Nella giornata internazionale della donna 43 donne palestinesi languono nelle carceri israeliane

8 marzo 2020 Palestine Chronicle

Secondo una dichiarazione rilasciata dall’Associazione per i Prigionieri Palestinesi (PPC) per rimarcare la Giornata Internazionale della Donna, attualmente 43 donne palestinesi languono nelle carceri israeliane.

Shorouq Dwayyat, di Gerusalemme est, e Shatila Abu Ayyad, del villaggio arabo di Kafr Qassim, che si trova all’interno di Israele, sono state condannate alla pena più lunga tra le donne prigioniere: entrambe scontano 16 anni di carcere.

Tra le prigioniere ci sono 16 madri. Una di loro è Israa Jaabis, di 34 anni, arrestata ad ottobre 2015 dopo che una bombola di gas difettosa all’interno della sua macchina è scoppiata a 500 metri da un checkpoint israeliano nella Cisgiordania occupata.

Jaabis è rimasta gravemente ferita nello scoppio, con il 65% del corpo ustionato. Le forze di occupazione israeliane accusano la donna, che ha un figlio di dieci anni, di attentato ai danni di soldati israeliani ad un checkpoint vicino al luogo dell’esplosione.

Quattro donne prigioniere sono in detenzione amministrativa [detenzione senza capi d’accusa e senza processo, di sei mesi rinnovabili indefinitamente, illegale per il diritto internazionale, ndtr.], compresa la femminista, avvocata e deputata palestinese Khalida Jarrar, che è stata riarrestata lo scorso ottobre, solo pochi mesi dopo il suo rilascio.

La donna prigioniera da più tempo in carcere è Amal Taqatqa di Betlemme. È stata arrestata il 1 dicembre 2014 e sta scontando una pena di 7 anni.

Nella sua dichiarazione, il PCC ha affermato che dal 1967 Israele ha arrestato 16.000 donne palestinesi, aggiungendo che spesso esse sono sottoposte a torture.

“La lotta dei prigionieri palestinesi simbolizza la lotta di tutti i palestinesi”, ha scritto il giornalista e redattore di ‘Palestine Chronicle’ Ramzy Baroud.

“La loro carcerazione è una cruda rappresentazione della reclusione collettiva del popolo palestinese – di coloro che vivono sotto occupazione e apartheid in Cisgiordania e di coloro che si trovano sotto occupazione e assedio a Gaza”, ha aggiunto Baroud.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Abbas dichiara lo stato di emergenza per il diffondersi del coronavirus in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

6 marzo 2020 Electronic Intifada

Giovedì, dopo che nell’area di Betlemme sono stati diagnosticati sette casi di coronavirus, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato lo stato di emergenza per un mese in Cisgiordania.

Fino a venerdì in Cisgiordania sono stati diagnosticati 19 casi.

L’agenzia di stampa Reuters ha riferito che Il Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha ordinato la chiusura di Betlemme, secondo quanto riportato, in coordinamento con l’autorità palestinese, “con il divieto di trasferimenti di israeliani e palestinesi a partire dalla serata di giovedì”.

Il Ministro della Salute Mai Alkaila ha riferito che sette dipendenti palestinesi dell’Angel Hotel di Beit Jala, vicino a Betlemme, sono risultati positivi al virus. Si ritiene, ha aggiunto la Reuters, che lo abbiano contratto da turisti che hanno soggiornato di recente nell’hotel.

Più di una dozzina di turisti americani e 25 palestinesi, tra il personale e i clienti, sono stati messi in quarantena presso l’hotel.

Venerdì la direttrice dell’albergo Mariana Al-Ajra ha riferito ai media che gli ospiti non erano ancora stati sottoposti al test per il virus.

“Comprendiamo che è una situazione pesante per le autorità locali, ma non otteniamo da loro alcuna informazione”, ha detto alla CNN Chris Bell, un pastore dell’Alabama del gruppo di americani in quarantena.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il Ministero della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese ha implementato, in conformità con le sue linee guida, la prevenzione e il controllo delle infezioni.”

“Rischio molto elevato”

Con circa 3.750 casi di coronavirus, dei quali più di 100 mortali, segnalati fino a giovedì nell’area mediterranea, l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza si trovano ad un livello di “rischio molto elevato”.

Fino a venerdì ci sono stati quasi 100.000 casi confermati di contagio in tutto il mondo, con 3.400 decessi.

L’organismo sanitario internazionale ha affermato che l’epidemia di Betlemme è dovuta a un gruppo di pellegrini greci presenti nell’area la settimana precedente, molti dei quali sono risultati positivi al virus al loro ritorno a casa.

Il gruppo di greci ha visitato Israele e la Cisgiordania in autobus.

Israele ha segnalato 21 casi di coronavirus, tra cui il palestinese di Gerusalemme est che guidava l’autobus turistico dei pellegrini greci. Le sue condizioni, è stato riferito, sono in “grave peggioramento” ed è sottoposto a ventilazione artificiale.

La dichiarazione senza precedenti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di uno stato di emergenza in Cisgiordania ha comportato la chiusura delle scuole per 30 giorni, il blocco per due settimane degli hotel agli ospiti stranieri e le restrizioni riguardanti grandi raduni pubblici.

Tuttavia, secondo quanto riferito venerdì dai media palestinesi, circa 3.000 turisti stranieri rimarranno a Betlemme nel periodo della chiusura dell’area e sono stati invitati a non lasciare i loro alberghi.

La Chiesa della Natività di Betlemme è stata chiusa, così come altre sedi di culto in città e altrove in Cisgiordania.

Il blocco di due settimane è un duro colpo per il settore del turismo di Betlemme, già notevolmente ridotto a causa dell’inasprimento delle restrizioni israeliane riguardanti gli spostamenti dallo scoppio della seconda Intifada nel settembre 2000.

Nessun caso segnalato a Gaza

Nessun caso di coronavirus è stato rilevato a Gaza. In collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le autorità del territorio assediato hanno allestito un’area chiusa dalla parte di Gaza del valico di Rafah con l’Egitto per mettere in quarantena i viaggiatori di ritorno da paesi in cui è presente il virus.

Una comparsa del coronavirus nella fascia costiera sarebbe solo l’ultimo di una serie di colpi al sistema sanitario di Gaza. Le infrastrutture sanitarie nel territorio sono state minate dal blocco israeliano imposto nel 2007 e dalle successive offensive militari.

Gli ospedali di Gaza hanno combattuto per far fronte al numero sbalorditivo di morti e di feriti, molti dei quali di lunga degenza e bisognosi di complessi interventi chirurgici, dovuti all’uso israeliano di armi da fuoco contro le proteste collettive lungo il confine tra Gaza e Israele.

A dicembre a Gaza si segnalava che quasi metà delle medicine essenziali erano sufficienti per un mese,e il 43% del tutto esaurito.

Per quanto finora sia stata risparmiata dal coronavirus, giovedì la tragedia ha colpito Gaza quando una sospetta fuga di gas ha causato un’esplosione e l’incendio di una panetteria in un affollato mercato nel campo profughi di Nuseirat.

Dieci persone, tra cui sei bambini, sono morte nel fuoco. Altre sessanta sono rimaste ferite, 14 delle quali gravemente.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)

 




L’importanza della deputata velata alla Knesset

Suhail Kewan

5 marzo 2020 Middle East Monitor

Dobbiamo occuparci del fatto che quattro donne arabe sono state elette nel nuovo parlamento israeliano, una delle quali è la prima deputata araba che indossa l’hijab [velo che copre capelli, fronte, orecchie e nuca, ndtr.], Iman Al-Khatib. Spesso si sono viste donne velate in posizioni di responsabilità e normalmente hanno forti personalità, cosa indispensabile perché le donne in generale, velate o no, incontrano grandi ostacoli sulla via dell’auto-affermazione. Le sfide iniziano nelle loro stesse comunità, molte delle quali ancora dubitano delle loro capacità di leadership, come anche nei consigli comunali. È ancora più difficile del normale per le donne che indossano il velo in un ambiente caratterizzato da razzismo e odio verso gli arabi e i musulmani in generale.

Vedere Al-Khatib alla Knesset riporta alla mente Ilhan Omar, la deputata democratica al Congresso USA, nei confronti della quale il grande amico di Netanyahu, il presidente Donald Trump, ha esplicitato il suo odio. Come noto, Trump l’ha invitata a tornare al suo Paese d’origine, la Somalia, a causa del suo attivismo antirazzista. È stata anche accusata dai sionisti americani di essere “antisemita” per via delle sue dure critiche delle politiche israeliane.

