Iniziano le demolizioni a Silwan, nella Gerusalemme est occupata

Al Jazeera e agenzie di stampa

29 giugno 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane demoliscono il negozio di un macellaio ed usano gas lacrimogeni per respingere abitanti ed attivisti.

Dopo la demolizione di un negozio palestinese da parte delle forze israeliane, iniziata martedì nella zona di Bustan del quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, è scoppiata la violenza.

Le forze israeliane accompagnate da bulldozer sono entrate nel quartiere palestinese ed hanno distrutto una macelleria a Silwan. I soldati hanno utilizzato gas lacrimogeni e manganelli per respingere gli abitanti e gli attivisti palestinesi mentre si svolgeva la demolizione.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese almeno quattro palestinesi sono stati feriti negli scontri.

Harry Fawcett di Al Jazeera, corrispondente da Silwan, ha detto che martedì mattina i soldati israeliani sono arrivati in gran numero e che si sono verificati “gravi scontri”.

Abbiamo parlato con i membri della famiglia (titolare della macelleria) e ci hanno detto che le forze israeliane sono arrivate e li hanno attaccati con gas lacrimogeni ed altri mezzi – un inizio violento di queste demolizioni. Ma non si tratta solo di un negozio. In questo quartiere ci sono altri 20 edifici nella stessa situazione”, ha detto.

Il 7 giugno il Comune di Gerusalemme ha emesso una serie di ordini di demolizione nei confronti degli abitanti della zona di al-Bustan a Silwan.

Le 13 famiglie coinvolte, circa 130 persone, hanno avuto 21 giorni di tempo per andarsene e demolire loro stesse le proprie case. Non farlo significherebbe che le demolirà il Comune e le famiglie dovranno coprire i costi di demolizione – stimati in 6.000 dollari.

Ecco come funziona nella Gerusalemme est occupata”, ha affermato Fawcett. “Alle famiglie viene consegnato un ordine di 21 giorni che impone loro di demolire loro stessi la propria casa entro la scadenza dell’ordinanza, oppure lo faranno loro e poi alle famiglie verrà comminata una multa per il disturbo di dover demolire la loro casa.”

Ha aggiunto che una legge israeliana ha reso difficile per le famiglie palestinesi appellarsi contro gli ordini di demolizione davanti ai tribunali.

Dal 2005 gli abitanti di al-Bustan hanno ricevuto avvisi di demolizione per circa 90 case col pretesto di aver costruito senza permesso, allo scopo di favorire un’organizzazione di coloni israeliani che cerca di trasformare quella terra in un parco nazionale e collegarlo all’area archeologica della Città di David.

Secondo ‘Grassroots Jerusalem’ [Gerusalemme dal Basso], una Ong palestinese, sia le demolizioni di case sia gli sfratti forzosi per ordine del tribunale sono tattiche utilizzate per espellere gli abitanti palestinesi.

In una dichiarazione all’inizio di questo mese l’organizzazione palestinese per i diritti Al-Haq ha detto che i palestinesi a Gerusalemme est sono la maggioranza della popolazione, ma “le leggi urbanistiche israeliane hanno assegnato il 35% del terreno dell’area alla costruzione di colonie illegali da parte di coloni israeliani.”

Un altro 52% dell’area è stato “allocato come ‘aree verdi’ e ‘aree non previste dal piano’, in cui è proibito costruire”, ha affermato.

Chiara discriminazione’

Silwan si trova a sud della Città Vecchia di Gerusalemme, adiacente alle sue mura.

Almeno 33.000 palestinesi vivono nel quartiere, che per anni è stato nelle mire delle organizzazioni di coloni israeliani. In alcuni casi gli abitanti palestinesi sono stati costretti a condividere la casa con i coloni.

Alcune di queste famiglie palestinesi vivono a Silwan da più di 50 anni, da quando furono espulse dalla Città Vecchia negli anni ’60.

Nel 2001 Ateret Cohanim, un’organizzazione di coloni israeliani che ha l’obiettivo di acquisire terreni ed accrescere la presenza ebraica a Gerusalemme est, ha preso il controllo di una storica società fiduciaria ebrea.

Creata nel XIX secolo, all’epoca la società ha acquistato terreni nell’area per insediarvi ebrei yemeniti. L’organizzazione di coloni ha sostenuto in tribunale che la società che controlla è proprietaria della terra.

Rifugiati per la seconda volta’

Secondo la legge israeliana, se degli ebrei possono provare che le loro famiglie vivevano a Gerusalemme est prima della fondazione di Israele nel 1948, possono chiedere la “restituzione” della loro proprietà, anche se per decenni vi hanno abitato famiglie palestinesi.

La legge ha validità solo per gli [ebrei] israeliani e in base ad essa i palestinesi non hanno gli stessi diritti.

Mohammed Dahleh, un avvocato che rappresenta alcune famiglie di Silwan, ha detto ad Al Jazeera: “Vi è qui una chiara discriminazione, dal momento che gli ebrei possono rivendicare ogni proprietà che sostengono di aver posseduto nel passato prima del 1948, mentre i palestinesi che hanno perso la loro terra in 500 villaggi all’interno di Israele, compresa Gerusalemme ovest, non possono rivendicare la loro proprietà.”

Quelle famiglie non possono richiedere la restituzione delle loro proprietà, nonostante siano in possesso di carte di identità israeliane e siano considerate residenti dello Stato di Israele in base alla legge israeliana,”, ha proseguito.

Ciò significa che, se i tribunali israeliani alla fine approveranno questo genere di espulsione forzata, i membri di questa comunità diventeranno rifugiati per la seconda volta.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gruppi palestinesi rivali si scontrano durante le proteste contro la morte di un attivista

Al Jazeera e agenzie

27 giugno 2021 – Al Jazeera

Nel quarto giorno di proteste per la morte di Nizar Banat, arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah, sono scoppiati scontri.

Sabato, durante il quarto giorno di proteste per la morte di Nizar Banat, un esplicito oppositore dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), morto mentre era detenuto dall’ANP, gruppi rivali di palestinesi si sono scontrati nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Nizar Banat, quarantatreenne attivista di Hebron noto per i video sulle reti sociali in cui denunciava la presunta corruzione all’interno dell’ANP, è morto giovedì dopo che le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sua casa e lo hanno arrestato con l’uso della violenza.

Stefanie Dekker, inviata di Al Jazeera a Ramallah, afferma che domenica sono scoppiati scontri tra manifestanti che chiedevano le dimissioni del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e un gruppo contrario che manifestava a favore dell’ANP e di Fatah, il partito di Abbas che controlla l’Autorità Nazionale Palestinese.

Dekker ha detto: “C’era una piccola folla di circa 100 persone che gridavano slogan contro l’Autorità Nazionale Palestinese.”

C’era un’altra folla che era in fondo alla strada…che era a favore di Fatah, il partito del gruppo dirigente, arrivata per unirsi a loro e poi sono seguiti scontri,” afferma Dekker. Dekker di Al Jazeera sostiene che domenica c’è stata “una campagna concertata” contro i media che informano sulle proteste.

Siamo stati circondati da sei (persone), non posso che chiamarli teppisti, che hanno chiesto di vedere le nostre telecamere. In quel momento non stavamo filmando. Di fatto ci hanno obbligati a smontare il riflettore del nostro camion SMG,” afferma.

A un altro collega e amico sono state spaccate le telecamere. Ciò è successo durante gli ultimi due giorni.”

Nuove proteste contro la morte di Banat hanno avuto luogo domenica anche nella sua città natale di Hebron e a Betlemme, entrambe nella Cisgiordania occupata.

A Betlemme forze di sicurezza palestinesi in tenuta antisommossa hanno sparato lacrimogeni e granate stordenti contro i manifestanti, obbligandone molti a mettersi al riparo.

Il medico legale Samir Abu Zarzour ha affermato che, secondo l’autopsia preliminare, le ferite indicano che Banat è stato picchiato alla testa, al petto, al collo, alle gambe e alle mani, e che è passata meno di un’ora tra il suo arresto e la morte.

La famiglia di Banat ha detto che le forze di sicurezza gli hanno spruzzato uno spray al peperoncino, lo hanno picchiato e trascinato via in auto.

L’ANP ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla morte di Banat, ma ha fatto ben poco per placare la rabbia nelle strade.

In seguito alle notizie sulla sua morte giovedì a Ramallah i manifestanti hanno provocato incendi, bloccato le strade del centro città e si sono scontrati con la polizia antisommossa. Venerdì, al funerale di Banat a Hebron e dopo la preghiera del venerdì nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, i palestinesi hanno anche scandito slogan contro l’ANP.

