‘Una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS: Microsoft disinveste da AnyVision, l’azienda israeliana di riconoscimento facciale

Michael Arria 

30 marzo 2020  Mondoweiss

Microsoft ha annunciato che sta disinvestendo la propria quota in AnyVision, la società israeliana di riconoscimento facciale. La decisione fa seguito a un controllo imposto da una campagna del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.] che l‘aveva presa di mira. Gli attivisti dicono che la tecnologia di riconoscimento facciale di AnyVisionè usata per sorvegliare i palestinesi in Cisgiordania.

Dopo che il giugno scorso Microsoft aveva investito nell’azienda, NBC News [canale televisivo USA di notizie, ndtr.] aveva riferito che AnyVision “gestiva un progetto segreto di sorveglianza militare” in Palestina. “Il riconoscimento facciale è probabilmente il mezzo migliore per un completo controllo governativo degli spazi pubblici e quindi dobbiamo trattarlo con estrema cautela” aveva detto all’epoca Shankar Narayan di ACLU [American Civil Liberties Union, Ong per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali negli Stati Uniti, ndtr.]. Quando NBC ha contattato Eylon Etshtein, l’AD di AnyVision, per il servizio, ha negato di essere a conoscenza del progetto, sottolineando che la Cisgiordania non è occupata e insinuando che il reportage fosse finanziato da un gruppo di attivisti palestinesi.

Durante l’estate del 2019, Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione ebraica USA contraria antisionista, ndtr.] ha lanciato la campagna #DropAnyVision, chiedendo a Microsoft di abbandonare l’azienda. Quest’anno si sono uniti i gruppi MPower Change [organizzazione in rete di musulmani statunitensi, ndtr.] e SumofUs [Ong USA che promuove campagne di sensibilizzazione e responsabilizzazione su vari temi, ndtr.] per lanciare una petizione. Oltre 75.000 persone l’hanno firmata ed è stata consegnata nella sede dell’azienda da militanti e dipendenti della Microsoft.

A novembre 2019, Microsoft aveva assunto Eric Holder, l’ex Procuratore Generale degli Stati Uniti (e il suo team dello studio legale internazionale Covington & Burling) per condurre un’indagine indipendente sulla AnyVision per determinare se le pratiche della ditta fossero in linea con i principi etici di Microsoft. Si era concluso che la tecnologia era usata nei posti di blocco dei varchi di frontiera, ma che la compagnia “al momento non gestiva quel programma di sorveglianza di massa in Cisgiordania di cui si parlava nei reportage dei media.”

Ciononostante, Microsoft ha deciso di separarsi da AnyVision. “Dopo un’attenta analisi, Microsoft e AnyVision hanno deciso che è nell’interesse di entrambe che Microsoft disinvesta la propria quota in AnyVision”, ha affermato in un comunicato. “L’audit ha confermato la difficoltà per Microsoft di essere un investitore di minoranza in una ditta che vende tecnologia sensibile, dato che tali investimenti generalmente non permettono il livello di supervisione o controllo che Microsoft esercita sull’uso delle proprie tecnologie.”

La decisione di Microsoft di lasciare AnyVision è un bruttissimo colpo per questa startup israeliana profondamente implicata [nella repressione israeliana] e un successo per la grandiosa campagna del BDS guidata da Jewish Voice for Peace” ha detto in un comunicato Omar Barghouti, il co-fondatore di BDS. “Grazie alla complicità di molte corporazioni come AnyVision e nonostante la minaccia del coronavirus, i crimini di guerra di Israele contro i palestinesi continuano e quindi non possono che continuare anche la nostra resistenza e la nostra lotta per libertà, giustizia e uguaglianza.”

La decisione di Microsoft di accogliere la richiesta della campagna e abbandonare AnyVision, l’azienda israeliana di sorveglianza, è una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS” ha twittato l’account ufficiale del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC).

La decisione di Microsoft di disinvestire da AnyVision è una vittoria importante dei militanti per la giustizia tecnologica e per la comunità internazionale solidale con i palestinesi.”, ha detto Lau Barrios, manager della campagna MPower Change. Questa decisione di Microsoft, leader globale del settore del software, rafforza la nostra convinzione che non ci si possa fidare di governo, polizia e forze armate e del loro uso della sorveglianza tecnologica come quella del riconoscimento facciale che è sempre di più utilizzata negli USA e in tutto il mondo per monitorare, sorvegliare e criminalizzare ulteriormente neri, immigrati, palestinesi e comunità musulmane.”

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss dagli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




B’Tselem: “Durante la crisi del coronavirus Israele confisca tende destinate a una clinica nel nord della Cisigordania

27 marzo 2020 – International Middle East Media Center

Il Centro Israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei Territori Occupati (B’Tselem): Comunità che devono affrontare l’espulsione. Giovedì 26 marzo verso le 7,30 funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana in Cisgiordania sono arrivati con la scorta di una jeep militare, un bulldozer e due autocarri a pianale con gru nella comunità palestinese di Khirbet Ibziq, nel nord della Valle del Giordano.

Hanno confiscato pali e teli che destinati all’installazione di otto tende, due per un ospedale da campo, quattro per abitazioni d’emergenza per abitanti evacuati dalle loro case e due come moschee di fortuna.

La polizia ha anche confiscato una baracca di lamiera che si trovava sul posto da più di due anni, così come un generatore e sacchi di sabbia e di cemento. Sono stati portati via quattro bancali di mattoni di cemento per pavimentare le tende e altri quattro sono stati demoliti.

Mentre tutto il mondo lotta contro una crisi senza precedenti che paralizza il sistema sanitario, l’esercito israeliano dedica tempo e risorse ad angariare le comunità palestinesi più vulnerabili in Cisgiordania, che per decenni Israele ha cercato di cacciare dalla zona.

Impedire un’iniziativa comunitaria di primo soccorso durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei costanti soprusi inflitti a queste comunità, e va contro principi umani e umanitari basilari durante un’emergenza. A differenza delle politiche di Israele, questa pandemia non discrimina in base alla nazionalità, all’etnia o alla religione.

È giunto il momento che il governo e l’esercito riconoscano che ora più che mai Israele è responsabile della salute e del benessere dei cinque milioni di palestinesi che vivono sotto il suo controllo nei Territori Occupati.

Oltre alla sconvolgente distruzione dell’ospedale in costruzione, l’Amministrazione Civile sta continuando la sua solita opera di demolizione. Oggi nel villaggio di ‘Ein a-Duyuk a-Tahta, ad est di Gerico, ha distrutto tre case stagionali di contadini che risiedono a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi di fronte a due nemici: l’occupazione e la pandemia

Tamara Nassar

26 marzo 2020 – Electronic Intifada

Nonostante la pandemia globale, nulla è cambiato riguardo all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Il numero di casi confermati di COVID-19, la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus, è salito a quasi 2.700 in Israele, a circa 80 nella Cisgiordania occupata e a nove nella Striscia di Gaza assediata.