Tuttavia, per quanto riguarda gli immigrati in qualunque luogo, Iman Al-Khatib non è una di loro. Proviene da Yafa An-Naseriyye; è nativa del Paese. Ha un master in Scienze Sociali ed è madre di tre bambini. Ovviamente non è la prima deputata araba; tale onore spetta a Husnia Jabara, membro del partito di estrema sinistra [sionista, ndtr.] Meretz, seguita da Haneen Zoabi, la prima donna deputata di un partito arabo, l’“Assemblea Nazionale Democratica” [noto anche come Balad, si batte per l’uguaglianza di tutti i cittadini israeliani, ndtr.]. Le altre sono Aida Touma-Suleiman del Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza [alleanza tra il partito Comunista e altri gruppi di sinistra, ndtr.]; per alcuni mesi Niven Abu Rahmoun della Lista Unita [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.]; e poi Heba Yazbek di Balad. Oltre a Sonia Saleh di Ta’al (Movimento Arabo per il Rinnovamento [partito di Ahmad Tibi, uno dei leader della “Lista Unita”, ndtr.] ), che è stata eletta alle ultime elezioni.

La presenza nella Knesset di quattro donne elette con la Lista Unita segnala la consapevolezza dei partiti della necessità di una forte presenza di donne politicamente attive nel parlamento. C’è anche una crescente consapevolezza dei diritti, dello status e della forza delle donne. Una così forte rappresentanza araba nella Knesset è notevole e l’hijab ha il suo peso in proposito, sollevando, come sta facendo, il problema sia per gli arabi che per gli ebrei di che cosa debba essere la Knesset nei prossimi anni.

I candidati arabi saranno in grado di raggiungere il numero di deputati equivalente al potere di un partito politico. Questo è importante per due motivi: nei prossimi vent’anni gli arabi diventeranno decisivi e partner nelle questioni cruciali nella Knesset e i partiti sionisti incrementeranno le misure ostili contro di loro per fermarne la crescente influenza. Ciò significa rafforzare le già draconiane leggi discriminatorie che Netanyahu ha avviato, prima fra tutte la legge dello Stato-Nazione e la norma per ridurre il numero massimo di deputati arabi al 10% del totale. Questo verrà attuato per preservare il carattere ebraico dello Stato o per impedire il diritto al voto a chi non ha fatto il servizio militare [cioé i palestinesi di Israele, ndtr.] o in altri impieghi statali.

Nulla di nuovo: analoghi suggerimenti sono già stati fatti. Ci sono chiari segnali che verranno approvate leggi che delegittimano i partiti che non accettano l’esclusiva ebraicità dello Stato e li metteranno fuori legge. Questi sforzi nei prossimi anni diventeranno aggressivi man mano che crescerà l’influenza degli arabi nella composizione della Knesset; ciò riguarderà la Lista Unita con le sue quattro deputate e chiunque vi si aggiungerà in seguito. Forse che i partiti sionisti permetteranno che 30 deputati arabi siedano in parlamento per i prossimi vent’anni, a prescindere che le donne indossino o no il velo e che siano comuniste, musulmane o nazionaliste? In verità questo è ciò che Netanyahu ha cercato di evitare approvando la legge sullo Stato-Nazione e cancellando l’arabo come lingua ufficiale in Israele, anche se il 20% della popolazione parla arabo. Ci sono già disegni di legge per impedire ai partiti che non riconoscono l’ebraicità dello Stato di partecipare alle elezioni, eliminando così la possibilità di una presenza araba significativa e quindi influente nella Knesset. Qualunque presenza rimanente sarà una mera formalità finalizzata a dare di Israele l’immagine di uno Stato ebreo e democratico.

L’aumento da 9 a 15 deputati dei rappresentanti arabi alla Knesset nell’ultimo anno ha messo in luce il potere dei cittadini arabi palestinesi di Israele, e anche la sostanza dell’imminente conflitto nell’arena parlamentare, che ci pone di fronte a due possibilità. La prima è la perpetuazione dell’approccio razzista e di apartheid, che sarà intensificato con l’approvazione di leggi maggiormente razziste. La seconda è la creazione di un ampio fronte pacifista arabo ed ebreo che impedisca un ulteriore deterioramento della situazione.

Questo è ciò che suggerisce la Lista Unita attraverso il suo capo Ayman Odeh, ma nelle attuali circostanze è un sogno lontano. È chiaro che l’estrema destra è più forte ed è in totale sintonia con il generale spostamento a destra e l’ostilità verso l’islam e gli arabi, come dimostra Trump. I razzisti non accetteranno gli arabi come partner eguali e faranno tutto ciò che è in loro potere per fermare questa avanzata araba nella roccaforte del processo decisionale israeliano. La presenza di una deputata che indossa il velo nel parlamento israeliano è solo una parte del conflitto diffuso in molti ambiti riguardo al carattere, alla forma e al destino di questo Paese, del suo popolo e di coloro che ci vivono.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gli israeliani scelgono un governo di destra – rispetto ad un governo di destra moderata

Jonathan Ofir

3 marzo 2020 Mondoweiss

Con il 90% dei voti scrutinati nella terza elezione in un anno in Israele, la grande sorpresa è che il Likud di Netanyahu supera il partito rivale di centro “Blu e Bianco” di Gantz. Il conteggio è di 36 (seggi) per il Likud e 32 per “Blu e Bianco”. Per alcuni mesi il Likud è rimasto sostanzialmente indietro, e solo nelle ultime due settimane i sondaggi hanno iniziato a mostrare un lieve vantaggio del Likud su “Blu e Bianco”. Nessun sondaggio aveva assolutamente previsto una vittoria di questa portata prima della giornata elettorale di ieri.

Però in base al conteggio sembrano mancare al blocco di destra del Likud 2 seggi –con 59 eletti– per raggiungere una coalizione di governo senza  “Blu e Bianco” e senza i sette seggi di Lieberman nel partito “Yisrael Beitenu” [ultranazionalista laico, ndtr.]. Ma Lieberman ha sempre dichiarato che la sua unica opzione è un governo di unità senza i partiti religiosi, che hanno ottenuto 17 seggi e sono una componente essenziale del blocco di Netanyahu.

Quindi, benché non sia ancora una vittoria decisiva per il Likud e per Netanyahu, è comunque una vittoria importante, almeno simbolicamente. Netanyahu ha già salutato la vittoria come “la più grande della mia vita”.

Occorre sottolineare che anche la “Lista Unita”, che rappresenta la maggior parte dei palestinesi israeliani, ha ottenuto un successo storico: 15 seggi. Ma questo conta poco per i sionisti che governano Israele: “Blu e Bianco” ha già affermato chiaramente che non parteciperanno al governo, come è sempre stato in Israele – gli “arabi” possono aumentare o diminuire, semplicemente non contano nel sistema dell’Israele “ebraico e democratico”, che è una forma di “democrazia solo per gli ebrei”.

Qui è importante l’elemento simbolico. Se Netanyahu sembra essere ad un passo dalla maggioranza di 61 seggi, Gantz ne è lontano anni luce. Senza la Lista Unita, una coalizione di centro-sinistra tra “Blu e Bianco” e partito Laburista – Meretz (7 seggi, i rimasugli della sinistra sionista) arriverebbe solo a 39 seggi. Anche se questa coalizione dovesse contare sull’appoggio dei voti della Lista Unita, comunque non si avvicinerebbe nemmeno [alla maggioranza]. Perciò il messaggio è che Israele è un Paese di destra.

E bisogna considerare la logica dal punto di vista dell’elettore israeliano di destra. Se “Blu e Bianco” è sostanzialmente un partito fotocopia del Likud, semplicemente senza Netanyahu, e se votarlo porta ad un’impasse, allora perché non votare direttamente il Likud e aumentare le probabilità di un governo di destra, anche se non ti piace Netanyahu?

Questa sembra essere la logica naturale in questa protratta guerra di logoramento sotto forma di elezioni israeliane senza fine. Netanyahu sembra essere entusiasta di questa prospettiva. Può essere che ciò conduca ad una quarta elezione, ma non sarà affatto un problema per Netanyahu. Il messaggio è “solo un’altra piccola spinta” e “Netanyahu o il disastro”.

