Alcuni giuristi affermano che Williamson sbaglia a obbligare le università ad attenersi alla definizione di antisemitismo

Harriet Sherwood

7 gennaio 2021 – The Guardian

Una lettera accusa il ministro dell’Istruzione di “ingerenza indebita” dopo un ordine riguardante il testo dell’IHRA

Un gruppo di eminenti giuristi, tra cui due ex-giudici di Corte d’Appello, ha accusato Gavin Williamson, il ministro all’Istruzione, di “ingerenza indebita” a danno dell’autonomia universitaria e del diritto alla libertà di espressione.

Essi affermano che l’insistenza di Williamson perché le università adottino la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ente intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] oppure debbano affrontare sanzioni è “illegale e immorale”. La loro dichiarazione giunge nel bel mezzo di una certa resistenza a livello accademico alla lettera inviata in ottobre da Williamson ai vice-rettori delle università, in cui minacciava: “Se entro Natale non avrò visto la stragrande maggioranza delle istituzioni [universitarie] adottare la definizione (dell’IHRA), allora interverrò.”

In questo mese docenti dell’University College di Londra dovrebbero decidere se chiedere all’organo direttivo dell’istituzione di annullare l’adozione, nel novembre 2019, della definizione dell’IHRA. Alcuni sostengono che ciò impedisce un libero dibattito su Israele.

Oxford e Cambridge sono tra le università che nelle scorse settimane hanno adottato la definizione dell’IRHA. Il ministero dell’Istruzione afferma che, dall’invio della lettera di Williamson, almeno 27 istituzioni l’hanno adottata.

Secondo un calcolo dell’Union of Jewish Students [Unione degli Studenti Ebrei] (UJS), un totale di 48 su 133 [università] hanno al momento adottato la definizione, compresa la grande maggioranza di quelle d’eccellenza che fanno parte del Russell Group [rete di 24 università in Gran Bretagna che ricevono i 2/3 dei finanziamenti alla ricerca, ndtr.]. L’UJS sostiene che le istituzioni che resistono a fare altrettanto starebbero dimostrando “disprezzo…nei confronti dei loro studenti ebrei.”

Invece la lettera dei giuristi, pubblicata dal Guardian, afferma: “Il diritto legalmente riconosciuto alla libertà di espressione viene minacciato dalla promozione di una ‘definizione operativa giuridicamente non vincolante’ di antisemitismo intrinsecamente incoerente. La sua promozione da parte di pubbliche istituzioni sta portando alla limitazione della discussione. Le università e altri enti che rifiutano l’indicazione… di adottarla dovrebbero essere appoggiate nel fare ciò.”

Essa cita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo relativa alla libertà di espressione, che è inserita nel diritto del Regno Unito dalla legge sui diritti umani del 1998.

Williamson ha “sbagliato giuridicamente ed eticamente in ottobre a dare indicazioni alle università inglesi di adottare e mettere in pratica” la definizione di antisemitismo dell’IHRA. Questa minaccia di sanzioni “sarebbe un’indebita interferenza con la loro autonomia.”

La lettera aggiunge: “L’impatto sul dibattito pubblico sia dentro che fuori le università è già stato significativo.”

Tra gli otto firmatari ci sono Sir Anthony Hooper e Sir Stephen Sedley, entrambi giudici di Corte d’Appello in pensione.

L’opposizione accademica all’adozione generalizzata della definizione dell’IHRA si concentra sulla libertà di espressione, e in particolare sul fatto se verrebbero impedite le critiche al modo in cui Israele tratta il popolo palestinese.

La definizione dell’IHRA è di sole 40 parole.

Essa afferma: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Ma essa è accompagnata da 11 esempi esplicativi, sette dei quali riguardano Israele.

Secondo il rapporto di un gruppo di lavoro istituito dal consiglio di facoltà della UCL, la definizione e gli esempi “spostano in modo sproporzionato il dibattito su Israele e Palestina nelle discussioni riguardo all’antisemitismo, confondendo potenzialmente antisionismo e antisemitismo…in modo da…rischiare di eliminare la legittima discussione e la ricerca accademica.”

Il rapporto afferma che la definizione non ha basi legali e c’è già “un vasto corpo di leggi esistenti nel Regno Unito e politiche coerenti dell’UCL che invece dovrebbero essere utilizzate come base di ogni meccanismo istituzionale per combattere l’antisemitismo.”

Le università hanno “l’esplicito obbligo statutario di proteggere la libertà di parola nel rispetto delle leggi,” dice il rapporto.

Come strumento educativo la definizione “potrebbe avere in effetti un potenziale valore, ma esso dovrebbe essere equilibrato contro effetti potenzialmente deleteri sulla libertà di parola, quali l’istigazione a una cultura della paura o all’autocensura nell’insegnamento o nella ricerca o nella discussione in aula di contenuti controversi.”

Il rapporto afferma: “La possibilità di tenere discussioni scomode o di sentirsi interpellati da idee in conflitto è al cuore del mandato dell’educazione superiore. Sono tempi in cui sentiamo la necessità di chiarire e illuminare queste tensioni invece di affrettarci ad accogliere le richieste di detrattori che potrebbero travisare questi esempi come atti di discriminazione, se dobbiamo difendere i valori della vita universitaria.”

Pur riconoscendo “prove inquietanti che incidenti di antisemitismo sono presenti nella nostra università,” il rapporto raccomanda all’organismo direttivo dell’UCL di annullare l’adozione della definizione dell’IHRA e di “prendere in considerazione alternative più coerenti.”

Il corpo docente dell’UCL avrebbe dovuto votare sulle raccomandazioni del rapporto prima di Natale, ma, data la sua importanza, ha deciso di approfondire la discussione nel nuovo anno.

Harry Goldstein, uno dei critici del rapporto, ha sostenuto che i suoi argomenti danno credito “proprio alle teorie cospirative che sono al centro dell’antisemitismo classico. Ci deve sempre essere un complotto per mettere a tacere le critiche a Israele.”

In un messaggio sul suo blog, Goldstein, che si definisce un sostenitore di Israele progressista di centro-sinistra, ha affermato che il rapporto confonde la distinzione tra critiche a Israele e antisionismo, utilizza un linguaggio tendenzioso e “non comprende la natura differente dell’antisemitismo rispetto ad altre forme di razzismo.”

Dave Rich, responsabile per le questioni politiche del Community Security Trust (CST), che assiste la comunità ebraica del Regno Unito sui problemi di sicurezza, afferma che la discussione accademica sulle definizioni di antisemitismo “perde di vista quello che realmente importa: il benessere e la sicurezza degli studenti ebrei nelle università britanniche.”

Un rapporto del CST, Campus Antisemitism in Britain 2018-20 [Antisemitismo nei campus britannici 2018-20] ha registrato un totale di 123 incidenti legati all’antisemitismo che nel corso dei due anni hanno coinvolto studenti in 34 città e cittadine.

Decisamente troppi studenti ebrei sperimentano pregiudizi e fanatismo nei campus, fuori dai campus e in rete. Ciò include l’antisemitismo dell’estrema sinistra, che mescola l’odio contro Israele con il sospetto nei confronti di ogni ebreo che non sia d’accordo con essa,” ha scritto lo scorso mese Rich.

James Harris, il presidente di UJS, ha sostenuto che la continua battaglia sulla definizione dell’IHRA è “inaccettabile”.

Ha aggiunto: “Abbiamo visto molteplici esempi di razzismo antiebraico ignorati dalle università che rifiutano sistematicamente di adottare questa definizione. Quando essa non viene usata, ciò dà la possibilità a quanti devono svolgere indagini di determinare arbitrariamente quello che ritengono costituisca antisemitismo.

La definizione dell’IHRA è la pietra angolare per garantire che l’antisemitismo, quando registrato, venga affrontato in modo tale per cui gli studenti ebrei possano aver fiducia.”

