Sheikh Jarrah: Israele attacca di nuovo i palestinesi in una seconda notte di tensione

Huthifa Fayyad

13 febbraio 2022, MiddleEastEye

Polizia e coloni intensificano gli attacchi contro i residenti del quartiere di Gerusalemme Est, trasformandolo in “zona di guerra”

Come hanno riferito i residenti palestinesi la sera di domenica a Sheikh Jarrah è iniziata una seconda notte di violenti attacchi della polizia israeliana e dei coloni, che hanno trasformato il quartiere occupato di Gerusalemme Est in “zona di guerra”.

Secondo i media locali almeno 31 persone sono rimaste ferite, inclusi dei medici e un giornalista, poiché le forze israeliane hanno usato granate assordanti e proiettili d’acciaio rivestiti di gomma per disperdere la folla palestinese. Sei persone sono state portate in ospedale.

Sono stati impiegati anche spargitori d’acqua puzzolente e polizia a cavallo. Almeno 12 palestinesi sono stati arrestati.

Decine di dimostranti palestinesi si sono radunati in tarda serata dentro e intorno alla casa della famiglia Salem, che sta affrontando un’imminente espulsione, per schierarsi in solidarietà con la famiglia contro le incursioni dei coloni.

Al mattino un gruppo di coloni, guidato dal membro di estrema destra della Knesset Itamar Ben-Gvir, aveva eretto una tenda su un terreno adiacente alla casa dei Salem e vi aveva allestito la postazione di un ufficio parlamentare.

I coloni sono stati visti ballare e intonare canti razzisti e islamofobi per provocare la famiglia e a tratti aggredirla.

Durante la sera sono scoppiate ripetute colluttazioni tra le due folle presenti nella proprietà. All’esterno, le forze di sicurezza hanno negato l’ingresso agli attivisti e hanno chiuso ai palestinesi tutti i punti di accesso alla casa.

L’attivista Muna al-Kurd, residente a Sheikh Jarrah che rischia anche lei un’imminente espulsione, ha detto nei suoi aggiornamenti in diretta su Instagram che la scena nell’area sembrava una “zona di guerra”.

Ramzi Abbasi, un attivista di Gerusalemme che documenta gli attacchi israeliani in città, ha confermato una simile impressione.”È come essere in un accampamento militare “, ha detto Abbasi nei suoi aggiornamenti Instagram in diretta dalla zona. “Ricorda molto la situazione che ha preceduto la rivolta di Sheikh Jarrah l’anno scorso”.

Il quartiere è da maggio un punto molto critico, da quando Israele ha cercato di espellere dall’area famiglie palestinesi per far posto a coloni israeliani.

La cosa ha provocato proteste diffuse in tutta la Cisgiordania occupata e nelle 48 comunità palestinesi all’interno di Israele, nonché un’operazione militare su larga scala nella Striscia di Gaza assediata.

Espulsione incombente  

Nel quartiere le violenze di domenica notte sono seguite a una tesa mattinata poiché Ben-Gvir aveva annunciato il giorno prima che intendeva aprire il suo ufficio a Sheikh Jarrah, su un appezzamento di terreno appartenente alla famiglia Salem che a gennaio era stato confiscato da gruppi di coloni.

Ben-Gvir è a capo del partito Jewish Power, parte dell’alleanza politica Sionismo Religioso che chiede lo sfratto dei palestinesi dalle loro terre per stabilirvi la gestione di Israele secondo i testi della Torah.

Dopo l’annuncio di sabato, subito dopo la mezzanotte decine di coloni hanno fatto irruzione nel quartiere, lanciando pietre contro le case dei palestinesi e danneggiando le auto.

I coloni hanno quindi raggiunto la casa della famiglia Salem e hanno aggredito donne e bambini con spray al peperoncino, come hanno riferito i residenti all’agenzia Anadolu [agenzia di stampa turca di Stato con sede ad Ankara, ndtr.]

“Sono comparsi dal nulla e hanno spruzzato peperoncino a me e al mio vicino, Abu Mohammad. Mi bruciavano gli occhi e non riuscivo ad aprirli. Non riuscivo a respirare”, ha detto Fatima Salem.

La famiglia Salem ha combattuto per decenni nei tribunali contro le pretese dei coloni sulla loro casa.

Nel 1987 un tribunale israeliano ha ordinato a Fatima Salem di lasciare la sua casa con l’accusa di non poter provare la sua residenza lì prima della morte dei genitori. Salem dice che è nata in quella casa e che da allora ha vissuto lì.

Ora vive nella casa con suo figlio, sua figlia e le loro famiglie.

La decisione del 1987 nello stesso anno è stata congelata ma il caso è stato riattivato nel 2015. Nel dicembre 2021 la famiglia ha ricevuto un avviso di sfratto definitivo.

La scorsa settimana le autorità hanno informato i Salem che hanno tempo fino all’inizio di marzo per lasciare la casa.

Attualmente 37 famiglie palestinesi vivono a Sheikh Jarrah, sei delle quali rischiano un imminente sfratto. Dal 2020, i tribunali israeliani hanno ordinato lo sfratto di 13 famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il marchio di articoli sportivi PUMA è sollecitato a smettere di sponsorizzare il calcio nell’Israele dell’apartheid

Yvonne Ridley

11 febbraio 2022 – Middle East Monitor

Il principale produttore europeo di articoli sportivi, Adidas, ha posto fine al suo redditizio accordo [di sponsorizzazione] per le sue scarpe con il calciatore francese Kurt Zouma dopo che il giocatore della Premier League inglese è stato visto picchiare e prendere a sberle il suo gatto in un video pubblicato sulle reti sociali da suo fratello. Da allora il difensore del West Ham ha subito moltissime critiche per la sua crudeltà.

In effetti la società di calcio ha multato Zouma per una somma pari al compenso di due settimane – addirittura 250.000 sterline [quasi 300.000 euro] -, egli ha perso il suo contratto di sponsorizzazione a sei zeri con Adidas e una compagnia di assicurazioni ha sospeso la sua sponsorizzazione del West Ham. Questa vicenda continua a comparire sui media e pare che stia costando al giocatore e al suo club un sacco di soldi. Fortunatamente i due gatti di Zouma sono stati presi in carico dall’ente benefico per la protezione degli animali RSPCA, ma è ancora possibile che venga avviata un’indagine penale.

Data la lodevole risposta di Adidas al fatto che un animale innocente sia stato picchiato, mi chiedo cosa stia facendo l’impresa concorrente PUMA riguardo ai suoi rapporti con Israele. Le forze di sicurezza dello Stato che pratica l’apartheid – sia poliziotti che soldati – picchiano e prendono a calci sistematicamente uomini, donne e bambini palestinesi innocenti. E non si dimentichino le vite innocenti perse quando studenti vengono presi di mira e uccisi da cecchini e bombe israeliani. La brutalità dell’occupazione israeliana della Palestina viene messa a nudo alla vista di tutti noi sulle reti sociali.

Eppure PUMA continua a sponsorizzare l’Associazione Calcistica Israeliana. Decine di migliaia di persone in Gran Bretagna hanno già firmato una petizione a PUMA chiedendo che l’impresa ponga fine all’accordo di sponsorizzazione dell’IFA, che governa e appoggia squadre che giocano nelle illegali colonie israeliane costruite su terra palestinese occupata. Oltretutto i calciatori palestinesi vengono trattati in modo terribile dalle autorità occupanti israeliane.

Tuttavia ciò non basta per obbligare PUMA a cambiare la sua politica di sponsorizzazione. Purtroppo in Occidente la reazione dell’opinione pubblica nei confronti di minorenni palestinesi innocenti che vengono maltrattati ed uccisi non è altrettanto forte di quando si tratta della crudeltà nei confronti degli animali. Entrambe dovrebbero essere viste e condannate allo stesso modo e dovrebbe essere rapidamente fatta giustizia contro l’oppressore.