Finora la malattia ha causato la morte di otto israeliani e di una donna palestinese nella Cisgiordania occupata.

Mentre il coronavirus infetta sempre più persone, i palestinesi affrontano contemporaneamente un nemico più vecchio: l’occupazione militare israeliana.

Gaza, sotto assedio e con un’alta densità di popolazione, è particolarmente esposta al rischio di una diffusa epidemia.

“Israele non potrà scaricare su qualcun altro le sue colpe se questo scenario da incubo dovesse divenire una situazione che ha determinato senza fare alcuno sforzo per evitarla”, ha ammonito questa settimana l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem .

Distanziamento fisico, permanenza a casa e cura dell’igiene sono precauzioni che i palestinesi si sforzano di adottare mentre Israele continua a demolire strutture, a condurre raid notturni, ad arrestare arbitrariamente bambini e ad angariare regolarmente i civili.

Confiscate le strutture per un ospedale da campo

Giovedì mattina le forze israeliane hanno demolito e confiscato strutture destinate a un ospedale da campo e ad alloggi di emergenza a Ibziq, un villaggio nella valle del Giordano settentrionale nella Cisgiordania occupata.

Ciò è stato fatto con la supervisione dell’Amministrazione Civile, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana.

Le forze israeliane hanno confiscato tende, un generatore e materiali da costruzione.

“Chiudere un’attività di primo soccorso per la comunità durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei regolari abusi inflitti a queste comunità”, ha affermato questa settimana l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo il capo del consiglio del villaggio Abdul Majid Khdeirat, ciò è stato fatto con il pretesto che la costruzione si trovava in una zona militare interdetta.

Israele dichiara abitualmente le terre della Cisgiordania aree di tiro o zone militari e successivamente confisca il territorio a favore delle colonie israeliane illegali.

Le forze israeliane hanno anche demolito le case di tre famiglie palestinesi nel villaggio di al-Duyuk, vicino a Gerico.

Un bulldozer militare israeliano ha distrutto le case di Muayad Abu Obaida, Thaer al-Sharif e Yasir Alayan, perché sarebbero state costruite senza [quei] permessi che Israele non concede quasi mai ai palestinesi. Ciò non lascia loro altra scelta che costruire le case senza il permesso dell’occupante.

Tutti e tre gli agricoltori risiedono a Gerusalemme.

Decine di migliaia in condizioni di isolamento

Nel frattempo Israele sta valutando di isolare diversi quartieri della Gerusalemme est occupata, tagliando fuori decine di migliaia di palestinesi dal resto della città.

Quasi il 70% delle 100.000 persone del campo profughi di Shuafat ha un documento di residenza israeliano che consente loro di entrare a Gerusalemme.

“In caso di blocco questi abitanti saranno completamente isolati rispetto alla loro città, a cui si rivolgono per tutti i servizi di base, e ciò probabilmente porterà panico e disordini diffusi”, avverte Ir Amim, un’organizzazione israeliana impegnata per l’uguaglianza a Gerusalemme.

“Tale misura sarebbe un ulteriore passo avanti nella realizzazione dei piani israeliani di lunga data volti a ridisegnare i confini municipali di Gerusalemme, per separare formalmente quei quartieri da Gerusalemme”.

Israele userebbe il coronavirus come pretesto per tagliar fuori quei quartieri dal resto di Gerusalemme, nonostante in quei quartieri il numero di casi confermati sia considerevolmente più basso rispetto a Israele.

La popolazione più vulnerabile al mondo”

Le organizzazioni per i diritti umani mettono in guardia a proposito di un incombente disastro nel caso di una diffusa epidemia di COVID-19 a Gaza. Spesso definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo, l’enclave costiera è sotto assedio israeliano dal 2007. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo di Gaza e, insieme all’Egitto, i suoi confini terrestri.

Gaza è ancora sconvolta per le tre pesanti offensive militari israeliane [a partire] dal 2008.

Gli abitanti di Gaza [sono] tra le persone più vulnerabili del mondo alla pandemia globale di COVID-19”, ha dichiarato il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq.

La crisi idrica e sanitaria causata dal prolungato blocco israeliano di Gaza mina “la capacità dei palestinesi di prevenire e mitigare adeguatamente gli effetti dell’epidemia di COVID-19”, ha aggiunto al-Haq.

Meno del 4% dell’acqua del territorio è adatto al consumo umano.

I moderni sistemi sanitari in Paesi come l’Italia e la Spagna stanno collassando sotto la pressione della pandemia.

Un’epidemia del nuovo coronavirus a Gaza, dove le infrastrutture sanitarie sono già sull’orlo del collasso, condurrebbe a “un disastro umanitario, interamente costruito da Israele”, ha affermato B’Tselem.

Israele abitualmente ritarda o nega a molti palestinesi i permessi per ricevere trattamenti sanitari fuori Gaza, concedendoli solo a una piccola parte delle persone che necessitano di cure mediche.”

“Ora non ci sarà più neanche questa minima possibilità”, ha detto B’Tselem.

La dott.ssa Mona El-Farra, responsabile sanitaria della Mezzaluna Rossa palestinese a Gaza, ha dichiarato a The Electronic Intifada che mancano letti, equipaggiamento protettivo e kit per i test.

“Non abbiamo abbastanza kit, finora abbiamo solo circa 200 kit per la diagnosi. Al momento abbiamo 2.500 persone in quarantena. Tutti hanno bisogno di essere testati.”

Il Qatar ha promesso 150 milioni di dollari [136 milioni di euro, ndtr.] nei prossimi sei mesi per aiutare gli sforzi delle Nazioni Unite contro il coronavirus a Gaza.

Sebbene questo possa aiutare a breve termine, solleva anche Israele dalle sue responsabilità di potenza occupante.

Nessun accesso ai servizi di emergenza

Adalah, un’organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, afferma che i beduini palestinesi della regione meridionale del Naqab non hanno accesso ai servizi medici di emergenza.

Il Ministero della Salute israeliano impedisce a coloro che soffrono di febbre e sintomi respiratori di lasciare la propria casa. Se la loro salute peggiora, l’MDA, il servizio di ambulanza [corrispettivo israeliano della Croce Rossa, ndtr.], può prescrivere una visita domiciliare o l’invio in ospedale.

Tuttavia quei villaggi non hanno accesso alla MDA.

Domenica l’associazione ha inviato una lettera alle autorità israeliane chiedendo di fornire quei servizi ai 70.000 cittadini palestinesi di Israele che vivono in villaggi non riconosciuti.

“Per anni Israele ha mantenuto una politica di abbandono e discriminazione quando si trattava di fornire i normali servizi sanitari, così come servizi medici di emergenza, ai beduini con cittadinanza israeliana,” ha detto Adalah.

