Uno studio rivela che gli israeliani non si sentono più sicuri nonostante i letali attacchi contro Gaza

5 Gennaio 2020 PALESTINE CHRONICLE

Uno studio accademico ha recentemente rivelato che, nonostante il letale attacco israeliano dello scorso novembre alla Striscia di Gaza assediata, la maggioranza degli israeliani nel sud del Paese non si sente assolutamente più al sicuro.

Due settimane dopo la fine della campagna, i ricercatori del College Tel Hai e dell’università di Tel Aviv hanno svolto uno studio per misurare la resilienza degli israeliani che vivono nelle comunità del sud”, ha riferito il quotidiano israeliano Haaretz.

Lo studio prende in esame le opinioni di 503 residenti ebrei che vivono entro un raggio di 40 km. da Gaza. La principale domanda loro posta è in che modo abbia influito sul loro senso di sicurezza l’attacco israeliano contro la Striscia del 12 novembre, che ha ucciso 34 palestinesi e ferito altre decine.

Il 63% degli intervistati ha risposto che non si sentono più sicuri dopo l’operazione, mentre il 27% ha risposto che si sentono meno sicuri di prima. Solo il 10% ha risposto di essersi sentiti più al sicuro in conseguenza dell’attacco militare contro Gaza.

L’attacco israeliano a Gaza è iniziato con l’assassinio di Bahaa Abu Al Ata, un alto ufficiale della Jihad islamica. E’ proseguito per diversi giorni, con una serie di attacchi aerei mortali su varie aree dell’assediata e impoverita Striscia di Gaza.

Il documento israeliano rivela anche che gli abitanti del sud di Israele, che spesso chiedono più azioni militari contro Gaza, “si sentono cittadini di seconda classe rispetto agli israeliani che vivono più a nord, dicendo che l’IDF (l’esercito israeliano) risponde più duramente ai razzi sparati sulla più grande area di Tel Aviv.”

Gaza è stata l’obbiettivo di molte campagne militari israeliane, comprese parecchie importanti guerre che hanno provocato l’uccisione ed il ferimento di decine di migliaia di palestinesi.

Non è la prima volta che gli abitanti e i coloni del sud di Israele esprimono il loro disappunto riguardo a ciò che considerano “uno status di seconda classe”. Nel novembre 2018 centinaia di coloni hanno organizzato una protesta per chiedere maggiore sostegno del governo nel proteggerli dai lanci di razzi provenienti da Gaza.

All’epoca il redattore di Palestine Chronicle Ramzy Baroud ha sottolineato che “nonostante le loro continue lamentele, le comunità del sud di Israele hanno visto un costante incremento delle opportunità economiche e quindi della popolazione. Questo ha posto queste zone al centro dell’attenzione dei politici israeliani, tutti alla ricerca del consenso dei leader locali e del sostegno dei loro settori economici in forte espansione.”

Il recente impegno elettorale ha fatto delle richieste e delle aspettative dei leader delle comunità israeliane del sud un elemento centrale nelle principali politiche israeliane”, ha aggiunto.

(The Palestine Chronicle)

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Israele congela il progetto di annessione della Valle del Giordano dopo la decisione della CPI di avviare un’inchiesta per crimini di guerra.

Mercoledì 25 dicembre 2019 - Press TV

Israele avrebbe congelato il progetto del primo ministro Benjamin Netanyahu di annettere la Valle del Giordano a seguito della decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) di iniziare un’indagine su crimini di guerra del regime nei territori palestinesi occupati.

Martedì [17 dic.] il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha scritto che la scorsa settimana la prima riunione di una commissione interministeriale sull’applicazione della “sovranità” israeliana sulla valle del Giordano è stata annullata, poche ore prima dell’inizio previsto.

La riunione della commissione, presieduta da Ronen Peretz, direttore generale ad interim dell’ufficio del primo ministro, è stata annullata dopo che è diventato chiaro che era in arrivo un annuncio della CPI su un’approfondita indagine su crimini di guerra israeliani.