Un portavoce del ministero dell’Istruzione ha affermato: “Il governo si aspetta che le istituzioni abbiano un approccio di tolleranza zero verso l’antisemitismo, con la messa in pratica di severe misure per affrontare i problemi quando sorgono.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La chiesa ortodossa di Gerusalemme accusata di voler vendere terreni come ‘lotti da colonizzare’

Qassam Muaddi, Betlemme, Cisgiordania occupata

5 gennaio 2021 – Middle East Eye

Se venduta, la terra collegherebbe la colonia di Gilo nell’area di Betlemme a Gerusalemme, mette in guardia un importante gruppo di base cristiano palestinese

Il patriarca ortodosso di Gerusalemme ha suscitato indignazione per la recente rivelazione dei piani di vendita di circa 27 acri [circa 11 ettari, ndtr.] di proprietà della chiesa a due società israeliane che mirano a collegare una colonia [sita] nell’area di Betlemme a Gerusalemme.

Il Consiglio centrale ortodosso in Palestina (OCCP), un’organizzazione di base cristiano- palestinese, ha criticato la decisione martedì scorso, che coincideva per la chiesa ortodossa con la vigilia di Natale, nel corso di una conferenza stampa.

L’OCCP ha riferito che il patriarca di Gerusalemme – uno dei nove patriarchi della chiesa ortodossa orientale – è pronto a vendere la proprietà della chiesa a due società israeliane che presumibilmente intendono utilizzarla per progetti turistici e abitativi.

La proprietà in questione è annessa al monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], situato su una collina che domina la zona sud di Betlemme.

“Si tratta di un progetto recente, che risale allo scorso settembre, [che] mira al completamento di una cintura di colonie israeliane, estesa dall’insediamento di Gilo vicino alla città palestinese di Beit Jala fino a Talpiot a Gerusalemme”, riferisce a Middle East Eye il portavoce dell’OCCP Jalal Barham.

Barham ammonisce sul fatto che una volta fatto l’acquisto il progetto territoriale israeliano “distruggerà l’economia di Betlemme fondata sul turismo”.

Le colonie israeliane sono considerate illegali sulla base del diritto internazionale.

Mettere a tacere chi si oppone

L’operazione, secondo l’OCCP, vale 125 milioni di shekel (32 milioni di euro). Le due società israeliane intenzionate ad acquistare il terreno sono state identificate come Talpiot Hadasha e Broeket Habsaga, società appaltatrici che operano nella Gerusalemme est occupata.

Barham afferma che l’OCCP è stato in grado di accedere ai dettagli dell’accordo tramite un casellario giudiziario israeliano, “che chiunque può consultare via internet”.

Ma un funzionario dell’Alto Comitato presidenziale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per gli affari delle chiese (HCC) ha detto a MEE che “i documenti prodotti dall’OCCP sono da mettere in dubbio”. L’HCC è l’organo palestinese ufficiale incaricato delle relazioni tra il governo palestinese e le chiese cristiane.

Tuttavia Barham sostiene che le affermazioni dell’HCC contrarie alla validità dei documenti raccolti sulla vendita sono inventate, e nel menzionare i documenti giudiziari israeliani pubblicamente disponibili riferisce a MEE che tali documenti “non provengono da fonti segrete”.

L’OCCP è stata avversata nei suoi interventi contro l’accordo sulla [vendita della] terra attraverso l’annullamento della sua prima conferenza stampa programmata da parte di autorità ignote.

Barham afferma che l’ufficio del governatore di Betlemme inizialmente aveva riferito al gruppo che la sua conferenza stampa era stata annullata da “alti funzionari”.

“Abbiamo contattato il governo palestinese a Ramallah e ci hanno detto che nessuno aveva dato un ordine di vietare la conferenza stampa e che avevamo il pieno diritto di organizzarla”, dice Barham.

“Deduciamo – aggiunge – che la pressione rivolta ad impedire la conferenza stampa sia arrivata dal Comitato presidenziale superiore per gli affari delle chiese“.

“L’HCC ha esercitato in passato pressioni nei nostri confronti per impedirci di denunciare la complicità ortodossa nell’insediamento coloniale israeliano di Gerusalemme”, afferma.

L’HCC nega tuttavia di aver tentato di bloccare la conferenza stampa, e riferisce a MEE che i suoi avvocati “stanno seguendo tutti i casi di vendita di proprietà della chiesa ai coloni”, ma che non avrebbero tentato di mettere a tacere nessun altro riguardo l’analisi di tali procedure.

Una polemica secolare

Sebbene gli accordi controversi sulle terre del patriarcato ortodosso siano diventati negli ultimi anni un tema scottante tra i palestinesi, le tensioni tra la gerarchia della chiesa ortodossa di Gerusalemme e i membri palestinesi della congregazione sono vecchie di secoli.

“La questione ortodossa in Palestina è il risultato dell’egemonia greca sulla chiesa di Gerusalemme, che risale al 1534, quando l’impero ottomano rimosse l’ultimo patriarca autoctono arabo di Gerusalemme, Atallah II, e lasciò che la chiesa greca nominasse il suo sostituto,” riferisce a MEE Alif Sabbagh, membro del Consiglio centrale ortodosso in Israele.

“Da allora – afferma – la chiesa greca controlla la comunità ecclesiastica e tutte le sue proprietà“.

Nel frattempo l’OCC ha insistentemente richiesto il diritto di “arabizzare la chiesa” nominando un patriarca locale.

“Questo è del tutto comprensibile”, dice Sabbagh.

“Tutti i vescovi del mondo sono cittadini appartenenti al loro stesso popolo, tranne che in Palestina. La gerarchia ecclesiastica è estranea alla popolazione e alla loro causa, motivo per cui non riesce a vedere il problema nella vendita di proprietà ai coloni israeliani”.

Le proprietà della chiesa ortodossa a Gerusalemme e nella sua diocesi, che comprende tutto il mandato palestinese, sono amministrate dalla “Confraternita del Santo Sepolcro”, in prevalenza greca, costituita nel XVI secolo.

“La costituzione della Confraternita è completamente laica e si occupa solo dell’amministrazione della proprietà, che considera esplicitamente come appartenente alla ‘Nazione greca’, e quindi può fare di quella proprietà qualunque cosa gli piaccia”, spiega Sabbagh.

Il patriarca ortodosso di Gerusalemme ha realizzato in passato degli accordi su grandi estensioni di terre, compreso, nel 1951, un contratto di affitto, per un periodo di 99 anni, di un terreno di proprietà della chiesa [situato] a Gerusalemme ovest, al Fondo Nazionale Ebraico [ente no-profit, con poteri para-statali, dell’Organizzazione sionista mondiale fondato nel 1901 a Basilea per comprare e sviluppare terre nella Palestina ottomana per l’insediamento degli ebrei, ndtr.]. Oggi, il terreno ospita la maggior parte delle istituzioni statali israeliane, inclusa la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana.

Nel frattempo, il patriarca ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III, dovrebbe arrivare a Betlemme giovedì per celebrare la messa di mezzanotte di Natale secondo il calendario orientale, una visita che l’OCCP e gruppi scout della chiesa palestinese hanno invitato a boicottare.

Il boicottaggio delle visite natalizie del patriarca Teofilo III è in corso da quattro anni consecutivi, in segno di denuncia del coinvolgimento del patriarca nella vendita e affitto di immobili appartenenti alla chiesa ortodossa a società appaltatrici delle colonie israeliane.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ha cercato di prendersi il generatore. Gli hanno sparato al collo

Yuval Abraham 

3 gennaio 2021 – +972

Harun Abu Aram, la cui casa è stata demolita lo scorso mese, è stato colpito da distanza ravvicinata da un soldato mentre stava cercando di riprendere il suo generatore. Tutto perché Israele possa impossessarsi della sua terra.

Venerdì pomeriggio un soldato israeliano ha sparato al collo da distanza ravvicinata a un ventiseienne palestinese di nome Harun Abu Aram, che si trova ora in condizioni critiche in un ospedale di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Secondo il ministero della Sanità palestinese, se dovesse riprendersi, Abu Aram probabilmente rimarrà paralizzato.

Lo sparo è avvenuto nei pressi del villaggio palestinese di al-Rakiz, sulle colline meridionali di Hebron. Appena un mese fa l’esercito è arrivato con scavatori per demolire quattro case della comunità. Una era quella di Abu Aram.