Forse ciò cambierà sabato, quando ci sarà una giornata internazionale di azione fuori dai negozi e distributori PUMA per spingere l’impresa a porre fine al suo appoggio all’apartheid israeliano. Ciò potrebbe spostare l’ago della bilancia.

Secondo un comunicato stampa della Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina] (PSC), una nota interna fatta filtrare rivela che PUMA ha ammesso che i suoi testimonial e i suoi soci commerciali stanno mettendo in discussione il suo appoggio all’apartheid israeliano. Un legale dell’impresa ha detto alla PSC che ciò sta rendendo la vita “impossibile” a PUMA.

Il suo contratto con la IFA termina in giugno, ma invece di attendere la sua fine “naturale”, PUMA dovrebbe tagliare i rapporti con l’apartheid israeliano ora e far sapere alla gente in Israele che la crudeltà e la brutalità dell’occupazione ne sono la ragione. Se Adidas può interrompere la sponsorizzazione di una stella del calcio a 48 ore da quando ha picchiato un gatto, allora PUMA può sicuramente tagliare ogni rapporto e interrompere la sua disgustosa sponsorizzazione dell’Israel Football Association senza ulteriori indugi. PUMA, è una rete a porta vuota. Non mancarla.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




A Nablus soldati israeliani aprono il fuoco contro un’auto uccidendo dei palestinesi

Al-Jazeera

8 febbraio 2022 – Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese condanna l’assassinio di tre palestinesi nella Cisgiordania occupata, definendolo un “crimine efferato”.

Il Ministero della Salute palestinese ha affermato che l’esercito israeliano ha ucciso tre palestinesi a Nablus, nella Cisgiordania occupata, suscitando la condanna dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Martedì il ministero ha affermato che “tre cittadini sono stati martirizzati nella città di Nablus in seguito ad una sparatoria mirata dell’esercito israeliano”. Secondo l’agenzia stampa palestinese Wafa [il ministero, ndtr.] ha identificato le vittime come Ashraf Mubaslat, Adham Mabrouka e Mohammad Dakhil.

Secondo un rapporto da Nablus di Rania Zabaneh di Al Jazeera Un testimone oculare con cui abbiamo parlato ha detto che l’esercito [israeliano] ha sparato contro l’auto su cui si trovavano i tre palestinesi. Ha affermato di aver continuato a sentire degli spari per più di un minuto”.

Quando siamo arrivati ​​sul posto l’auto, interamente crivellata di proiettili, stava per essere portata via. All’ospedale dove sono stati portati i corpi i medici hanno detto che hanno avuto difficoltà a riconoscere le vittime a causa delle ferite provocate dagli spari.

L’inviata di Al Jazeera ha affermato che “Il ministro della difesa israeliano ha elogiato l’esercito per l’operazione portata a termine”.

Dei testimoni hanno riferito all’agenzia Anadolu che l’incidente ha coinvolto un membro delle forze speciali israeliane che, a bordo di un veicolo civile, ha preso d’assalto il quartiere cittadino di al-Makhfieh e ha aperto il fuoco contro l’auto.

Il Ministero degli Affari Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto un’indagine internazionale sugli omicidi mentre il consiglio dell’ANP ha descritto il fatto come un “crimine efferato”.

Il ministero degli esteri ha ritenuto il governo israeliano e il primo ministro Neftali Bennett pienamente e direttamente responsabili di questo crimine”.

“Il silenzio della comunità internazionale nei confronti delle violazioni e dei crimini israeliani fornisce una copertura a questi atti criminali e incoraggia l’occupante israeliano a continuare la sua guerra aperta contro i palestinesi”, si legge in una nota.

Israele, da parte sua, ha affermato che i tre uomini erano “militanti” palestinesi responsabili di recenti attentati.

L’agenzia di sicurezza per gli affari interni Shin Bet ha detto che i tre erano a bordo di un veicolo e sono stati uccisi in uno scontro con le forze di sicurezza. Nessun israeliano è stato ucciso o ferito nella sparatoria, ha aggiunto.

Organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno condannato da tempo quella che descrivono come una politica caratterizzata dallo sparare per uccidere e da un uso eccessivo della forza.

B’Tselem, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato di aver registrato lo scorso anno in Cisgiordania 77 morti palestinesi per mano dell’esercito israeliano. Più della metà delle persone uccise non era implicata in alcun attacco, ha aggiunto.

Attacchi dei coloni

Alla fine dell’anno scorso i soldati israeliani hanno ucciso un palestinese durante un’incursione nel quartiere di Ras al-Ain a Nablus.

Nel dicembre 2021 militari israeliani hanno ucciso un palestinese nel villaggio di Beita, in Cisgiordania, durante una protesta contro gli insediamenti coloniali illegali. Le forze israeliane hanno ucciso un minore palestinese dopo un presunto speronamento d’auto ad un posto di blocco militare nel nord della Cisgiordania.

Nello stesso periodo un ebreo ultraortodosso sarebbe rimasto ferito da coltellate inferte da un palestinese fuori dalle mura della Città Vecchia di Gerusalemme.

Una settimana prima un membro di Hamas avrebbe aperto il fuoco nella Città Vecchia uccidendo un israeliano. Entrambi i sospetti sono stati uccisi dai soldati israeliani.

Nel frattempo, all’inizio di questo mese, Amnesty International ha affermato in un nuovo rapporto che Israele sta commettendo “il crimine di apartheid contro i palestinesi” e deve essere ritenuto responsabile per il trattamento degli stessi come “un gruppo razziale inferiore”.

I palestinesi sono stati anche colpiti da una recrudescenza dei violenti attacchi da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Israele occupò Gerusalemme Est e la Cisgiordania nella guerra mediorientale del 1967. I territori ora ospitano più di 700.000 coloni ebrei che vivono in 164 insediamenti e 116 avamposti, che i palestinesi individuano come parte del loro futuro Stato indipendente.

Sulla base del diritto internazionale tutte le colonie ebraiche nei territori occupati sono considerate illegali.

I palestinesi, insieme alla maggior parte della comunità internazionale, considerano le colonie uno dei principali ostacoli alla pace.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il discorso dell’ambasciatrice israeliana a Cambridge è stato interrotto quando gli studenti hanno inscenato un sit-in

Areeb Ullah

8 febbraio 2022 – Middle East Eye

In precedenza Tzipi Hotovely aveva descritto la Nakba come una “menzogna araba” e si era opposta alle rivendicazioni palestinesi sulla Cisgiordania

Impugnando le bandiere della Palestina e cantando “Palestina libera”più di 100 studenti dell’Università di Cambridge hanno manifestato contro l’ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, Tzipi Hotovely, della quale era previsto un discorso martedì alla Cambridge Union

Hotovely, che ha servito come ministro delle colonie sotto l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ha parlato alla Cambridge Union mentre all’esterno imperversavano le proteste contro l’ambasciatrice.

La “Union”, un club privato ​​per il quale i partecipanti devono pagare, ha ospitato l’evento nonostante le critiche di una serie di organizzazioni studentesche.

I manifestanti stazionavano fuori dall’edificio della “Union”, dove i partecipanti erano in coda per entrare. Gli organizzatori hanno vietato ai partecipanti di portare borse all’evento e hanno proibito loro di registrare il discorso.

Quando l’evento è iniziato, i manifestanti si sono spostati sul retro dell’edificio, dove era parcheggiato il convoglio dell’ambasciatrice, e hanno bloccato l’ingresso del parcheggio.