“A causa della decisione del pubblico ministero dell’Aja, la questione dell’annessione della Valle del Giordano verrà a lungo congelata”, ha detto una fonte anonima al quotidiano israeliano.

La commissione interministeriale era stata incaricata di formulare la procedura di annessione del regime di Tel Aviv e [di stilare] un disegno di legge della Knesset.

Venerdì [20 dic.], il procuratore capo della CPI Fatou Bensouda ha dichiarato che l’esame preliminare dei crimini di guerra, aperto nel 2015, ha fornito informazioni sufficienti per soddisfare tutti i criteri per l’apertura di un’inchiesta.

C’è una “base ragionevole” per indagare sulla situazione in Palestina, ha detto. “Sono persuasa che … crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, comprese Gerusalemme est (al-Quds)] e la Striscia di Gaza.”

A settembre Netanyahu ha promesso che se fosse stato rieletto, avrebbe immediatamente annesso la Valle del Giordano, un territorio fertile che rappresenta circa un quarto della Cisgiordania.

Attualmente nella Valle del Giordano vivono circa 70.000 palestinesi e 9.500 coloni israeliani

Il commentatore politico israeliano Barak Ravid ha scritto sabato in un tweet che il piano di annessione della Cisgiordania di Netanyahu è stato una delle cause dell’indagine della CPI.

“Ecco cosa ha scritto la procuratrice nell’articolo 177: “Nonostante gli espliciti e continui richiami a Israele di porre fine ad interventi nei territori palestinesi occupati ritenuti contrari al diritto internazionale, non vi è alcuna indicazione che possano cessare. Al contrario, ci sono indicazioni che potrebbero non solo continuare ma che Israele potrebbe cercare di annettere questi territori”, ha scritto.

Il giorno prima dell’annuncio della CPI, Netanyahu ha promesso di ottenere il sostegno degli Stati Uniti all’annessione della Valle del Giordano e di altre colonie in Cisgiordania.

“La prima cosa che faremo”, ha detto Netanyahu, “è instaurare la nostra sovranità sulla Valle del Giordano e anche sulle colonie, e lo faremo con il riconoscimento americano”.

Da quando è entrato in carica nel 2017, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ricoperto Netanyahu di regali politici, tra cui il riconoscimento di Gerusalemme al-Quds quale “capitale” di Israele e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla città occupata, nonché il taglio degli aiuti ai palestinesi e la chiusura dell’ufficio dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina a Washington.

Prima delle elezioni generali israeliane di aprile, Trump ha firmato un decreto che riconosce la “sovranità” israeliana sulle alture del Golan siriane occupate .

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)

 



Gli studenti della York chiedono di mettere al bando la violenta JDL

Nora Barrows-Friedman

20 dicembre 2019 – Electronic Intifada

In seguito agli attacchi contro attivisti antirazzisti dello scorso mese nell’università canadese di York, alcuni studenti hanno chiesto che due gruppi estremisti vengano esclusi dal campus: la Jewish Defense League of Canada [Lega di Difesa Ebraica del Canada, gruppo sionista di estrema destra dichiarato terrorista dall’FBI nel 2001, ndtr.] ed Herut, sezione canadese di un partito israeliano di estrema destra. Ciò avviene dopo che l’università di Toronto ha ceduto alle pressioni di politici di destra e di gruppi della lobby israeliana ed ha sospeso il riconoscimento formale di Herut che del gruppo universitario Students Against Israeli Apartheid [Studenti contro l’Apartheid Israeliana] (SAIA).

I membri del SAIA sono stati aggrediti mentre protestavano contro un evento del 20 novembre, che ospitava soldati israeliani nel loro campus. Poi sono stati calunniati in quanto antisemiti da Herut e dalla JDL del Canada. Invece di prendere iniziative contro i gruppi antipalestinesi e proteggere i suoi studenti contro tali attacchi, l’amministrazione della York ha proposto un processo di mediazione tra Herut e SAIA. Mercoledì la rettora dell’università, Rhonda Lenton, ha annunciato che il prossimo mese inizierà un’ “analisi indipendente” dell’incidente.