Contrariamente a quanto sostiene l’esercito israeliano, gli abitanti di al-Rakiz non sono delinquenti. Hanno costruito le loro case sulla loro terra nel rispetto della legge. L’esercito le ha distrutte perché l’Amministrazione Civile, l’ente del governo militare israeliano che gestisce la vita quotidiana di 2,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania, si è rifiutato di concedere permessi edilizi alla comunità. Di fatto l’Amministrazione Civile ha respinto il 98,7% delle richieste per permessi edilizi [presentate] da palestinesi che vivono nei 164 villaggi dell’Area C, una zona che rappresenta i due terzi della Cisgiordania e si trova sotto il totale controllo militare e amministrativo di Israele.

Lo scopo di questo accanimento burocratico è rendere miserabile la vita dei palestinesi al punto che se ne vadano. Perché? Perché, se se ne vanno, sarà più facile per Israele in futuro annettere la terra senza dover concedere a nessuno la cittadinanza israeliana. Un semplice calcolo demografico.

L’Amministrazione Civile rifiuta il concetto che questa terra appartenga a proprietari privati palestinesi e quindi impedisce loro di ottenere licenze edilizie e piani regolatori. L’amministrazione sa che la distruzione di case e infrastrutture renderà miserabile la vita della popolazione locale, e, con il tempo, la obbligherà ad abbandonare la propria terra.

Abu Aram è arrivato venerdì mattina per aiutare a ricostruire una delle case che erano state demolite. Dopo qualche ora di lavoro sotto il sole, è arrivato un veicolo dell’Amministrazione civile con a bordo cinque soldati israeliani, che hanno detto ad Abu Aram e ai suoi amici che non potevano costruire lì. Poi si sono diretti al suo generatore, che aveva utilizzato per la costruzione, e gliel’hanno confiscato. Queste confische sono un ulteriore sistema per obbligare i palestinesi dell’Area C ad andarsene dalla loro terra, e l’esercito regolarmente si porta via cisterne per l’acqua, utensili da muratore, trattori e baracche di lamiera.

Quando un soldato ha iniziato a trascinare via il generatore, Abu Aram ha fatto resistenza. Ha iniziato a gridare, mentre i suoi amici più vicini cercavano di calmarlo. Ma lui si è messo a gridare. Un mese fa la sua casa era stata demolita, un mese fa la sua sorellina e sua madre erano state sottoposte a un trauma inconcepibile. Io ero lì. Ora erano venuti a prendersi il suo generatore. E quindi si è messo a gridare e a fare resistenza.

Abu Aram ha cercato di riprendersi il generatore con la forza, maledicendo i soldati. Per un momento ci è persino riuscito. Ma poi è stata la volta dei soldati di reagire.

Hanno iniziato a spintonarlo, e poi improvvisamente è risuonato uno sparo. I soldati non hanno lanciato una granata assordante o un lacrimogeno. No, hanno sparato al collo con proiettili veri da vicino su un uomo disarmato, la cui casa era stata demolita un mese prima, le cui sorella e madre erano state obbligate a dormire all’addiaccio. Per un generatore.

Il video dello sparo è rapidamente diventato virale sulle reti sociali. Nel video si può sentire lo sparo. Poi si vede Abu Aram sanguinante. Poi si sente gridare sua madre.

In seguito al ferimento, l’unità portavoce delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha emanato il seguente comunicato: “Durante una normale missione da parte delle forze delle IDF e della polizia di frontiera per la confisca e l’evacuazione di una struttura illegale nel villaggio di a-Tuwani si sono avuti disordini da parte di circa 150 palestinesi che hanno incluso un massiccio lancio di pietre. I soldati delle IDF hanno risposto usando misure antisommossa ed hanno sparato in aria. Durante i disordini è avvenuto un incidente cruento in cui parecchi palestinesi hanno usato violenza contro le forze (dell’esercito).”

Questo comunicato è una palese menzogna. Lo si può vedere nel video. Lì c’è solo una famiglia, circa 10 persone in totale. I testimoni affermano che non c’erano pietre e neppure 150 persone nelle vicinanze.

Nei prossimi giorni l’esercito israeliano potrebbe annunciare che “hanno avviato un’indagine sull’incidente.” Lo fa quasi sempre, ma praticamente mai ne viene fuori qualcosa. In casi molto rari potrebbero persino annunciare che un soldato ha aperto il fuoco “in violazione del regolamento”. Forse, dato che il ferimento di Abu Amar è stato ripreso in un video, utilizzeranno di nuovo questa scusa.

Ma non è questo il punto. La politica complessiva è quella che genera il comportamento di quel soldato ad al-Rakiz, una politica motivata dalla demografia che impedisce a migliaia di palestinesi nell’Area C di costruire sulla propria terra, che impedisce ai palestinesi di vivere, che cerca di farli sparire. Non è facile scriverlo, ma è la verità. In genere quando arrivano i soldati si finisce con il furto di beni o con la distruzione di una casa. Questa volta è finita con un proiettile nel collo.

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un rave, una DJ e un dibattito: i palestinesi scandalizzati da un tecno-party in un luogo sacro

Akram Al-Waara – Ramallah, Cisgiordania occupata

31 dicembre 2020 – Middle East Eye

Nonostante fosse stata concessa l’autorizzazione per l’evento, il governo palestinese ha arrestato la famosa DJ palestinese Sama Abdulhadi e la tiene in carcere da quindici giorni

* Nota redazionale. Oggi 4 gennaio Sama Abdulhadi è stata scarcerata su cauzione ma rimane inquisita e non può lasciare la Palestina per Parigi dove abita.

Una festa organizzata sabato ha suscitato una polemica all’interno della società palestinese e scatenato un acceso dibattito sulla cultura e la religione. Questo clamore fa seguito alla diffusione di video che mostrano gente che fa festa bevendo e ballando nell’antico sito di Nabi Moussa, un luogo sacro musulmano situato nella Cisgiordania occupata, che secondo la tradizione islamica sarebbe il luogo di sepoltura di Mosè.

In un video ampiamente diffuso giovani palestinesi ballano sotto giochi di luce al suono di una musica tecno all’interno di un’antica costruzione a Nabi Moussa, tra Gerico e Gerusalemme.

In un altro video si vede un gruppo di giovani interrompere la festa gridando ai partecipanti: “Fuori! Subito! Uscite!”. Uno dei partecipanti risponde che hanno il permesso del Ministero del Turismo palestinese.

Ciononostante i giovani insistono nel disperdere i festaioli e si avvicinano alla DJ di fama internazionale Sama Abdulhadi – ritenuta la prima donna DJ professionista palestinese -, che fa filmare un video sul sito. 

Si sente Sama Abdulhadi pregare le persone che le si avvicinano: “Siamo desolati, siamo desolati, ce ne andiamo. Vi giuro che ce ne andiamo.”

Lunedì le forze dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno arrestato Sama Abdulhadi e l’ hanno fermata per interrogarla, pur se i responsabili non hanno specificato i motivi del suo arresto. Martedì un giudice ha deciso di prorogare la sua detenzione di quindici giorni.

Una festa “immorale” e “irrispettosa”

Il video ha suscitato l’indignazione di molti palestinesi per i quali questa festa è un affronto all’islam e una “profanazione” del luogo sacro. Il giorno seguente fedeli palestinesi si sono recati a Nabi Moussa e hanno organizzato una manifestazione per pregare nella moschea del sito e condannare una festa “immorale” e “irrispettosa”.

Contemporaneamente si è visto sulle reti sociali uno slancio di solidarietà da parte di utenti di internet palestinesi e stranieri in difesa di Sama Abdulhadi, mentre una petizione per la sua liberazione è stata firmata da migliaia di fan e simpatizzanti.

Nei giorni successivi alla festa, dei video di palestinesi che esprimevano la propria indignazione hanno inondato Twitter, TikTok e Facebook; alcuni di loro chiedevano che i partecipanti alla festa, gli organizzatori ed i rappresentanti del governo che hanno concesso il permesso fossero ritenuti responsabili.

Ciò che è accaduto a Nabi Moussa è abbastanza sconvolgente per noi, in quanto palestinesi: è qualcosa che non possiamo accettare”, confida a Middle East Eye Alaa al-Daya, una studentessa di 23 anni originaria di Gerusalemme.  

Secondo me non è una bella cosa fare questo genere di feste in un luogo che ha tanta importanza religiosa e culturale per le persone”, sostiene.

La giovane spiega che il concetto di rave party, per di più nel luogo di un’antica moschea, non è accettato da una gran parte della comunità palestinese.