I manifestanti hanno portato tamburi e cartelli mentre gridavano slogan tramite un altoparlante come “Palestina libera” e “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Fonti all’interno della “Union” che hanno assistito al discorso hanno riportato a Middle East Eye che il discorso della Hotovely è stato interrotto a causa del rumore proveniente dalle proteste.

I manifestanti hanno quindi organizzato un sit-in e bloccato l’ingresso del parcheggio dove sostava il convoglio dell’ambasciatrice israeliana, mentre la polizia armata di taser cercava di sgomberare i manifestanti.

Opposizione

Gli organizzatori della protesta alla fine hanno ceduto e hanno interrotto il loro sit-in dopo che era stato loro riportato che la protesta era riuscita a interrompere il discorso dell’ambasciatrice.

Hotovely è stata successivamente nascosta da un ombrello e impacchettata nella sua macchina mentre i manifestanti sono rimasti fuori a cantare “vergognati” e “Palestina libera”.

Un portavoce della Cambridge University Palestine Society, che ha voluto rimanere anonimo, ha affermato che la protesta è stata organizzata in opposizione al “sistema” rappresentato da Hotovely.

“Hotovely rappresenta e sostiene un apparato statale che diverse organizzazioni hanno accusato di praticare l’apartheid e crimini contro l’umanità “, ha detto il portavoce a MEE.

Pensiamo che a chiunque rappresenti uno Stato impegnato in pratiche illegali e abusi dei diritti umani non dovrebbe essere dato uno spazio nella nostra città e università. Questa protesta non riguarda solo la condanna di Hotovely come singola persona e per ciò che ha detto, ma vuole rappresentare rifiuto delle pratiche in cui si impegna e rappresenta, come mobilitazioni violente dei coloni contro i palestinesi, le pratiche illegali e le violazioni dei diritti umani”.

‘Solidarietà ebraica’

Anche Chaya Kasif, una studentessa ebrea dell’Università di Cambridge, ha partecipato alla protesta pro-Palestina di martedì contro Hotovely.

Tenendo un cartello che diceva: “Solidarietà ebraica da Gadigal [in Australia] a Gaza”, Kasif ha descritto la sua presenza alla protesta come un’opportunità per mostrare sostegno ai palestinesi.

Il discorso di Hotovely arriva dopo che Amnesty International ha pubblicato un rapporto lungamente atteso che accusa Israele di praticare l’apartheid nei territori palestinesi e in Israele.

L’anno scorso, centinaia di studenti hanno protestato contro la presenza di Hotovely alla London School of Economics, dove ha tenuto una conferenza sul conflitto israelo-palestinese.

Hotovely ha fatto notizia a livello nazionale quando è stato pubblicato online il filmato di lei mentre veniva accompagnata di corsa alla sua macchina mentre gli attivisti studenteschi protestavano contro la sua presenza nel campus.

L’ambasciatrice ha accusato gli studenti di antisemitismo, ma gli studenti hanno risposto affermando che la loro protesta non era razzista.

Da quando è diventata ambasciatrice in UK Hotovely ha cercato la polemica.

Nel 2020, durante un evento ospitato dal consiglio dei rappresentanti degli ebrei britannici [Il Board of Deputies of British Jewish è la più grande organizzazione comunitaria ebraica nel Regno Unito, ndtr.], Hotovely ha affermato che la Nakba, l’espropriazione di massa e l’espulsione dei palestinesi dalle loro case durante la fondazione di Israele, è una “menzogna araba”

Si è anche opposta a qualsiasi pretesa palestinese sulla Cisgiordania, a Gaza o a Gerusalemme est, ha sostenuto l’espansione delle colonie israeliane e si è opposta ai matrimoni misti di ebrei e palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Una tiratina d’orecchi ai soldati che hanno ucciso un palestinese-americano: l’amministrazione Biden ‘non è soddisfatta’

Yumna Patel

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

L’amministrazione Biden ha richiesto una ” approfondita indagine penale e (l’assunzione della) piena responsabilità” dopo l’inchiesta dell’esercito israeliano sulla morte di Omar Asaad, palestinese con cittadinanza americana. 

La scorsa settimana l’esercito israeliano ha concluso la propria indagine sulla morte di Omar Asaad, un ottantenne con doppia cittadinanza palestinese-americano che è stato ucciso a gennaio nel corso di un violento raid israeliano contro la sua città natale nella Cisgiordania occupata. 

Il 12 febbraio Asaad ha avuto un infarto dopo esser stato trascinato fuori dalla sua auto nel cuore della notte da soldati israeliani che l’hanno poi legato, imbavagliato e lasciato per ore al freddo in un magazzino abbandonato. 

Nella sua indagine interna, arrivata dopo crescenti pressioni da parte di funzionari USA, l’esercito ha concluso che la morte di Asaad è stata un “evento serio e grave risultante da fallimento morale e decisioni errate da parte dei soldati.”

Nel riepilogo dell’inchiesta l’esercito afferma che Asaad è stato fermato nel “quadro” di “attività di controterrorismo” ad Jiljilya, sua città natale nella Cisgiordania settentrionale. 

Sostenendo che Asaad non avesse con sé un documento di identità e si “fosse rifiutato di cooperare con i controlli di sicurezza,” l’esercito dice che i soldati hanno “risposto” ammanettandolo e imbavagliandolo per “un breve lasso di tempo.” L’esercito afferma che dopo mezz’ora è stato “rilasciato e liberato da manette e bavaglio”.

Però alcuni testimoni, tra cui quelli che erano stati ammanettati accanto a lui, al momento avevano detto che Asaad era stato trascinato e picchiato dai soldati, cosa di cui non c’è traccia nella relazione dell’esercito. Alcune persone del posto sostengono che quando Asaad è stato trovato giaceva sul pavimento ancora bendato e legato. 

L’indagine ha determinato che al suo rilascio i soldati non avevano notato segni di sofferenza o altri indicatori sospetti riguardo alle condizioni di salute di Assad. I soldati hanno ritenuto che Assad fosse addormentato e non volevano svegliarlo,” dice la relazione dell’esercito. 

I due palestinesi fermati con lui hanno detto al Washington Post che Asaad era “privo di sensi e non respirava più quando i soldati se ne sono andati.”

Nella dichiarazione dell’esercito si dice che la morte di Asaad viola “uno dei valori fondamentali dell’IDF [Forze di Difesa israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.]: proteggere la vita umana.”

Nel 2021 l’esercito israeliano ha ucciso 341 palestinesi, inclusi 86 minori, e nel 2022 fino ad oggi ha ucciso sei palestinesi. 

Parole vuote’

Nelle conclusioni dell’inchiesta l’esercito israeliano dice di “rammaricarsi profondamente per la morte” di Asaad che definisce “un chiaro errore di giudizio morale.” 

L’esercito afferma che il comandante responsabile dell’unità sarà “redarguito,” e che il plotone coinvolto e ai comandanti della compagnia “non verranno assegnati incarichi di comando per due anni.”

Tuttavia il Dipartimento di Stato USA ha detto di non essere soddisfatto delle conclusioni dell’esercito né dei provvedimenti disciplinari presi contro alcuni soldati e che si aspetta che gli ufficiali israeliani svolgano una “esaustiva indagine penale.” 

Gli Stati Uniti si aspettano un’accurata indagine penale e una piena assunzione di responsabilità in questo caso e gradirebbero ricevere ulteriori informazioni relative a queste iniziative il prima possibile,” dice in una dichiarazione il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price.

E mentre l’esercito sostiene che l’uccisione di Asaad vada “contro i valori dell’IDF,” B’Tselem, gruppo israeliano per i diritti umani, fa notare che l’esercito israeliano raramente ritiene i propri soldati responsabili delle violazioni dei diritti umani contro palestinesi nei territori occupati. 