Israele può andare avanti per un po’ con questo “governo provvisorio”. Se la realtà dimostra che elezioni ripetute alla fine producono un vantaggio per il Likud, allora dal punto di vista di Netanyahu potrebbe valere la pena di insistere,  non accettare compromessi per un governo di unità e giocare questa carta in vista di una vittoria ancor maggiore e più netta la prossima volta.

Jonathan Ofir . Musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger, vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele sta cercando di “spezzare” questo sobborgo di Gerusalemme est – con esiti brutali

Judith Sudilovsky

25 febbraio 2020 – +972

Malek è l’ultimo minore di Issawiya sotto occupazione a perdere un occhio a causa di un proiettile di gomma mentre la polizia israeliana intensifica la repressione dei residenti palestinesi.

Per più di una settimana, da quando il loro figlio di nove anni Malek è stato colpito all’occhio da un proiettile di gomma, Wael e Sawsan Issa hanno vegliato su di lui insieme ad amici e parenti all’ospedale Hadassah di Gerusalemme, prima in terapia intensiva e poi nel reparto pediatrico.

Nonostante diversi interventi chirurgici, i medici non sono stati in grado di salvare l’occhio sinistro di Malek e quindi hanno dovuto rimuoverlo. Dopo essere stata rimandata a casa lunedì, la famiglia è tornata all’ Hadassah poche ore dopo a causa del dolore che tormentava il ragazzo.

Le preoccupazioni che Malek potesse aver subito un danno cerebrale sono state fugate e, riferisce suo padre Wael Issa, [Malek] ha parlato. “Sta dormendo. Non vuole parlare con nessuno. Gli fa male e vuole stare tranquillo. Ci vorrà del tempo.”

Il proiettile che ha colpito al capo Malek è stato sparato da un agente di polizia israeliano il 15 febbraio, durante un’incursione per un arresto da parte delle forze israeliane nel villaggio palestinese di Issawiya, a Gerusalemme est. Secondo i resoconti della stampa, il poliziotto ha affermato di aver sparato il proiettile contro un muro per aggiustare la mira.

La polizia ha anche affermato di aver risposto alle proteste incontrate durante l’arresto; tuttavia, le riprese video dell’incidente mostravano nella zona il solito normale traffico stradale.

“Sappiamo che il ragazzo è stato ferito nella parte superiore del corpo mentre la polizia era di pattuglia nella zona”, ha detto il portavoce della polizia Micky Rosenfeld a +972. “Per quanto ne sappiamo, – dice – l’incidente è sotto inchiesta da parte del Ministero della Giustizia”, come da protocollo nel caso in cui dei civili vengano feriti da un agente di polizia.

Issa denuncia che il proiettile fosse diretto proprio al centro della fronte di suo figlio.

Anche dei testimoni oculari, tra cui il cugino di 10 anni di Malek che era insieme a lui e alle sue due sorelle mentre erano fermi presso un chiosco per comprare un panino, dicono che nella strada non c’erano disordini.

Il cugino, la cui madre ha chiesto di non citare il suo nome, ha spiegato che Malek non ha sentito le sue sorelle mentre gli dicevano di aspettare perché c’erano dei soldati per strada ed è corso via prima di loro. “Poi è caduto a terra”, ha detto il cugino.

Per la zia [di Malek], questo incidente è una storia ricorrente a Issawiya. “La polizia – dice – viene a fare gli arresti mentre i ragazzi escono da scuola”. Dopo la sparatoria suo figlio “a casa è molto nervoso. È come se avessero ferito anche mio figlio.” Ha aggiunto che un assistente sociale e uno psicologo dovevano incontrare i compagni di classe di Malek per aiutarli a gestire il trauma legato all’evento.

La sparatoria non è stata un incidente isolato. Il padre, che ha lasciato il lavoro presso un ristorante di Tel Aviv per stare con suo figlio durante la convalescenza, dice che Malek è l’undicesimo minore di Issawiya a perdere un occhio a causa di un proiettile di gomma. Sua moglie e le sue figlie hanno chiesto un aiuto terapeutico, osserva, ma lui ne sta facendo a meno.

Dalla scorsa estate Issawiya è il luogo con più pattugliamenti di polizia e con più arresti, con oltre 700 persone arrestate e un giovane ucciso. I residenti si sono lamentati delle continue molestie da parte delle autorità israeliane, e i genitori hanno paura per l’incolumità pubblica dei loro figli.

“Non permetto ai miei figli di uscire e di giocare ovunque”, afferma Issa. “Ho sempre paura. Ma erano tornati da scuola e la madre aveva detto loro che era una bella giornata e che potevano tornare a casa dal punto in cui l’autobus li aveva lasciati. Si sono fermati per un minuto a comprare dei dolci e, nonostante tutte le mie precauzioni, Malek è stato colpito.”

Un giro per il villaggio rivela molti condomini dotati di tapparelle nuove, non per motivi estetici o perché le persone hanno soldi da spendere, ma per proteggersi dai proiettili vaganti, afferma il leader della comunità Mohammed Abu-Hummos.

“È una cosa quotidiana”, dice Hashem Ashahab, un altro residente del villaggio, che ha cinque figli. “La polizia viene per creare tensione. C’era un accordo (con i leader locali) sul fatto che non sarebbero venuti mentre i ragazzi escono da scuola, ma hanno infranto l’accordo … Perché la polizia sceglie sempre di venire a fare i suoi arresti e i controlli nei momenti di maggior traffico? Ho cinque figli, tre dei quali vanno a scuola, e ho sempre paura che succeda loro qualcosa. [Ma] non posso non mandare i miei figli a scuola”.

Salendo su un pulmino utilizzato per il trasporto locale a Issawiya una donna di 35 anni, che ha rifiutato di dare il suo nome, afferma che gli incidenti tra la polizia e i giovani possono scoppiare in qualsiasi momento, e gli abitanti devono sempre stare in allerta.

Aviv Tatarsky, un assistente ricercatore di Ir Amim [Ong che opera a Gerusalemme est, ndtr.] che segue la situazione di Issawiya in collaborazione con residenti palestinesi locali, spiega che dal giugno 2019 nel villaggio si assiste a “uno sconvolgimento piuttosto grave, provocato dalla polizia, della libertà di movimento e della sicurezza degli abitanti”.

Sebbene per ora l’intensità delle incursioni sia diminuita rispetto all’estate, queste si ripetono tuttora, afferma Tatarsky. Nonostante il dialogo tra la polizia e i leader locali sotto l’egida del Comune di Gerusalemme, aggiunge, la polizia ha ignorato gli accordi raggiunti, come denuncia anche l’abitante Ashahab.

I tribunali municipali di Gerusalemme e il Ministero delle Politiche Sociali israeliano non sono stati abbastanza espliciti contro le incursioni della polizia che sconvolgono la vita degli abitanti del villaggio, continua Tatarsky, sebbene i membri del consiglio Laura Wharton e Yossi Chaviliao, insieme a un gruppo di 40 presidi scolastici, abbiano fatto un appello al sindaco di Gerusalemme Moshe Lion sulla situazione. “Forse alcune cose si dicono a porte chiuse – dice -, ma certamente non in pubblico”.

Tatarsky ha affermato che un funzionario di alto livello del dipartimento dell’istruzione del Comune ha cercato di offrirsi come mediatore tra gli abitanti e la polizia. “Ma senza il benestare del sindaco non hanno il potere di fermare la polizia”.

Il portavoce della polizia Rosenfeld ha detto a +972 che le pattuglie di polizia vengono inviate in tutti i villaggi di Gerusalemme est per prevenire atti di violenza e farvi fronte quando si verifichino.

Egli afferma che negli ultimi mesi si sarebbero verificati nel quartiere “gravi incidenti”, tra cui bottiglie molotov e pietre lanciate contro auto della polizia e auto che percorrono l’autostrada Gerusalemme-Ma’aleh Adumim [grande colonia adiacente a Gerusalemme, ndtr.] (Statale 1), situata sotto il villaggio. Ad ottobre, ha aggiunto, il veicolo di un abitante del luogo è stato colpito da una bottiglia molotov destinata ad un’auto della polizia. “Sfortunatamente – afferma Rosenfeld – in quel sobborgo ci sono molti più incidenti che in altri villaggi”.

“I nostri agenti di polizia sono in contatto con i leader della comunità per cercare di evitare che si verifichino incidenti”, continua. “Il nostro messaggio per la comunità è di prevenire incidenti prima che si verifichino. La polizia continuerà a pattugliare l’area giorno e notte al fine di prevenire incidenti violenti sia all’interno che nei dintorni del villaggio.”