Sabato a Ramallah i dimostranti si sono scontrati con forze di sicurezza palestinesi e avversari favorevoli all’ANP, mentre in centinaia hanno cercato di sfilare in corteo fino al complesso degli uffici di Abbas. Banat si era candidato alle elezioni parlamentari palestinesi, che erano previste per maggio finché Abbas non le ha rinviate a tempo indeterminato.

Mkhaimar Abusada, docente associato in scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza, ha detto ad Al Jazeera che Abbas e l’ANP, sostenuta dalla comunità internazionale, stanno affrontando una crescente reazione da parte dei palestinesi per la percezione di corruzione e autoritarismo.

Non si erano mai viste queste masse di manifestanti palestinesi che protestano contro l’Autorità Nazionale Palestinese, scandendo slogan direttamente contro il presidente Abbas perché venga rimosso e cacciato [dal potere].”

Una vergogna”

Shawan Jabareen, direttore dell’associazione per i diritti Al Haq, ha affermato che gli scontri di domenica tra gruppi rivali di palestinesi nelle strade sono stati una “vergogna”, soprattutto dopo che a maggio molti palestinesi avevano messo da parte le differenze per unirsi nelle proteste contro i bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza durati 11 giorni e contro le espulsioni forzate di palestinesi nella Gerusalemme est occupata.

In questo momento si vedono di nuovo i palestinesi divisi,” ha detto ad Al Jazeera.

Ad essere onesti, sono preoccupato per la gente qui.”

Jabareen ha affermato che molti degli uomini in borghese che domenica hanno aggredito i giornalisti erano membri delle forze di sicurezza.

Non sono civili. Sono membri della sicurezza,” ha detto Jabareen.

Fadi Quran, uno storico attivista di Avaaz [ong che promuove cause ambientali e a favore dei diritti umani, ndtr.], era presente alle proteste di domenica e anche lui afferma che “teppisti” dell’ANP hanno aggredito manifestanti e giornalisti e molestato sessualmente donne che partecipavano al corteo.

Quello che è successo è estremamente pericoloso e doloroso, tutto perché essi temono la mobilitazione popolare contro Mahmoud Abbas e l’ANP, che continuano a collaborare con l’occupazione e a opprimere il popolo palestinese,” ha affermato.

L’ANP si coordina con Israele sulla sicurezza e su questioni civili.

La gente non dovrebbe vedere Israele e l’ANP come entità separate, l’ANP come entità è un subappaltante dell’occupazione,” ha detto Quran.

Nel contempo, ha affermato un iscritto al suo partito, Nasri Abu Jaish, ministro del Lavoro e rappresentante del Partito del Popolo nel governo, domenica ha dato le dimissioni.

Il Partito del Popolo Palestinese, di sinistra, si è ritirato dal governo dell’ANP guidato da Fatah a causa della sua “mancanza di rispetto per le leggi e le libertà pubbliche,” ha affermato Issam Abu Bakr, membro del partito.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Tre giovani donne arabe aggredite da una folla violenta ad Haifa. La polizia ‘guardava e non faceva nulla’

Judith Sudilovsky

| 27 giugno 2021 – Haaretz

Gli agenti sono passati senza fermarsi vicino alle giovani donne, le figlie del console onorario spagnolo nel nord di Israele. Ci sono volute tre telefonate e parecchie ore prima che un’auto della polizia arrivasse sul posto.

La notte del 12 maggio una banda di 30 uomini ha aggredito tre giovani donne e vandalizzato la loro auto di fronte alla loro casa nella German Colony [quartiere costruito nel XIX secolo per accogliere i pellegrini tedeschi in Terra Santa, ndtr.] di Haifa. L’aggressione è avvenuta durante un’ondata di rivolte che nelle città miste è seguita all’attacco missilistico di Hamas contro Israele ed alla controffensiva israeliana nella Striscia di Gaza.

Alcune delle 16 videocamere che la loro famiglia ha installato intorno alla proprietà hanno filmato l’aggressione. Un video del cellulare di un vicino mostra le giovani donne gridare ed affrontare gli uomini che le spintonano, che scagliano sassi contro la loro auto e ne frantumano il parabrezza con dei bastoni.

Le donne – Sama Abunassar, 23, e le sue sorelle Nardine, 20, e Hala, 16 – sono le figlie di Reem e Wadie Abunassar. Wadie è il portavoce dei vescovi cattolici della Terrasanta e console onorario della Spagna nel nord di Israele.

Secondo il resoconto delle sorelle e dei loro vicini, alcuni agenti di polizia dell’unità speciale Yasam [reparto antisommossa, ndtr.] stazionavano a circa 50 metri di distanza lungo la strada, sullo stesso lato della loro casa, ma non sono intervenuti. Un agente ha perfino spinto via Sama, dicendole “vattene da qui” mentre lei lo pregava di aiutarla.

Ero scioccata che stesse accadendo una cosa del genere. Mi aspettavo che qualcuno venisse a difendermi. Non è accorso nessuno, né polizia, né vicini. Eravamo solo le mie sorelle ed io contro 30 uomini,” ricorda Sama, a poco più di un mese dall’aggressione. “Non sapevo cosa fare. Pensavo

Il giorno dopo, la polizia ha preso le riprese delle videocamere di sicurezza della famiglia. Wadie e Nardine hanno riferito alla polizia della notte dell’attacco, ma gli investigatori non hanno raccolto le testimonianze di Sama o Hala.

Nessun sospetto è stato interrogato per aver preso parte all’attacco, che ha anche causato danni ad altre proprietà di arabi lungo la strada.

Il 14 giugno la famiglia Abunassar è stata informata della chiusura del caso per mancanza di prove.

Ma più che mettere in discussione il mancato arresto di qualcuno tra i sospetti aggressori, la famiglia chiede perché gli agenti –che si trovavano a poche decine di metri dal luogo dell’attacco e sono stati testimoni dell’aggressione – non facessero nulla per fermare i facinorosi, permettendo alla violenza di continuare.

Stavo gridando per chiedere aiuto”

Quella stessa mattina circolavano sui social media e di bocca in bocca voci su possibili dimostrazioni in altri quartieri di Haifa, ma non si faceva menzione della German Colony, situata sotto i giardini Baha’i e normalmente frequentata dai turisti per i suoi bar e ristoranti alla moda.

Verso le nove di sera Sama stava tornando a casa dal lavoro all’ Haifa Mall, quando un reparto di agenti di polizia della Yasam l’ha fermata a pochi metri dalla propria casa. Lei ha chiesto il permesso di percorrere la breve distanza fino a casa. L’hanno lasciata passare ed ha parcheggiato nello spazio privato di fronte alla sua abitazione, interrompendo per un momento la chiacchierata in arabo con un vicino, che stava fuori [di casa].

Apparentemente dal nulla, una ressa si è formata intorno a loro; gli uomini provenivano dalla parte orientale della strada, proprio dove si trovava un altro gruppo di agenti di polizia, e alcuni portavano il viso coperto da magliette, altri imbracciavano bandiere d’Israele o ne erano avvolti, molti avevano il volto in piena vista. Gli agenti non hanno impedito loro di invadere la strada.

Il vicino è sparito in casa propria e Sama è stata lasciata sola mentre il gruppo di persone violente l’ha circondata ed ha iniziato a inveire contro di lei, scandendo “Morte agli Arabi” e giurando di non lasciare nemmeno un arabo in città. Hanno spinto Sama ed hanno colpito la sua macchina nuova con bastoni e pietre, frantumando il parabrezza e rompendo le maniglie delle portiere. Quando hanno finito la scorta delle proprie pietre, si sono muniti di sassi trovati nel giardino di famiglia e li hanno gettati contro la macchina, racconta Sama.

Ho chiesto ancora e ancora perché stessero facendo questo. Cosa volevano ottenere in quel modo? Qualcuno mi ha presa e spintonata, ha detto che non sarebbero rimasti più arabi e mi ha spruzzato addosso uno spray urticante. Mi sono coperta il volto con le braccia e il mio braccio ne è rimasto ustionato,” dice Sama. “Hanno usato le aste delle bandiere per spaccare il parabrezza.”

Alle grida di Sama, le sue due sorelle sono accorse fuori dalla casa e l’hanno vista circondata dalla folla violenta.

Terrorizzata, Nardine ha chiamato i suoi genitori, che avevano portato in viaggio verso Tiberiade la sorella minore Eman, di tredici anni, e un amico, poco prima della festa cattolica dell’Ascensione del 13 maggio, la prima uscita serale dopo i lunghi lockdown e le restrizioni causate dal coronavirus.

Ho gridato ai miei genitori di tornare a proteggerci perché non c’era nessun’altro a farlo, né i nostri vicini, né la nostra famiglia, né la polizia.,” dice Nardine. “Ricordo che uno fascinoroso mi ha insultata con un sacco di parolacce volgari e pesanti.”