Secondo i partecipanti e gli organizzatori della festa l’evento aveva lo scopo di celebrare e preservare la cultura palestinese, precisa.

Ma io non sono d’accordo. Fare festa e bere non sono cose condivise da tutti i palestinesi. Ci sono altri modi per celebrare e proteggere la nostra cultura”, afferma.

Se si fosse trattato di un festival di dabkeh (danza tradizionale araba) o di musica tradizionale palestinese, forse le persone non vi avrebbero visto un problema così grave.”

Invece lo zio di Sama Abdulhadi, Samir Halileh, ha dichiarato che sua nipote faceva un video e intendeva ricreare un’ambientazione caratteristica della musica tecno. Ha aggiunto che le voci sulla presenza di droga erano infondate.

Affermazioni contraddittorie

I responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese si sono affrettate a smentire ripetutamente le affermazioni secondo cui il Ministero del Turismo aveva rilasciato un’autorizzazione per l’evento. Analogamente, il Ministero degli Affari Religiosi e quello del Turismo hanno subito dichiarato di non essere stati informati dell’evento.

Osama Estetia, responsabile dei musei del Ministero del Turismo, ha però dichiarato mercoledì che, quando avevano ricevuto la richiesta per filmare il sito allo scopo di promuoverlo in rete, i suoi servizi non erano stati informati del tipo di musica che sarebbe stata suonata.

L’impiegato che ha ricevuto la richiesta ha risposto trasmettendo un elenco di condizioni, in particolare il rispetto dei regolamenti del sito, delle procedure di pubblica sicurezza, della rilevanza religiosa e della privacy del santuario”, ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla rete televisiva Al-Watan.

Osama Estetia ha declinato ogni responsabilità riguardo ai fatti, affermando che il ministero aveva chiesto agli organizzatori di coordinarsi con il governatorato di Gerico, in quanto il ministero non era responsabile della gestione del sito stesso.

Secondo lui erano stati gli organizzatori a proporre quel luogo, affermazione contraddetta dal capo della Commissione palestinese indipendente per i diritti umani, Ammar Dweik, che ha affermato il contrario.

Il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh ha annunciato la creazione di una “commissione d’inchiesta” per scoprire ciò che è avvenuto e anzitutto perché la festa sia stata organizzata a Nabi Moussa.

Mahmoud al-Habbash, consigliere del presidente Mahmoud Abbas per le questioni religiose, ha pubblicato un comunicato in cui afferma di provare “disgusto e rabbia per quel che è avvenuto alla moschea di Nabi Moussa.”

Non so ancora chi sia responsabile di questo peccato, ma, chiunque sia, la sanzione sarà all’altezza dell’atrocità commessa. Una moschea è una casa di dio, il suo carattere sacro è il carattere sacro della religione stessa”, ha dichiarato.

Sama è un capro espiatorio”

Secondo lo zio di Sama Abdulhadi l’evento ha avuto luogo con l’approvazione del ministero e il problema sta nella definizione del sito stesso, cioè se si tratti di un sito sacro religioso o di un sito turistico che ospita un albergo, delle piazze e una moschea.

È chiaro che Sama è stata vittima di questo contrasto sulla definizione del luogo. Noi non accettiamo l’idea di aver urtato delle sensibilità religiose o profanato un luogo sacro e la disputa sulla natura del sito deve essere definita dal governo.”

Samir Halileh sostiene che sua nipote, che è disposta a collaborare, dovrebbe essere liberata e che dovrebbe essere doverosamente condotta un’inchiesta.

L’insieme del sito occupa 5.000 m2 e la moschea 60 m2. Ci siamo assicurati presso il Ministero del Turismo che fosse possibile organizzarvi una festa”, ha dichiarato alla tv Al-Watan [rete televisiva palestinese accusata da Israele di essere vicina ad Hamas, ndtr.].

Ci hanno detto che il sito comprendeva grandi cortili e che i turisti vi avevano accesso.”

Poco dopo il suo arresto ha iniziato a circolare una petizione per la liberazione di Sama Abdulhadi. Giovedì scorso contava circa 76.000 firme. Secondo la petizione l’incidente avvenuto a Nabi Moussa ha provocato “una feroce campagna di disinformazione sulle reti sociali, che ha alimentato reazioni violente e attacchi personali contro Sama.”

La petizione sottolinea anche il fatto che gli organizzatori hanno sicuramente ricevuto un’autorizzazione scritta dal Ministero del Turismo, che controlla il sito, ma altresì che la festa si è svolta nella zona del “bazar” e non dentro la moschea.

Il ministero era a conoscenza del genere di musica che sarebbe stata suonata durante il concerto – la musica tecno – e che il concerto sarebbe stato filmato in questo sito archeologico (…) allo scopo di promuovere i siti rilevanti del patrimonio palestinese e la musica tecno palestinese presso il pubblico musicale di tutto il mondo.”

Sama Abdulhadi e gli organizzatori del concerto non si sono forse resi conto che questo genere di musica non era consono al sito e alle sue implicazioni storiche, religiose e culturali, ma ciò non toglie che il Ministero del Turismo abbia l’intera responsabilità della decisione di autorizzare lo svolgimento del concerto”, specifica la petizione.

Tra i firmatari della petizione figura l’avvocata ed attivista palestinese-americana Noura Erakat, che ha dichiarato in un post su Facebook di aver firmato la petizione in quanto ritiene che Sama Abdulhadi sia “un capro espiatorio dell’Autorità Nazionale Palestinese.”

Per Alaa al-Daya, la giovane studentessa, gli organizzatori avrebbero dovuto essere informati meglio e Sama non avrebbe dovuto essere arrestata; secondo lei la vera responsabilità è del governo.

È chiaro che adesso il governo cerca di salvare la faccia e di addossare la colpa a qualcun altro, dopo aver visto le reazioni negative che tutto ciò ha provocato”, afferma.

L’hanno arrestata solo per dimostrare di aver preso misure contro la festa. Sama non dovrebbe essere in carcere. È la persona che ha autorizzato la festa che dovrebbe esserci.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I palestinesi lasciati in attesa mentre Israele è pronto a partire con la vaccinazione anti-COVID

17 dicembre 2020 – Al Jazeera

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi di vaccino, sufficienti per coprire circa metà della sua popolazione

Dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu si è messo personalmente in contatto con il capo del gigante farmaceutico statunitense Pfizer, la prossima settimana Israele inizierà a lanciare una vasta campagna di vaccinazione anti-coronavirus.

Ma i milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano dovranno attendere molto di più.

Gli israeliani potrebbero tornare presto alla vita normale e alla ripresa economica, anche se il virus continua a minacciare città e villaggi palestinesi a pochi chilometri di distanza.

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi del vaccino da poco approvato, sufficienti a coprire quasi metà della popolazione israeliana di circa nove milioni, in quanto ogni persona ha bisogno di due dosi.

Israele possiede unità mobili per la vaccinazione con refrigeratori che come richiesto possono tenere a meno 70 gradi le dosi [di vaccino] della Pfizer, sviluppate con l’impresa tedesca BioNTech. Prevede di iniziare le vaccinazioni la prossima settimana, con un massimo di oltre 60.000 iniezioni al giorno.

All’inizio del mese Israele ha raggiunto un accordo separato con Moderna [altra industria farmaceutica, ndtr.] per comprare sei milioni di dosi del suo vaccino, sufficienti per altri tre milioni di israeliani.

La campagna di vaccinazione israeliana includerà i coloni ebrei, che sono cittadini israeliani e che vivono nella Cisgiordania illegalmente occupata, ma non i 2,5 milioni di palestinesi del territorio.

Essi dovranno aspettare l’Autorità Nazionale Palestinese, a corto di fondi, che in base ad accordi di pace provvisori raggiunti negli anni ’90 amministra parti della Cisgiordania occupata.

Nella guerra del 1967 in Medio Oriente Israele ha conquistato la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est, territori che i palestinesi vogliono per il loro futuro Stato.

L’ANP spera di avere i vaccini attraverso una collaborazione dell’OMS con l’organizzazione umanitaria nota come COVAX, che intende fornire vaccini gratis fino a un massimo del 20% della popolazione di Paesi poveri, molti dei quali sono stati particolarmente colpiti dalla pandemia.