Ma l’inchiesta non sarà così imparziale come sostiene l’università.

Secondo i suoi criteri di riferimento, l’indagine non potrà “attribuire responsabilità a gruppi o individui.”

Ciò di fatto protegge Herut e la JDL dall’essere chiamati a rispondere del loro comportamento, perché molte prove indicano che i loro membri sono stati responsabili di soprusi e violenze.

In una recente dichiarazione Michael Levitt, capo del Gruppo Interparlamentare Canada-Israele, si è vantato di aver incontrato Lenton lunedì.

Levitt, parlamentare del partito Liberale del primo ministro Justin Trudeau al governo, ha ripetuto accuse senza fondamento di antisemitismo contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, ed ha chiesto che Herut venga immediatamente reinserito come associazione del campus.

Lo scorso mese Lenton ha denunciato una risoluzione da parte della Federazione degli Studenti della York che ha difeso il diritto degli studenti a mobilitarsi contro la guerra, l’occupazione e l’estrema destra, compresi i rappresentanti di Israele “o di qualunque altro potere imperialista”.

JDL ha fatto da sicario per Herut

Il 20 novembre il gruppo propagandistico dell’esercito israeliano “Reservists on Duty” [Riservisti in servizio] ha tenuto un incontro ospitato alla York da Herut.

Students Against Israeli Apartheid” ha affermato di aver deciso di protestare contro l’evento perché, ha sostenuto, “l’esercito israeliano, utilizzando Herut come tramite, è stato visto fare attivamente opera di reclutamento nei campus di tutto il Canada, cosa che di fatto è illegale.”

E quando gli studenti si sono presentati per manifestare a favore dei diritti dei palestinesi sono stati accolti con la violenza e l’intimidazione.

I membri della Jewish Defense League hanno aggredito gli studenti che protestavano e poi hanno inventato accuse di antisemitismo, nonostante non abbiano presentato nessuna prova credibile.

Importanti politici canadesi hanno ripetuto queste calunnie senza alcuna prova.

Il Jerusalem Post [giornale israeliano di destra, ndtr.] ha alimentato queste accuse con la provocatoria affermazione secondo cui i sostenitori dei diritti dei palestinesi avrebbero scandito verso gli ebrei “Intifada, Intifada, tornate nei forni.”

In seguito il giornale è stato obbligato ad ammettere di non avere prove di questa grave accusa, nonostante ci siano decine di video dell’evento.

Il quotidiano ha semplicemente ripetuto un’accusa fatta da un ex-membro di uno squadrone della morte dell’esercito israeliano che ora fa parte di “Riservisti in Servizio”.

Prima dell’evento e della protesta, l’amministrazione dell’università aveva scritto a Meir Weinstein, il capo di JDL Canada, mettendo in guardia i suoi membri dal mettere in atto “minacce o intimidazioni”. Secondo un’intervista che egli ha rilasciato in aprile, in precedenza a Weinstein era stato vietato l’accesso all’università di York.

Ma il 20 novembre ai membri della JDL, compreso Weinstein, è stato consentito di entrare nel campus. L’avvocato Dimitri Lascaris, che rappresenta i militanti del SAIA, afferma che “teppisti della violenta Jewish Defense League hanno partecipato all’avvenimento e agito come sicari per conto di Herut.” La lettera della York a Weinstein dimostra che l’università era consapevole che la Jewish Defense League stava progettando di partecipare all’evento, “e che la JDL rappresenta una seria minaccia per la sicurezza degli attivisti del SAIA,” dice Lascaris a The Electronic Intifada.

Nel recente passato membri della JDL sono stati imputati per crimini di odio e aggressioni,” afferma Lascaris. “Anche questo molto probabilmente è noto all’amministrazione dell’università York. Nonostante questi fatti, la York ha consentito ai membri della JDL di partecipare all’evento.”