Persino quando i militari sono ripresi in filmati mentre compiono gravi violazioni dei diritti umani è molto raro che vengano condannati a pene detentive. B’Tselem condanna l’inchiesta dell’esercito dicendo che: “‘fallimento morale’ è solo un’espressione vuota quando accompagnata, come prevedibile, con il più flebile dei rimproveri.”

In realtà il fallimento morale di base è che le alte sfere israeliane guidano un regime di supremazia ebraica in cui la vita dei palestinesi non ha alcun valore,” conclude l’associazione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’UE usa i fondi del “Green Deal” per fornire elettricità alle colonie israeliane

Ali Abunimah

31 gennaio 2022 – Electronic Intifada

La scorsa settimana l’Unione Europea ha annunciato finanziamenti per oltre 884 milioni di euro per i progetti del “Green Deal”, teoricamente mirati a facilitare la “transizione verso energie pulite.”

Ma della fetta maggiore, circa 618 milioni e 916 mila euro, beneficerà direttamente Israele, incluse le sue colonie costruite su terre palestinesi occupate.

L’Unione Europea sostiene di opporsi a queste colonie, riconoscendo regolarmente che sono costruite in violazione del diritto internazionale.

I nuovi finanziamenti andranno alla costruzione dell’EuroAsia Interconnector, un cavo sottomarino che collegherà la rete elettrica israeliana a quella europea.

Secondo il sito web del progetto, l’EuroAsia Interconnector sarà un “ponte di energia” che consentirà la “trasmissione bidirezionale di elettricità” fra il Mediterraneo orientale e l’Europa.

L’impresa ha ottenuto il sostegno dall’UE ai più alti livelli fin da quando, nel giugno 2017, i leader di Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo per dargli il via.

Bruxelles dice che l’ultima iniezione di contanti, che fa seguito a una precedente di circa 88.412.400 € in fondi EU, è una “continuazione del sostegno finanziario e politico al progetto EuroAsia.”

L’UE ha dato il suo completo appoggio al collegamento elettrico, anche se è sempre stato chiaro che ciò avrebbe significato collegare all’Europa le colonie israeliane, in pratica quindi fornendo loro energia.

Nel 2018 il Comitato Nazionale del movimento palestinese Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (BDS) ha dichiarato: “In questo modo si collegherebbero le colonie israeliane illegali con la rete elettrica europea,” e l’UE violerebbe le sue stesse politiche e l’obbligo di non riconoscere o assistere atti israeliani illegali.

L’annuncio più recente riguardante i finanziamenti UE arriva proprio mentre Amnesty International ha accusato Israele del crimine contro l’umanità di apartheid.

L’anno scorso Human Rights Watch e il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem avevano raggiunto la stessa conclusione, denunciando finalmente la natura del sistema israeliano di segregazione razziale e controllo imposto con la violenza che, da decenni, i palestinesi hanno descritto come apartheid.

Sostegno di Washington

L’UE ha ricevuto una pacca sulla spalla dall’amministrazione Biden per i fondi all’EuroAsia Interconnector che Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato, ha definito “un elemento chiave per rafforzare la sicurezza energetica regionale e incrementare l’uso di energie pulite.”

Non ha detto però che potenzierebbe e rafforzerebbe le colonie israeliane a cui Kerry, in qualità di Segretario di Stato nell’amministrazione Obama, ha sostenuto di essere contrario.

Questo mese l’amministrazione Biden ha ritirato il sostegno USA a un gasdotto per fornire l’Europa di gas fossile estratto da Israele nel Mediterraneo da giacimenti contesi.

I funzionari USA sostengono che il progetto è finanziariamente ed ecologicamente insostenibile.

È tuttavia scorretto che UE e USA stiano facendo passare il loro continuo sostegno a Israele e alle sue colonie come una fonte di “energia pulita”, specialmente quando Israele confisca o distrugge regolarmente i pannelli solari dei palestinesi, alcuni pagati dall’UE, per costringerli a lasciare le loro terre.

Inutile dire che non c’è niente di “verde” o “pulito” nel finanziare un regime di apartheid e nel contribuire a elettrificare le sue colonie insediate su terra rubata.

Ma il greenwashing è anche usato per coprire un piano sostenuto da Washington e dagli Emirati Arabi Uniti per collegare la rete elettrica giordana a Israele e alle sue colonie, rendendo la Giordania ancora più dipendente politicamente ed economicamente da Tel Aviv.

Il recente regalo finanziario dell’EU ricompensa e incoraggia il comportamento criminale di Israele. Non potrebbe essere più lontano dall’aiuto all’ambiente.

È tuttavia in linea con lo storico sostegno europeo alla colonizzazione a scapito dei popoli indigeni.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un tribunale federale degli Stati Uniti impedisce al Texas di applicare la legge anti-BDS agli impresari

Redazione di Middle East Eye

29 gennaio 2022 MEE

Un palestinese-americano ha intentato causa quando la città di Houston ha chiesto alla sua azienda di firmare un impegno a non boicottare Israele

Un tribunale federale degli Stati Uniti ha impedito allo Stato del Texas di applicare la sua legge anti-BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) contro un appaltatore palestinese-americano che si è rifiutato di firmare l’impegno a non boicottare Israele.

Rasmy Hassouna, ingegnere e vicepresidente esecutivo della A&R Engineering and Testing Inc, di proprietà palestinese, ha intentato una causa a novembre sfidando una legge del Texas che vieta allo Stato di fare affari con società che partecipino al movimento BDS contro Israele.

Nella denuncia presentata al tribunale federale di Houston l’azienda ha affermato che la legge viola il diritto sancito dal Primo Emendamento di partecipare a boicottaggi economici come forma di protesta.

Venerdì, il giudice distrettuale degli Stati Uniti Andrew S. Hanen ha emanato un’ingiunzione che impedisce al Texas di applicare la legge anti-boicottaggio contro Hassouna.

“L’argomento sostenuto dalla [compagnia di Rasmy] può portare alcuni individui, specialmente quelli che si identificano con Israele, a provare disagio, ansia o addirittura rabbia”, ha scritto Hanen nella sua sentenza.

“Tuttavia, l’argomento – anche se turba alcuni segmenti della popolazione – è protetto dal Primo Emendamento sino a che non si trasformi in violenza e azioni illecite.

“La Corte ritiene che Hassouna difenda un punto di vista filo-palestinese veramente protetto dal Primo Emendamento”.

Una decisione pietra miliare

Il Comitato per le Relazioni America-Islam (Council on American-Islamic Relations, CAIR), con cui Hassouna ha collaborato per intentare la causa, ha salutato la sentenza della Corte come “una grande vittoria del Primo Emendamento contro i ripetuti tentativi del Texas di reprimere il discorso a sostegno della Palestina”.

“I tentativi reazionari di creare un’eccezione al Primo Emendamento riguardo alla Palestina tradiscono il ruolo centrale che i boicottaggi hanno svolto nella nostra storia”, ha affermato Gadeir Abbas, avvocato che cura da tempo le controversie del CAIR.

Secondo il gruppo di difesa musulmano, l’ingiunzione garantisce che Hassouna sarà in grado di “fare contratti con Houston senza rinunciare al suo diritto in base al Primo Emendamento di boicottare Israele egli stesso o attraverso la compagnia che possiede”.

Sebbene in questa fase preliminare l’ingiunzione si applichi solo a Hassouna, il ragionamento del [giudice] Hanen indica che “questi recenti tentativi di sopprimere la difesa della Palestina finiranno col fallire”, ha affermato il gruppo.

“I legislatori statali dovrebbero prendere nota di questa decisione… In base al Primo Emendamento non è possibile vietare i boicottaggi, “, ha affermato Lena Masri, direttrice delle controversie nazionali e dei diritti civili del CAIR.

Il dovere di boicottare

Secondo la causa presentata dal CAIR per conto di Hassouna, negli ultimi 17 anni A&R ha fatto affari con la città di Houston per oltre 2 milioni di dollari.