Tatarsky sostiene che l’immagine di Issawiya come focolaio di violenza è più frutto dell’immaginazione israeliana che altro. “Se si cercano attacchi o gruppi attivi ad Issawiya, non se ne trova nessuno. È molto indicativo che la polizia non sia stata in grado di evidenziare alcun singolo evento o serie di eventi che avessero provocato i suoi attacchi.”

Tatarsky collega l’accresciuta presenza della polizia al nuovo capo della polizia di Gerusalemme, il generale maggiore Doron Yadid, che ha sostituito Yoram Halevi nel febbraio 2019. Secondo Tatarsky, le incursioni hanno cominciato a intensificarsi pochi mesi dopo che è subentrato Yadid.

“Ha apportato alcune modifiche nella vigilanza su Gerusalemme Est – spiega -, nel senso di una maggiore aggressività”. Ad esempio, Yadid ha reintrodotto nei quartieri palestinesi l’uso della polizia di frontiera al posto delle normali pattuglie di polizia di comunità utilizzate dal suo predecessore.

Ma la tattica dura di Yadid per sconvolgere la vita quotidiana anche attraverso punizioni collettive rivolte a “spezzare” gli abitanti di Issawiya rappresenta un “grave errore”, avverte Tatarsky. “Ha ottenuto il contrario: resistenza e opposizione. L’opposizione alla presenza militare nel quartiere è … più intensa di quanto non lo fosse con il suo predecessore. La polizia di frontiera non è benvenuta a Issawiya.”

Inoltre, secondo Tatarsky, su circa 700 arresti effettuati dalla polizia, sono stati emessi solo 20 atti d’accusa, e anche in questo caso per azioni commesse solo in seguito all’arrivo della polizia nel quartiere.

Si terrorizzano i giovani, i quali ora dimostrano ogni tipo di disturbo psicologico e rabbia. Ciò ha determinato un danno maggiore e – afferma Tatarsky – (il capo della polizia) non è in grado di mostrare di aver effettivamente raggiunto alcun risultato “.

“Ciò che sta accadendo a Issawiya non ha precedenti”, aggiunge. “Non abbiamo mai subito una campagna così intensa, violenta e dirompente senza alcuna vera ragione e per così tanto tempo.”

Judith Sudilovsky è una giornalista freelance che scrive su Israele e i territori palestinesi da oltre 25 anni.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Raid e spari israeliani tra Gaza e Siria: tre membri del Jihad islamico uccisi

Redazione Nena News

Tensione alta nella Striscia dove ieri mattina i militari di Tel Aviv hanno ucciso e poi sollevato con un bulldozer un giovane militante della fazione palestinese. “Piantava un esplosivo al confine” afferma l’esercito. Razzi del Jihad verso il sud d’Israele. Nella notte la risposta dei jet israeliani: diversi feriti nell’enclave palestinese, 2 le vittime nell’area di Damasco

24 febbraio 2020 Nena News

Giornata ad altissima tensione quella vissuta ieri a confine tra la Striscia di Gaza e, nella notte, in Siria (a sud di Damasco) dove l’aviazione israeliana ha fatto sapere di aver colpito “decine di obiettivi” della fazione palestinese del Jihad Islamico in risposta ai suoi razzi lanciati nel pomeriggio di ieri verso il territorio israeliano.

L’esercito ha riferito di aver colpito nell’area di al-Adleyeh (Damasco) la principale base siriana del Jihad dove si sviluppano razzi. In questa zona, afferma Tel Aviv, avvengono anche le esercitazioni militari dei membri dell’organizzazione palestinese provenienti sia dalla Striscia di Gaza che da Libano e Siria. In un comunicato il Jihad Islamico ha riconosciuto l’uccisione di due suoi combattenti, Salim Salim (24 anni) e Ziad Mansour (23), e ha promesso che si vendicherà.

Israele ha inoltre fatto sapere che ieri pomeriggio il Jihad ha lanciato dalla Striscia di Gaza verso la parte meridionale del suo territorio circa 30 razzi e colpi di mortaio, gran parte dei quali stata intercettata dal sistema difensivo Iron Dome. Il lancio dei razzi era stata una risposta a quanto avvenuto ieri mattina al confine tra Gaza e Israele dove l’esercito ha ammesso di aver ucciso un membro del Jihad mentre “era intento a piantare un esplosivo lungo il confine”. “L’esercito risponderà in modo aggressivo alle attività terroristiche del Jihad islamico che mettono in pericolo i cittadini d’Israele e danneggiano la sua sovranità” si legge in una nota ufficiale dell’esercito. Quanto accaduto ad est di Khan Yunis (a sud della Striscia, assediata da oltre 10 anni dallo stato ebraico) però non può essere ridotto a questo scarno comunicato. In un video che ha fatto ben presto il giro della rete, infatti, si vede chiaramente come un bulldozer dell’esercito trascini e poi sollevi il corpo della vittima, Mohammad Ali al-Naim (27 anni). Una scena orribile che era stata preceduta poco prima dagli spari dei soldati israeliani verso almeno due palestinesi (rimasti feriti) che provavano a recuperare il corpo ormai senza vita di an-Naim.

L’esercito si è difeso: “Abbiamo notato due terroristi avvicinarsi alla barriera di sicurezza e che piazzavano una bomba lì vicino e pertanto i soldati hanno aperto il fuoco verso di loro”. Il Jihad, di cui an-Naim era membro, ha fatto sapere che “il sangue dei martiri non sarà vano”. Duro è stato il commento anche di Hamas che governa la Striscia da oltre 10 anni. Il suo portavoce Fawzi Barhoum ha detto che “il maltrattamento” del cadavere è “un altro odioso crimine che si aggiunge ai tanti orrendi crimini compiuti [da Israele] al popolo palestinese”. Il recupero del corpo senza vita di an-Naim rientra nel piano del ministro della Difesa israeliano Bennet di usare i corpi senza vita dei combattenti palestinesi come pedine di scambio nei negoziati per il rilascio di due israeliani e per riavere indietro i resti di due soldati israeliani che sono tenuti da Hamas. Come segno di vendetta per l’uccisione di an-Naim e per il barbaro trattamento del suo cadavere, il Jihad ha rivendicato gli attacchi di ieri verso il sud d’Israele (il primo lancio di razzi è avvenuto ieri verso le 17:30 ora locale, il secondo verso le 20, qualche altro razzo è stato poi sparato dopo le 21).

Nel pomeriggio della serata di ieri la tensione è salita alle stelle quando l’aviazione di Tel Aviv ha risposto ai razzi del Jihad colpendo più punti della Striscia di Gaza. I militari hanno detto che uno dei target era un sito dove i membri del Jihad si stavano preparando a lanciare razzi verso il territorio israeliano (il ministero della Salute di Gaza parla di 4 feriti nel raid). Secondo Israele, tra gli altri obiettivi colpiti ci sarebbero anche basi militari e depositi di armi del Jihad situati a Beit Lahiya (presa di mira la base di Hittin), Rafah (qui si riportano altri due feriti) e Khan Yunis.

La tensione resta alta al confine tra Gaza e il confine meridionale d’Israele al punto che l’esercito ha ordinato oggi la chiusura delle scuole nelle comunità israeliane vicino alla Striscia e nelle città di Ashkelon, Sderot e Netivot. Vietati anche raduni pubblici. Alla popolazione è permesso andare a lavorare solo se si trovano in prossimità di un rifugio anti-missile.

Gli attacchi di ieri dalla Striscia non hanno provocato feriti (solo qualche leggerissimo danno) perché la maggior parte di loro è stata intercettata dall’Iron Dome o è caduta in aree non abitate. Sirene di emergenza sono suonate diverse volte nell’area vicina al confine o non troppo lontana dalla Striscia. Migliaia di israeliani che vivono nella zona interessata si sono recati nei rifugi.

Il premier israeliano Netanyahu, il ministro della difesa Bennet e diversi membri dei servizi di sicurezza si sono incontrati nel quartier generale dell’esercito a Tel Aviv ieri notte per fare il punto della situazione e per programmare eventualmente un attacco di più ampia portata.

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Aggiungiamo come redazione di Zeitun  da Ruptly  il video del bulldozer che con la benna trascina il corpo del palestinese ucciso.