 È troppo imbarazzante ripetere gli insulti.

Abbiamo preso un aereo verso casa, dovevamo tornare,” afferma Reem. A circa 65 kilometri di distanza, a Tiberiade, lei aveva già visto l’inizio dell’attacco, mentre controllava le telecamere di sorveglianza tramite un’app sul suo cellulare. Dopo due rapine senza arresti in casa propria, ha preso l’abitudine di controllarle regolarmente. “Ho visto le persone arrivare e non ho smesso di urlare a Wadie che dovevamo assolutamente rincasare,” racconta.

Wadie ha immediatamente chiamato il dipartimento di polizia di Haifa e chiesto che mandassero una pattuglia a proteggere le sue figlie. Hanno chiamato altre due volte precipitandosi verso casa, chiedendo che mandassero un’auto, ma inutilmente. Non ne è stata mandata nessuna prima che gli Abunassar arrivassero a casa loro. Solo circa tre ore dopo, intorno all’una di notte, si è presentata una pattuglia.

Ho visto la polizia stare da entrambi i lati [della strada] e non fare niente,” afferma Hala, raccontando l’aggressione. “Ho visto vari uomini gridare ‘Morte agli Arabi’, circondando mia sorella. Volevo aiutarla. Avevo paura che mia sorella morisse. Sono davvero furiosa con la polizia. Stavo urlando per ricevere aiuto”

Nemmeno un sospettato

Durante l’intervista, Hala è stata forte, dicendo di non essere spaventata, ma Reem confida che ora sua figlia non dorme bene e non è riuscita a svegliarsi in tempo per le ultime lezioni dell’anno. Nessuno dorme molto bene, ammette, e lei e le sue figlie cominceranno presto una terapia per il trauma subito. Reem stessa si rifiuta di andare fuori casa durante la notte, per paura di non essere lì nel caso le sue figlie avessero bisogno di lei. Sa di essere diventata troppo protettiva quando loro escono, le chiama e scrive loro messaggini in continuazione, dice.

Laila Sharif, 57 anni, una vicina sedeva con ospiti nel suo giardino, festeggiando l’Eid al-Fitr [festa della fine del Ramadan, ndtr.], quando ha sentito le donne gridare. Lei, il suo figlio diciassettenne Adam e sua nipote sono usciti per provare ad aiutare le sorelle.

Ho sentito le voci delle ragazze urlare. Le conosco. Siamo vicine. Non volevo lasciarle sole. Ho pensato di poter essere in grado di aiutare,” dice Sharif, un’insegnante di chimica delle superiori.

Ma la folla violenta l’ha spinta indietro e ha distrutto l’entrata della sua casa. Un uomo ha estratto una pistola dalla tasca e le ha intimato di rincasare. Afferma che hanno spruzzato contro suo figlio e sua nipote uno spray urticante, poi hanno cominciato a rincorrerla, ma lei è riuscita a scappare nel giardino sul retro attraverso un passaggio nascosto. Quando la maggior parte degli uomini se n’era andata, è uscita di nuovo fuori.

[Nei pressi] c’era la polizia e … non ha fatto un bel niente, Ho la sensazione che li stesse proteggendo [i rivoltosi],” dice Sharif.

Quando è riuscita a raggiungere le sorelle Abunassar, loro erano già collassate a terra, sul ciglio della strada, e piangevano istericamente.

È stato difficile per le ragazze. Erano in stato di shock. Stavano in strada a piangere e urlare. La minore, Hala, … non smetteva di gridare. Era isterica. Sono stata là con loro finché non sono arrivati i genitori,” afferma Sharif.

Sharif ha anche presentato una denuncia alla polizia sull’aggressione, ma non ha ricevuto alcun riscontro.

Descrive un uomo armato di fucile, sulla trentina, poco più alto di lei, con la pelle chiara e i capelli castani coperti da una kippah [zuccotto usato dagli ebrei osservanti, ndtr.]. “Se mi mostrassero una foto, sarei in grado di identificarlo,” dice. “Da allora non mi sento più al sicuro, Ad Haifa non ci sono scontri tra arabi ed ebrei. Bus di rivoltosi sono arrivati in autobus da tutto il Paese.”

Degli agenti di polizia le hanno sorpassate senza soccorrerle senza nemmeno fermarsi a verificare se le sorelle fossero ferite, sostiene Sama. I vicini hanno iniziato a scendere alla spicciolata in strada e qualcuno ha prestato un primo soccorso a Nardine, che aveva una gamba sanguinante.

Quando Wadie e Reem sono arrivati hanno trovato le loro figlie sul ciglio della strada, sconvolte, e qualche vicino attorno a loro. Tuttavia né la polizia né un’ambulanza erano sul posto. Le donne sono finalmente state portate al Rambam Health Care Campus per ulteriori cure, trasportate da un ex-vicino, un autista di ambulanza ebreo che per caso passava lì vicino di ritorno a casa da lavoro.

Non ci immaginavamo che ci fosse da preoccuparsi e credevamo che la polizia sarebbe stata in giro e capace di impedire che succedesse qualunque incidente,” dice Wadie. “Abbiamo voluto credere che le cose fossero sotto controllo. Ho voluto credere che niente sarebbe successo perché le autorità avrebbero svolto il loro lavoro. Conosciamo Haifa come una città tollerante.”

Wadie si aspettava che la pattuglia già appostata nei dintorni della sua casa sarebbe accorsa in aiuto delle sue figlie, così come la polizia era stata in grado di entrare ad Umm al-Fahm e soccorrere una famiglia ebrea, che era entrata per sbaglio nella città araba il giorno dopo gli attacchi alle sue figlie, afferma.

Avevo visto come la polizia aveva reagito contro i rivoltosi arabi la notte precedente,” aggiunge. “Perché tra le decine di aggressori la polizia non è riuscita a trovare neppure una persona?”

La famiglia ha presentato un esposto contro la polizia per il mancato intervento durante l’aggressione e inoltre si è opposta alla decisione di chiudere il caso.

Con tutta la tecnologia a disposizione della polizia e delle forze di sicurezza, con tutte le registrazioni video prese dalle telecamere degli Abunassar, sembra che la polizia non abbia mosso un dito per identificare gli aggressori, afferma l’avvocato della famiglia, Hani Khoury.

Supponiamo pure che quella notte ci fosse una grande quantità di eventi e forte tensione, lo comprendiamo,” sostiene Khoury. “Non c’è comunque alcuna giustificazione per il loro mancato intervento, dato che stazionavano a 50 metri dalla casa, e che la risposta alla richiesta di aiuto delle figlie sia stata: ‘Andatevene di qui’.”

Nonostante il trauma rispetto all’accaduto, nonostante la delusione per come la polizia ha gestito la situazione, loro continuano a credere nella buona volontà della gente e nella tolleranza e coesistenza tipici di Haifa, afferma Wadie. Sanno che ci sono delinquenti ovunque nel mondo e in ogni società, dice. Si aspettano solo che la polizia sia lì per proteggere le persone dalla violenza degli estremisti.

Non abbiamo un altro Paese a cui siamo legati,” dice Reem. “Amo questo e desidero vivere qui, in pace.”

In risposta all’inchiesta su questo caso, la polizia ha dichiarato: “In seguito all’acquisizione dei reclami rispetto al caso è stata aperta e condotta in maniera equa ed imparziale un’indagine ufficiale, a prescindere dalle identità dei sospetti o delle vittime; l’indagine è stata condotta in maniera professionale ed approfondita, con lo scopo di ricostruire la verità e rendere giustizia alle parti coinvolte. Come parte dell’inchiesta ufficiale, è stata presa in considerazione una serie di iniziative, come la raccolta di prove, la visione dei video di sicurezza ed altro. Nonostante gli sforzi investigativi e l’espletamento di tutte le azioni richieste, nessun sospetto è stato identificato in flagranza. Se riceveremo altri dettagli dalla polizia o emergeranno altre notizie, che potrebbero portare a sviluppi nell’indagine, queste saranno controllate come da procedura.”

(traduzione dall’inglese di Andriano Parrotta)




In migliaia manifestano in Cisgiordania dopo la morte di un dissidente in custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Amira Hass, Jack Khoury

24 giugno 2021 – Haaretz

Un palestinese, critico implacabile dell’Autorità Nazionale Palestinese e dei suoi leader, è morto giovedì mattina dopo essere stato arrestato nella sua casa prima dell’alba dalle forze di sicurezza palestinesi. Migliaia di persone sono scese in strada per protestare nelle aree di Hebron e Ramallah.