Ad ottobre, quando ha ricevuto il contratto per il rinnovo, Hassouna ha notato che conteneva una nuova clausola, che gli imponeva di impegnarsi a non boicottare Israele.

Ha rifiutato di firmare il rinnovo del contratto e di riconoscere la legittimità di quella legge, che si applica a tutti i comuni e anche allo Stato del Texas.

“È mio diritto e dovere boicottare Israele e qualsiasi prodotto di Israele”, ha affermato Hassouna.

“Questa politica è contro il mio diritto costituzionale e contro il diritto internazionale”.

Oltre a presentare denuncia, Hassouna, che è di origini palestinesi e originario di Gaza, ha anche chiesto alla Corte di emettere un’ordinanza restrittiva temporanea che impedisca l’applicazione della legge nel corso del processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La questione della melagrana

Samah Jabr

19 gennaio 2022 – Chronique de Palestine

Un racconto della dottoressa Samah Jabr

La proprietaria della casa è arrivata in tribunale senza recare nulla se non l’immagine stessa della verità. Non si è avvalsa di un avvocato e non ha preparato una documentazione, perché si trattava solo di una melagrana.

Il colono è arrivato con dei voluminosi faldoni con carte e foto e scortato da una schiera di avvocati e di falsi testimoni che si sono presentati come amici e vicini del fratello dell’accusata.

L’ imputazione rivolta alla proprietaria della casa era che si sarebbe introdotta nel giardino e avrebbe colto una melagrana.

Lei ha spiegato che il giardino fa parte della sua casa, che suo padre in persona aveva piantato il melograno e che il frutteto ha più anni del colono.

Allora gli avvocati hanno replicato che lei non è in possesso di documenti attestanti il suo diritto di proprietà, al che lei ha risposto di aver ereditato sia la casa che il giardino da suo padre, dopo essersi assicurata che il suo unico fratello non le contestasse i beni. Gli abitanti del villaggio non hanno mai messo in dubbio la sua eredità in quanto suo padre era conosciuto come una persona generosa.

Per questo motivo non ha richiesto un nuovo titolo di proprietà.

A quel punto gli avvocati hanno tirato fuori dei documenti che sarebbero stati firmati da suo fratello, ucciso durante una manifestazione l’anno precedente.

Hanno sostenuto che suo fratello aveva venduto la casa e il giardino al colono prima di morire e dei falsi testimoni hanno corroborato l’affermazione del tribunale secondo cui le carte firmate dal fratello e registrate da uno studio legale di ottima reputazione erano valide.

Un vecchio compagno di scuola del fratello ha dichiarato: “È proprio la sua scrittura, la conosco bene.” Da parte sua un suo vecchio vicino ha detto: “L’ho visto coi miei occhi firmare queste carte”. Ed un terzo: “Il terreno definito dai suoi confini – dal filo per stendere i panni fino al riquadro coltivato a piante di menta – costituisce la proprietà del colono.”

Queste affermazioni sono sembrate convincenti per il giudice ed hanno instillato il dubbio sulle parole della ragazza. Secondo il parere del giudice, come avrebbe potuto il fratello contestare l’eredità della casa, dato che gli uomini non lasciano in eredità niente alle donne!

La giovane si è allora ricordata di una foto che conservava con affetto nel portafoglio.

Ha mostrato la foto di suo fratello dove si vede un bambino con entrambe le mani amputate in seguito ad un bombardamento della sua scuola quando frequentava le elementari.

Ha chiesto: “Come avrebbe potuto una persona senza mani firmare queste carte?”

Il giudice, in imbarazzo, ha detto: “Oh!…Queste lunghe controversie sono piene di contraddizioni”.

L’udienza si è conclusa ed il tribunale ha deciso quanto segue: l’accusata non ha potuto negare di aver colto la melagrana senza chiedere il permesso; dato che il tribunale teme che l’accusata possa coglierne altre, ha deciso di allontanarla dalla casa e dal giardino per il tempo necessario al tribunale per chiarire il fatto della firma del fratello amputato di entrambe le mani.

Inoltre l’accusata dovrà rimborsare le spese processuali, gli onorari degli avvocati e le spese sostenute dai testimoni.

Lasciandosi alle spalle il colono, il tribunale, l’accusa, i falsi testimoni, la proprietaria della casa non ha ormai altra risorsa che invocare Dio, affinché non permetta che qualcuno venga giudicato ingiustamente il giorno in cui i protagonisti si troveranno davanti al tribunale celeste.

Richiamiamo la vostra attenzione sul fatto che ogni somiglianza alle persone o ai fatti riportati in questo racconto è puramente casuale.

Samah Jabr

Samah Jabr è medico psichiatra ed esercita a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Attualmente è responsabile dell’Unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese. Ha insegnato in università palestinesi ed internazionali. La dottoressa Jabr è spesso consulente presso organizzazioni internazionali in tema di sviluppo della salute mentale. È anche una scrittrice prolifica. Il suo ultimo libro pubblicato in francese è Derrière les fronts – Chroniques d’une psychiatre psychothérapeute palestinienne sous occupation [Dietro i fronti – cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione, Sensibili alle Foglie, 2019].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




“Siamo qui per mettere sotto pressione il villaggio”: le truppe israeliane ammettono la politica delle punizioni collettive

Yuval Abraham 

 24 gennaio 2022,  +972 Magazine

Da dicembre l’esercito israeliano ha imposto al villaggio di Dir Nizam una chiusura quasi totale e violente incursioni. E i soldati sono sinceri sul perché lo stanno facendo.

Per quasi due mesi i soldati israeliani hanno sottoposto i 1.000 residenti del villaggio palestinese di Dir Nizam a punizioni collettive, sostenendo che si trattava di una reazione ai bambini che lanciano pietre contro i veicoli di passaggio. Il 1° dicembre 2021 l’esercito ha chiuso tutti e tre gli ingressi al villaggio, che si trova a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, e ha allestito un posto di blocco con bande chiodate all’unico ingresso lasciato aperto al traffico.

Da allora, i soldati israeliani hanno piantonato l’ingresso 24 ore su 24, controllando a lungo ogni macchina al passaggio, interrogando i passeggeri, aprendo i bagagli e fotografando le carte d’identità. A volte bloccando completamente tutti i movimenti dentro e fuori il villaggio per ore.

I soldati non si limitano a restare fuori dal villaggio; sono entrati a Dir Nizam in almeno 14 occasioni dall’inizio della chiusura per effettuare arresti, condurre indagini o compiere “azioni di deterrenza” contro gli abitanti del villaggio. In tre diverse occasioni sono persino entrati nella scuola del villaggio.

La punizione collettiva è stata imposta a Dir Nizam apparentemente per impedire ai bambini di lanciare pietre, ma gli episodi di lanci di pietre sono in realtà aumentati da quando l’esercito ha chiuso il villaggio e non sembra esserci in progetto che se ne vadano presto. Ho visitato l’area la scorsa settimana e ho chiesto ai soldati cosa stessero facendo esattamente lì:

Posso chiederti qual è lo scopo di questo posto di blocco?

“Certo. Siamo qui perché sulla statale 465, vicino al villaggio di Dir Nizam, gruppi di bambini dagli 8 ai 16 anni circa lanciano mattoni e piccoli sassi ai veicoli di passaggio… [Il posto di blocco] che abbiamo allestito qui è per fare pressione sul villaggio stesso. Stiamo facendo arrivare gli adulti in ritardo al lavoro al mattino, stiamo davvero rendendo difficile la loro vita quotidiana. Gli adulti sono consapevoli di ciò che stanno facendo i bambini e sono contrari. Non vogliono che lancino pietre”.

