siano sbagliate e illegali, quando si tratta di agire il governo protegge Israele dalle conseguenze delle sue azioni. Pare che per questo governo britannico, qualunque siano i crimini commessi da Israele contro le leggi internazionali, avere un alleato militare sia più importante dei diritti dei suoi stessi cittadini e delle istituzioni di questo Paese a sostenere i diritti umani.”

Il contesto del boicottaggio: sanzioni non ufficiali

Lo scorso aprile la compagnia multinazionale francese Veolia, che si occupa di servizi idrici e dello smaltimento dei rifiuti – che si occupa della raccolta della spazzatura per un gran numero di Comuni britannici – ha annunciato che avrebbe interrotto la propria operatività in Israele.

La decisione ha fatto seguito ad una campagna organizzata per convincerla a porre fine alle sue attività nelle colonie della Cisgiordania, durante la quale l’amministrazione comunale di Birmingham, controllata dai laburisti, è stata almeno la terza ad avvertire Veolia che non avrebbe potuto rinnovare il suo contratto di 35 milioni di sterline [più di 45 milioni di euro. Ndtr.] all’anno per lo smaltimento dei rifiuti quando sarebbe scaduto nel 2019, se l’impresa avesse continuato ad operare nella Cisgiordania occupata.

Nel novembre 2014 il consiglio comunale di Leicester ha approvato una politica di boicottaggio dei beni prodotti nelle colonie israeliane della Cisgiordania. Gruppi ebraici hanno recentemente avviato un ricorso giudiziario contro la decisione del consiglio comunale, sostenendo che “ciò rappresenta un ordine di espulsione dalla città per gli ebrei di Leicester.”

Nell’agosto 2014 il governo scozzese ha reso pubblico un avviso relativo agli appalti, rivolto alle amministrazioni comunali scozzesi, che “sconsiglia vivamente commercio e investimenti dalle colonie illegali,” pur ammettendo che le decisioni debbano essere prese caso per caso. Quattro consigli locali scozzesi hanno deciso di boicottare i prodotti israeliani: Clackmannanshire, Midlothian, Stirling and West Dunbartonshire.

Lo scorso dicembre due amministrazioni gallesi sono tornate sui propri passi riguardo alla decisione di boicottare i prodotti israeliani, dopo che un procedimento giudiziario è stato avviato da Jewish Human Rights Watch [organizzazione che si oppone all’antisemitismo e al BDS. Ndtr.]. Il consiglio della contea di Gwynedd e quello comunale di Swansea hanno affermato che le mozioni non erano vincolanti, e comunque ora sono state abrogate.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




I suoni dell’occupazione

I sussurri, le grida ed i colpi di fucile “sentiti ma non necessariamente visti” sono parti integranti dei lavori artistico-documentaristici creati da Rehab Nazzal, che è stata ferita a una gamba dai soldati dell’esercito israeliano in dicembre.

di Amira Hass,

Haaretz 

Il soldato dell’esercito israeliano che ha ferito Rehab Nazzal a Betlemme venerdì 11 dicembre 2015, sparandole ad una gamba, non sapeva chi fosse. Non conosceva il suo nome; che è nata a Qabatiyah, vicino a Jenin; che ha 55 anni e che è anche cittadina canadese; che insegna arte in una scuola a Betlemme; che una delle sue esposizioni ha fatto arrabbiare l’ambasciatore israeliano in Canada; o che sta scrivendo una tesi di dottorato interdisciplinare che non si può sintetizzare in una frase, ma si occupa tra altre cose degli armamenti contemporanei, compresi i droni e il fatto che prendano di mira le capacità sensoriali degli esseri umani.

Ai fini della sua ricerca, Nazzal ha assistito alle manifestazioni settimanali a Betlemme in via Al-Khalil, che dall’inizio di ottobre è bloccata dal minaccioso muro di separazione e dalla torre di controllo. Filma come vengono disperse le manifestazioni, accompagna i feriti in ospedale, incontra le famiglie dei partecipanti arrestati e parla con i residenti delle case colpite dai gas lacrimogeni e dal liquido puzzolente, spruzzato da un veicolo militare noto come “La Puzzola”.