La famiglia di Nizar Banat, originario della città di Dura, nel sud della Cisgiordania, sostiene che egli è stato picchiato duramente dalle forze di sicurezza palestinesi durante il suo arresto. Nella prima mattinata di giovedì sono emerse voci secondo cui sarebbe stato trasferito in un ospedale e poco dopo l’ufficio distrettuale di Hebron ha annunciato la morte di Banat. Sui social media palestinesi viene dichiarato uno “shahid”, o martire.

I manifestanti a Hebron e Ramallah accusano l’Autorità Nazionale Palestinese di aver commesso un omicidio politico, mentre alcuni gruppi si sono scontrati con la polizia palestinese a Ramallah. I manifestanti hanno anche chiesto che il presidente Abbas e l’Autorità Nazionale Palestinese siano deposti.

Banat, un ex membro del movimento Fatah, è stato più volte arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese per le sue aspre critiche alla leadership nei post e nei video di Facebook. Ha accusato i leader dell’ANP di corruzione e anche di aver tratto vantaggi dall’abbandono degli interessi nazionali palestinesi in cambio di benefici personali e ricchezza.

I gruppi per i diritti umani e la famiglia di Banat hanno dichiarato che l’autopsia ha mostrato che egli è deceduto soffocato dal sangue nei polmoni dopo essere stato picchiato dalle forze di sicurezza. Uno dei medici che hanno preso parte all’autopsia ha anche rivelato che Banat ha subito lesioni a tutte le parti del corpo, comprese testa, braccia e gambe. Il medico ha detto che le circostanze sollevano il forte sospetto di comportamenti criminali

Il primo ministro Mohammad Shtayyeh ha annunciato che l’Autorità Nazionale Palestinese avvierà una commissione d’inchiesta sulle circostanze della morte di Banat, ma a Hebron e nell’area di Ramallah si continua a manifestare. I commenti che circolano sui social media paragonano Banat al dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 in Turchia nel consolato dell’Arabia saudita.

Da parte sua, Hamas ha risposto all’incidente incoraggiando la partecipazione di massa ai funerali di Banat e invitando i palestinesi a “cambiare le condizioni pericolose volute dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal coordinamento della sicurezza in Cisgiordania”.

Secondo gli attivisti palestinesi, la casa di Banat si trova nell’area della città di Hebron che è sotto il controllo di sicurezza israeliano, quindi le forze palestinesi devono ricevere il permesso da Israele per entrare nell’area ed eseguire gli arresti.

Banat aveva anche contestato ferocemente Mohammed Dahlan – un rivale del presidente palestinese Mahmoud Abbas – e i suoi sostenitori, molti dei quali sono ex membri dell’establishment della sicurezza palestinese.

Uno degli ultimi video che ha pubblicato su Facebook riguardava l’accordo sui vaccini Israele-ANP, secondo il quale Israele avrebbe dovuto fornire ai palestinesi vaccini Pfizer contro il coronavirus vicini alla scadenza in cambio di nuove dosi che Pfizer invierà a Israele il prossimo anno. Molti cittadini palestinesi, che sono già fortemente scettici nei confronti dei vaccini, erano convinti che l’ANP stesse intenzionalmente nascondendo i dettagli dell’accordo.

Banat ha affermato nel suo video che se dei palestinesi fossero morti per aver ricevuto dosi di vaccino scadute, Israele sarebbe stato accusato di sterminio di massa – “un’accusa che non avrebbe potuto tollerare”, motivo per cui l’accordo è stato fatto trapelare.

Banat era un membro del partito Liberazione e Dignità e prevedeva di candidarsi alle elezioni parlamentari palestinesi, originariamente previste per il 22 maggio, ma annullate da Abbas.

Gli attivisti palestinesi che criticano l’ANP riferiscono che i suoi apparati di sicurezza stanno esercitando pressioni crescenti contro di loro nel tentativo di metterli a tacere e che nelle scorse settimane molti sono stati arrestati o convocati per essere diffidati. All’inizio di questa settimana anche Issa Amro, un attivista residente a Hebron, è stato arrestato dall’Autorità Nazionale Palestinese dopo aver scritto un post critico sui social media; è stato rilasciato il giorno successivo.

La commissione d’inchiesta annunciata dall’Autorità Nazionale Palestinese sarà guidata dal ministro della Giustizia Mohammed al-Shalaldeh, insieme a una personalità indipendente che si occupa a livello professionale di diritti umani, a un medico in rappresentanza della famiglia e a un membro dell’intelligence palestinese. Il primo ministro Shtayyeh ha affermato che la commmissione d’inchiesta avrà accesso ai reperti autoptici, alle testimonianze della famiglia e di altre parti interessate e a tutte le informazioni rilevanti.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Diventa virale il cortometraggio su Sheikh Jarrah girato da un regista palestinese

Aziza Nofal

22 giugno 2021 – Al Monitor

Il giovane regista palestinese Omar Rammal continua a raccogliere commenti positivi per “The Place,” [Il Posto], il corto che ha prodotto e postato sui social durante i recenti eventi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.

RAMALLAH, Cisgiordania — Il 15 maggio, quando il regista palestinese Omar Rammal, 23 anni, ha postato il corto “The Place,” [Il posto] sul suo canale YouTube, non si aspettava che diventasse virale. “Credevo che avrebbe ricevuto vari apprezzamenti, ma non così tanti,” ha detto Rammal ad Al-Monitor.

Il video apparso il 15 maggio sul suo account Instagram ha totalizzato più di 6 milioni di visualizzazioni e parecchi altri canali l’hanno condiviso. Rammal l’ha postato senza copyright in modo che fosse disponibile a chiunque volesse ripostarlo, per fare conoscere in tutto il mondo la realtà della Palestina, e di Sheikh Jarrah in particolare.

In “The Place”, che dura solo un minuto e mezzo, Rammal sintetizza l’espulsione di 28 famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove gruppi di coloni israeliani stanno tentando di espandersi.

Rammal ha deciso deliberatamente di postare il suo video proprio il giorno dell’anniversario della Nakba [la Catastrofe, la pulizia etnica operata dai sionisti nel ’47-’48, ndtr.] per dire che il furto delle case palestinesi continua da allora e che il quartiere di Sheikh Jarrah non sarà l’ultimo, perché ogni “posto” in Palestina è preso di mira in vista della continua occupazione.

Nel suo film si concentra sulla storia di una famiglia palestinese che parla della propria casa: c’è la mamma che dice che la sua cucina è “condita con amore”, la ragazzina che ama la sua cameretta e i suoi giocattoli, il ragazzo che rappresenta i giovani palestinesi e il padre che l’ha ereditata insieme a un albero nel giardino piantato dal nonno, la cosa che ama di più della casa.

Alle spalle di queste immagini “normali”, si vedono i coloni che stanno portando via i ricordi della famiglia a cui stanno rubando la casa.

Rammal ha voluto mettere i sottotitoli in inglese con un commento semplice alla fine che riassumesse il messaggio del film: “Il posto siamo noi … la nostra esistenza … i nostri ricordi e il nostro futuro.”

Quando a Rammal è venuta l’idea per “The Place,” ne ha parlato con il suo amico sceneggiatore Suleiman Tadros che l’ha aiutato a trasformarla in un copione. Il produttore Abdel Rahman Abu Jaafar e l’intera troupe, inclusi gli attori, sono tutti volontari che hanno contribuito, ognuno nel proprio ruolo, per sostenere la lotta palestinese.

Le riprese sono durate tre giorni, ma Rammal non ha pensato che il film fosse abbastanza potente fino a quando non hanno girato la scena della mamma, interpretata dall’attrice giordana Hind Hamed. “Riguardandola dopo le riprese mi sono venuti i brividi. È stato in quel momento che mi sono detto che avrebbe avuto un enorme impatto,” ha concluso Said.

Rammal crede che, oltre ad aver postato il film sui social in un momento in cui il mondo stava mostrando grande solidarietà alla causa palestinese e al quartiere di Sheikh Jarrah, il segreto del suo successo stia nel modo in cui ne ha trasmesso il messaggio umanitario.

Rammal osserva che il cinema palestinese e arabo, nonostante la carenza di risorse, se usato in modo intelligente e sensibile, può comunicare i temi palestinesi in tutto il mondo.

Lui paragona il successo di “The Place” a quello del suo primo film del 2019, “Hajez” (“Checkpoint”), che parla delle sofferenze quotidiane dei palestinesi ai checkpoint israeliani. Sebbene entrambi illustrino una realtà palestinese, il primo non era stato accolto molto bene a causa dell’esplicito messaggio politico.

Il successo di questo film pone Rammal davanti a una scelta: lui non vuole essere visto come un regista palestinese che fa solo vedere la lotta palestinese, dato che invece crede che si debba mostrare l’altro lato della vita dei palestinesi che non è diversa da quella di qualsiasi altra persona in qualunque altro posto. “È vero che la vita dei palestinesi è complicata dall’occupazione, ma noi viviamo la nostra quotidianità come chiunque altro.”