Quindi questa è in realtà una forma di punizione collettiva imposta al villaggio?

“Esatto. È una punizione collettiva per l’intero villaggio. La pressione sugli adulti, gli ‘anziani della tribù’, come qui vengono chiamati, farà pressione sui bambini che quindi smetteranno di lanciare pietre”.

Ok. E che senso ha questo per te? Punire mille persone, a causa di pochi bambini?

“O è così, o altre soluzioni che non sono sempre piacevoli. Per non dire altro.”

Cosa intendi per altre soluzioni?

“Oggi disponiamo di mezzi molto avanzati per identificare i bambini, i volti dei lanciatori di pietre. Se attiviamo questi mezzi, possiamo arrestarli. E questi bambini saranno messi dove devono essere messi”.

La nuova “normalità”

A duecento metri dal posto di blocco, accanto alla scuola, si sono radunati intorno a me otto bambini: il più grande è all’undicesima, il più giovane alla seconda, la maggior parte alle elementari [il sistema scolastico palestinese prevede sei anni di elementari, tre di medie e decimo e undicesimo anno di istruzione superiore ed è obbligatorio sino alla decima classe, ndtr.]. Quando ho chiesto in che modo la presenza militare li avesse colpiti, hanno iniziato a ridere. Ogni volta che uno parlava, gli altri lo interrompevano.

“Mi hanno arrestato”, ha detto un bambino di quinta elementare con uno zaino strappato. “Mi hanno picchiato”, ha gridato un altro ragazzo. «Sto lanciando sassi», urla un altro di quarta elementare, che poi corre goffamente lungo la strada.

L’atmosfera è cambiata grazie a Ahmad Nimer, un ragazzo che non rideva. Lo sguardo dei suoi occhi marroni appariva più vecchio dei suoi 13 anni e, vedendo i miei tentativi di avere una conversazione seria, ha detto: “Posso dirti io come mi colpisce l’esercito “. Tutti tacquero.

“E’ sempre mio padre che guida l’auto, mia madre siede accanto a lui e io mi siedo dietro”, dice mentre il gruppo gli si raduna intorno. “Da quando hanno allestito il posto di blocco, i soldati li fermano di continuo. Dicono ai miei genitori, in ebraico, ‘Dove state andando?’ e fotografano i loro documenti. A volte ci fanno scendere dall’auto, a volte dicono a loro o a me: ‘Perché i bambini lanciano sassi?’”

E tu cosa dici?

“Niente. Sono sul sedile posteriore e guardo mio padre”.

E cosa pensi?

“Niente. Non penso niente. Per me è normale”.

Il resto dei bambini annuisce. “È normale”, dice Tamer, un dodicenne con i capelli corti. “Il giorno in cui sono entrati nella nostra scuola sono svenuto per i gas lacrimogeni e mi sono svegliato pochi minuti dopo a casa”.

Tamer fa riferimento a quanto accaduto il 9 dicembre: secondo testimonianze e video, quel giorno i soldati israeliani sono entrati nella scuola del villaggio nelle ore pomeridiane, dopo che le lezioni erano finite, hanno interrogato gli studenti in cortile e cercato i bambini che tiravano pietre. “Hanno esaminato le aule, dicendo che stavano cercando quelli che tirano le pietre”, dice Adham, che ha 16 anni. “Hanno lanciato molti gas lacrimogeni e granate stordenti in cortile”.

Da quando sono iniziate le punizioni collettive al villaggio, i soldati sono entrati a scuola tre volte; l’incursione più recente è stata la scorsa settimana, il 18 gennaio, alle 8:45 mentre iniziavano le lezioni.

Il brutale ingresso dei soldati è stato ben documentato nei video ripresi da studenti e insegnanti che hanno assistito in prima persona alle aggressioni. In uno di essi si vedono soldati picchiare e tirare fuori dalla classe uno studente dell’undicesima classe mentre la sua insegnante cerca di proteggerlo con il suo corpo e grida: “Questa è una scuola, andate via!”

In un altro video, i soldati bendano lo stesso ragazzo vicino al cortile, mentre sullo sfondo si vedono bambini delle elementari che entrano dai cancelli e corrono verso le aule. Un altro video mostra un gruppo di soldati che attraversa il campo da basket della scuola, spintonando due membri dello staff. Due studenti sono stati arrestati: il primo, Ahmad al-Ghani, è stato rilasciato il giorno successivo; il secondo, Ramez Muhammad, è tuttora in custodia.

“Di solito prendono i bambini per qualche ora, li portano in giro in jeep, danno loro qualche schiaffo in faccia, chiedono loro perché hanno lanciato pietre e poi li riportano al villaggio”, ha detto Adham. La mattina del 5 gennaio, ad esempio, l’esercito è entrato a Dir Nizam e ha arrestato nove bambini, ma poche ore dopo li ha riportati tutti al villaggio. Non sono stati portati alla stazione di polizia per essere interrogati e non sono stati processati.

Si stanno facendo odiare ancora di più dai bambini”

Arin, una 43enne residente a Dir Nizam, ha affermato che tra tutte le conseguenze della politica delle punizioni collettive, ciò che colpisce di più i suoi figli sono le incursioni notturne dell’esercito. “I soldati vengono proprio a casa a interrogare i ragazzi e più volte hanno lanciato granate stordenti e gas lacrimogeni per le strade, per svegliare tutti”, ci ha detto.

Ad esempio, il 2 dicembre alle 22:30, una telecamera di sicurezza su una delle case del villaggio ha documentato i soldati che lanciavano nove granate stordenti sulla strada principale della zona residenziale. Dall’angolazione della telecamera è impossibile comprendere completamente il contesto, ma il linguaggio del corpo dei soldati è rilassato e non si vedono lanci di pietre prima del lancio delle granate stordenti.

Tutti a casa si sono immediatamente svegliati”, ricorda una donna anziana di nome Fatima, la cui casa si trova su quella strada. “Recentemente non ho più potuto dormire la notte, né io né i bambini”, dice un’altra donna di 30 anni, che ha chiesto di non essere nominata.

“Ogni notte, da un mese ormai, mio nipote mi chiede: ‘Nonna, hai chiuso a chiave la porta?’ Tre volte a notte lo chiede”, dice Arin. “Chi non ha mai lanciato pietre si dice: ‘Ora comincerò a tirare pietre, che importa? A prescindere dal fatto che io lanci o no pietre, tutti vengono puniti.’ Stanno facendo in modo che i bambini li odino ancora di più”.

Il nuovo posto di blocco si trova vicino al paese su una strada interna che si collega con la statale 465; vi sono stati recentemente posati anche blocchi di cemento. “L’unico giorno in cui possiamo rilassarci senza punizioni collettive è la loro vacanza, Shabbat. Il sabato non c’è posto di blocco al mattino, ma torna la sera”, ha detto Fatima.

Elham, 32enne che culla il figlio piccolo tra le braccia, mi ha raccontato una discussione avvenuta entrando in macchina nel villaggio. “Mio figlio era con me sul sedile posteriore. Il soldato gli ha detto: ‘Perché lanci sassi?’ e mio figlio ha risposto ‘Io non lancio sassi’ e il soldato: ‘Bugiardo, ti ho visto’. Mio figlio oggi era con me al lavoro, dalle sette del mattino”, ha continuato Elham. “Così ho cercato di dire al soldato che non ha lanciato pietre perché l’ho avuto sott’occhio tutto il giorno, dalla mattina. Ma il soldato mi ha semplicemente detto: ‘Parla ebraico, non capisco l’arabo.'”