Peggio ancora, sottolinea, “le guardie della sicurezza sono rimaste inerti sia prima che dopo gli attacchi contro gli attivisti solidali con i palestinesi.”

L’avvocato sostiene che l’università di York “è quindi responsabile per il danno recato a questi attivisti.”

Students Against Israeli Apartheid’ sta prendendo in considerazione le sue alternative legali, ma nel frattempo, afferma Lascaris, il gruppo attenderà i risultati dell’inchiesta della York e della mediazione.

Alcuni studenti stanno chiedendo che l’università garantisca la loro sicurezza e consideri responsabili la JDL ed Herut, anche vietando il loro ingresso nel campus.

Nel contempo secondo Lascaris la sospensione del SAIA “trasmette un terribile messaggio”. “Comunica agli attivisti antirazzisti che, se si oppongono ad attori potenti ed influenti che si impegnano o promuovono gravi violazioni dei diritti umani, l’amministrazione dell’università non solo non li proteggerà, ma li prenderà di mira con misure punitive,” ha affermato.

Oltretutto le azioni e le dichiarazioni di Levitt, di Trudeau, del primo ministro dell’Ontario Doug Ford e di altri politici “mettono assolutamente in chiaro che Israele e i suoi sostenitori sono tenuti in altissima considerazione in questo Paese.”

Questi politici hanno ripetutamente lanciato gravissime accuse contro i miei clienti senza la minima prova che le giustificasse,” afferma Lascaris.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Corte Penale internazionale (CPI) avvierà un’indagine approfondita sui crimini di guerra israeliani.

Redazione di MEE

20 dicembre Middle East Eye

Le associazioni palestinesi e israeliane per i diritti umani salutano la decisione della procuratrice della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine ufficiale

La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale ha dichiarato che aprirà un’indagine approfondita su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza, un annuncio che è stato accolto favorevolmente dai palestinesi ma che ha suscitato una forte critica da Israele.

“Sono persuasa che ci sia una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina”, ha detto venerdì Fatou Bensouda in un comunicato.

“In breve, sono convinta del fatto che i crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, tra cui Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza”.

Bensouda ha aggiunto che prima di aprire l’ indagine avrebbe chiesto al tribunale dell’Aja di pronunciarsi sui territori sui quali è competente, poiché Israele non è membro della Corte.

La questione della giurisdizione del tribunale deve essere risolta prima che la CPI possa procedere alle indagini.

Un’indagine approfondita da parte della CPI può comportare accuse contro singoli. Gli Stati non possono essere processati.

Questa fondamentale questione dovrebbe essere decisa ora e il più rapidamente possibile nell’interesse delle vittime e delle comunità colpite “, ha detto Bensouda.

Ha aggiunto che “non ci sono ragioni sostanziali per credere che un’indagine non servirebbe a fare giustizia”.

Il 5 dicembre, dopo cinque anni di indagini preliminari ed esame di prove di violenti azioni israeliane contro i palestinesi, la CPI ha pubblicato un rapporto.

La CPI ha esaminato le prove relative al conflitto tra Israele e Gaza del 2014,in cui sono morti 2.251 palestinesi, di cui la maggior parte erano civili e 74 israeliani, la maggior parte dei quali soldati.

L’annuncio è stato accolto con favore dalla leadership palestinese come un “passo atteso da tempo”.

“La Palestina si compiace di questo … come passo atteso da tempo per far avanzare il processo verso un’indagine, dopo quasi cinque lunghi e difficili anni di esame preliminare”, si afferma in una dichiarazione del ministero degli Esteri

Anche Hanan Ashrawi funzionara palestinese di alto livello, ha accolto con favore l’annuncio, affermando che i palestinesi “hanno fatto affidamento sulla Corte Penale Internazionale”.

“Israele deve essere ritenuto responsabile”

Mohammed Bassem, un attivista della Cisgiordania occupata, ha dichiarato a Middle East Eye di sostenere la decisione della CPI.