Lui sostiene che i registi palestinesi non dovrebbero solo presentare tematiche palestinesi o mostrare i palestinesi solo sotto una luce negativa o in modo superficiale, ma piuttosto dovrebbero concentrarsi nel rispecchiarne il lato umano e la vita quotidiana.

Rammal viene da Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, e ha completato i suoi studi in cinematografia nella capitale giordana, Amman. Nel 2018 ha diretto: “Fatimah,” un breve documentario su una ragazza siriana sfollata in Giordania e ha partecipato a vari festival arabi e internazionali, come il film festival franco-arabo, l’Elia film festival di corti e il Winter Film Awards a New York.

“The Place” non ha solo trasmesso un messaggio palestinese in tutto il mondo. Ha anche dimostrato che il cinema palestinese può comunicare un’autentica storia palestinese usando in modo intelligente gli strumenti disponibili e i social per contrastare la narrazione israeliana che falsa l’immagine dei palestinesi.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Sheikh Jarrah: le forze israeliane feriscono più di 20 palestinesi nella Gerusalemme est occupata

A cura della redazione di MEE

22 giugno 2021 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno riferito di aver usato nel quartiere granate stordenti, spray al peperoncino e proiettili ricoperti di gomma

Lunedì sera nella Gerusalemme est occupata più di 20 palestinesi sono stati feriti nel corso di un raid delle forze israeliane nel quartiere di Sheikh Jarrah.

Gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah stanno affrontando delle espulsioni forzate finalizzate a consentire ai coloni israeliani la presa di possesso delle loro case.

L’area è diventata un fulcro di proteste e sit-in di solidarietà che raccolgono palestinesi e israeliani contrari all’occupazione e attivisti internazionali che sostengono gli abitanti di Sheikh Jarrah.

Lunedì la Mezzaluna Rossa Palestinese ha riferito che nella zona 21 persone avrebbero subito dei danni, 13 per aver inalato gas lacrimogeni, tre a causa dello spray al peperoncino e due per essere state colpite da proiettili di metallo ricoperti di gomma sparati dalle forze di polizia israeliane.

L’organizzazione ha aggiunto che due persone avrebbero riportato ferite a causa delle percosse, mentre un anziano sarebbe stato ricoverato in ospedale in seguito a un trauma cranico.

La Mezzaluna Rossa Palestinese ha affermato che i coloni di Sheikh Jarrah avrebbero lanciato pietre contro una delle loro ambulanze, mentre su un’altra le forze israeliane avrebbero spruzzato dell’acqua puzzolente.

Secondo Haaretz la polizia israeliana ha riferito che un colono avrebbe subito una ferita alla schiena in seguito al lancio di una pietra.

Saleh Diab, un attivista palestinese, ha detto all’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa che a Sheikh Jarrah le forze di polizia israeliane, mentre sparavano granate stordenti e proiettili ricoperti di gomma, avrebbero arrestato due palestinesi e, nell’assalire le case delle famiglie al-Kurd e al-Qasem, alle prese con un’imminente un’espulsione, avrebbero aggredito gli abitanti con manganelli.

Arresti in Cisgiordania

Nel corso dei raid di lunedì sera e martedì mattina nella Cisgiordania occupata la polizia israeliana ha arrestato 35 palestinesi. Tali raid notturni in città e villaggi palestinesi vengono effettuati dalle forze israeliane e da unità sotto copertura quasi quotidianamente.

Secondo Wafa nel villaggio di Qarawat Bani Hassan, nel nord della Cisgiordania, sono stati arrestati 14 palestinesi, 12 dei quali appartenenti alla famiglia Marei.

Altri sette palestinesi sono stati arrestati a Jenin e due a Tulkarm, mentre nel quartiere di Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa a Gerusalemme est, ne sono stati arrestati 10.

Gli arresti sono stati effettuati ​​lunedì quando i coloni israeliani hanno fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa, affiancati dalla polizia israeliana.

I coloni sono entrati nel sito dalla Porta Marocchina, a est della Moschea di Al-Aqsa, che conduce alla piazza del Muro Occidentale, dove gli israeliani recitano le preghiere.

Il Jerusalem Islamic Waqf, l’istituzione religiosa palestinese che amministra il sito, ha affermato che i coloni avrebbero svolto le preghiere ebraiche di fronte alla porta di al-Rahmeh e alla moschea della Cupola della Roccia, e avrebbero ascoltato un sermone sul Terzo Tempio ebraico [detto anche Tempio di Ezechiele, descritto e profetizzato nel Libro di Ezechiele, ndtr.].

Nonostante il divieto di pregare lì, i coloni entrano regolarmente nella moschea di Al-Aqsa, con l’obiettivo di rafforzare la presenza ebraica sul sito, tanto che alcuni chiedono la distruzione della moschea della Cupola della Roccia per costruire un tempio ebraico al suo posto.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Centinaia di coloni marciano in Cisgiordania contro l’edificazione di case palestinesi

Hagar Shezaf

21 giugno 2021 – HAARETZ

La principale marcia di protesta si è diretta all’avamposto illegale di Evyatar, che i coloni continuano a edificare nonostante un ordine di sgombero dell’esercito israeliano

Lunedì centinaia di coloni hanno partecipato a 14 marce in tutta la Cisgiordania per protestare contro l’edificazione di case palestinesi nell’Area C, che è sotto il controllo della sicurezza israeliana. Lo slogan delle marce era “Combattere per le terre dello Stato”. Durante le marce non è stato registrato nessun incidente.

La marcia principale è iniziata a Tapuach Junction, diretta verso l’avamposto illegale di Evyatar. Diverse decine di coloni hanno marciato attraverso gli uliveti della zona e hanno terminato la marcia con una manifestazione alla quale hanno partecipato il leader dei coloni Yossi Dagan e l’attivista Sheffi Paz, con il cantante Ariel Zilber che ha provveduto all’intrattenimento.

Neora, una madre di tre figli della colonia di Rehelim, ha partecipato alla marcia con la sua famiglia. Siamo venuti perché amiamo questo Paese; siamo infastiditi dal fatto che non vengano costruite nuove colonie. Non siamo in realtà un popolo libero nella nostra terra, [come dice l’inno nazionale]. Si è lamentata del fatto che un gruppo di abitanti del vicino villaggio palestinese di Beita provocherebbe disagi nel corso della notte bruciando continuamente pneumatici nei pressi del suo insediamento coloniale e provocando un denso fumo nel tentativo di far andare via i coloni. Ha detto che gli abitanti del villaggio farebbero anche uso di laser e altre fonti di luce per molestare i coloni.

Altre marce si sono svolte nella Valle del Giordano, sulle colline a sud di Hebron e vicino a Ma’aleh Adumim [colonia israeliana e città palestinese situate ad est di Gerusalemme, in Cisgiordania, ndtr.]. Le marce sono state organizzate da gruppi di destra come Hashomer Yehuda VeShomron, Im Tirzu e Regavim, nonché da vari consigli regionali che sovrintendono alle colonie. Le forze armate israeliane hanno affermato che l’organizzazione delle marce non richiede la necessità di permessi o l’adozione da parte loro di misure speciali.

L’obiettivo di alcune di queste marce era costituito dalle terre definite dall’amministrazione civile come “terreni da indagare”, cioè territori che richiedono un’indagine al fine di determinare se siano di proprietà statale. L’esame dello stato di queste terre è un lungo processo chiamato rilevamento del territorio. I coloni desiderano accelerare il processo in modo che la terra in Cisgiordania possa divenire di proprietà dello Stato. Questo è ciò che è successo a Evyatar, che è stato eretto all’inizio di maggio. L’avamposto coloniale è sorto vicino a Beita, a sud di Nablus. Dopo che i coloni hanno preso possesso della terra in quell’area, è iniziata l’indagine sul suo stato.

Secondo i dati dell’amministrazione civile del 2011, ci sono 1,3 milioni di dunam (129.499 ettari) di terra statale in tutta la Cisgiordania. Dal 1967 a quell’anno solo lo 0,25% di quella terra è stato assegnato ai palestinesi, in contrasto con il 46% dato ai coloni. Per ogni dunam ( 1000 m.) assegnato a un palestinese, 370 sono stati dati ai coloni.

Il gen. Tamir Yadai, a capo del comando centrale, ha respinto una petizione presentata dai coloni di Evyatar riguardo a un’ingiunzione che ne ordinava lo sfratto.