Decenni dopo l’uccisione in California di un attivista palestinese americano, due sospettati del suo omicidio vivono tranquillamente in Israele

David Sheen

6 febbraio 2020 –The Intercept

Alex Odeh nacque nel 1944 nella Palestina del Mandato britannico da una famiglia del villaggio cisgiordano di Jifna, nei pressi di Ramallah, solo quattro anni prima della fondazione di Israele. Nel 1972 emigrò negli Stati Uniti, dove divenne portavoce della comunità araba americana, contestando l’immagine negativa di mediorientali e musulmani, che all’epoca era un luogo comune almeno quanto lo è oggi.

Odeh, direttore per la California meridionale dell’Arab-American Anti-Discrimination Committee [Comitato contro la Discriminazione degli Arabi Americani], o ADC, era noto per i suoi tentativi di creare ponti tra ebrei e arabi, ma il suo slancio era duramente osteggiato dai nazionalisti della comunità ebraica, che lo vedevano come una nascente minaccia.

Quando iniziò a sfidare il consenso a favore di Israele negli USA, organizzando manifestazioni contro l’invasione del Libano da parte di Israele nel 1982, l’ADC divenne un bersaglio per la destra ebraica. Nel 1984 membri dell’ADC ricevettero in continuazione telefonate minatorie da parte di una o più persone che si presentavano come leader della Jewish Defense League [Lega per la Difesa Ebraica], un movimento antiarabo guidato dal rabbino Meir Kahane. L’anno successivo, dopo che l’ADC pubblicò sul Washington Post annunci con cui tentava di convincere elettori e politici americani che Israele non avrebbe più dovuto ricevere le assegnazioni annuali di milioni di dollari in aiuti statunitensi all’estero, iniziarono aggressioni fisiche.

L’11 ottobre 1985 Odeh avrebbe dovuto parlare alla congregazione B’nai Tzedek, una sinagoga riformata [corrente progressista dell’ebraismo, nata in Germania nel XIX secolo, ndtr.]. Tuttavia quella mattina, quando entrò nell’ufficio dell’ADC a Santa Ana, in California, scoppiò una bomba. Morì in sala operatoria due ore dopo. Fu il secondo attacco dinamitardo contro l’ADC in soli due mesi.

Ore dopo l’uccisione di Odeh, l’omicidio venne giustificato dalla Jewish Defense League: “Non piango per il signor Odeh,” disse Irv Rubin, allora presidente nazionale della JDL. “Ha semplicemente avuto quello che meritava.”

Non venne effettuato alcun arresto. Nell’aprile 1994, quando Odeh avrebbe festeggiato il suo cinquantesimo compleanno, la città di Santa Ana gli eresse una statua per commemorare la sua vita e il suo lavoro. Due anni dopo la statua venne sfigurata e pochi mesi dopo fu di nuovo profanata da vandali che la cosparsero di secchiate di pittura rosso sangue.

Lo stesso anno l’FBI offrì una ricompensa di 1 milione di dollari per informazioni che portassero all’arresto e alla condanna degli assassini di Odeh. Finora non è stato rivendicato.

Sottrarsi alla giustizia

Baruch Ben-Yosef, che ha 60 anni, vive in una colonia per soli ebrei a sud di Betlemme. Ha fatto l’avvocato come membro dell’ordine degli avvocati israeliano per un quarto di secolo, sommando in quarant’anni comparizioni a due cifre di fronte alla Corte Suprema israeliana – come cliente, avvocato, querelante e difensore. In quel tempo ha anche presentato una denuncia contro molti primi ministri israeliani, compreso quello in carica, Benjamin Netanyahu.

Dopo aver terminato la scuola superiore nel Bronx ed essere emigrato subito in Israele, Ben-Yosef fu tra i primi ebrei a colonizzare i territori palestinesi che Israele occupò nel giugno 1967. Mesi dopo il suo arrivo, Ben-Yosef si arruolò nelle forze armate israeliane, prestando servizio nell’ormai disciolta unità commando Sayeret Shaked [unità delle forze speciali che dipendeva dal comando Sud dell’esercito israeliano, ndtr.], e continuò a far parte nella riserva fin oltre i trent’anni. Tuttavia, dopo che nel 1993 Israele firmò gli accordi di Oslo con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Ben-Yosef rifiutò di presentarsi per il servizio militare nella riserva.

Ben-Yosef è anche uno dei padri fondatori dell’attuale movimento israeliano ‘dominionista’ per il Tempio, che intende sostituire la Cupola della Roccia di Gerusalemme – uno storico santuario venerato dai musulmani e tra gli edifici più belli del Paese – con un tempio ebraico.

Negli Stati Uniti, dove Ben-Yosef è cresciuto ed è tornato a vivere all’inizio degli anni ’80, ha fatto parte della Jewish Defense League, il gruppo razzista e violento fondato da Kahane. Ben-Yosef è stato attivo nel movimento di Kahane anche in Israele, per cui è stato uno dei pochissimi cittadini ebrei sottoposti dallo Stato israeliano a detenzione amministrativa, una misura draconiana che praticamente viene applicata quasi unicamente ai palestinesi. Per aver progettato di far saltare in aria la Cupola della Roccia nel 1980 è stato in prigione per sei mesi con lo stesso Kahane. Ben-Yosef è stato incarcerato per altri sei mesi nel 1994, insieme agli altri dirigenti del movimento ultranazionalista Kach, un partito politico fondato da Kahane, dopo che il governo israeliano ha messo fuorilegge l’adesione a gruppi kahanisti.

Un altro membro della Jewish Defense League è stato Keith Israel Fuchs, cresciuto a Brooklyn, New York, prima di spostarsi a Santa Monica, California. Dopo le scuole superiori Fuchs è emigrato nella colonia di Kiryat Arba in Cisgiordania, dove il rabbino Kahane e i suoi seguaci avevano creato una comunità all’interno di un’altra comunità.

Nel febbraio 1983, durante la festa ebraica di Purim, Fuchs sparò con un Kalashnikov contro un’auto palestinese in transito sulla strada fuori da Kiryat Arba. Il New York Times scrisse che Fuchs venne arrestato per “aver sparato contro un’automobile araba che lo aveva bagnato passando in una pozzanghera.”

Un rapporto della vice procuratrice generale israeliana Yehudit Karp pubblicato l’anno precedente evidenziò che i coloni ebrei avevano pepetrato a lungo e senza conseguenze violenze contro i palestinesi del posto, ma gli attacchi compiuti da Fuchs e da altri coloni quella stessa settimana preoccuparono importanti dirigenti israeliani perché avevano comportato l’uso di armi da fuoco.

In seguito a ciò il nuovo ministro della Difesa Moshe Arens ordinò la demolizione del nuovo quartiere kahanista, e Fuchs venne condannato a 39 mesi di carcere, che secondo una notizia giornalistica era fino a quel momento “la più lunga condanna di sempre per un vigilante ebreo.” La sua carcerazione venne alla fine ridotta a 22 mesi, a condizione che passasse fuori da Israele il tempo rimanente della sua pena originaria.

Come previsto dalla sua libertà vigilata, nel dicembre 1984 Fuchs tornò negli Stati Uniti. Vi rimase fino al settembre 1986, più o meno un anno dopo l’assassinio di Odeh.

Circa 35 anni dopo né lui né Ben-Yosef sono stati imputati per il delitto che almeno tre ufficiali di polizia sospettano essi abbiano commesso negli Stati Uniti: l’assassinio di Alex Odeh.

Doppia identità

Ben-Yosef era nato negli Stati Uniti come Andy Green, e venne a lungo ricercato dall’FBI per essere interrogato riguardo all’uccisione di Odeh.

Secondo tre ufficiali di polizia in pensione che si occuparono del caso e sono stati intervistati da The Intercept, e da allora anche da molti altri servizi giornalistici, Ben-Yosef e Fuchs (che in Israele è noto con il suo nome ebraico, Israel) furono identificati come sospetti subito dopo l’assassinio di Odeh. Gli ufficiali di polizia – della polizia locale, due dei quali hanno prestato servizio nell’unità operativa speciale congiunta contro il terrorismo dell’FBI – hanno parlato a The Intercept in forma anonima perché l’inchiesta rimane aperta.

È un caso aperto. Abbiamo parecchi casi di omicidio aperti e cose del genere. Ma questo era frustrante perché avevamo nomi di sospetti,” ha detto a The Intercept un ufficiale di polizia in pensione che lavorò al caso di Odeh per più di un decennio, citando Ben-Yosef come sospetto, insieme ad altri due seguaci di Kahane: Keith Israel Fuchs e Robert Manning. “Sappiamo chi lo ha fatto. Sappiamo dove vivono. Sappiamo perché l’hanno fatto e come.”