“Controllate l’aria che respiriamo”

Come in moltissimi villaggi della Cisgiordania, la maggior parte delle terre di Dir Nizam si trova nell’Area C [sotto completo controllo israeliano, ndtr.] (e il 4,7% nell’Area B) [sotto parziale controllo israeliano, ndtr.], in cui Israele proibisce ai palestinesi quasi sempre di costruire anche su propria terra privata. “Vivo vicino all’insediamento di Halamish e tutto il giorno un drone aleggia sopra le nostre teste, scattando foto per assicurarsi che non abbiamo costruito nulla sulla nostra terra. Se qualcosa viene costruito, l’esercito viene a distruggerlo”, dice Fatima.

Halamish, noto anche come Neve Tzuf, è un insediamento israeliano di circa 1.500 residenti. È stato fondato nel novembre 1977 su un sito che fungeva da base militare giordana prima della guerra dei Sei Giorni e un ordine militare israeliano ha reso possibile l’espropriazione di circa 600 dunam di terra di proprietà privata dei residenti di Dir Nizam e Nabi Saleh. “Splendide viste panoramiche, a 25 minuti da Modi’in”, si legge sul sito web dell’insediamento in espansione che pubblicizza nuovi appartamenti.

I residenti palestinesi affermano che di recente i militari hanno impedito loro di coltivare la propria terra con mezzi pesanti quali i trattori nelle aree vicine all’insediamento. Jaber Musab, un contadino la cui casa si affaccia su Halamish, dice di aver lavorato tutta la vita per gli ebrei israeliani nella vicina Herzliya e anche ad Halamish. A differenza dei suoi vicini israeliani, non può lasciare la Cisgiordania senza un permesso dell’esercito. Gli ho chiesto perché i bambini del villaggio lancino pietre e lui ha risposto in ebraico: “Perché controllate l’aria che respiriamo”. Poi è rimasto in silenzio.

A dicembre Nasser Mazhar, un anziano contadino molto amico di Musab, è stato eletto capo del consiglio del villaggio di Dir Nizam, l’unica elezione che si è tenuta come previsto dopo che lo scorso maggio il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni presidenziali e parlamentari. Il precedente capo del consiglio, Bilal Tamimi, ha lasciato il villaggio: “Non potevo più viverci, a causa dei problemi con l’esercito”, mi ha spiegato al telefono da Ramallah. Musab ha precisato che anche suo fratello ha di recente lasciato il villaggio, una tendenza che secondo lui è aumentata a causa della punizione collettiva.

“Esci dal villaggio per un quarto d’ora e sei perquisito due volte, uscendo e rientrando”, mi ha detto Mazhar nel suo soggiorno, e il suo timido nipote di 12 anni ascoltava sul divano di fronte. “Ogni volta che passo mi dicono: ‘Dacci i nomi dei bambini che lanciano pietre’, anche se hanno comunque le macchine fotografiche. I soldati ci controllano perché siamo nelle Aree B e C. Loro sono responsabili della nostra sicurezza, non siamo noi responsabili della loro sicurezza”.

Fermati medici e infermieri

Da quando è iniziata la punizione collettiva, i soldati israeliani hanno chiuso completamente il villaggio quattro volte per periodi che vanno da una a sette ore. Tre settimane fa, durante una di queste chiusure, i soldati hanno negato l’ingresso a un gruppo di medici e infermieri di Ramallah che si stavano recando alla clinica locale per visitare i residenti.

Nel mese scorso agli insegnanti delle scuole superiori che provengono da altre città palestinesi è stato impedito per due volte di uscire o entrare nel villaggio, annullando così la giornata scolastica. “Tutti i bambini erano contenti di essere a casa”, ha riso Shadi, il nipote timido. Mi ha mostrato al cellulare un video del 7 dicembre, che mostrava la lunga fila degli insegnanti fermati al posto di blocco. «Quella è la macchina del signor Jumah, l’insegnante», dice. I soldati hanno lasciato entrare gli insegnanti dopo circa tre ore.

Shadi e il suo amico, entrambi in prima media, mi hanno portato a fare un giro nel villaggio mentre il sole cominciava a tramontare. Ho chiesto loro se passano del tempo a Ramallah. “A Tel Aviv!” disse Shadi, forse scherzando. “È vicina, guarda”, indica oltre l’orizzonte, dove si possono vedere le case della città e il mare.

Tel Aviv dista 30 chilometri in linea d’aria dal villaggio assediato. Nel cielo, grandi aerei si librano bassi. L’aeroporto Ben Gurion è a soli 20 chilometri da qui; a Shadi, come agli altri palestinesi residenti in Cisgiordania, non è permesso volare. Sono controllati da noi e lavorano per noi, ma non hanno un aeroporto.

All’uscita, vicino al posto di blocco, ho incontrato un palestinese della mia età che tornava dal lavoro a Herzliya. Ci va tutti i giorni per ristrutturare case, previo permesso di ingresso dell’esercito. “Parto alle 3 del mattino”, dice. “I soldati sono al posto di blocco anche allora.” Abbiamo parlato a lungo e mi ha chiesto di non pubblicare il suo nome, per paura che gli venisse negato il permesso di ingresso.

“Per tutto il viaggio di ritorno dal lavoro sono preoccupato di cosa accadrà al posto di blocco”, mi dice. “Proprio ora passavo con mia madre. Era andata a fare la spesa. I soldati mi hanno chiesto di scendere dall’auto e di deporre davanti a loro il contenuto delle borse. Ho detto loro che la carne si sarebbe sporcata e alla fine mi hanno permesso di sollevarla invece di metterla giù. Uno di loro mi ha chiesto: ‘Perché i ragazzi tirano pietre?’ Gli ho detto: ‘Sono bambini’. E lui ha detto: ‘Finché continueranno, continueremo a punirvi”.

Da un’analisi e da un incrocio di dati tra il gruppo Telegram di Hashomer Judea e Samaria – un’organizzazione di coloni che documenta esaurientemente i lanci di pietre palestinesi in Cisgiordania – e la pagina Facebook di Dir Nizam, che riporta le azioni dell’esercito nel villaggio, sembra che i soldati di solito impongano una chiusura totale dopo che il gruppo dei coloni riferisce di sassi lanciati sulla statale 465.

All’inizio dello scorso anno Rivka Teitel, un’israeliana di 30 anni, è stata gravemente ferita da un sasso lanciato contro la sua auto vicino a Dir Nizam, che l’ha colpita alla testa. Circa due settimane fa, anche un cittadino palestinese di Israele è stato leggermente ferito da un sasso lanciato in zona. Questi sono stati gli unici incidenti da lancio di pietre che hanno causato feriti nell’ultimo anno a Dir Nizam.

Da quando il 1° dicembre l’esercito ha imposto la chiusura, c’è stato un forte aumento nella zona degli incidenti causati da lanci di pietre. In media, sono stati documentati 10 volte più episodi di lanci di pietre rispetto al periodo precedente l’introduzione delle punizioni collettive e ci sono stati sei volte più ingressi militari nel villaggio per effettuare arresti, indagini o attività di deterrenza.

Abbiamo chiesto al portavoce dell’esercito israeliano se ai soldati fosse stato ordinato di punire i residenti del villaggio e se la punizione collettiva fosse una politica dichiarata dell’esercito nei territori occupati. La risposta affermava: “Recentemente, c’è stato un aumento significativo degli incidenti terroristici locali, inclusi il lancio di pietre e bombe molotov contro i veicoli che viaggiano sulla statale 465. Tra le azioni per affrontare questo fenomeno le forze dell’esercito israeliano stanno operando nell’area in conformità con le valutazioni operative, attraverso attività sia palesi che segrete”.