In risposta all’opposizione degli abitanti all’ordine, Yadai ha affermato che [i coloni] hanno “violato palesemente e gravemente la legge costruendo in breve tempo decine di edifici abitati da decine di famiglie”. Il fatto che i coloni abbiano continuato a costruire nel sito anche dopo aver ricevuto l’ordine di fermarsi, a cui doveva seguire lo sgombero dell’avamposto, ha mostrato mancanza di buona fede e contribuisce alla violazione dell’ordine pubblico e dello stato di diritto nell’area, ha aggiunto Yadai.

Il vice consulente legale responsabile per la Cisgiordania, il tenente colonnello Lahat Shemesh, ha affermato che l’avamposto coloniale ha destabilizzato la sicurezza dell’area, portando a decine di istanze di interruzione. Ciò ha richiesto l’allocazione di forze che sono state sottratte ad altre missioni operative.

L’avamposto coloniale ha suscitato proteste tra i palestinesi della zona, che hanno portato alla morte di quattro uomini a causa degli spari dell’IDF [l’esercito israeliano, ndtr.]. La scorsa settimana, il sedicenne Ahmed Zahi Bani Shamsa di Beita è deceduto per le ferite riportate il giorno prima dopo essere stato colpito da un colpo di arma da fuoco sparato da un soldato. L’esercito ha sostenuto che Shamsa sarebbe corso verso un soldato e avrebbe lanciato un ordigno esplosivo prima di essere colpito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I medici palestinesi lottano in prima linea per salvare vite

Redazione di Al Jazeera

15 giugno 2021 – Al Jazeera

Forze israeliane e coloni prendono di mira i manifestanti palestinesi e i medici che cercano di salvarli.

Niilin, Cisgiordania occupata. Bassem Sadaqa indica il foro di una pallottola nella portiera dell’autista dell’ambulanza che lui guida, prova tangibile di quello che, secondo lui, è un evento normale per i medici palestinesi che sono “regolarmente presi di mira” dalle forze israeliane.

Lui ha cinque figli, vive a Niilin e da vent’anni fa il paramedico per la Mezzaluna Rossa palestinese (PRCS).

In un primo momento ho pensato che l’ambulanza fosse stata colpita da pietre, ma poi ho visto il foro. Lo sparo non è stato uno sbaglio, i soldati israeliani hanno preso di mira l’ambulanza mentre io ero proprio lì vicino. Inoltre non è stata la prima volta che le ambulanze che ho guidato sono state prese di mira.”

Il giorno in cui è successo Sadaqa era in prima linea con i suoi colleghi medici palestinesi che lottano per salvare vite e trasportare i manifestanti feriti verso gli ospedali che distano mezz’ora d’auto.

Gli abitanti dei villaggi palestinesi stavano protestando contro l’insediamento illegale dell’ennesimo avamposto sulla terra del loro villaggio quando sono stati fronteggiati da coloni israeliani in uno scontro che ha causato violenza e molti feriti.

Niilin è un villaggio agricolo con oltre 6.000 abitanti che si guadagnano da vivere principalmente coltivando la terra, situata 17 km a occidente di Ramallah, la città principale della Cisgiordania occupata.

Qui la gente lotta per non perdere la terra rimasta al villaggio dopo gli espropri conseguenti a insediamenti e avamposti illegali israeliani che avanzano sempre di più e che ora li hanno circondati con le colonie illegali israeliane di Nili e Na’ale a nordest e Modi’in Illit a sud.

Negli accordi di Oslo del 1993, stipulati fra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il 93% della superficie del villaggio, 15.000 dunam (1500 ettari), era stato designato come Area C, corrispondente al 60% della Cisgiordania, sotto il totale controllo di Israele.

Israele limita le costruzioni dei palestinesi nella maggior parte dell’Area C mentre riserva l’area all’espansione delle colonie, illegali secondo il diritto internazionale.

Aumento dell’uso di munizioni vere’

Recentemente un venerdì, la giornata in cui in genere si svolgono le proteste in Cisgiordania, Al Jazeera ha accompagnato un’ambulanza guidata dai paramedici Ziad Abu Latifa, 50 anni, del campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme) e Said Suleiman, 40 anni, del villaggio di al-Midya, vicino a Niilin.

Un colono di un avamposto nelle vicinanze aveva spostato la sua mandria a pascolare su terra palestinese, innescando due giorni di proteste durante i quali gruppi di coloni hanno invaso il villaggio, incendiato i campi e danneggiato veicoli appartenenti a palestinesi che a centinaia si sono riuniti nel tentativo di respingerli.

Uno dei feriti è il sindaco di Niilin, Emad Khawaja, ferito a una gamba da truppe israeliane.

Il primo giorno degli scontri sono state ferite undici persone con munizioni vere, quattro il secondo giorno. Recentemente abbiamo notato un incremento nell’uso di questo tipo di munizioni contro i manifestanti,” ha detto Khawaja ad Al Jazeera.

La pallottola resterà nella gamba per tutta la mia vita perché tentare di estrarla causerebbe un danno maggiore.”

Mentre il numero dei feriti sale, proprio quest’ambulanza correva a rotta di collo lungo le strette strade tutte a curve, su per le colline e giù nelle valli, facendo due viaggi, avanti e indietro, da Niilin all’ospedale di Ramallah.

Abu Latifa, con otto figli, è paramedico da cinque anni e un volontario della PRCS da 17, dice ad Al Jazeera che, sebbene il suo lavoro sia pericoloso e stressante, pensa di star aiutando come meglio può dopo essere stato testimone in prima persona delle ferite inflitte ai palestinesi nel corso degli anni e della carenza di cure mediche adeguate a loro disposizione.

Quando ho partecipato alle proteste durante la prima Intifada con ossa fratturate sono stato abbandonato sul ciglio della strada da soldati israeliani prima che un automobilista di passaggio mi portasse in ospedale, dove sono rimasto privo di sensi per due giorni,” ha detto Abu Latifa.

Durante la prima Intifada, dal 1987 al 1993, Yitzhak Rabin, il defunto primo ministro israeliano aveva ordinato ai soldati israeliani di spezzare braccia e gambe dei palestinesi per impedire loro di lanciare pietre durante le proteste che si erano allargate nella Cisgiordania e a Gaza, una decisione che aveva provocato lo sdegno internazionale.

Quella è stata la motivazione che mi ha spinto a studiare per diventare paramedico e poter prestare i primi soccorsi alle persone e trasportarle in ospedale,” spiega Abu Latifa.

Un soldato mi ha colpito alla testa con il calcio del fucile’

Sadaqa dice che mentre presta servizio sul campo cerca di stare calmo, di ignorare lo stress e di concentrarsi sulla cura dei suoi pazienti per quanto possibile date le circostanze.

Uno degli altri problemi che affrontiamo è quello dei soldati che rifiutano di permettere alle ambulanze di avvicinarsi a coloro che sono gravemente feriti o che le fermano mentre cercano di trasportare i feriti in ospedale, talvolta portando via i nostri pazienti dalle ambulanze,” afferma.

Non è solo ad aver vissuto questo tipo di situazioni.

Una delle peggiori esperienze di Abu Latifa è stata quando stava cercando di raggiungere un manifestante palestinese nel villaggio di Nabi Saleh, vicino a Ramallah, a cui una pallottola era uscita dal collo dopo aver attraversato il fianco.

Il giovane era stato ferito da lontano mentre i soldati israeliani stavano reprimendo una protesta sul terreno del villaggio, ma le truppe hanno impedito ai paramedici di avvicinarsi al ragazzo gravemente ferito che in seguito è morto.

È particolarmente difficile viaggiare di notte per trasportare i pazienti quando non c’è nessuno in giro e non ci sono giornalisti sul posto a testimoniare quello che sta succedendo,” riferisce Abu Latifa.

Recentemente sono andato al villaggio Kubar, vicino a Ramallah, per portare via un giovane che era stato ferito a una gamba dai soldati. Ma mentre cercavo di caricarlo su un’ambulanza, un soldato mi ha colpito in testa con il calcio del suo M-16 (fucile d’assalto).

Poi ho telefonato in centrale e dopo un’ora di negoziati con l’ufficiale di collegamento israeliano ci è stato permesso di evacuare il paziente.”

Mentre il sole tramonta, il turno di Abu Latifa e Suleiman finisce, l’ambulanza ritorna a Ramallah con i paramedici esausti, soddisfatti di aver fatto del loro meglio per salvare delle vite.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele-Palestina: pestaggi, arresti e grida di “morte agli arabi” durante la marcia dell’estrema destra nella Città Vecchia di Gerusalemme

Shady Giorgio da Gerusalemme

15 giugno 2021 – Middle East Eye

La polizia israeliana ha chiuso la simbolica Porta di Damasco e ha picchiato e arrestato i palestinesi nel corso del corteo per due volte posticipato

Martedì la polizia israeliana ha picchiato e arrestato dei palestinesi dopo aver chiuso la Porta di Damasco per far posto agli israeliani che si radunavano per l’inizio di una provocatoria marcia nazionalista attraverso la città vecchia della Gerusalemme est occupata.