Ma il programma ha garantito solo una parte delle due milioni di dosi che l’ANP spera di comprare nel prossimo anno, deve ancora confermare un qualche accordo concreto e scarseggia di fondi.

I Paesi ricchi hanno già prenotato circa nove miliardi dei 12 miliardi di dosi che si stima l’industria farmaceutica sia in grado di produrre il prossimo anno.

A complicare la questione, i palestinesi hanno solo un’unità di refrigerazione in grado di stoccare il vaccino Pfizer-BioNTech, nella città-oasi di Gerico.

Ali Abed Rabbo, importante dirigente del ministero della Salute palestinese, ha affermato che l’ANP è in trattative con Pfizer, Moderna, AstraZeneca e i fabbricanti del vaccino russo, per lo più non testato, ma deve ancora firmare accordi, oltre a quello con COVAX.

Secondo Rabbo, l’ANP spera di vaccinare il 20% della popolazione con COVAX, iniziando dai lavoratori della sanità.

“Gli altri dipenderanno dalle forniture che la Palestina riuscirà ad ottenere sul mercato mondiale, e stiamo lavorando con varie imprese,” afferma.

Sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese hanno lottato per contenere i propri focolai, che si sono alimentati a vicenda in quanto la gente viaggiava avanti e indietro, soprattutto le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che hanno un impiego in Israele.

Israele ha registrato più di 366.000 casi tra cui almeno 3.000 morti.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato più di 85.000 casi nella Cisgiordania occupata, tra cui 800 morti, e nelle ultime settimane l’epidemia si è intensificata.

La situazione è ancora più grave a Gaza, che ospita due milioni di palestinesi e che da quando Hamas è stato eletto nel 2007 è sottoposta a un blocco israeliano ed egiziano.

Lì le autorità hanno comunicato più di 30.000 casi, tra cui 220 morti.

Con i governanti di Hamas a Gaza ignorati dalla comunità internazionale, anche il territorio dovrà fare affidamento sull’Autorità Nazionale Palestinese.

Ciò significa che potrebbero passare parecchi mesi prima che nell’impoverita striscia costiera venga effettuata una vaccinazione su vasta scala.

Il vice-ministro della Salute israeliano Yoav Kisch ha detto a Kan Radio [rete radiofonica pubblica, ndtr.] che Israele sta lavorando per ottenere un surplus per gli israeliani e che “se dovessimo constatare che le esigenze di Israele sono state soddisfatte e avessimo un’ulteriore disponibilità [di vaccini], sicuramente prenderemmo in considerazione di aiutare l’Autorità Nazionale Palestinese.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Forza letale intenzionale”: gli esperti delle Nazioni Unite accusano Israele di aver ucciso un ragazzo palestinese.

Redazione MEE

17 dicembre 2020 – Middle East Eye

L’uccisione del quindicenne Ali Abu Alia è una “grave violazione del diritto internazionale”, afferma l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato l’esercito israeliano per aver ucciso all’inizio di questo mese un ragazzo palestinese durante una protesta nella Cisgiordania occupata, definendo l’uccisione del quindicenne Ali Abu Aliya una “grave violazione del diritto internazionale”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, gli esperti hanno invitato il governo israeliano a condurre “un’indagine civile indipendente, imparziale, immediata e trasparente” sulla morte del ragazzo.

“L’uccisione di Ali Ayman Abu Aliyaa da parte delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] in circostanze in cui non vi era nessuna minaccia di morte o di lesioni gravi per le forze di sicurezza israeliane – è una grave violazione del diritto internazionale”, hanno dichiarato. “La forza letale intenzionale è giustificata solo quando il personale di sicurezza deve affrontare una minaccia immediata che può essere letale o provocare un grave danno fisico”.

I soldati israeliani hanno colpito all’addome il palestinese Abu Aliyaa il 4 dicembre, nel corso di una protesta vicino al suo villaggio di al-Mughayir, in Cisgiordania. In seguito è deceduto in seguito alle ferite.

L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto un’indagine sull’incidente, ma ha negato che contro i manifestanti, che ha definito “rivoltosi”, siano state usate munizioni vere.

La dichiarazione delle Nazioni Unite di giovedì ha evidenziato che la manifestazione si svolgeva a al-Mughayir contro [la presenza di] un “avamposto di un insediamento coloniale illegale”. Pur riconoscendo che i ragazzi stavano lanciando dei sassi, ha sottolineato che non rappresentavano un pericolo immediato per le forze israeliane e ha messo in discussione la dichiarazione secondo cui non sarebbero state utilizzate munizioni vere.

“Abu Aliya è stato colpito all’addome con un proiettile di un fucile di precisione Ruger 0,22, sparato da un soldato israeliano da una distanza stimata di 100-150 metri. È deceduto più tardi in ospedale quello stesso giorno”, si legge nel comunicato.

“Gli esperti sui diritti umani non sono a conoscenza di alcuna affermazione secondo cui le forze di sicurezza israeliane si trovassero in alcun modo in pericolo di morte o di lesioni gravi”.

Gli esperti delle Nazioni Unite – Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, e Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei Territori palestinesi – hanno anche evidenziato la questione più ampia dei maltrattamenti a danno dei bambini palestinesi.

Atrocità contro i minori

Abu Aliyaa è il sesto minorenne palestinese ucciso nel 2020 in Cisgiordania dalle forze israeliane mentre, secondo l’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite, nel corso dell’ultimo anno sono stati feriti più di 1.000 minori palestinesi.

Le atrocità israeliane contro i minori sollevano “profonde preoccupazioni” in merito agli obblighi di Israele in materia di diritti umani, nella sua veste di potenza occupante nei territori palestinesi, hanno sostenuto Callamard e Lynk. Essi hanno anche sottolineato che le indagini israeliane sull’uso letale della forza contro i palestinesi “raramente si traducono in un’adeguata ricerca di colpevoli”.

“Questo basso livello di responsabilizzazione legale per l’uccisione di così tanti minori da parte delle forze di sicurezza israeliane è indegno di un Paese che dichiara di vivere secondo lo stato di diritto”, hanno affermato gli esperti.

L’uccisione di Abu Aliyaa ha causato indignazione tra i difensori dei diritti dei palestinesi, secondo i quali l’incidente rappresenta lo specchio degli abusi che i palestinesi subiscono per mano delle forze israeliane.

Anche l’Unicef, l’Unione Europea e alcuni parlamentari statunitensi hanno espresso preoccupazione per l’omicidio.

All’inizio di questo mese, la deputata statunitense Betty McCollum ha denunciato l’uccisione del ragazzo palestinese, definendola un’espressione del fenomeno dell’occupazione della Cisgiordania.

“L’uccisione di ieri in Cisgiordania di un minorenne palestinese di 15 anni da parte di un soldato israeliano che ha sparato al ragazzo all’addome è un orrendo omicidio sponsorizzato dallo Stato”, ha dichiarato McCollum a MEE in un comunicato del giorno successivo all’uccisione di Abu Aliya.

“Questo reato insensato deve essere condannato in quanto risultato diretto dell’occupazione militare permanente della Palestina da parte di Israele”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Vittoria del BDS! Siviglia ha annullato la fiera europea delle armi elettroniche

Palestinian BDS National Committee

14 dicembre 2020 – Chronicle de Palestine

In un comunicato stampa pubblicato oggi dal Comune di Siviglia l’assessore comunale per la casa, il turismo e la cultura, Antonio Muñoz, ha annunciato l’annullamento della fiera degli armamenti “Electronic Warfare Europe”, che avrebbe dovuto svolgersi nel palazzo delle esposizioni e dei congressi di Fibes, a Siviglia, nel maggio 2021.

La stessa fiera era già stata annullata a Liverpool, nel Regno Unito, dove un partner era Elbit Systems, la più grande industria bellica privata israeliana, le cui armi sono regolarmente utilizzate dall’esercito israeliano per uccidere e mutilare civili palestinesi.

L’annullamento di Liverpool è avvenuto dopo che una forte coalizione locale – Against the Electronic Arms Fair [Contro la Fiera delle Armi Elettroniche], insieme alla Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina] (PSC), la Campaign Against Arms Trade [Campagna contro il Commercio delle Armi] (CAAT) e la Campaign for Nuclear Disarmament [Campagna per il Disamo Nucleare] (CND) – ha chiesto al consiglio municipale di Liverpool di annullare l’evento che era contrario all’etica in quanto incoraggiava le violazioni dei diritti umani.