“In presenza della crisi coronavirus questa politica statale comporta ora un pericolo immediato per gli abitanti del posto e per il pubblico in generale.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Coronavirus: ai lavoratori palestinesi viene ordinato di lasciare Israele a causa del cattivo trattamento

 

Akram Al-Waara – Betlemme, Cisgiordania occupata

giovedì 26 marzo 2020 – Middle East Eye 

L’Autorità Nazionale Palestinese chiede a tutti i suoi cittadini di rientrare a casa in quanto Israele è accusato di “mettere a rischio la loro salute”

I lavoratori palestinesi lasciano Israele dopo l’indignazione suscitata da diversi casi di operai malati cacciati dai loro datori di lavoro israeliani.

Effettivamente negli ultimi giorni parecchi operai palestinesi che lavoravano in Israele sono stati scaricati ai checkpoint tra Israele e il nord della Cisgiordania dopo aver presentato sintomi di COVID-19.

All’inizio di questa settimana le immagini video di un lavoratore malato e indebolito, steso a terra per ore davanti a un checkpoint della regione di Ramallah dopo esservi stato abbandonato dalle autorità israeliane, sono diventate virali, mettendo in discussione il trattamento riservato da Israele ai lavoratori palestinesi.

Oggi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ordina a tutti i suoi cittadini che lavorano in Israele di tornare in Cisgiordania e di entrare in quarantena obbligatoria di 14 giorni, a pena di sanzioni non precisate da parte del governo.

Tenuto conto degli sviluppi gravi e continuati in Israele e delle restrizioni previste in materia di spostamenti, chiediamo a tutti i lavoratori palestinesi di rientrare a casa allo scopo di proteggerli e preservare la loro sicurezza”, ha dichiarato martedì il Primo Ministro dell’ANP Mohammad Shtayyeh in un comunicato.

Giovedì scorso Shtayyeh aveva annunciato che i palestinesi erano ormai sottoposti anche al divieto di lavorare nelle colonie israeliane illegali nel territorio occupato.

Questa decisione è intervenuta solo qualche giorno dopo che migliaia di lavoratori si erano precipitati in Israele in seguito alla promessa che si sarebbe dato loro un adeguato alloggio da parte dei loro datori di lavoro israeliani e sarebbero stati autorizzati a rimanere anche di notte in Israele, in modo da evitare la propagazione del virus in Cisgiordania – un’opportunità per innumerevoli lavoratori di provvedere alle necessità della propria famiglia in un contesto di incremento della disoccupazione durante la pandemia.

Sistema inquietante

Negli ultimi giorni sono stati registrati almeno quattro incidenti che hanno coinvolto operai palestinesi abbandonati ai posti di controllo dalle forze israeliane.

Lunedì Ibrahim Abu Safiya, del villaggio di Beit Sira, nella regione di Ramallah, ha raccontato a Middle East Eye di aver visto un operaio palestinese, in seguito identificato come Malek Jayousi, steso a terra davanti al locale checkpoint con febbre alta e difficoltà respiratorie.

Abu Safiya ha detto che la sera prima anche un altro operaio, del campo profughi di Jalazone nel governatorato di Ramallah, si era presentato al posto di controllo di Beit Sira con febbre alta, dopo che il suo datore di lavoro gli aveva tolto il lavoro in Israele.

L’uomo, che si sarebbe visto rifiutare le cure mediche in Israele, è arrivato da solo al checkpoint in taxi, prima di essere trasferito a Ramallah in ambulanza.

Martedì sera i media palestinesi hanno riferito che tre operai erano stati abbandonati dalle autorità israeliane ad un posto di controllo vicino a Tulkarem ed un altro davanti al posto di controllo di Jbara, vicino a Hizma, nella Cisgiordania centrale.

Le informazioni precisano che parecchi degli operai erano sintomatici, con febbre alta, a volte più di 40 gradi. Tutti i lavoratori sarebbero stati sottoposti a test per coronavirus da parte di medici locali e posti in isolamento.

Il portavoce dell’ANP, Ibrahim Melhem, ha condannato il trattamento israeliano “razzista e disumano” dei lavoratori palestinesi.

Se dovete lavorare per guadagnarvi da vivere, allora che sia con dignità e non in questo modo degradante”, ha affermato in un comunicato rivolto alle migliaia di operai palestinesi che lavorano in Israele.

Ribal Kurdi, un attivista di Betlemme di 29 anni, ha dichiarato a MEE di essere rimasto sconvolto e indignato vedendo come i lavoratori che presentavano sintomi della malattia venivano trattati dalle autorità e dai datori di lavoro israeliani.

Israele voleva che i lavoratori venissero nel Paese a lavorare”, ricorda Kurdi. “Ma (gli israeliani) non vogliono più farsene carico quando i lavoratori si ammalano”.

L’occupazione israeliana dovrebbe essere responsabile della vita dei lavoratori palestinesi”, sostiene.

I datori di lavoro non ci hanno dato niente” 

Secondo le associazioni di difesa dei diritti umani, la decisione presa la scorsa settimana di autorizzare i lavoratori a rimanere in Israele anche di notte – contrariamente alla usuale politica di Israele in materia di permessi di lavoro – per un periodo prolungato, allo scopo di evitare una nuova diffusione del COVID-19, era viziata fin dall’inizio.

Kav LaOved, un’associazione israeliana di difesa dei diritti dei lavoratori, ha dichiarato in un comunicato pubblicato su Facebook il 18 marzo che “purtroppo la maggioranza degli interlocutori israeliani non ha rispettato gli impegni presi riguardo all’offerta di una sistemazione adeguata e sicura ai lavoratori”.

Insieme a fotografie di centinaia di operai bloccati a un checkpoint non identificato, l’associazione ha anche affermato che non era stata presa alcuna misura per “assicurare una protezione sanitaria nel caso in cui un lavoratore fosse esposto” al coronavirus.

Secondo Kav LaOved circa 60.000 palestinesi lavorano in Israele, soprattutto nell’edilizia e in agricoltura. Si stima che altri 30.000 lavorino nelle colonie israeliane in Cisgiordania.

Kav LaOved, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e Medici per i Diritti Umani hanno preteso che il governo israeliano – in particolare il Ministro della Difesa Naftali Bennett, che aveva approvato l’ingresso dei lavoratori – tuteli i diritti dei lavoratori palestinesi durante la pandemia.

Abbiamo contattato i Ministeri del Lavoro, della Sicurezza e della Sanità per esigere che il governo verifichi il lavoro di questi lavoratori ed il loro soggiorno qui, e protegga i loro diritti. Abbiamo chiesto specificamente alloggi accettabili e assistenza sanitaria”, ha dichiarato un portavoce dell’ACRI a MEE.

Ma finora gli sforzi di queste ONG sono stati vani.