La cosiddetta marcia della bandiera si è tenuta martedì dopo essere stata annullata nei giorni in cui le ripetute azioni repressive israeliane nella moschea di al-Aqsa e la minaccia di espulsione delle famiglie palestinesi stavano causando dei tumulti a Gerusalemme.

Prima della marcia, dopo aver chiuso alcune strade e la Porta di Damasco, la polizia israeliana ha arrestato a Gerusalemme dei palestinesi. I video pubblicati su Twitter mostrano agenti israeliani che picchiano un palestinese sui gradini della Porta di Damasco.

La Mezzaluna Rossa ha riferito che durante gli scontri con le forze dell’ordine israeliane nella zona della Città Vecchia sono rimaste ferite 27 persone, di cui tre a causa di proiettili d’acciaio ricoperti di gomma, uno dopo essere stato picchiato e un altro colpito da una granata stordente. Due persone sono state ricoverate.

Le autorità hanno picchiato i venditori che lavoravano nei negozi vicini alla Porta di Damasco e li hanno allontanati dalla Città Vecchia. L’area intorno alla Porta è stata isolata nel primo pomeriggio di martedì, fatta eccezione per i giornalisti, con diverse barriere erette per favorire il passaggio della marcia dei coloni.

Grida di “morte agli arabi”

All’inizio della marcia più di mille israeliani si sono radunati nella piazza della Porta di Damasco sventolando bandiere nazionali e cantando gli inni del movimento dei coloni.

I video pubblicati sui social media mostrano gli israeliani che sventolano bandiere e gridano “morte agli arabi”.

Alcuni di loro hanno issato sulle loro spalle Itamar Ben-Gvir, il parlamentare di estrema destra e alleato di Benjamin Netanyahu, e Bezalel Smotrich, leader della fazione Sionismo Religioso di estrema destra.

Prima della marcia le autorità israeliane hanno alzato il livello di allerta nel Paese, rinforzando lo schieramento di forze di polizia e di militari vicino alla Striscia di Gaza sotto assedio e nelle città israeliane con popolazione mista ebrea e palestinese.

Martedì pomeriggio sono stati lanciati da Gaza in Israele alcuni palloni incendiari e sono stati segnalati 20 incendi lungo il confine con Gaza.

Inoltre, in previsione di una possibile escalation a Gaza, le autorità israeliane hanno dirottato verso la “Rotta del Nord” i voli in entrata e in uscita da Israele.

La marcia si è svolta lungo le mura della Città Vecchia dalla Porta di Damasco alla Porta di Giaffa, prima di dirigersi verso il Muro Occidentale.

Contro manifestazioni palestinesi hanno avuto luogo a Gerusalemme e in città israeliane con un numero significativo di palestinesi, in seguito all’invito da parte di alcune organizzazioni palestinesi ad una “giornata della rabbia” in segno di denuncia contro la marcia dell’estrema destra.

Nella città di Gaza alcuni manifestanti hanno dato fuoco a immagini dell’ex leader Netanyahu e del suo successore appena nominato, il nazionalista ebreo favorevole al colonialismo ed informatico milionario Naftali Bennett.

Il primo test del nuovo governo

La Marcia della Bandiera si tiene solitamente in occasione del Giorno di Gerusalemme, che segna la conquista e la successiva occupazione di Gerusalemme Est da parte di Israele nella guerra mediorientale del 1967.

La marcia riunisce generalmente migliaia di giovani religiosi israeliani di estrema destra, che intonano slogan anti-palestinesi e sventolano bandiere israeliane mentre attraversano le stradine della Città Vecchia di Gerusalemme est.

Il percorso della Marcia della Bandiera, inizialmente programmata per il 10 maggio, è stato deviato dal luogo critico della Porta di Damasco in seguito alle proteste palestinesi contro la prevista espulsione forzata dei palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e i violenti attacchi delle forze israeliane alla moschea di al-Aqsa.

Quel giorno la marcia è stata annullata in seguito al suono delle sirene quando Hamas ha lanciato da Gaza quattro razzi verso Gerusalemme dopo che Israele aveva ignorato il suo ultimatum che chiedeva il ritiro delle forze israeliane da al-Aqsa.

Nei successivi 11 giorni l’esercito israeliano e Hamas si sono impegnati in una guerra che avrebbe causato 248 morti a Gaza e 13 in Israele.

La marcia è stata successivamente riprogrammata per il 10 giugno, ma ancora una volta rinviata in seguito alla minaccia da parte di Hamas di una ripresa delle ostilità nel caso in cui avesse avuto luogo.

La nuova data per la marcia è stata stabilita l’8 giugno dal gabinetto dell’allora primo ministro Benjamin Netanyahu, che domenica è stato destituito dal parlamento israeliano dopo 12 anni trascorsi nella carica di primo ministro.

La Marcia della Bandiera sarà il primo test per il fragile governo di coalizione di Bennett, messo insieme dal centrista laico Yair Lapid, un ex presentatore televisivo, e comprendente otto partiti, che vanno da Yamina di Bennett, di estrema destra, al partito laburista di sinistra e a un partito islamista che rappresenta parte dei cittadini palestinesi di Israele.

Anche se Bennett è un membro di spicco dell’estrema destra israeliana, Netanyahu ha etichettato il nuovo governo come un “pericoloso” governo di “sinistra” e lo ha accusato di essere “la più grande frode elettorale nella storia” di Israele.

Una provocazione contro la nostra gente

I suprematisti ebrei, tra cui il deputato israeliano Itamar Ben-Gvir, hanno nel frattempo promesso di partecipare alla marcia indipendentemente da quanto ne potessero dire il nuovo governo – o i palestinesi.

“Arriverò oggi per partecipare alla parata della bandiera e sventolerò la bandiera israeliana”, ha scritto su Twitter martedì mattina. “Non abbiamo bisogno del permesso di Hamas o della Jihad islamica per marciare nella capitale di Israele”.

marcia come “una provocazione e un’aggressione che dovrà cessare contro il nostro popolo, Gerusalemme e la sua sacralità”.

Lunedì Shtayyeh ha twittato: “Mettiamo in guardia dalle pericolose ripercussioni che potrebbero derivare dall’intenzione della potenza occupante di consentire ai coloni israeliani estremisti di tenere domani la Marcia della Bandiera nella Gerusalemme occupata”.

Ad aprile i coloni israeliani avevano già marciato per le strade della Città Vecchia di Gerusalemme scandendo “morte agli arabi”, scatenando scontri tra palestinesi e polizia militare israeliana, la quale ha impedito ai primi di accedere alla piazza della Porta di Damasco.

L’inviato delle Nazioni Unite per la pace in Medio Oriente, Tor Wennesland, ha invitato “tutte le parti interessate ad agire in modo responsabile e ad evitare qualsiasi provocazione che potrebbe portare a un altro scontro”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Questo non è un conflitto: questo è apartheid’: più di 16.000 artisti firmano una lettera di solidarietà con la Palestina

Michael Arria

14 giugno 2021 – Mondoweiss

Più di 16.000 artisti, centinaia dei quali palestinesi, sei vincitori dell’Academy Award e otto scrittori vincitori del Premio Pulitzer, hanno firmato una lettera in cui si denuncia il sistema di apartheid israeliano e si sollecitano i Paesi a “interrompere i rapporti commerciali, economici e culturali.”

Più di 16.000 artisti hanno firmato una lettera che condanna il recente attacco israeliano contro Gaza e denuncia il sistema di apartheid del Paese. La lettera inoltre invita altri Paesi a “interrompere i rapporti commerciali, economici e culturali” con Israele.

Con il titolo “Una lettera contro l’apartheid”, il testo è stato scritto da sei artisti palestinesi che hanno chiesto di restare anonimi. Inizialmente è stata firmata da centinaia di artisti palestinesi, compresi i registi Annemarie Jacir, Elia Suleiman, e Farah Nabulsi; gli artisti figurativi Emily Jacir e Larissa Sansour; l’attrice Hiam Abbas; le musiciste Kamilya Jubran e Sama’ Abdulhadi; gli scrittori Elias Sanbar, Mohammed El-Kurd, Naomi Shihab Nye, Raja Shehadeh, Randa Jarrar, Suad Amiry e Susan Abulhawa.