“Penso che sarà una buona opportunità per discutere della colonizzazione della Palestina e di come Israele ha portato avanti la sua occupazione”, ha detto Bassem.

Tuttavia ha affermato che alcuni palestinesi sono scettici sul fatto che l’inchiesta porti a risultati concreti.

“Siamo anche preoccupati di cosa si occuperà effettivamente l’indagine “, ha detto Bassem. “Per esempio l’inchiesta non seguirà le questioni dei rifugiati e il loro diritto al ritorno e questo è preoccupante, perché è una delle maggiori questioni al centro di ciò che riguarda il conflitto, e sappiamo che, a tal proposito, la Corte non farà nulla “.

In seguito all’annuncio di Bensouda, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è scagliato contro quello che ha definito “un giorno oscuro per la verità e per la giustizia”.

“La Corte non ha giurisdizione in questo caso. La CPI ha giurisdizione solo sulle petizioni presentate da Stati sovrani. Ma non c’è mai stato uno Stato palestinese”, ha detto Netanyahu in un comunicato.

Nel contempo anche il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit si è opposto alla decisione della CPI, affermando che la Corte non ha la giurisdizione per processare [cittadini] israeliani per crimini di guerra.

“Solo gli Stati sovrani possono delegare alla Corte la giurisdizione penale. Ai sensi del diritto internazionale e dello statuto istitutivo della Corte l’Autorità Nazionale Palestinese chiaramente non soddisfa i criteri di statualità”, ha affermato Mandelblit.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riconosciuta come uno Stato non membro dalle Nazioni Unite, il che le consente di firmare trattati e godere della maggior parte delle prerogative, in modo simile agli Stati membri a pieno titolo.

Nel 2015 l’ANP ha firmato lo Statuto di Roma che governa la CPI. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, non sono firmatari e pertanto sono protetti dall’accusa all’Aja per crimini di guerra.

Il centro legale per i diritti delle minoranze arabe [palestinesi ndt] in Israele “Adalah” ha accolto con favore la decisione della CPI, affermando di ritenere che la Corte “abbia la piena giurisdizione per decidere sui casi penali in questione”

“Sulla base dei numerosi rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite nel corso degli anni, il procuratore della CPI, alla luce dei fatti, ha preso la giusta decisione”, ha scritto Adalah in un comunicato venerdì. Ha aggiunto che “nessun’ altra decisione avrebbe potuto essere possibile”.

Anche B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che la decisione di aprire un’indagine “è stato l’unico possibile risultato derivante dai fatti”.

In una dichiarazione dell’associazione si afferma che “alle acrobazie legali di Israele nel tentativo di nascondere i propri crimini non deve essere consentito di bloccare i tentativi giudiziari internazionali, che finalmente se ne stanno occupando”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)

 




“Siamo tutti intrappolati”: Israele vieta ai cristiani di Gaza di visitare i luoghi santi

Adam Khalil

17 dicembre 2019 – Middle East Eye GAZA

I progetti dei cristiani di Gaza per le feste sono andati in fumo dopo che Israele ha vietato l’accesso a città come Betlemme e Nazareth in base a “considerazioni riguardanti la sicurezza”.

Per il secondo anno consecutivo Haneen Elias al-Jilda teme che le autorità israeliane le neghino il diritto di partecipare alle cerimonie religiose e alle feste di Natale nella città di Betlemme.

L’anno scorso non ha potuto ottenere il permesso di lasciare la Striscia di Gaza assediata per recarsi nella Cisgiordania occupata attraverso il valico di Erez.

Questa sensazione di delusione e frustrazione è predominante tra i cristiani di Gaza.

Giovedì scorso un portavoce dell’Ufficio di Contatto con i palestinesi dell’esercito israeliano ha dichiarato che i cristiani palestinesi residenti a Gaza potevano ottenere il permesso di andare all’estero, ma che nessuno di loro sarebbe stato autorizzato ad entrare in Israele e in Cisgiordania, dove si trovano molti luoghi sacri per i cristiani.