Citando l’annullamento di Liverpool e prevedendo le ripercussioni negative per la città, il consiglio municipale di Siviglia ha dichiarato che la decisione del governo era stata presa a causa dell’ “aspetto negativo di collegare l’immagine della città a importante sede di un avvenimento controverso che ha ripercussioni nazionali e internazionali.”

La piattaforma Stop Ferias de Armas [Stop alle fiere degli armamenti] ha accolto l’ annullamento della fiera delle armi di Siviglia dichiarando:

Non vogliamo essere complici delle armi utilizzate per reprimere popoli oppressi come i palestinesi o i yemeniti. Le istituzioni spagnole non devono autorizzare le fiere degli armamenti nelle loro strutture.

Aggiunge:

Speriamo che il consiglio municipale di Siviglia sia coerente ed annulli anche gli incontri sull’aereospaziale e la difesa di Siviglia 2021, patrocinata da Airbus, una società che trae profitto dai crimini della guerra nello Yemen.

La piattaforma Stop Feria de Armas en Sevilla, formata da più di venti organizzazioni, aveva mobilitato in poco tempo una forte opposizione sociale, inviando una lettera al sindaco di Siviglia, organizzando un webinar pubblico sul militarismo, con una larga copertura da parte dei principali giornali e si era coordinata con i partiti politici locali che si opponevano anche loro alla fiera delle armi.

Parlando a nome del movimento BDS che milita per i diritti dei palestinesi e che ha organizzato campagne di boicottaggio e di disinvestimento contro Elbit Systems e altre compagnie israeliane degli armamenti, Alys Samson Estapé ha dichiarato:

I gruppi progressisti, pacifisti e antirazzisti non vogliono più fiere degli armamenti in Europa; prima hanno fatto annullare quella di Liverpool e ora quella di Siviglia. Non c’è posto per le armi nelle nostre città. Invece di autorizzare le fiere delle armi, le istituzioni dovrebbero porre fine ad ogni commercio delle armi con regimi oppressivi come Israele, che testano i loro armamenti sui palestinesi, poi le vendono per reprimere la dissidenza ovunque nel mondo.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Nonostante lo stigma sociale, le donne di Gaza si danno alla boxe

Ruwaida Amer

4 dicembre 2020 – Al Monitor

Nella Striscia di Gaza, nonostante la condanna religiosa e patriarcale che colpisce le attività sportive al femminile, parecchie donne e ragazze sono entrate in una squadra di pugilato per amore di questo sport.

Nella Striscia di Gaza l’opinione pubblica pensa che praticare la boxe istighi poi le donne a essere violente con i mariti e le ha ripetutamente attaccate cercando di farle smettere.

Ma, nonostante gli ostacoli, le donne hanno lottato per il loro diritto a boxare in una società che continua a dar prova di essere prima di tutto patriarcale con i suoi continui veti alla femminile nello sport e in altri campi, cercando così di ridurre il loro ruolo al matrimonio e alla casa. 

Tuttavia ci sono quelli che sostengono le donne e il loro diritto a vivere come vogliono, ma senza intaccare tradizioni e norme.

Malak Mosleh, 15 anni, si è innamorata dello sport da piccola guardando parecchi allenamenti e vittorie di Muhammad Ali. Finalmente, dopo vari tentativi di trovare una squadra a Gaza, e con il sostegno della sua famiglia, ha avuto l’opportunità di realizzare il suo sogno.

Dice ad Al-Monitor: “Era da tanto che volevo boxare, ma qui non potevo. Lo sport era solo per maschi, cosa che mi faceva arrabbiare. Dopo tutto è una disciplina per il corpo e l’anima, quindi perché dovrebbe essere vietata alle donne? Mi sono stupita quando il capitano Osama ha annunciato un programma di allenamenti per ragazze. Ho cominciato sette mesi fa e deciso di andare fino in fondo (per partecipare ai campionati arabi di pugilato juniores in Kuwait), nonostante quello che la società ne avrebbe detto.”

Osama Ayob, 36 anni, l’allenatore del team femminile di Gaza, dopo un tour in vari Paesi europei e arabi, ha deciso di creare una squadra a proprie spese, senza il sostegno di nessuno.

Agli inizi del 2020, sulla sua pagina Facebook ha annunciato il lancio di un programma di allenamenti per donne. All’inizio erano in 10, ma adesso si è arrivati a 45 partecipanti fra i sette e i venticinque anni.

Ayob ha detto ad Al-Monitor: “Per me è stato difficile formare una squadra di ragazze perché è stata la prima a Gaza e ci è voluto uno sforzo personale, senza il sostegno di nessuno. C’è stata una forte affluenza di ragazze e veramente vorrei che l’atteggiamento ostile verso di loro cambiasse. Mi sono preso la responsabilità di proteggerle e temprarle contro i commenti offensivi che le demoralizzano e frenano il loro desiderio di praticare questo sport.”

Mosleh afferma: “Il pugilato non ha nulla a che vedere con la violenza. È uno strumento di autodifesa e serve per il corpo. Io non sto ad aspettare qualcun altro per proteggermi da un attacco in strada o da qualche altra parte perché so farlo da sola. I miei familiari mi danno il sostegno maggiore e mi hanno detto che l’Islam non vieta gli sport e mi hanno incoraggiata a non lasciare che quello che dice la gente ostacoli il mio sogno. Mi rassicurano che non sto facendo nulla di proibito dalla religione o di contrario alla decenza.”

Rima Abu Rahme, 22 anni, di Gaza City ha avuto molti problemi quando si è fatta delle foto con la sorella Rita, 20 anni, mentre boxavano con le loro amiche per poi postarle sui social. Per la prima volta si è resa conto di quanto la società sia severa e rancorosa verso le donne che fanno sport.

Dice ad Al-Monitor, “Seguo [sui social] Gigi Hadid (modella americana-palestinese) che pratica questo sport. Ho parlato con il capitano Osama e abbiamo effettivamente iniziato fino a quando le nostre foto durante gli allenamenti sono diventate virali. Eravamo spaventate dei commenti della gente e qualcuno ha minacciato di farci smettere e a questo fine ha fatto pressioni sull’allenatore.”

Questo duro attacco sui social riflette l’opinione di molti che questo è uno sport riservato ai maschi e che le ragazze non dovrebbero praticarlo. Molte hanno smesso dopo le minacce di alcuni utenti dei social a loro e all’allenatore, arrivando anche a bullizzarli e insultarli.

Abu Rahme descrive il pugilato dicendo: “All’inizio sentivamo fatica e dolori in tutto il corpo, ma poi ci siamo rese conto che dopo ogni esercizio diventavamo sempre più forti e che stavamo bene psicologicamente. Io sono laureata in lingue e devo fare degli stage in varie istituzioni. La fatica psicologica scompare dopo aver tirato pugni per un’ora.”

Ayob dice: “Molte ragazze si sentono psicologicamente oppresse e devono affrontare problemi nella società. Per loro la boxe è un modo per ridurre la pressione, ma la loro paura estrema della società le costringe ad allenarsi senza attirare troppo l’attenzione. È un loro diritto, con tutti i commenti negativi che minacciano di impedire alle ragazze di far pugilato a Gaza. Io lavoro assiduamente per superare tutti gli ostacoli e continuare ad allenarmi.”

Farah Abu Qomsan, 15 anni, di Gaza City, ha cominciato con il pugilato perché le piaceva tantissimo e per un forte desiderio di realizzare il suo sogno: vincere il primo campionato di boxe per ragazze a Gaza [il 20 novembre]. Fa parte del team di Ayob da sette mesi e si allena tre giorni la settimana per migliorare le sue prestazioni e raggiungere il livello che le consenta di partecipare a incontri internazionali.

Parla con Al-Monitor del suo amore per il pugilato: “La mia ammirazione per le performance di [Mike] Tyson, un pugile di fama mondiale, mi ha spinta a dedicarmi a questo sport che ho scoperto a Gaza. Mi alleno per proteggermi, nel caso mi trovassi in pericolo mentre cammino per strada e in previsione di qualsiasi situazione che mi si presentasse nella mia vita. Non ha niente a che fare con la violenza contro gli uomini.”