Nei decenni seguiti all’uccisione di Odeh, sono emerse molte prove di dominio pubblico che Andy Green, nato negli Stati Uniti, è la stessa persona del cittadino israeliano Baruch Ben-Yosef. Quattro giornali israeliani che hanno informato sulla sua incarcerazione nel 1980 hanno fatto riferimento a lui come a Baruch Green Ben-Yosef. Viene citato con entrambi i nomi nei documenti del 1994 della Knesset e del Senato USA. Un articolo del “Wall Street Journal” pubblicato il 18 maggio 1994 e inserito nella documentazione del Volume 140, numero 62 del Congresso, include un rapporto sulle attività del movimento del Tempio di Keith Fuchs e di “Baruch Ben-Yosef, nato Andy Green.” Il Wall Street Journal racconta anche che Fuchs era stato “indagato ma mai imputato dal Federal Bureau of Investigation [FBI] in rapporto con una serie di attentati dinamitardi negli USA, compresa la morte di un attivista arabo statunitense e di un sospetto criminale di guerra nazista.” Negli articoli americani e israeliani sugli stessi avvenimenti, come il suo arresto del 1983 in Israele e l’assassinio di Odeh, Fuchs è stato identificato come Keith Fuchs, Israel “Keith” Fuchs, Yisrael Fuchs e Israel Fox.

Nel gennaio 1993 il Jerusalem Post [giornale israeliano di destra, ndtr.] scrisse che venticinque anni fa, durante un incontro di sostenitori delle colonie, lo stesso Ben-Yosef ammise si essere ricercato dall’FBI in relazione con l’assassinio di Alex Odeh. Secondo il Post, Ben-Yosef disse che l’FBI aveva scorrettamente dato la caccia a Manning per l’uccisione nel 1985 di Odeh e di un presunto criminale di guerra nazista, e Ben-Yosef sostenne l’innocenza di Manning. L’articolo prosegue: “Ben-Yosef affermò di essere anche lui ricercato dall’FBI” riguardo a quegli omicidi e di essere stato “maltrattato” negli USA da un agente dell’FBI. Il Post notò anche che Ben Yosef era “noto negli USA come Andy Green.”

Secondo un articolo della “Jewish Telegraphic Agency” [agenzia di stampa USA che si rivolge ai mezzi di comunicazione ebraici nel mondo, ndtr.] pubblicato lo stesso anno, Ben-Yosef riconobbe pubblicamente di essere ricercato dalla polizia USA, benché le sue affermazioni non facessero esplicito riferimento all’uccisione di Odeh.

Ben Yosef, direttore esecutivo della yeshiva [scuola religiosa, ndtr.] Monte del Tempio e figura centrale nell’organizzazione “Kach”, ha ammesso di essere ricercato dall’FBI negli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nella milizia “Jewish Defense League” negli anni ’70 e ’80,” informò la JTA nel 1993, dopo che Ben-Yosef e Fuchs vennero arrestati in Israele con il sospetto di aver progettato attacchi contro palestinesi.

Ben-Yosef/Green, Fuchs e Manning nel 1988 vennero identificati come sospettati per l’omicidio di Odeh dal giornalista Robert Friedman, che scriveva per il “Village Voice” [storico settimanale newyorkese di tendenza progressista, ndtr.] e per il “Los Angeles Times” nel 1990. Un ritratto approfondito di Ben-Yosef pubblicato dal “Jerusalem Post” [quarto quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] nel 1994 ribadì le accuse contro di lui.

Secondo l’articolo di Friedman sul Los Angeles Times, L’FBI identificò Fuchs, Ben-Yosef/Green e Manning come i principali sospettati nell’uccisione di Odeh prima ancora che le rovine contorte degli uffici dell’ADC venissero portate via. “I nomi di Fuchs, Green e Manning vennero citati come gli attentatori mentre eravamo ancora davanti dall’edificio fatto esplodere con la dinamite,” disse un ufficiale della polizia californiana al L.A. Times nel 1990.

Manning venne estradato negli Stati Uniti nel 1994 per un altro omicidio, non in rapporto diretto con attività di estrema destra o con le politiche di potere ebraiche e attualmente sta scontando un ergastolo per quel crimine in un penitenziario federale dell’Arizona. Fuchs invece ha mantenuto un profilo basso negli ultimi 25 anni, ma The Intercept ha accertato che vive in una piccola colonia a sud di Betlemme, continuando a partecipare a incontri politici privati dell’estrema destra israeliana. La strada in cui vive è l’unica del Paese che prende il nome dal villaggio di Jifna, in cui nacque e visse Alex Odeh.

Si ritiene che i responsabili siano scappati in Israele”

Nel 1986 Ben-Yosef e Fuchs lasciarono gli Stati Uniti per andare in Israele e l’anno seguente il ministero della Giustizia [USA] chiese al governo israeliano di aiutarlo nell’inchiesta sull’uccisione di Odeh. Venti anni dopo la morte di Odeh, il ministero della Giustizia continua a cercare indizi. Nel 2006 l’allora procuratore generale USA Alberto Gonzales si recò a Tel Aviv e chiese alla sua controparte israeliana, l’allora ministro della Giustizia Haim Ramon, di aiutarlo in questo caso.

Si ritiene che i responsabili siano scappati in Israele. Una richiesta di assistenza legale reciproca” – una procedura che consente uno scambio di informazioni nel corso di un’inchiesta penale – “è stata presentata al GOI (governo di Israele), e la mancanza di risposta rimane una questione che preoccupa l’FBI,” sottolineò un telegramma diplomatico due giorni dopo l’incontro del 28 giugno.

Il telegramma, pubblicato da WikiLeaks nel 2011, nota che Ramon si impegnò “ad occuparsi del caso di Alex Odeh.” Ramon diede le dimissioni dal suo incarico circa due mesi dopo il suo incontro con Gonzales e non è chiaro cosa sia successo poi con l’inchiesta in Israele. In una recente intervista, Ramon ha detto a The Interceptor di non ricordare niente riguardo al caso di Odeh. “È una delle questioni in cui non fui molto coinvolto,” ha affermato, “e non posso rispondere, non so cosa sia successo con questo caso.” Gonzales si è rifiutato di fare dichiarazioni.

Anche le stesse affermazioni di Ben-Yosef in video caricati su YouTube da un attivista kahanista negli ultimi anni indicano che egli è Andy Green. Il racconto di Ben-Yosef del suo arresto corrispondono al racconto di Robert Friedman dello stesso incidente, attribuita ad Andy Green nella biografia su Kahane “The False Prophet” [Il falso profeta] scritta da Friedman.

Un portavoce del dipartimento di polizia di Santa Ana ha detto a The Intercept che la documentazione del dipartimento sul caso ancora aperto è stata trasferita all’FBI, che è l’ente che se ne occupa. L’FBI non risponde alle richieste di commentare la situazione dell’indagine sull’uccisione di Odeh. Alla richiesta di commentare i risultati dell’inchiesta di The Intercept, Ben-Yosef ha dichiarato: “Nego categoricamente ogni rapporto con gli argomenti citati nella sua lettera,” e non ha risposto ad altre domande. Interpellato per telefono per commentare, Fuchs ha detto a The Intercept che non rilascia interviste. In seguito ha confermato di aver ricevuto una richiesta dettagliata inviata con WhatsApp, ma non ha risposto alle domande.

Nonostante la consistente documentazione apparsa nella stampa israeliana, uno degli apparati di intelligence più avanzati del mondo ha consentito a Ben-Yosef e a Fuchs di rimanere a piede libero, sfuggendo alle autorità USA.

La nostra politica è di collaborare totalmente con gli assassini”

Negli anni immediatamente successivi alla morte di Odeh, i continui appelli del governo USA alle forze dell’ordine israeliane perché contribuissero a risolvere il caso sono stati vani. Secondo un articolo pubblicato quell’anno dal Washington Post, nel 1987 l’allora vicedirettore dell’FBI Floyd Clarke inviò una memoria interna all’allora vicedirettore esecutivo dell’ufficio Oliver Revell, lamentando il fatto che i suoi ripetuti tentativi di conoscere cosa Israele sapesse dei sospetti attentatori non fossero approdati a nulla.