Yuval Abraham è un giornalista freelance israeliano che lavora in strutture educative bilingue israelo-palestinesi. Ha studiato l’arabo e insegna la lingua ad altre persone di lingua ebraica che credono nella lotta comune per la giustizia e in una società condivisa tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un tribunale federale tedesco stabilisce che la politica anti-BDS di Monaco è illegale

Adri Nieuwhof

24 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Con una vittoria della libertà politica, un tribunale federale tedesco ha sentenziato che il rifiuto dell’amministrazione comunale di Monaco di mettere a disposizione uno spazio pubblico per un dibattito sulla risoluzione anti-BDS della città è stato un provvedimento anticostituzionale.

Il tribunale ha stabilito che la politica dell’amministrazione comunale della città “viola il diritto fondamentale alla libertà d’espressione”.

La decisione è uno schiaffo per il consiglio comunale di Monaco, che nel 2017 ha adottato una risoluzione che nega finanziamenti e spazi pubblici ai sostenitori del BDS, la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi.

La sentenza ha importanti implicazioni per la libertà di parola in tutta la Germania, dove le persone che difendono i diritti dei palestinesi affrontano una metodica repressione e calunnie da parte di politici.

Nel contempo nella vicina Austria la giunta comunale di Vienna ha denunciato un membro di BDS Austria per “diffamazione” per un post su Facebook in cui critica l’apartheid israeliano.

Monaco viola la legge

Nell’aprile 2018 Klaus Ried ha cercato di prenotare una sala del Museo della Città di Monaco in cui tenere un dibattito su come la risoluzione anti-BDS della municipalità avrebbe colpito la libertà di parola. L’amministrazione comunale ha rifiutato la prenotazione in quanto lo considerava un evento legato al BDS.

Ried ha portato la questione in tribunale. In un primo tempo la corte ha sentenziato contro di lui, affermando che l’amministrazione comunale di Monaco aveva il diritto di imporre simili restrizioni.

Egli ha presentato appello e nel 2020 ha vinto.

Ma l’amministrazione comunale di Monaco non ha accettato questa decisione e ha portato la causa davanti a un tribunale federale, sperando di ribaltare la vittoria di Ried.

Tuttavia il tentativo è fallito. Il 20 gennaio il tribunale federale amministrativo tedesco di Lipsia ha emanato la sua sentenza a favore di Ried. La corte federale ha affermato che la legge tedesca “garantisce a chiunque il diritto di esprimersi liberamente e di diffondere la propria opinione.” Ha stabilito che la giunta comunale di Monaco non poteva violare quel diritto negando il permesso a un evento a causa del fatto che fosse prevedibile che “venissero espresse opinioni sulla campagna BDS o sul suo contenuto, obiettivi e tematiche.”

Il tribunale federale ha affermato che la risoluzione anti-BDS di Monaco non è una legge.

La storica sentenza invia un avvertimento ai consigli comunali in tutta la Germania che hanno approvato risoluzioni simili e hanno negato la disponibilità di spazi pubblici

a organizzatori di eventi riguardanti il BDS.

La sentenza ha anche implicazioni riguardo alla risoluzione anti-BDS del parlamento tedesco del 2019, in cui, pur non essendo giuridicamente vincolante, si invitano le istituzioni tedesche e gli enti pubblici a negare finanziamenti e strutture a gruppi che appoggiano il movimento BDS.

BDS Austria sotto attacco

La giunta comunale [alleanza tra socialdemocratici e liberali, ndtr.] della capitale austriaca, Vienna, ha denunciato un rappresentante di BDS Austria per un post dell’agosto 2021 su una pagina Facebook del gruppo di attivisti.

Il post mostra la foto di un manifesto del Comune con incollato sopra un cartello di protesta, ma con il logo ufficiale della città ancora visibile.

Il manifesto di protesta richiama il famoso cartello degli anni ’30 “Visita la Palestina” [manifesto propagandistico sionista, ndtr.]. Ma porta invece la scritta “Visita l’apartheid”. Anche il manifesto di protesta ha il logo della città. Un post sulle reti sociali di BDS Austria ha l’ironica didascalia: “Siamo lieti che anche la Città di Vienna prenda atto dell’apartheid e lo affermi pubblicamente.”

In novembre a un membro di BDS Austria è stato notificato che il Comune di Vienna aveva presentato una denuncia sostenendo che il movimento BDS “incita all’odio contro il popolo israeliano.” Di conseguenza, sostiene l’amministrazione cittadina, essere pubblicamente associati al BDS è una diffamazione, dato che “la definizione della situazione in Israele/Palestina come ‘apartheid’ costituisce un danno per la nostra reputazione.”

L’amministrazione cittadina chiede al tribunale di proibire a BDS Austria di utilizzare i loghi del Comune e circa 3.500 € di danni. Se il tribunale ordinerà a BDS Austria di pagare le spese legali la cifra totale potrebbe arrivare fino a 35.000 €.

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo di Sostegno Giuridico] (ELSC), un’associazione per i diritti civili e la difesa legale, l’ha definito un esempio di SLAPP –Strategic Lawsuit Against Public Participation [denuncia strategica contro l’attivismo pubblico].

Simili denunce intendono generalmente zittire le opinion critiche.

L’affermazione dell’amministrazione cittadina è palesemente ridicola perché risulta evidente che il manifesto era incollato in modo approssimativo su quello della città e che non si trattava di un messaggio ufficiale della città di Vienna.

Inoltre la negazione da parte di Vienna della situazione di apartheid vissuta dai palestinesi è in netto contrasto con un crescente consenso ed è sostenuta persino da importanti associazioni, come Human Rights Watch e l’israeliana B’Tselem.

ELSC ha organizzato una campagna di raccolta fondi per chiedere a donatori pubblici di contribuire alle spese giudiziarie.

E una petizione a sostegno di BDS Austria ha ottenuto circa 700 firme.

Strenui difensori di Israele

Nel 2017 l’Austria ha adottato la cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, ente intergovernativo che riunisce rappresentanti di 34 Paesi, per lo più europei, ndtr.].

La controversa “definizione”, promossa da Israele e dalla sua lobby, confonde le critiche contro Israele e la sua ideologia statale sionista con il fanatismo antiebraico. La definizione dell’IHRA è ora regolarmente utilizzata in vari Paesi per calunniare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Un anno dopo l’amministrazione comunale di Vienna [alleanza tra socialdemocratici e verdi, ndtr.] ha adottato una risoluzione che definisce il movimento BDS come intrinsecamente antisemita. La risoluzione nega appoggio istituzionale ai sostenitori del BDS e minaccia l’esistenza di uno spazio politico sicuro per la difesa dei diritti dei palestinesi in Austria. Nel 2019 membri di BDS Austria hanno organizzato una protesta presso il consiglio comunale della città contro questa censura ufficiale.

Come in Germania, l’élite politica austriaca sostiene strenuamente Israele. L’annessione dell’Austria da parte di di Adolf Hitler, austriaco, nel 1938 fu ben accolta dalla maggioranza dell’opinione pubblica austriaca, per cui, proprio come in Germania oggi, molti austriaci vedono l’incondizionato sostegno a Israele, indipendentemente da quello che fa ai palestinesi, come una forma di espiazione dei crimini nazisti.

L’avvocatessa Elisabetta Folliero, insieme al European Legal Support Center, ha presentato una confutazione della denuncia dell’amministrazione comunale. Essa include un parere specialistico dei giuristi di fama internazionale Eric David, Xavier Dupré De Boulois, Richard Falk e John Reynolds.

Essi sostengono che le risoluzioni austriache contro il BDS violano gli standard internazionali ed europei per i diritti umani, anche riguardo ai diritti fondamentali di libertà di espressione e associazione.

Tra le altre cose, gli esperti citano la fondamentale sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo del 2020 che afferma che chiedere il boicottaggio dei prodotti israeliani costituisce un discorso politico protetto [dal principio della libertà di espressione, ndt].

La causa contro BDS Austria verrà discussa il 28 gennaio 2022 dal tribunale commerciale di Vienna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)