Ayob sta lavorando duro con la sua squadra per partecipare ai campionati arabi di pugilato juniores in Kuwait alla fine di febbraio 2021. Ha già selezionato sette ragazze, ma ha ancora bisogno del sostegno ufficiale per i biglietti aerei e altre spese di viaggio. Questa sarebbe la prima volta che delle ragazze di Gaza partecipano al campionato come squadra nazionale palestinese.

Nel frattempo, durante i primi mesi dopo la creazione del team, la pandemia ha intralciato gli allenamenti. Ayob afferma: “Non ho potuto finire di preparare ragazze a causa del coronavirus. Ma l’allenamento continua e mi concentro nel rendere più forti le ragazze e nell’adottare delle misure preventive per la loro sicurezza e quella delle loro famiglie.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




L’esercito israeliano giustifica l’uccisione del ragazzo palestinese. I testimoni respingono la sua versione

Oren Ziv

14 dicembre 2020 – +972 magazine

L’esercito israeliano ha giustificato l’uccisione Ali Abu Aliya, 15 anni, sostenendo che la dimostrazione costituisse un pericolo per gli automobilisti nella zona. Ma i testimoni dicono che, quando è stato colpito, il ragazzo si trovava molto lontano dalla strada in questione.

Venerdì 4 dicembre i soldati israeliani hanno sparato e ucciso il 15enne Ali Abu Aliya nel villaggio di al-Mughayyer, vicino a Ramallah, in Cisgiordania. Abu Aliya, che avrebbe dovuto festeggiare il suo compleanno quella sera, è stato colpito da un proiettile vero mentre osservava una manifestazione in corso nel villaggio.

Dopo l’omicidio il portavoce dell’unità delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha sottolineato che i palestinesi “hanno cercato di lanciare grosse pietre e bruciare pneumatici … mettendo a rischio l’incolumità delle auto in transito sulla strada di Allon (la vicina strada principale che attraversa la Cisgiordania da nord a sud)”. Comunque i militari hanno anche affermato di aver aperto un’indagine sull’omicidio.

Tuttavia tre giovani palestinesi che venerdì si trovavano vicino ad Abu Aliya e hanno fatto delle dichiarazioni a +972 testimoniano che Abu Aliya, quando i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro di lui, non si trovava nei pressi della strada di Allon. Inoltre dal punto in cui è stato colpito Abu Aliya sarebbe stato impossibile lanciare pietre verso la strada di Allon o mettere in pericolo in qualunque altro modo chi la percorreva.

Due video pubblicati sui media palestinesi e israeliani in seguito all’incidente mostrano i palestinesi che lanciano grosse pietre, come dichiarato dall’esercito. Ma l’esercito non ha potuto confermare a +972 dove sia stato esattamente filmato il video pubblicato dalla Israeli Public Broadcasting Corporation [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e secondo l’organizzazione contraria all’occupazione B’Tselem, che ha condotto un’indagine indipendente non ancora pubblicata sulla sparatoria, il video dei palestinesi che lanciano i sassi non sarebbe stato affatto filmato ad al-Mughayyer. I manifestanti che hanno esaminato le riprese hanno dichiarato che sarebbe stato girato a Malik. La distanza tra il villaggio di Malik e al-Mughayyer, dove Abu Aliya è stato ucciso, è di oltre cinque chilometri.

Un mese di proteste

Nel corso dell’ultimo mese, manifestanti palestinesi e israeliani hanno protestato a Samiya, tra Malik e al-Mughayyer, contro un avamposto coloniale non autorizzato insediatosi a est della strada di Allon.

Il 20 novembre, durante una manifestazione, l’esercito israeliano ha bloccato l’uscita da Malik in direzione della strada di Allon, al fine di impedire ai manifestanti di avvicinarsi lungo la strada all’avamposto, distante circa 4 km dalla manifestazione in corso. A causa della decisione dell’esercito di bloccare l’uscita la manifestazione si è trasferita nell’area di una stazione di pompaggio nel villaggio di Ein Samia, a circa 100 metri dalla strada.

Nel frattempo l’esercito ha anche bloccato le vie di accesso tra al-Mughayyer e la strada di Allon per impedire agli abitanti del villaggio di unirsi alla protesta e ai manifestanti di altri villaggi di raggiungere l’avamposto.

Secondo le testimonianze di tre adolescenti che venerdì scorso hanno assistito agli eventi, intorno alle 9 del mattino un contingente militare è entrato a piedi ad al-Mughayyer  mentre i soldati bloccavano l’uscita dal villaggio. Gli scontri sono iniziati su due colline alla periferia del villaggio in seguito all’arrivo dell’esercito. I soldati hanno lanciato granate assordanti e hanno sparato lacrimogeni e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro decine di ragazzi che lanciavano pietre.

“Otto soldati si trovavano sulla collina, poi si sono uniti a loro altri tre o quattro e sono avanzati verso il villaggio”, ha riferito Bassem, il fratello di Abu Aliya, una settimana dopo la morte di Ali. “Non erano agenti della polizia di frontiera. Anche la polizia di frontiera era stata inviata alla manifestazione, e tre di loro avevano fucili da cecchino” (molto probabilmente fucili che sparano proiettili calibro 22, lo stesso che ha ucciso Abu Aliya).

Più tardi quella mattina, tra le 10 e le 11, i soldati hanno raggiunto un sentiero sterrato che porta ad un quartiere della periferia del villaggio, a circa 200 metri di distanza. Dal sentiero non si vede la strada di Allon, e da quel punto non è certo possibile lanciare sassi sulla strada. “Un soldato era appostato a terra con il fucile da cecchino”, continua Bassem, “e in piedi accanto a lui c’era un ufficiale che gli dava istruzioni su dove sparare”.

Bassem e altri due testimoni presenti sulla scena raccontano che i soldati si sono radunati sul sentiero, mentre un piccolo gruppo di ragazzi era nascosto su entrambi i lati del sentiero dietro gli ulivi e un cumulo di terra. “Alcuni di loro scattavano foto e avevano un drone che scattava delle foto dall’alto”, ha detto Ahmad, 17 anni, un amico di Abu Aliya. Secondo le loro testimonianze, alcuni soldati hanno sparato dei lacrimogeni, mentre altri si sono nascosti nella speranza di fermare i lanciatori di pietre.

‘Era il suo compleanno’

Ci sono ancora bossoli sul terreno da dove il cecchino israeliano ha sparato ad Abu Aliya. Sulla base delle misurazioni effettuate dagli abitanti, circa 150 metri dividevano la postazione del cecchino e il luogo in cui Abu Aliya è stato colpito. Anche secondo B’Tselem la distanza tra il soldato e Abu Aliya era di circa 150 metri.

“Ali era in piedi accanto a me, molto lontano dai soldati, e improvvisamente ci siamo accorti che era ferito”, ricorda Ahmad. “Si teneva lo stomaco. Non stava sanguinando, quindi abbiamo pensato che fosse un proiettile di gomma o una ferita leggera. Abbiamo fermato un’auto che lo ha trasportato alla clinica di Turmusayya “.

Parlava ancora”, ha riferito suo fratello Bassem sui momenti successivi alla sparatoria. “Dopo di che ha perso conoscenza.”

Secondo Bassem i soldati hanno continuato a sparare lacrimogeni per un’altra mezz’ora prima di andarsene. Riferisce che molti dei ragazzi sono rimasti nascosti per un po’ di tempo dopo la sparatoria, per paura di essere feriti.

Othman, 17 anni, anche lui sulla scena dell’omicidio, ha detto che i ragazzi avevano sentito gli spari ma non avevano capito cosa fosse successo. “I ragazzi erano vicini ai soldati, ma si sono nascosti ai lati del sentiero perché hanno visto un cecchino. Hanno sbirciato, lanciato pietre e sono tornati indietro “.