In seguito artisti di tutto il mondo hanno firmato in sostegno al documento. Tra i sostenitori vi sono sei registi e attori vincitori dell’ Oscar: Alejandro Iñárritu, Asif Kapadia, Holly Hunter, Mike Leigh, Jeremy Irons, Julie Christie, Thandiwe Newton, Viggo Mortensen, Brian Cox, Michael Moore, Alia Shawkat, e Susan Sarandon; otto scrittori, poeti e drammaturghi vincitori del Premio Pulitzer: Benjamin Moser, Hisham Matar, Richard Ford, Viet Thanh Nguyen, Tyehimba Jess, Annie Baker, Lynn Nottage e Tony Kushner; molti altri, compresi Brian Eno, Angela Davis, Roger Waters, Cypress Hill, Ta-Nehisi Coates e Robert Wyatt.

Gli autori [della lettera] hanno anche detto a Mondoweiss che la decisione di restare anonimi era nata dal desiderio di parlare con una voce collettiva e che la lettera non venisse associata a specifiche persone o organizzazioni.

Uno degli organizzatori, in un comunicato stampa in cui si annunciava la dichiarazione, ha detto: “Una dimostrazione senza precedenti di unità, ispirata dai protagonisti più significativi di ciò che abbiamo visto svilupparsi in Palestina. I palestinesi di Gaza, Gerusalemme, Ramallah e di tutto il mondo hanno dimostrato che 70 anni di politiche israeliane non hanno spezzato la loro percezione di se stessi come palestinesi. Questa lettera riflette tutto questo.”

Nella lettera si legge: “Dipingere questo come una guerra tra due parti eguali è falso e mistificante. Israele è la potenza coloniale. La Palestina è colonizzata. Questo non è un conflitto: questo è apartheid.”

Dopo la più recente escalation di violenza da parte degli israeliani c’era la seguente domanda”, ha detto a Mondoweiss uno degli autori. “Tutti abbiamo avuto questa discussione riguardo a cosa potremmo fare e come potremmo usare le nostre reti. Come possiamo usare il nostro ruolo per organizzarci attorno a questo?”

Un altro obbiettivo era portare ad un pubblico più vasto questa terminologia che i palestinesi hanno elaborato per decenni”, hanno spiegato. “Abbiamo scritto questa lettera con un sincero senso di urgenza ed essa ha acquistato vita propria. Cerchiamo di equilibrare questa urgenza con una risposta a lungo termine che non sia legata solo agli eventi specifici che sono accaduti nelle ultime settimane. La lettera è stata innescata da essi, ma questi fatti sono solo una continuazione di tutto ciò che è accaduto per decenni, la lettera è un appello a lungo termine.”

Gli autori hanno detto che la quantità di persone che hanno voluto firmarla segnala il fatto che l’opinione pubblica sulla Palestina sta cambiando.

Ovviamente la gente ha ancora paura e c’è ancora la censura”, ha detto uno degli autori, “ma la confusione tra antisemitismo e sostegno alla liberazione della Palestina è qualcosa che volevamo contestare e smascherare direttamente nella lettera. E vedrete che c’è un folto numero di firmatari ebrei e anche di firmatari israeliani antisionisti. Penso che ci sia stato un cambiamento negli ultimi cinque anni nel grado di timore nell’esprimersi.”

Si può leggere la lettera integrale qui di seguito:

I palestinesi vengono attaccati ed uccisi impunemente dai soldati e da civili armati israeliani che sono dilagati per le strade di Gerusalemme, Lod, Haifa, Giaffa ed altre città al grido di “Morte agli arabi”. Nelle due ultime settimane si sono verificati anche diversi linciaggi di palestinesi disarmati e indifesi. Le famiglie del quartiere di Sheikh Jarrah continuano a subire la pulizia etnica e l’espulsione dalle loro case. Questi atti di assassinio, intimidazione e violento spossessamento sono protetti, se non attivamente incoraggiati, dal governo e dalla polizia israeliani.

In maggio il governo israeliano ha commesso un altro massacro a Gaza, bombardando indiscriminatamente e incessantemente i palestinesi nelle loro case, uffici, ospedali e nelle strade. Il bombardamento di Gaza fa parte di un intenzionale e ricorrente schema in cui intere famiglie vengono uccise e le infrastrutture locali distrutte. Questo contribuisce ad esacerbare condizioni che già sono invivibili in uno dei luoghi più densamente popolati al mondo, che, nonostante il temporaneo cessate il fuoco, rimane sotto assedio militare. Gaza non è un Paese separato: noi siamo un unico popolo, separato con la forza dalla struttura dello Stato israeliano.

Dipingere ciò come una guerra tra due parti uguali è falso e fuorviante. Israele è la potenza coloniale. La Palestina è colonizzata. Questo non è un conflitto: questo è apartheid.

Di fronte al crescente pericolo mortale delle due ultime settimane, i palestinesi si stanno unendo nuovamente. In Palestina e in tutto il mondo molte persone stanno scendendo in piazza, si organizzano sui social media, difendono le proprie case, si proteggono a vicenda e chiedono la fine della pulizia etnica, dell’apartheid, della discriminazione e dello spossessamento. Alle nostre comunità è stato sistematicamente negato il diritto al ritorno e sono state frammentate con la forza e cancellate fin dalla Nakba, la nascita del governo coloniale israeliano nel 1948, e questa recente riunificazione ci ha dato un po’ di indispensabile fiducia in mezzo alla rabbia e ai lutti delle ultime due settimane. Nonostante tutto ciò che sta accadendo, nonostante anni di disumanizzazione, stiamo incominciando ad avere qualche speranza.

Finalmente il mondo ha incominciato a chiamare il sistema israeliano col suo nome. All’inizio di quest’anno l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha seguito l’esempio offerto da decenni di lavoro di intellettuali palestinesi e di difesa legale per dimostrare che non c’è discontinuità tra lo Stato israeliano e la sua occupazione militare: entrambi costituiscono un unico sistema di apartheid. A sua volta, Human Rights Watch ha pubblicato un minuzioso rapporto che accusa Israele di “crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione.”

Noi sottoscritti artisti e scrittori palestinesi ed i nostri compagni d’arte qui elencati vi chiediamo di unirvi a noi. Per favore non lasciate passare questo momento. Se le voci palestinesi saranno nuovamente messe a tacere, ci potrebbero volere generazioni per avere un’altra opportunità di libertà e giustizia. Vi chiediamo di unirvi a noi adesso, in questa critica congiuntura, e dimostrare il vostro sostegno alla liberazione palestinese.

Chiediamo la cessazione immediata e incondizionata della violenza israeliana contro i palestinesi. Chiediamo la fine del sostegno fornito dalle potenze globali ad Israele e al suo esercito, in particolare dagli Stati Uniti, che attualmente forniscono a Israele ogni anno 3,8 miliardi di dollari in modo incondizionato. Chiediamo a tutte le persone di coscienza di mettere in campo le proprie risorse per aiutare ad eliminare il regime di apartheid dei nostri tempi. Chiediamo ai governi che permettono questo crimine contro l’umanità di applicare sanzioni, di far leva sul senso di responsabilità internazionale e di interrompere i rapporti commerciali, economici e culturali. Invitiamo gli attivisti, specialmente i nostri colleghi artisti, a esercitare quanto meglio possono la loro influenza all’interno delle loro istituzioni e ambienti per sostenere la lotta palestinese per la decolonizzazione. L’apartheid israeliano è sostenuto dalla complicità internazionale, è nostra responsabilità collettiva rimediare a questo danno.

Abbiamo visto che i governi in Europa e altrove hanno recentemente adottato politiche di palese censura e promosso una cultura di autocensura nei confronti della solidarietà con i palestinesi. Confondere la critica legittima allo Stato di Israele e alle sue politiche verso i palestinesi con l’antisemitismo è una cosa cinica. Il razzismo, compreso l’antisemitismo ed ogni altra forma di odio sono esecrabili e non sono ben accetti nella lotta palestinese. È ora di affrontare queste tattiche per farci tacere e superarle. Milioni di persone in tutto il mondo vedono nei palestinesi un microcosmo della loro stessa oppressione e delle loro stesse speranze, ed alleati come ‘Black Lives Matter’ e ‘Jewish Voice for Peace’, insieme tra gli altri agli attivisti per i diritti degli indigeni, alle femministe e queer, stanno sempre più alzando la voce in loro sostegno.

Vi chiediamo di avere coraggio. Vi chiediamo di farvi avanti, di alzare la voce e prendere una chiara posizione pubblica contro questa incessante ingiustizia in Palestina.

L’apartheid deve essere abolito. Nessuno è libero finché non saremo tutti liberi.

Michael Arria è il corrispondente dagli USA di Mondoweiss. I suoi lavori sono comparsi su ‘In These Times’, ‘The Appeal’ e ‘Truthout. È autore di Medium Blue: The politics of MSNBC [Media blu: la politica di MSNBC, canale di notizie via cavo USA legato al partito Democratico, ndtr.].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)