Come sempre, Nazzal quel venerdì aveva in mano una cinepresa. Stava camminando in direzione opposta rispetto ai manifestanti, che fuggivano verso sud poiché “La Puzzola” si stava avvicinando, minacciando di spargere in ogni direzione il suo liquido disgustoso, che Israele ha sviluppato come arma non letale. L’odore rivoltante impregna il corpo per parecchi giorni, e nessun lavaggio lo toglie dai vestiti. Ma per amore della sua ricerca, Nazzal ha deciso di dirigersi a nord, avvicinarsi il più possibile al veicolo “La Puzzola” e filmarlo mentre era in azione.

Non ha sentito lo sparo; era concentrata sul veicolo. Ma improvvisamente ha avvertito il dolore, come una bruciatura di sigaretta sulla gamba. I suoi pantaloni e le scarpe si sono intrisi di sangue.

La sensazione di bruciore ed il rumore dello sparo ci distoglie brevemente dal descrivere la ferita, anche solo per rispettare la massima di Nazzal, che nessun evento deve essere isolato dal suo contesto.

Poiché l’artista ha vissuto per molti anni all’estero, i suoi ricordi della conquista israeliana del 1967 sono ancora freschi. Uno di quei ricordi riguarda una visita alla prigione di Jenin, quando suo fratello tredicenne fu imprigionato dopo essere stato sorpreso a tagliare le linee telefoniche di una postazione dell’esercito a Qabatiyah [cittadina nei pressi di Jenin- Ndtr.].

“Mio fratello cominciò a gridare che voleva tornare a casa con noi.”, ha ricordato durante un’intervista ad Haaretz il mese scorso. “E ci mostrò che lo avevano torturato: quelli che lo avevano interrogato gli avevano bruciato i piedi con una sigaretta accesa.”

Ricorda i segni della bruciatura. Era una ragazzina nel 1967, e ricorda i soldati che entravano nelle case a Qabatiyah, puntando luci abbaglianti negli occhi dei residenti nel mezzo della notte. “Cerchi di vedere qualcosa, e vedi i fucili e gli scarponi.”

Ricorda i soldati che svuotavano sacchi di cibo. Riso e legumi più tardi potevano essere sistemati, ma l’incubo di sua madre era che mischiassero il sale con lo zucchero.

Nazzal dice che i soldati picchiarono suo padre di fronte a lei e ai suoi fratelli. Negli anni ’30 lui si era unito ai combattenti di Sheikh Azz A-Din al-Qassam (che lottò contro la colonizzazione britannica ed ebraica). “Immagina che cosa significò vederlo umiliato davanti a te. Tornò dalla prigione e non disse una parola sulle torture,” dice.

Ricorda che I soldati usarono i megafoni per ordinare a tutti gli uomini ed i ragazzi che avevano fucili o coltelli di portarli nella scuola, e poi irruppero nelle case in cerca di armi.

Ricorda lunghi periodi di coprifuoco. Una volta, sbirciò fuori da una fessura e vide dei prigionieri con i ferri ai piedi che buttavano giù un muro. Era un unico ricordo, di prigionieri reclutati per demolire una casa, o erano due diversi ricordi che erano affiorati? Lei non lo sa.

Nazzal aveva uno zio che insegnava inglese e ricorda l’umiliazione che gli inflissero: i soldati, che non sapevano l’arabo, lo misero sulla parte anteriore di una jeep che pattugliava la città. Gli diedero ordini in inglese e lui dovette fare il traduttore.

Il potere del suono

A Nazzal è sempre piaciuto dipingere e disegnare, ma negli ultimi 10 anni si è maggiormente concentrata su altri sensi, soprattutto sull’ascolto. Nel 2006 ha scoperto il potere del suono come strumento di arte politica, quando per la prima volta ha portato i suoi tre figli dal Canada ad incontrare la sua famiglia a Qabatiyah. Aveva vissuto all’estero dal 1980, prima in Giordania e in Siria, poi in Canada.

“Il volo da Toronto ad Amman è durato 12 ore”, ha detto. “Poi ci sono volute altre 12 ore per raggiungere Qabatiyah: checkpoints, attese, perquisizioni. Come siamo arrivati, siamo crollati a letto ed abbiamo dormito a lungo.

“Improvvisamente, sono stata svegliata da una granata stordente. Giuro che ho pensato fosse un terremoto. Ho stretto la mano di mia madre e lei mi ha detto di non preoccuparmi. Era normale. Lei ci era già abituata.