Othman non esclude la possibilità che il cecchino abbia cercato di colpire un altro giovane che era più vicino ai soldati rispetto a Abu Aliya e i suoi amici, ma questi all’ultimo momento si sarebbe mosso. Gli altri due testimoni affermano che nessuno si sarebbe trovato tra loro e il cecchino. “Avendo visto che c’era un cecchino i ragazzi che erano vicini ai soldati avevano paura di stare sul sentiero”, ha detto Ahmad. Tutti e tre sottolineano che Abu Aliya non ha partecipato affatto agli scontri.

“Era il suo compleanno”, ha aggiunto Ahmed mentre si trovava dove il suo amico è stato colpito. “Non voleva stare lì a lungo, ha detto che voleva tornare dalla sua famiglia”. Ali è il secondo dei figli che la famiglia ha perso: Wissam, il fratello di Ali e Bassem, è morto di cancro 10 anni fa all’età di nove anni, anche lui il giorno del suo compleanno.

“Sparano per colpire qualcuno e per creare nei giovani la paura di uscire per manifestare”, ha concluso Bassem. “Ma non funziona.”

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [collettivo di fotografi che usano le immagini fotografiche come strumento di lotta per i diritti sociali e contro tutte le forme di oppressione, ndtr.] e cronista di Local Call [organo di informazione online in lingua ebraica in co-edizione con Just Vision e +972 Magazine, ndtr.]. Dal 2003, ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di attivisti e le loro lotte. Il suo lavoro di reporter si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, a favore degli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulla battaglia per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Eravamo armati, le abbiamo distrutto la cucina e ce ne siamo andati”

Nadav Weiman 

10 dicembre 2020 – +972mag

Agli israeliani piace pensare che le incursioni militari nelle case avvengano solo per motivi di sicurezza. Gli ex soldati – e le famiglie palestinesi – sanno che non è vero.

Quando parli con gli israeliani dell’occupazione, loro pensano ai posti di blocco. All’estero la gente pensa al muro di separazione. Ma come ex soldato israeliano che compiva regolarmente irruzioni nelle case, penso a un bambino palestinese che sono andato ad arrestare nel cuore della notte. A suo padre, che aggredì il più grosso dei soldati della nostra squadra. E a come avrei fatto esattamente lo stesso se fossi stato al suo posto.

Successe nella città di Nablus nel 2007. Ci era stato detto che dovevamo arrestare uno che era connesso su Internet con il partito politico libanese e organizzazione militare Hezbollah. All’epoca parlavamo di “arresti di masterizzatori CD” – un nome spregiativo in codice per il fondo del barile quando si trattava di palestinesi ricercati. Abbiamo fatto irruzione nel cuore della notte, l’intero plotone di ricognizione, per arrestare un adolescente di 16 o 17 anni – la cui stanza, guarda caso, era piena di masterizzatori di CD.

Gli abbiamo legato le mani dietro la schiena con delle fascette e lo abbiamo portato alla base con noi, ma suo padre aveva già perso le staffe. Ha individuato il soldato più grande nella nostra squadra e gli si è scagliato contro. Mentre arrestavamo questo ragazzo con i suoi CD di giochi elettronici piratati sparsi per la stanza, uno dei soldati picchiava suo padre, con la madre al fianco che urlava.

Non ricordo di aver mai immaginato, prima di arruolarmi nell’esercito, come potesse essere in pratica la mia attività. Sapevo che avrei dovuto entrare nelle case palestinesi. Sapevo che avrei dovuto fare arresti. Non pensavo a come sarebbe stato arrestarne uno così giovane, o vedere un padre impotente infuriarsi alla vista del figlio ammanettato. Queste non sono cose a cui pensi e non c’è nessuno che te ne parli. Ci sono cose che devi scoprire da solo e, una volta che è successo non c’è pericolo che te le dimentichi.

In Israele non si parla delle irruzioni nelle case palestinesi dei territori occupati. È un’operazione di routine che quasi tutti i soldati israeliani conoscono, ma non troverai esperti che ne parlano nei notiziari e di certo non ne troverai notizia sui giornali. I media coprono le incursioni al più con allarmanti notizie dell’ultima ora del tipo: “Cinque ricercati palestinesi arrestati stasera”. E agli israeliani piace pensare a queste cose esattamente così: raid chirurgici localizzati allo scopo di effettuare arresti legittimi. Ma il quadro non è questo.

In effetti, i soldati invadono continuamente le case palestinesi. Lo fanno per occupare nuove posizioni strategiche, per eseguire perquisizioni a caso e spesso semplicemente per “far sentire la loro presenza”. In alcune unità dell’esercito far sentire la propria presenza è definito “creare la sensazione di essere braccati”. Ciò significa instillare la paura nell’intera popolazione palestinese, una missione che per definizione non fa distinzione tra sospetti e civili innocenti, o tra “persone coinvolte” e “persone non coinvolte”, come ci si esprime nel gergo dell’esercito israeliano.

A volte i soldati fanno irruzione nelle case in piena notte semplicemente per addestramento. Ho fatto irruzione in case a Jenin o Nablus semplicemente per ottenere una posizione d’osservazione migliore. Secondo la testimonianza resa da un ex soldato a Breaking the Silence [organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.], si potevano invadere le case per sperimentare un nuovo dispositivo per sfondare le porte. Un altro testimone ha raccontato che erano entrati in una casa palestinese per farsi filmare mentre mangiavano sufganiyot (ciambelle di Hanukkah) e avere una buona notizia da trasmettere quella notte alla televisione israeliana.

Ci sono un mucchio di israeliani che conoscono l’interno della casa di un palestinese e non dovrebbero. Hanno visto decine di stanze per bambini, cucine che appartengono a estranei, armadi di altre persone. Se oggi, che sono padre di due figli, penso ai bambini che ho svegliato nel cuore della notte o ai loro genitori terrorizzati, qualcosa mi si spezza dentro.

Non si parla mai di questa routine e ancor meno di cosa c’è dietro. Mormoriamo solo che le irruzioni in casa sono una “necessità operativa” e andiamo avanti. Ma la maggior parte di queste intrusioni sono una necessità solo se si accetta l’assunto che la “presenza dimostrativa” giustifichi tutto, anche invadere la casa di qualcuno su cui non c’è il minimo indizio. Questo è ciò che anima la “necessità operativa”, e non sono certo che la società israeliana l’accetterebbe se sapesse cosa si sta facendo in campo militare a suo nome.

La scorsa settimana, Breaking the Silence ha pubblicato A Life Exposed [Una vita in pericolo], il tanto atteso rapporto dell’organizzazione sulle irruzioni in casa, scritto in collaborazione con i gruppi per i diritti umani Yesh Din [ong femminile israeliana per i diritti umani, ndtr.] e Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i Diritti Umani-Israele, ndtr.]. Il rapporto si basa su centinaia di testimonianze fornite da ex soldati che hanno preso parte a missioni di irruzioni in casa e dai palestinesi che le hanno subite. I resoconti palestinesi sono amari da leggere. Avendo preso parte ad irruzioni in casa, pensavo di sapere come vedono questa routine dall’altra parte. Mi sbagliavo. Ho visto con i miei occhi i palestinesi piangere nelle loro case, ma non ho mai pensato a coloro che trattenevano le lacrime finché ce ne fossimo andati. Non ho mai pensato a chi si è abituato a questa routine, a chi la considera parte della vita.

Prima di forzare la casa del masterizzatore di CD a Nablus siamo entrati per sbaglio in un’altra casa. C’erano due unità israeliane attive nella zona e noi abbiamo cercato di forzare la porta sbagliata. Abbiamo fracassato la porta di una donna nel cuore della notte finché non si è aperta. Siamo entrati, armati, pronti ad arrestare qualcuno, e abbiamo perquisito la casa.

Una delle porte era chiusa a chiave. Ho lanciato dall’alto una granata stordente nella stanza chiusa. Subito dopo si è sentito un vetro in frantumi; si è scoperto che la stanza chiusa era la cucina. Solo più tardi abbiamo scoperto di aver sbagliato casa. Abbiamo svegliato una donna nel cuore della notte, armati; le abbiamo distrutto la porta e la cucina e ce ne siamo andati. Non ci abbiamo nemmeno pensato. È ora che iniziamo a pensarci, tutti noi.

Nadav Weiman è un ex combattente del Nahal Reconnaissance Platoon [la Brigata Granito dell’esercito israeliano] e vicedirettore e responsabile del gruppo di pressione di Breaking the Silence.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)