Il portavoce ha dichiarato che in base a “considerazioni riguardanti la sicurezza” i gazawi sarebbero stati autorizzati a recarsi all’estero attraverso il ponte di Allenby, passaggio sotto controllo israeliano tra la Cisgiordania e la Giordania, ma non avrebbero potuto entrare in città come Gerusalemme, Betlemme e Nazareth.

Anche se i cristiani di Gaza sono generalmente noti per non essere affiliati a fazioni e forze politiche palestinesi, Israele invoca spesso ragioni di sicurezza quando rifiuta di concedere loro dei permessi.

Haneen Elias al-Jilda dal 2017 non ha ottenuto il permesso di recarsi a Betlemme, la città dove sarebbe nato Gesù Cristo, e non ha potuto partecipare alle celebrazioni di Natale nella basilica della Natività, uno dei luoghi religiosi più sacri per i cristiani di tutto il mondo.

I pellegrini cristiani vengono dai quattro angoli del mondo alla basilica della Natività, mentre i palestinesi fanno un’enorme fatica per ottenere il diritto di viaggiare, di praticare la loro fede e di far visita alle loro famiglie”, si lamenta la ragazza di 19 anni.

Israele impone severe restrizioni ai palestinesi per entrare ed uscire dalla Striscia di Gaza sotto assedio.

Afferma che un certo numero di cristiani che hanno ottenuto un permesso di viaggio negli ultimi anni sono rimasti in Cisgiordania e non sono tornati a Gaza.

Ma Haneen respinge queste insinuazioni. “Amo Gaza e non penserei mai di emigrare o di sistemarmi da un’altra parte, in Cisgiordania o altrove. È qui che ci sono la mia famiglia e i miei amici”, confida a Middle East Eye.

Giudicando le giustificazioni di Israele “superficiali”, sostiene che i cristiani palestinesi sono prima di tutto palestinesi e sottolinea che Israele non fa differenze tra palestinesi nelle procedure discriminatorie e negli ostacoli che impone loro.

Nessuna considerazione per le famiglie

Haneen fa parte di una famiglia di cinque persone regolarmente colpite dalle decisioni israeliane durante le festività, dato che uno o più membri si vedono rifiutare ogni anno da Israele il permesso di viaggiare.

L’anno scorso la famiglia ha ottenuto un solo permesso, per il fratello di Haneen, di 9 anni.

L’occupazione incide anche sulla gioia delle feste”, si rammarica la ragazza.

L’anno scorso Israele ha autorizzato circa 700 cristiani di Gaza a recarsi a Gerusalemme, Betlemme, Nazareth ed altre città sante per partecipare alle celebrazioni di Natale.

Ma, secondo Kamel Ayyad, direttore delle pubbliche relazioni della chiesa ortodossa di Gaza, Israele concede “falsi” permessi ai cristiani di Gaza, decidendo una “quota” arbitraria senza alcuna considerazione per le famiglie, che spesso preferiscono rinunciare al viaggio piuttosto che essere separate durante le festività.

E’ logico per una famiglia partire per partecipare alle celebrazioni senza uno dei suoi figli, perché Israele gli ha negato il permesso?”, chiede.

Lo stesso Ayyad faceva parte dei 104 cristiani a cui lo scorso anno Israele ha rifiutato il permesso di recarsi da Gaza in Cisgiordania. Sua moglie ha ricevuto sei rifiuti.

Sottolinea che Israele viola anche i diritti della popolazione musulmana di Gaza, impedendole di accedere alla moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, in flagrante violazione delle convenzioni internazionali che garantiscono la libertà di culto.

Ho molti amici a Betlemme e noi abbiamo parenti a Beit Sahour, là vicino. Se Israele mantiene le sue decisioni, quest’anno non potremo andarli a trovare, ma ci prepariamo a vivere l’atmosfera natalizia a Gaza malgrado l’assedio, perché vogliamo far felici i nostri bambini”, dice Ayyad a MEE.