A., un lavoratore che ha trascorso parecchie notti in Israele, ha confidato a MEE in forma anonima che lui ed i suoi colleghi sono stati costretti a dormire su dei cartoni nel cantiere edile dove lavoravano e non hanno ricevuto nessuna protezione igienica come guanti, mascherine o disinfettante per le mani.

È molto diverso da quello che ci avevano detto”, lamenta. “I nostri datori di lavoro non ci hanno dato niente e se ti ammali ti mandano via senza la minima cura”.

Mercoledì il numero dei casi di coronavirus accertati in Palestina è arrivato a 62 – contro gli oltre 2.100 casi confermati in Israele.

Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ha riferito che uno dei nuovi casi confermati, una donna sulla sessantina del villaggio di Biddu, vicino a Ramallah, “potrebbe aver contratto la malattia dai suoi figli che lavorano in Israele”.

Ribal Kurdi ha insistito sul fatto che non è stata colpa degli operai che andavano a lavorare in Israele. “Hanno dovuto scegliere tra mantenere la propria famiglia o ammalarsi. È una situazione spaventosa”, ha dichiarato l’attivista. In fin dei conti, secondo lui, “è l’occupazione israeliana ad essere responsabile di mettere a rischio la salute di tutta la Cisgiordania”.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Netanyahu per sempre! Gantz abbandona la sua opposizione

Philip Weiss  

26 marzo 2020 – Mondoweiss

Questa mattina c’è una notizia straordinaria da Israele. Lo stallo politico del Paese durato un anno sembra essere stato superato. Il leader dell’opposizione politica a Netanyahu dell’ultimo anno, Benny Gantz, si è piegato ed ha unito le forze con Netanyahu per fare un governo che lo avrà ancora come primo ministro.

Secondo le notizie, Gantz sta rompendo la sua alleanza “Blu e Bianco” di tre fazioni di centro-destra e aggiungendo 15 seggi al blocco di 58 o 59 seggi di Netanyahu per creare una maggioranza forte.

“Benjamin Netanyahu sarà primo ministro…Benny Gantz sarà ministro degli Esteri,” afferma Ellie Hochenberg di i24 News [rete televisiva privata israeliana filogovernativa, ndtr.]. Sostiene che Netanyahu, a differenza di Gantz, è rimasto leale alla sua base e ai suoi alleati politici di destra.

Netanyahu è già il primo ministro di Israele più a lungo in carica, con quattro mandati e 14 anni, di cui 11 di fila dal 2009. È stato salvato dal suo ex- capo di stato maggiore dell’esercito – il generale Gantz ha colpito Gaza nel 2014 [operazione “Margine protettivo”, ndtr.] uccidendo più di 500 minorenni.

Netanyahu sembra essere stato salvato da due fattori: la crisi del coronavirus si sta aggravando in Israele e rendendo gli israeliani poco disposti a sostituirlo, nonostante il fatto che sia accusato di corruzione e debba essere processato, e il palese razzismo.

Solo una settimana fa, più o meno, sembrava che Gantz stesse per cacciare Netanyahu. Ma poi il razzismo ha bloccato ogni speranza di farlo. [La coalizione] “Blu e Bianco” (33 seggi), insieme al partito di destra di Avigdor Lieberman (7 seggi), i resti della sinistra israeliana (7 seggi) e la Lista Unita palestinese (15 seggi), si era impegnata a formare una maggioranza e a mettere al tappeto Netanyahu. I palestinesi non avrebbero fatto parte del governo che ne sarebbe sorto, però è così che funziona uno Stato ebraico.

Poi sono iniziate le defezioni: tre parlamentari della destra ebraica si sono rifiutati di lavorare con i loro colleghi palestinesi persino temporaneamente. Gantz è passato da 62 a 59. Ancora una volta lui e Netanyahu erano praticamente in un vicolo cieco e ci sono stati colloqui per una quarta tornata elettorale, dopo le tre nell’ultimo anno (dall’aprile 2019 al 2 marzo 2020).

Il nuovo governo non è ufficiale: quello che è ufficiale è che Benny Gantz sta per diventare presidente della Knesset, sostituendo l’alleato di Netanyahu Yuli Edelstein e riaprendo il parlamento, che era stato chiuso. “La mossa dovrebbe essere temporanea finché verrà formato un governo di unità nazionale,” scrive Lahav Harkov sul Jerusalem Post [giornale israeliano in inglese, ndtr.].

L’iniziativa di Gantz tradisce molti dei suoi alleati. Il leader politico palestinese Ahmad Tibi ha detto che i parlamentari palestinesi voteranno contro Gantz.

Un altro dirigente palestinese, Ayman Odeh, ha scritto acidamente (traduzione di google dall’ebraico): “Non perdono mai un’occasione per perdere un’occasione,” una battuta sulla falsariga di quella di Abba Eban, secondo il quale gli arabi non perdono mai simili opportunità.

La sinistra ebraica è stata totalmente screditata da questi avvenimenti. Ha giocato una parte nel portare in auge ed elogiare Gantz. Uno di loro ha rifiutato di votare per Gantz se i palestinesi avessero fatto parte della coalizione.

Tibi ha scritto alla CNN che la Lista Unita è la vera opposizione al governo di destra israeliano. Ma Harkov afferma che ci sarà una lotta politica per il ruolo di opposizione tra la Lista Unita e i resti dell’alleanza “Blu e Bianco” – i circa 18 seggi dei partiti di destra di Moshe Ya’alon e di Yair Lapid. Raviv Drucker [noto giornalista investigativo israeliano ostile a Netanyahu, ndtr.] sostiene che il partito di destra di Moshe Ya’alon guiderà l’opposizione. Alcuni osservatori dicono che Gantz sarà giocato dal mago della politica, Netanyahu.

“Con 15 seggi Benny Gantz è completamente nelle mani di Netanyahu. Non sarebbe sorprendente se le promesse di Netanyahu iniziassero a svanire ora che ha ottenuto il suo principale obiettivo – è riuscito a smantellare ‘Blu e Bianco’,” ritiene Raviv Drucker. Chemi Shalev di Haaretz ha la stessa opinione (traduzione di google): “Se fossi Bibi, un minuto dopo che Gantz ha prestato giuramento (come presidente del parlamento), romperei l’accordo per l’unità. [Netanyahu] ha schiacciato l’opposizione senza pagare un centesimo.”

Shalev paragona Gantz a un vice-cancelliere tedesco di breve durata, Franz von Papen, che consentì ad Hitler di arrivare alla cancelleria nel 1933. Chi ha detto che le metafore sul nazismo sono illegittime riguardo a Israele? Ancora Shalev (traduttore google): “Inconcepibile…Come se il coronavirus non fosse abbastanza, Gantz è arrivato e l’ha fatta sulla testa di metà dei civili. C’è di che essere sollevati?”