“Poi sono cominciati gli spari, e la casa al buio si è riempita di mormorii in inglese e in arabo. Ho immediatamente afferrato la mia cinepresa. Mia madre ha urlato ‘Ti uccideranno!’. Ma ciò che ho registrato erano solo i suoni e le poche luci che si potevano vedere.

“Da 30 ore di video ho estratto quattro minuti di registrazione audio (lo spettatore sente il suono, ma vede solo uno schermo nero) per il lavoro ‘Una notte a casa’. Mi ha sorpresa il modo in cui la gente lo ha recepito, perché quei suoni richiamavano rumori di violenza in altri luoghi, come il Sudamerica e la Bulgaria, in altri tempi.”

Ha scoperto che un’immagine è passibile di turbare le persone, di riempire lo spettatore di stereotipi. “Se sentono il suono di una donna che piange, si identificano con lei. Se vedono la donna in lacrime che indossa un foulard, il pregiudizio prevarrà sull’empatia.”

Ma Nazzal non ha sentito lo sparo che l’ha ferita l’11 dicembre. Un’ambulanza palestinese che si trovava nei pressi l’ha raggiunta e mentre i paramedici le prestavano i primi soccorsi, i soldati hanno tirato dalla jeep gas lacrimogeni contro di loro. “Eravamo tutti soffocati dal gas”, ha detto. Poi lei ha perso conoscenza per il dolore.

“E’ un crimine di guerra tirare gas lacrimogeni a persone che stanno curando un ferito”, ha aggiunto.

La pallottola è entrata ed uscita dal suo corpo, e fortunatamente non ha spezzato delle ossa. Lentamente è guarita dall’infezione, il dolore è passato ed ha smesso di zoppicare.

“Io sono solo una delle 600 persone ferite da armi da fuoco da ottobre”, ha detto a metà gennaio (oggi il numero è almeno di 2000). “Solo in quel giorno, ci sono stati 16 feriti a Betlemme.”

Quando è stata colpita, la sua videocamera si è spostata dall’immagine della”Puzzola” e della strada vuota. Più tardi si è accorta che aveva filmato una jeep della polizia di frontiera e due cecchini che stavano dietro ad una colonna all’entrata dell’albergo di fronte al quale lei si trovava. L’asfalto intorno alla jeep era coperto di pietre.

Haaretz ha chiesto all’esercito israeliano se ci fossero ordini di sparare ai fotografi. L’Ufficio del portavoce dell’esercito ha risposto che quel giorno c’era una dimostrazione violenta vicino alla tomba di Rachele, durante la quale due ufficiali dell’esercito sono stati feriti e che “i soldati hanno risposto con metodi per disperdere la folla.” Ha aggiunto che sono stati feriti diversi palestinesi, e che la procura militare sta predisponendo un’ indagine sulla vicenda.

Nazzal aveva un altro fratello, che studiava ad Amman quando scoppiò la guerra nel 1967; Israele non gli ha mai permesso di tornare. Non si ricorda di lui, e non lo ha mai incontrato prima che gli ufficiali della sicurezza israeliana lo assassinassero in Grecia nel 1986.

Ha mostrato il funerale in un video intitolato “Mourning [Lutto]” alla sua esposizione ad Ottawa nel 2014. Un altro video mostrava i volti di altri palestinesi uccisi durante gli attacchi contro israeliani o in operazioni omicide. Si è rifiutata di commentare i rapporti che mettevano in relazione suo fratello ad attacchi che hanno ucciso dei civili, compresi dei bambini, come quello alla scuola di Maalot nel 1974 [nell’attacco, avvenuto in occasione del 26° anniversario della nascita di Israele vennero uccise, oltre agli aggressori, 26 persone, tra cui molti bambini di una scuola, e 66 vennero ferite. Ndtr.].

“Se c’è qualcuno che può parlare di perdere dei figli, quelli siamo noi”, ha replicato Nazzal. “Circa 800.000 persone scacciate nel 1948 hanno perso la loro patria. Io lavoravo in Giordania aiutando le famiglie sopravvissute. Ero sconvolta dal numero dei nostri morti: 50.000.

Se c’è qualcuno che può parlare di umiliazione e tortura, siamo noi.”, ha proseguito. “Andate ad Hebron, guardate i soldati che controllano le mani degli scolari per scoprire i segni (che hanno tirato pietre). Andate a vedere gli alberi che Israele sradica ogni giorno. Non è possibile separare un evento o una persona dal complessivo contesto di questa martoriata terra.”

Traduzione di Cristiana Cavagna