Attraverso l’FBIHQ [quartier generale dell’FBI, ndtr.] sono stati trasmessi al Servizio Segreto israeliano (ISIS) a Washington DC numerosi indizi,” scrisse Clark a Revell nella sua memoria, stralci della quale vennero pubblicati sul Village Voice. “La sezione terrorismo ha avuto numerosi incontri con rappresentanti (israeliani) a Washington, durante i quali sono state sollevate le nostre preoccupazioni relative alla loro gestione delle nostre richieste. Benché queste discussioni a volte abbiano sortito un provvisorio “fervore” di attività da parte loro, non si è concretizzato nessun miglioramento sostanziale nel flusso di informazioni.”

Durante una visita di stato ufficiale a Washington D.C., dieci anni dopo, a Netanyahu venne fatta una domanda diretta riguardo al caso di Odeh. Durante un incontro del 21 gennaio 1998 al National Press Club [sede dell’associazione dei giornalisti USA, ndtr.] Netanyahu – allora al suo primo mandato come capo del governo israeliano – affermò che Israele non aveva ricevuto nessuna richiesta ufficiale da parte delle autorità USA per indagare sull’argomento.

Non sono al corrente di richieste di estradizione riguardanti l’uccisione di Alex Odeh. Sono sicuro che, se mi fossero state presentate, le avrei prese in considerazione,” disse Netanyahu. Inquadrando la sua risposta nei termini di una richiesta di estradizione, Netanyahu equiparò scorrettamente la partecipazione a un’indagine condividendo informazioni alla consegna di sospetti agli Stati Uniti per un processo, una cosa che i poliziotti probabilmente non avevano abbastanza prove per fare.

A quanto pare Keith Fuchs e Andy Green sono ancora a Kiryat Arba,” replicò Sam Husseini di ADC, in riferimento alla colonia cisgiordana, covo delle attività dei kahanisti, della zona di Hebron. “E ci è stato detto– dato che siamo l’organizzazione coinvolta –che il ministero della Giustizia non ha affatto ricevuto una piena collaborazione da parte del governo israeliano a questo proposito.”

Con quello che potrebbe essere una sorta di lapsus freudiano, Netanyahu stranamente disse ad Husseini: “Le assicuro che la nostra politica è di collaborare totalmente con gli assassini.”

Il primo ministro israeliano si corresse subito facendo assicurazioni di prammatica che i funzionari di polizia israeliani avrebbero preso in carico il caso senza alcun pregiudizio antipalestinese.

Nelle settimane immediatamente precedenti l’apparizione di Netanyahu al National Press Club, Baruch Ben-Yosef era comparso parecchie volte di fronte alla Corte Suprema di Israele. Ancora una volta nel novembre 1998, dieci mesi dopo la conferenza stampa di Netanyahu a Washington, Ben-Yosef rappresentò la spia [israeliana] Jonathan Pollard incarcerata negli USA in un’azione legale davanti alla Corte Suprema contro lo stesso Netanyahu, allora ancora primo ministro.

Essendo uno dei più reazionari militanti ebrei di Israele, le attività di Ben-Yosef su entrambe le coste dell’Atlantico erano probabilmente ben note ai capi dello Shin Bet e del Mossad, i servizi di sicurezza israeliani interno ed estero, che informavano entrambi direttamente Netanyahu.

Anche due dei parlamentari compagni di partito di Netanyahu nel Likud dell’epoca, Limor Livnat e Uzi Landau – allora rispettivamente ministro delle Comunicazioni e capo della commissione Affari Esteri e Difesa – avrebbero dovuto essere al corrente della doppia identità di Ben-Yosef e di dove egli si trovasse. Durante un dibattito alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] il 26 aprile 1994 sulla detenzione amministrativa applicata contro Ben-Yosef, così come contro il resto della dirigenza kahanista, l’allora ministro degli Interni di Israele Moshe Shahal disse a Livnat e a Landau che la misura era di fatto già stata presa nei confronti di Ben-Yosef più di un decennio prima. Disse che era stato fatto da un governo guidato dal loro stesso partito, il Likud: “Nel 1980, contro il rabbino Kahane, contro il rabbino Baruch Ben Yosef Green.”

L’ufficio di Netanyahu non ha risposto ad una richiesta di commento.

Colono all’avanguardia, militante antiarabo e avvocato di estrema destra

Negli ultimi anni Fuchs, che lavora come guardia di sicurezza nelle colonie, è stato coinvolto in tentativi di creare leggi di destra. Nel 2013, insieme a parecchi affiliati a Komemiut, un gruppo di estrema destra legato agli insegnamenti di Meir Kahane, ha co-fondato l’influente Ong Meshilut, il Movimento per il Governo e la Democrazia. Meshilut ha stilato varie leggi che sono state presentate da deputati del governo israeliano. Nel 2015 Fuchs, insieme al direttore e al consulente giuridico di Meshilut, ha partecipato a un incontro della Commissione Interni del parlamento israeliano.

Meshilut sostiene di voler riformare la burocrazia del Paese e renderla più sensibile ai desideri dei cittadini israeliani. Tuttavia i critici chiedono se Meshilut, come lo stesso Kahane e il gruppo Komemiut a cui è stata affiliata metà dei fondatori di Meshilut, stia cercando di indebolire il potere giudiziario israeliano, in modo che il suo regime prevalentemente laico possa essere trasformato in rigidamente religioso.

Nel frattempo Ben-Yosef lavora ancora per rimpiazzare il santuario religioso musulmano al centro della Città Vecchia con uno ebraico, ma ora lo fa come avvocato-attivista.

Fin da quando si è laureato in legge all’università Bar Ilan all’inizio degli anni ’90, Ben-Yosef ha rappresentato se stesso e altri seguaci di Kahane nei tribunali israeliani, difendendoli da varie accuse penali e portando in giudizio lo Stato per rivendicare i diritti degli ebrei sulla Spianata delle Moschee, compreso il diritto di sacrificarvi animali.

Noto agli ebrei come il Monte del Tempio, il sito nel lontano passato era sede di templi ebrei, l’ultimo dei quali venne distrutto dall’esercito romano circa 2.000 anni fa. Seicento anno dopo nello stesso posto venne costruito il Qubbat al-Sakhrah con la cupola d’oro, o Cupola della Roccia, e pochi anni dopo venne aggiunta la vicina moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro per i musulmani. I due edifici e il complesso di Al-Aqsa, circa 14 ettari, che li contiene sono un potente simbolo del nazionalismo palestinese.

Ben-Yosef ha lavorato nel gruppo di difesa legale di altri seguaci di Meir Kahane nati negli Stati Uniti, che pianificarono attacchi armati sulla Spianata delle Moschee: Yoel Lerner e Alan Goodman. Nel 1975, nel 1978 e nel 1982 i piani di Yoel Lerner per far esplodere la Cupola della Roccia vennero bloccati in tempo dalla polizia israeliana. Ma in seguito, nel 1982, Alan Goodman cercò di farsi largo nel luogo sacro e di farvi irruzione con la sua mitragliatrice dell’esercito israeliano. La sua furia lasciò due palestinesi uccisi e 11 feriti. (Ben-Yosef difese Goodman nel tentativo riuscito di ridurre la sua condanna riguardo a queste uccisioni. Difese Lerner in un caso non correlato).

Lerner venne condannato a due anni e mezzo di carcere per il suo tentato attacco del 1982, e Goodman venne condannato all’ergastolo, ma la sua condanna venne in seguito commutata in 15 anni di prigione.

In conferenze caricate negli ultimi anni su un canale kahanista di Youtube prima che venisse chiuso a dicembre, Ben-Yosef ha continuato a chiedere che una manifestazione di massa di ebrei prenda il controllo del Monte del Tempio, cacci i musulmani e demolisca le loro moschee.

Parlando a seguaci di Meir Kahane nel 2015, nel venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Kahane, Ben-Yosef tenne una conferenza presso la yeshiva dell’Idea Ebraica, il seminario fondato da Kahane a Gerusalemme: “Tutta la questione si riduce a una sola cosa, che si chiama Monte del Tempio, HAR HABAYIT. L’AM HA’HAMOR, la Nazione di asini che vi si trova, capisce che è entrata in ebollizione,” ha detto Ben-Yosef del popolo palestinese. “Quindi tutto quello che il governo, la polizia e chiunque altro stanno cercando di fare è di calmare la cosa, non è quello che vogliamo. Qui non vogliamo niente che calmi la situazione! Proprio il contrario!”