Shalev dice anche che “gli unici voti sicuri contro Netanyahu saranno quelli di Lieberman e della Lista Unita.” Un altro segno che nell’epoca di Netanyahu la sinistra ebraica è ridotta a brandelli, mentre la Lista Unita è l’unica a cui la sinistra in Israele si può rivolgere. E nella crisi sta assurgendo al ruolo di guida.

Arabi ed ebrei lottano insieme contro il coronavirus, ma gli ebrei non vogliono i palestinesi in politica, scrive Odeh: “Garantisco che, che siate arabi o ebrei, che abbiate votato per noi o meno, che vi abbiano fatti uscire dall’URSS, ridotto lo stipendio o licenziato, avete un punto di riferimento nella Knesset. Siamo qui per voi.”

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss e fondatore del sito nel 2005-06.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Salvateci dal Coronavirus prima che le nostre celle diventino le nostre tombe!

Appello dei prigionieri palestinesi, ammalati e detenuti nelle carceri dell’occupazione israeliana, indirizzato alle organizzazioni internazionali per i diritti umani e a tutti i liberi del mondo

Giorno dopo giorno, ora dopo ora, e con la propagazione del Coronavirus, avvertiamo un pericolo sempre crescente per le nostre vite nelle carceri israeliane. La pandemia sta minacciando il mondo intero. Mentre il governo israeliano e tutti gli altri governi diramano indicazioni ai rispettivi popoli nel tentativo di rallentare la diffusione del virus, non sentiamo e non vediamo alcuna azione seria che risponda alla nostra domanda: cosa sarà di noi se il virus dovesse diffondersi qui, dentro le prigioni? Quali saranno le azioni pratiche e umane che l’amministrazione carceraria israeliana metterà in campo nei nostri confronti?

Si sente parlare solo di misure precauzionali messe in atto da parte dell’amministrazione carceraria. Ma quali sono realmente queste precauzioni? Si tratta, secondo noi, di “semplice fumo negli occhi. Dentro le prigioni ci sono diverse centinaia di prigionieri affetti da varie problematiche sanitarie, alcune delle quali anche gravi. Altri hanno problemi respiratori e cardiaci per non parlare di quelli che sono colpiti dall’ipertensione, dal diabete o da molte altre patologie croniche.

Ci appelliamo al mondo intero e a tutti coloro che si occupano dei diritti dell’uomo in quanto esseri umani. Con la malattia che ci minaccia giorno dopo giorno, di quali diritti godiamo? Non è stata adottata alcuna misura reale di tutela e non abbiamo visto un minimo segnale di buon senso e di prevenzione nei nostri confronti. La negligenza sanitaria e il ritardo nelle cure perseguitano da sempre le/i detenute/i palestinesi nelle carceri israeliane. Già in passato molti prigionieri sono deceduti proprio per la mancanza di cure mediche. Figuriamoci ora che le autorità sanitarie israeliane hanno già dichiarato di non essere in grado di assorbire il crescente numero dei pazienti colpiti dal virus.

Come si sa, l’unico modo – e forse l’unica speranza – per ridurre il contagio e la propagazione del Coronavirus è quello di fare attenzione, prendere le adeguate misure precauzionali e cautelative ed applicare rigidamente una serie di pratiche igienico-sanitarie. Ma l’amministrazione carceraria israeliana non fornisce nulla: nessun mezzo per la sterilizzazione e nessuna mascherina. Siamo di fronte ad azioni formali che si avvicinano di più a minacce vere e proprie piuttosto che a degli accertamenti sanitari o reali pratiche preventive. L’unico nostro contatto col mondo esterno è rappresentato dai nostri carcerieri. Loro non esitano ad entrare in contatto con noi, senza rispettare la distanza di sicurezza, con il rischio appunto di contagiarci. Gli agenti dell’amministrazione carceraria hanno la possibiltà eventualmente di isolarsi e sottoporsi alle dovute cure. Noi, ovviamente, no!

La responsabilità di questa situazione è tutta dell’amministrazione carceraria, del governo israeliano e tutti coloro che si proclamano difensori dei diritti dell’uomo.

Ci appelliamo a tutte le persone libere: non lasciateci morire nelle nostre celle, senza alcuna misura protettiva col contagio che si sta propagando.

O forse dobbiamo fare come hanno già fatto in altre prigioni nel mondo? Rivoltarci per poi morire colpiti dalle pallottole, prima ancora di essere uccisi dal Coronavirus?

Il nostro è un grido rivolto al mondo intero. Alleghiamo un elenco dei nomi di alcune/i prigioniere/i affette/i da svariate patologie. Chi è interessato può così rendersi conto delle nostre pessime condizioni sanitarie all’interno delle carceri israeliane. In realtà, l’elenco è molto più lungo.

Comitato dei prigionieri palestinesi per la difesa dei diritti dell’uomo

Alcuni nomi dei detenuti malati:

1. Mo’tasim Raddad/ tumore intestinale e immune-depresso,

2. Khaled al-Shawish/ disabile, cateterizzato, iperlipemia e allergia sanguigna,

3. Mansour Moqadi/ disabile, protesi gastrica e cateterizzato,

4. Kamal abu Wa’r/ tumore laringeo con problematiche respiratorie,

5. Ahmad Sa’adeh/ infarto cardiaco,

6. Walid Daqqa/ patologie cardiocircolatorie, problematiche respiratori e in trattamento chemioterapico,

7. Sa’di al-Gharabli/ prostatite, ipertensione, diabete e problemi geriatrici,

8. Zamel Shallouf/ aritmie cardiache con pace maker, problemi respiratori,

9. Miqdad al-Hih/ ictus cerebrale emisfero sinistro, dispnea e problemi gastrointestinali,

10. Khalil Msallam Baraq’ah/ problemi respiratori e polmonari,

11. ‘Ala’ Ibrahim ‘Ali/ tubercolosi, complicanze respiratorie e problemi gastrointestinali,

12. Ayman Hasan al-Kurd/ paraplegico, problemi nel sistema nervoso e problemi gastrointestinali,

13. Saleh Daoud/ epilessia, problemi respiratori,

14. Mohammad Jaber al-Hroub/ epatite per incuranza medica,

15. Ra’ed al-Hutari/ problemi respiratori, emicrania, gotta,

16. Hamza al-Kalouti/ gotta gastroenterite, dispnee,

17. Ibrahim ‘Isa ‘Abdeh/ patologia nervosa, gotta,

18. ‘Ezzeddine Karajat/ respirazione artificiale,

19. Mutawakkel Radwan/ infarto e problemi respiratori,

20. Usama abu al-‘Asal/ problemi respiratori e cardiaci,

21. Khalil abu Ni’meh/ problemi respiratori,

22. Fawwaz Ba’areh/ cancro cerebrale con momenti di sincope/coma,

23. Mahmoud abu Kharabish/ crisi respiratoria,

24. Fu’ad al-Shobaki/ problemi geriatrici,

25. ‘Abd al-Mu’iz al-Ja’abeh/ infarto cardiaco, iperlipemia,

26. Nasri ‘Asi/ problemi alle tiroidi,

27. Mamdouh al-Tanani/ diabete, ipertensione, iperlipemia, problemi renali e altre patologie,

28. Ahmed E’beid/ problemi circolatori, ipertensione, iperlipemia,

29. Muwaffaq al-‘Erouq/ tumore intestinale,

30. Ibrahim abu Mukh/ leucimia,

31. Musa Sufan/ polmonite,

32. Israà Ja’abis/ ustione su tutto il corpo, amputazione alcune dita,

33. Yousef Iskaf/ cardiopatico,

34. Nabil Harb/ intestino artificiale,

35. Yusra al-Masri/ infiammazione ghiandolare.

Rete Samidoun – Palestina Occupata

Traduzione a cura dell’Unione Democratico Arabo Palestinese – UDAP




L’UNRWA chiede all’amministrazione Trump di ripristinare i finanziamenti in quanto si trova in prima linea nella crisi COVID-19 in Palestina

Michael Arria

24 marzo 2020 Mondoweiss

L’amministrazione Trump taglia tutti i finanziamenti all’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente). Oltre cinque milioni di persone nella regione dipendono dall’organizzazione per i servizi sociali, ma ora il suo lavoro è diventato veramente cruciale in seguito alla crisi da COVID-19.

A settembre 2018 Yumna Patel di Mondoweiss ha prodotto un video che evidenzia l’impatto potenzialmente devastante dei tagli.

La scorsa settimana la direttrice esecutiva dell’UNRWA Mara Kronenfeld ha sottoposto una deposizione al Sottocomitato per gli Stanziamenti Abitativi presso lo Stato, Operazioni Estere e Programmi Connessi, chiedendo al Congresso di annullare la decisione del 2018 dell’amministrazione Trump. “Abbiamo ora i 144 centri di salute dell’Agenzia in prima linea nella lotta contro una pandemia globale”, si legge nella deposizione di Kronenfield. “L’Agenzia ha già richiesto agli Stati donatori un’ulteriore cifra di 14 milioni di dollari per far fronte alla crisi. L’UNRWA sta cercando altri finanziamenti per garantire che nelle strutture UNRWA siano disponibili adeguate misure di prevenzione e risposta, soprattutto in quelle sanitarie ed educative.”

Kronenfeld ha citato anche il vice Commissario Generale dell’UNRWA Christian Saunders riguardo alla catastrofica situazione economica dell’organizzazione. L’UNRWA ha iniziato l’anno con 55 milioni di dollari di debito e non è riuscita a ottenere i finanziamenti necessari. “Se non riceviamo altre garanzie o se coloro che hanno assunto degli impegni non li onorano, alla fine del mese prossimo resteremo senza denaro”, ha detto Saunders. “A questo punto non vedo come le necessità dei rifugiati palestinesi possano essere soddisfatte quest’anno, se gli aiuti rimangono fermi ai livelli del 2019; i nostri programmi principali, portati avanti a Gaza, in Giordania, Libano, Siria e Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, si bloccheranno.”

Sabato scorso i funzionari della sanità palestinesi hanno comunicato che due persone a Gaza sono risultate positive al test del COVID-19. Questa notizia naturalmente ha aumentato l’ansia nella regione, dato che il blocco israeliano già vieta che molte risorse essenziali arrivino nella zona. Medhat Abbas, direttore generale della medicina di base a Gaza, ha detto a The Guardian che attualmente dispongono di 40 posti letto di terapia intensiva e ne avrebbero solo 100 perfino in condizioni di emergenza. “Possiamo occuparci dei casi attuali e in numero limitato, ma se la pandemia aumenta, come è accaduto in alcuni Paesi, avremo bisogno di interventi internazionali”, ha detto.

Per settimane abbiamo detto allo staff dell’UNRWA di Gaza che dobbiamo agire come se il COVID-19 fosse presente”, ha twittato il direttore dell’UNRWA di Gaza Matthias Schmale. “Dopo l’annuncio (di ieri) dei due casi esogeni, la linea ora è di comportarci come se ci fosse un pieno scoppio dell’epidemia ed un severo coprifuoco. Meglio essere preparati che piangere! Cercheremo di mantenere i servizi salvavita.”

Michael Arria è il corrispondente USA per Mondoweiss

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Come un calzolaio palestinese ha avviato la prima e unica fabbrica di mascherine in Cisgiordania

Suha Arraf

23 marzo 2020 +972 Magazine

Quello che è iniziato come un esperimento pochi giorni dopo lo scoppio del coronavirus in Cisgiordania si è trasformato in una fabbrica che produce migliaia di mascherine al giorno

Due giorni dopo lo scoppio del coronavirus a Betlemme, Amjad Zaghir, proprietario di una fabbrica di scarpe nella città palestinese di Hebron, si è reso conto che la Cisgiordania sarebbe presto rimasta a corto di mascherine. In poco meno di tre settimane ne è diventato l’unico produttore: Zaghir ha repentinamente messo in piedi questa nuova attività grazie alla quale riesce a produrre migliaia di mascherine al giorno. È diventato eroe nazionale per aver aiutato i palestinesi a proteggersi dal virus.

Zaghir si è messo al lavoro non appena i giornali hanno riportato il primo caso di COVID-19 diagnosticato a Betlemme. Ha quindi comprato una mascherina e ha iniziato a studiarne la struttura, inclinandola a destra e a sinistra. Inizialmente aveva pensato di poterla produrre con i materiali utilizzati nella produzione delle scarpe. “Ho quindi chiesto consiglio ad un mio amico farmacista, chiedendogli quali materiali vengono usati nella produzione delle mascherine”, racconta Zaghir. “Mi ha spiegato che i materiali usati nella produzione di scarpe sono inadeguati e mi ha spiegato come realizzarle”.

Zaghir ha quindi iniziato a cercare il tessuto utilizzato nella produzione di mascherine a Hebron. Ha conosciuto un venditore che aveva acquistato il materiale dalla Turchia l’anno precedente, senza essere mai riuscito ad utilizzarlo a causa della competitività dei prezzi delle mascherine importate dalla Cina. Zaghir ha quindi deciso di acquistare questo materiale, che il suo amico farmacista ha poi confermato essere quello giusto per la fabbricazione di mascherine.

“Inizialmente ho provato a cucire le mascherine utilizzando la stessa macchina che usiamo per cucire le scarpe. Il tentativo non ha avuto successo perché il tessuto delle mascherine è molto sottile e si strappa facilmente” spiega Zaghir. Ho provato a stirare il tessuto per creare le pieghe, ma si bruciava”. Zaghir ha quindi provato a stirarlo presso una lavanderia a secco, ma il tessuto, troppo delicato, non resiste al calore elevato.