In un’altra conferenza di Ben-Yosef postata su YouTube, approfondisce lo stesso tema: “Come dimostriamo la nostra fede in Hashem (dio)? Come santifichiamo il suo nome e dimostriamo la nostra fede? B’GERUSH HA’ARAVIM – espellendo gli arabi – e TIHUR HAR HABAYIT – purificando il Monte del Tempio! Eliminando le moschee dal Monte del Tempio! Se credete veramente in Hashem, questo è quello che dovete fare!”

Oggi Ben-Yosef continua ad esercitare come avvocato, lavorando in un ufficio nel centro di Gerusalemme e fa regolarmente pellegrinaggio all’Haram al-Sharif, o Monte del Tempio, il centro dei suoi obiettivi politici e religiosi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Secondo il partito Laburista il mio operato come attivista antirazzista e antisionista fa di me un antisemita

Haim Bresheeth

14 febbraio 2020 – Mondoweiss

A Jennie Formby

Partito Laburista

Southside 105 Victoria Street

London SW1E 6QT

11/2/2020

Cara Jennie Formby,

le scrivo in seguito ai recenti avvenimenti – l’espulsione di Jo Bird e l’eccellente lettera di Natalie Strecker [scrittrice laburista che ha mandato in precedenza una lettera simile, ndtr.] -, in quanto le vorrei chiedere, per le ragioni che dettaglierò qui sotto, di deferirmi cortesemente alla commissione dei probiviri per “antisemitismo”.

Per supportare la mia richiesta vorrei raccontarle i miei trascorsi. Sono un accademico, scrittore e regista, e un ebreo ex-israeliano che è stato attivo per oltre cinquant’anni come socialista, antisionista e antirazzista. I miei genitori erano ebrei polacchi, sopravvissuti ad Auschwitz e ad altri campi. Finirono per essere obbligati a seguire le marce della morte verso l’interno del Terzo Reich dopo che il campo di Auschwitz venne svuotato dalle SS a metà gennaio del 1945. Mia madre venne liberata dall’esercito inglese a Bergen-Belsen, mio padre dalle forze statunitensi a Mauthausen. Sono nato in un campo per sfollati in Italia e sono arrivato in Israele da neonato, nel giugno 1948, in quanto allora nessun Paese europeo accettava sopravvissuti all’Olocausto.

Ho fatto il servizio militare nell’esercito israeliano (IDF) come giovane ufficiale di fanteria ed ho preso parte a due guerre, nel 1967 e nel 1973, dopo di che sono diventato un pacifista impegnato. Sono venuto a studiare in Gran Bretagna nel 1972, e poco dopo ho imparato molto più sul sionismo di quando ero in Israele, diventando quindi un acceso sostenitore dei diritti dei palestinesi e un attivista antisionista. Come iscritto al partito Laburista, negli anni ’70 sono stato un attivo sostenitore del movimento contro l’apartheid e in tutta la mia vita ho lottato contro le organizzazioni razziste. I miei film, libri e articoli riflettono le stesse opinioni politiche qui evidenziate, compresi, tra gli altri, un libro di successo sull’Olocausto (Introduction to the Holocaust [Introduzione all’Olocausto], con Stuart Hood, 1994, 2001 2014) un documentario della BBC (State of Danger [Condizione di pericolo], con Jenny Morgan, BBC2, marzo 1988) sulla Prima Intifada e un volume in uscita sull’esercito israeliano (An Army Like No Other [Un esercito senza pari], May 2020). Quando Jeremy Corbyn è stato eletto alla direzione del partito, dopo decenni sono tornato nel partito Laburista in quanto, dopo anni di blairismo, ho riacquistato speranza in un programma progressista per il partito.

È chiaro che, secondo le conclusioni del partito Laburista in base all’errata “definizione” di antisemitismo dell’IHRA, o piuttosto alla versione brandita come un’arma dalla propaganda sionista, intesa a colpire i sostenitori dei diritti umani e politici dei palestinesi, il mio passato mi rende un antisemita. Ma vorrei aggiungere qualche altra prova a carico, in modo da rendere, se possibile, il caso inoppugnabile.

Nel corso dei decenni in vari Paesi – in Israele, in Europa e negli USA – ho partecipato a centinaia di manifestazioni contro la brutalità israeliana ed ho agito contro le atrocità commesse dall’occupazione militare. Ho pubblicato articoli, fatto film e contribuito a molti libri, ho parlato ampiamente in molti Paesi contro la colonizzazione israeliana militarizzata della Palestina, la negazione di qualunque diritto alla maggior parte dei palestinesi, le gravissime violazioni dei diritti umani e politici dei cittadini palestinesi di Israele e l’impatto brutale delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano, ndtr.] sulla società ebraica israeliana. In un recente articolo, scritto da una prospettiva antisionista e per i diritti umani, ho anche analizzato la falsa natura della campagna IHRA. Sono attivo in molti gruppi politici affiliati o vicini al partito Laburista, che appoggiano i diritti dei palestinesi – Jewish Voice for Labour [Voce ebraica per il partito Laburista] e Jewish Network for Palestine [Rete ebraica per la Palestina], di cui sono un membro fondatore.

Sono consapevole che, in base alle regole del partito Laburista, quanto detto finora costituisce quello che voi definite antisemitismo.

Personalmente mi è chiaro che tali accuse sono false ed esecrabili, ma nessuno ha interpellato gli iscritti sull’adozione della definizione dell’IHRA e dei suoi esempi. La definizione adottata rende Israele l’unico Stato al mondo che non si può criticare, a meno che non si voglia andare incontro ad accuse di antisemitismo. Criticare l’Impero britannico, ad esempio, non è antibritannico e in questo preciso momento è ancora permesso dalle norme del partito Laburista. Criticare il governo USA per i suoi attacchi contro l’Iraq nel 1991 e nel 2003 non è antiamericano, ed è ancora consentito dalle leggi USA. Criticare il colonialismo di apartheid israeliano non è antisraeliano, né antisemita, ovviamente. Ciò che è antisemita e razzista sono le attuali regole del partito, e finché non saranno modificate, ebrei e altri che appoggiano la Palestina non hanno ragioni per appoggiare un partito che li tratta in questo modo.

Le norme del partito Laburista sono quello che sono. Tuttavia non ho intenzione di interrompere le mie attività, di ridurle o di abbandonare i miei principi per soddisfare la logica distorta del partito Laburista. Insisto sul mio diritto, anzi, sul mio dovere come ex-israeliano, come ebreo, come cittadino, come socialista e, infine ma non meno importante, come essere umano di agire apertamente contro l’apartheid israeliano e di criticare questo e le ingiustizie finché sarò in grado di farlo. Credo anche che come membro di un partito che pensavo fosse diventato un’organizzazione politica progressista, questo debba essere mio diritto e dovere, ma ho compreso che le mie attività sono contro il dogma, le norme e gli attuali interessi del partito Laburista, per cui attraverso questa lettera mi autoaccuso apertamente e le chiedo di deferirmi alla commissione dei probiviri in modo che venga fatta giustizia e che io venga trattato come i miei molti amici che si sono trovati nella stessa difficile situazione – il professor Moshe Machover, Jackie Walker, Elleanne Green, Tony Greenstein, Glyn Secker e molti altri che si sono trovati di fronte al sistema inquisitorio stalinista messo in atto dal partito Laburista. Se voi volete separare gli “ebrei buoni” da quelli “cattivi”, la prego di includermi in quest’ultimo gruppo, perché niente della mia produzione accademica, storia di insegnante, bibliografia o attività politica può sostenere l’affermazione che non sono antisemita in base alle vostre norme. Chiedo che sia fatta giustizia.

Sono fiducioso che la mia richiesta verrà presa seriamente in considerazione e che le venga dato seguito, con lo stesso insieme di fretta, fanatismo e pregiudizi dimostrato nei confronti di altri membri già accusati di questa trasgressione. Non farlo equivarrà ad evidenziare che i criteri per giudicare l’esistenza dell’antisemitismo non sono applicati in modo uniforme.

Sono pronto a fornire tutte le prove richieste dagli inquirenti della commissione dei probiviri per dimostrare la mia colpevolezza. Vi prego di non esitare a chiedere collaborazione sui punti che rimangono poco chiari.

Con i miei ossequi.

Prof. Haim Bresheeth

Il professor Haim Bresheeth è docente e ricercatore associato della SOAS, School of Interdisciplinary Studies [Scuola di Studi Interdisciplinari] e direttore di Camera Obscura Films [casa cinematografica di produzione e distribuzione, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)