Zaghir non si è arreso, soprattutto dopo aver saputo che le mascherine si stavano esaurendo in Cisgiordania e che quindi questa poteva rivelarsi un’occasione d’oro. Discendente di una famiglia di commercianti (Zaghir ha infatti ereditato l’attività dal suo bisnonno), il trentenne ha un ottimo senso degli affari. Tuttavia, non è stato solamente il profitto a motivarlo: “Lo faccio principalmente per aiutare la mia gente e per offrire opportunità di lavoro”, ha detto. “A Hebron c’è la crisi e sono in molti ad essere disoccupati”.

Zaghir ha percorso la città consultando farmacisti e laboratori di cucito. Alla fine è venuto a conoscenza dell’esistenza di una macchina in città in grado di piegare e stirare le mascherine contemporaneamente. Per moderare i livelli di calore a 400 gradi ha sovrapposto mascherine e strati di carta. L’esperimento ha funzionato.

“Il primo giorno sono riuscito a produrre solo 500 mascherine. Il giorno successivo ne ho realizzate altre mille e ho quindi assunto venti lavoratori per aumentare la produzione”.

Il nome della fabbrica è ‘Zaghir’, che significa ‘piccolo’ in arabo. Sebbene la fabbrica sia piccola, è diventata la prima e unica attività di questo tipo in Palestina, producendo tra le settemila e novemila mascherine al giorno.

Eppure, Zaghir non è soddisfatto delle quantità prodotte: a partire dalla prossima settimana ha intenzione di espandere ulteriormente la produzione per rispondere alla domanda di mascherine in Palestina. Ha già trovato un laboratorio vuoto e assumerà nuovi lavoratori.

Le mascherine sono state vendute più velocemente delle frittelle, ha spiegato Zaghir. I suoi clienti sono impiegati statali, ospedali, e persino la polizia palestinese: soltanto questo sabato ha venduto cinquemila mascherine alla polizia di Nablus. Alle istituzioni ufficiali le mascherine vengono vendute al prezzo simbolico di 1,50 NIS, determinato dal governatore di Hebron. La tariffa è invece diversa per le farmacie a altri fornitori.

“Ho iniziato a ricevere richieste dalla Giordania, Kuwait, paesi del Golfo e Canada”, racconta. “Persino i venditori israeliani mi hanno contattato per comprare le mie mascherine, ma non ho assunto abbastanza lavoratori. Vorrei poter rispondere a tutte le richieste”.

Ma il materiale che Zaghir ha usato finirà presto. Ne ha già ordinato altro, ma i paesi hanno chiuso i confini per contenere la diffusione del virus, che ha già raggiunto la Turchia, paese da cui viene esportato il materiale.

Malgrado ciò, Zaghir è imperterrito: “sono fiducioso che sarò in grado di importare il materiale. Ho contattato la Camera di commercio palestinese, che a sua volta si è rivolta alla camera di commercio israeliana che ha contattato dogane e altre autorità per discuterne. Questa è una crisi sanitaria, una pandemia globale, uno stato di emergenza. Non si tratta dei soliti affari, motivo per cui sono abbastanza sicuro che faranno in modo che io possa importare le merci”.

Zaghir ritiene che tra una settimana potrà produrre centomila mascherine al giorno. “Oggi ho provato una nuova tecnica di cucito che si è rilevata molto efficiente e siamo riusciti a produrre 15 mila mascherine. Questa è la quantità maggiore da quando abbiamo iniziato a produrle”, ci spiega. “Il mio prodotto è unico, diverso da qualsiasi altro al mondo. Chiunque si imbatterà in questo prodotto saprà che è stato realizzato ad al-Khalīl (Hebron)”, ha aggiunto.

da Palestina Cultura è Libertà

 

 




Paura e ansia mentre Gaza sotto assedio conferma i primi 2 casi di coronavirus

Farah Najjar e Maram Humaid

22 marzo 2020 – Al Jazeera

Le autorità dell’enclave costiera hanno chiuso ristoranti e caffè, mentre sono state sospese anche le preghiere del venerdì.

Funzionari palestinesi hanno annunciato i primi due casi di COVID-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus, nella Striscia di Gaza assediata.

Il vice ministro della Sanità Youssef Abulreesh ha dichiarato sabato scorso che i due pazienti palestinesi sono tornati dal Pakistan attraverso il varco di Rafah tra Gaza e il vicino Egitto.

Durante una conferenza stampa Abulreesh ha detto che la coppia mostrava i sintomi della malattia, che comprendono tosse secca e febbre alta.

Ha aggiunto che al loro arrivo i due sono stati messi in quarantena e che ora si trovano in un ospedale da campo nella città di confine di Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Abulreesh ha esortato i quasi due milioni di residenti di Gaza a prendere misure precauzionali e a mettere in atto il distanziamento sociale rimanendo a casa, nel tentativo di arrestare la potenziale diffusione del virus.

Le autorità di Gaza, che è governata dall’organizzazione di Hamas, hanno deciso di chiudere i ristoranti, i caffè e le sale di ricevimento dell’enclave. Anche le preghiere del venerdì nelle moschee sono state sospese fino a nuovo avviso.

Nel frattempo il Coordinamento delle attività governative nei territori (COGAT), un’unità militare israeliana responsabile per le questioni civili nei territori occupati, ha annunciato che domenica, tutti i punti di accesso verso Israele da Gaza e dalla Cisgiordania occupata sono stati chiusi.

“I commercianti, i lavoratori e gli altri titolari di permesso non potranno entrare attraverso i valichi fino a nuovo avviso”, ha detto il COGAT sulla sua pagina Twitter, aggiungendo che alcune eccezioni possono applicarsi a infermieri e operatori sanitari, nonché in caso di situazioni sanitarie eccezionali.

I palestinesi sostengono che i permessi di accesso sono difficili da ottenere, anche per coloro che hanno un motivo sanitario o umanitario, poiché ogni domanda è accompagnata da un lungo processo burocratico, di solito con il pretesto del nulla osta da parte della sicurezza.

‘Abbiamo molta paura’

Il 15 marzo le autorità di Gaza hanno introdotto misure per collocare gli abitanti in arrivo nei centri di quarantena.

Ad oggi, secondo un rapporto pubblicato sabato dal ministero della salute dell’Autorità Nazionale Palestinese, ci sono 20 strutture apposite nel sud di Gaza, tra cui scuole, hotel e strutture mediche, che ospitano più di 1.200 persone.

I centri per la quarantena si trovano a Rafah, Deir al-Balah e nella città meridionale di Khan Younis. Secondo il rapporto, almeno altri 2.000 rimpatriati si sono auto-isolati nelle proprie case, prima che venissero implementate, la scorsa settimana, le procedure di quarantena obbligatoria.

Um Mohammed Khalil è tra coloro che sono stati messi in quarantena a Rafah.

La 49 enne, tornata da una breve visita in Egitto la scorsa settimana, era tra le 50 persone trasportate in autobus in una scuola con “bassi standard di igiene”, dove le camere singole condivise da sette persone.

Khalil racconta ad Al Jazeera che la notizia dei primi due casi positivi ha suscitato paura e ansia tra coloro che si trovano in quarantena nella scuola.

“Avevamo paura che tra noi ci fossero persone affette dal contagio”, afferma, “motivo per cui, soprattutto, abbiamo chiesto un miglioramento delle condizioni di quarantena”.

” Da questa mattina le nostre famiglie sono in contatto con noi e anche loro sono seriamente preoccupate. Gaza ha subito molte guerre e crisi, ma come può sostenere questa pandemia?” dice. “Abbiamo molta paura”.

Gaza sotto assedio

Il sistema sanitario di Gaza è in rovina e i suoi abitanti, martoriati dalla guerra, sono particolarmente vulnerabili poiché hanno vissuto sotto un assedio israelo-egiziano per quasi 13 anni.

Il blocco aereo, terrestre e marittimo ha limitato l’ingresso di risorse essenziali come attrezzature sanitarie, medicinali e materiali da costruzione.

Dal 2007 Gaza ha subito tre attacchi israeliani che hanno provocato la distruzione di infrastrutture civili, tra cui strutture sanitarie e una centrale elettrica.

Le case, gli uffici e gli ospedali di Gaza ricevono una media di 4-6 ore di elettricità al giorno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha avvertito che il sistema sanitario di Gaza non sarebbe in grado di affrontare un’epidemia, dato che gli ospedali della Striscia sono sovraffollati e con risorse insufficienti.

Ayman al-Halabi, un medico dei laboratori gestiti dal ministero della Salute di Gaza, fa parte di un team di medici responsabili dei test sui campioni in arrivo.

“La routine di due settimane fa”, dice al-Halabi ad Al Jazeera, “consisteva nella raccolta dei campioni dai rimpatriati al confine di Rafah, sottoposti a un test basato sulla reazione a catena della polimerasi (PCR), il test di scelta utilizzato per diagnosticare COVID-19”.

Al Halabi aggiunge che attualmente vengono sottoposte al test altre centinaia di campioni di persone che potrebbero essere venute a contatto con i primi due pazienti.

Riferendosi alle limitate risorse di Gaza, al-Halabi dichiara: “Affrontare questa pandemia sarà estremamente impegnativo.

Se stanno avendo difficoltà i Paesi più grandi e potenti, in che modo Gaza dovrebbe farcela?”

‘La fine del mondo’

Secondo i dati raccolti dalla Johns Hopkins University, negli Stati Uniti, a livello mondiale sono risultate positive alla malattia altamente infettiva oltre 300.000 persone. Più di 13.000 persone sono morte a causa del virus, mentre circa 92.000 sono guarite.

Con l’incombente minaccia di un focolaio, molti sostengono che il virus potrebbe essere l’ultima goccia per gli esausti abitanti di Gaza.

Amira al-Dremly sapeva che sarebbe stata solo una questione di tempo prima che il virus raggiungesse Gaza.

Ma la notizia che sabato due persone sono risultate positive è stato percepita come “la fine del mondo”, afferma al-Dremly ad Al Jazeera.

“La più grande paura”, sostiene la 34enne “è che le risorse disponibili a Gaza non bastino ad opporre una resistenza temporanea [nei confronti della diffusione del virus]”.

“Ho molta paura per i miei figli. Sto prendendo misure per educarli sulla sterilizzazione e li ho ammoniti a non uscire di casa”, dice questa madre di quattro figli.

“Ma gli effetti psicologici sono pesanti, la mia famiglia e tutti intorno a me sono molto disorientati da questa notizia”, aggiunge.

Gaza, una delle aree più densamente popolate del mondo, ospita alcuni dei più grandi campi profughi palestinesi e al-Dremly fa notare che il distanziamento sociale è qualcosa che è “più facile a dirsi che a farsi”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un funzionario dell’ONU: Israele è giuridicamente responsabile della salute dei palestinesi

Redazione, Middle East Monitor, Reti sociali

21 marzo 2020 – Palestine Chronicle

Un importante funzionario dell’ONU ha annunciato che durante la lotta contro il coronavirus Israele è giuridicamente responsabile di fornire i servizi sanitari per garantire la salute dei palestinesi nei Territori Occupati.

Secondo il relatore speciale dell’ONU per la situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Michael Lynk, “l’obbligo giuridico, stabilito dall’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, prevede che Israele, la potenza occupante, debba garantire che ogni misura preventiva necessaria a sua disposizione venga utilizzata per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie’.

Link ha aggiunto: “Al centro dei tentativi da parte di Israele, dell’Autorità Nazionale Palestinese e di Hamas di contenere e bloccare questa pandemia deve essere messo in atto un approccio centrato sui diritti umani.”

Ha continuato: “Il diritto alla dignità prevede che ogni persona sotto la loro autorità debba godere di pari accesso ai servizi sanitari e dell’uguaglianza di trattamento.

In un comunicato che ha inviato giovedì, Lynk ha manifestato la propria preoccupazione per il fatto che i primi documenti informativi per incrementare la consapevolezza sulla diffusione del CODIV-19 diffusi dal ministero della Salute israeliano siano stati scritti quasi esclusivamente in ebraico.

Ciò significa che i palestinesi, in Israele o nei territori occupati, non hanno potuto usufruire di questo importante materiale.

In precedenza il relatore speciale aveva notato che Israele sta “violando in modo grave” i suoi obblighi internazionali riguardo al diritto alle cure mediche dei palestinesi che vivono sotto occupazione.

Relativamente alle sue preoccupazioni riguardanti Gaza, ha dichiarato:

Sono particolarmente preoccupato del potenziale impatto di COVID-19 su Gaza. Il suo sistema sanitario era al collasso anche prima della pandemia. Le sue scorte di medicinali essenziali sono cronicamente scarse.”

Gaza, con una popolazione di due milioni di persone, è sottoposta a un ermetico assedio israeliano dal 2006, quando il gruppo palestinese Hamas ha vinto le elezioni politiche democratiche nella Palestina occupata. Da allora Israele ha effettuato numerosi bombardamenti e diverse guerre su vasta scala che hanno provocato la morte di migliaia di persone.

“La verità è che a Gaza – né, francamente, nella Palestina occupata – nessuna ‘preparazione’ può bloccare la diffusione del coronavirus,” ha scritto il giornalista palestinese e redattore di “The Palestine Chronicle” Ramzy Baroud.

“Ciò di cui c’è necessità è un cambiamento fondamentale e strutturale che liberi il sistema sanitario palestinese dal terribile impatto dell’occupazione israeliana e dalle politiche del governo israeliano di continuo assedio e di ‘quarantene’ imposte per ragioni politiche – note anche come apartheid,” ha aggiunto Baroud.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)