Discriminazioni a prescindere dalla religione

Hani Farah, segretario generale dell’YMCA [associazione giovanile cristiana, ndtr.] di Gaza, è della stessa opinione di Kamel Ayyad.

Proprio come le bombe e i missili israeliani non fanno differenze tra i palestinesi, così il blocco e le misure repressive non fanno differenza tra un musulmano e un cristiano”, specifica a MEE.

Siamo tutti intrappolati a Gaza e condividiamo lo stesso dolore e la stessa sofferenza.”

Secondo Farah, ad eccezione delle festività di fine anno, i cristiani sono anch’essi vittime delle severe restrizioni negli spostamenti verso la Cisgiordania imposte da Israele ai gazawi. “In tempi normali il respingimento delle domande di permesso ne è la conseguenza prevalente.”

Farah spiega che quest’anno 955 cristiani hanno chiesto un permesso per partecipare alle celebrazioni del Natale, in base ad un elenco presentato al dipartimento degli Affari Civili palestinesi, specializzato nella comunicazione con le autorità israeliane.

Da quando Israele nel 2007 ha imposto un rigido blocco alla Striscia di Gaza, i cristiani, come la maggioranza della popolazione dell’enclave costiera, subiscono severe restrizioni nell’ottenimento dei permessi.

L’anno scorso Farah e i suoi cinque figli, dei quali il più grande ha 11 anni, hanno ottenuto un permesso, ma sua moglie se lo è visto negare.

Secondo Farah Israele concede intenzionalmente un numero troppo piccolo di permessi ai cristiani per andare a celebrare le festività, e anche quando li concede, Israele vieta ad alcuni membri della stessa famiglia di partire.

Scacciati

Hani Farah ritiene che il numero annuale di permessi concessi ai cristiani di Gaza sia “falso e ingannevole”.

Come può essere un bene concedere dei permessi a dei bambini senza i loro due genitori o senza uno di loro?”, chiede.

Il segretario generale dell’YMCA di Gaza spiega che la maggior parte dei permessi concessi dopo il blocco del 2007 sono destinati ai bambini, mentre Israele impedisce di partire a moltissimi uomini e giovani.

Secondo l’ultimo censimento svolto dall’YMCA nel 2014, su una popolazione di circa due milioni di abitanti, solo 1.313 cristiani, in maggioranza ortodossi, vivono nella Striscia di Gaza.

Scacciati dalla situazione economica disastrosa, dall’assedio e dalle continue guerre israeliane, negli ultimi anni i cristiani di Gaza hanno lasciato la striscia costiera in numero sempre maggiore per andare a vivere in Cisgiordania o all’estero.

Sana Tarazi, un’abitante di Gaza il cui figlio lavora nell’ ingegneria medica in Oman, per vederlo è stata costretta ad attraversare il valico di frontiera di Rafah con l’Egitto, dopo che Israele le ha rifiutato un permesso di viaggio attraverso Erez.

Questa impiegata dell’Alto Comitato Presidenziale per gli Affari Ecclesiastici dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) in marzo aveva chiesto un permesso per attraversare il ponte di Allenby, ma in assenza di risposta è stata costretta a passare dall’Egitto con suo marito.

Le sofferenze dei palestinesi sotto l’occupazione sono le stesse, senza distinzione di religione, razza e sesso», sottolinea.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Due donne palestinesi sottoposte da Israele alla detenzione amministrativa

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Due donne palestinesi arrestate la scorsa settimana dall’esercito israeliano sono state sottoposte a detenzione amministrativa, una forma di internamento in cui un prigioniero è detenuto indefinitamente senza accusa né processo.

Bushra al-Tawil, 26 anni, è stata arrestata nel corso di un’incursione israeliana nella sua casa di al-Bireh, città della Cisgiordania sotto occupazione, giorni dopo la scarcerazione di suo padre da una prigione israeliana.

La Palestinian Prisoner Society (PPS) [organizzazione umanitaria palestinese che si occupa del rispetto dei diritti umani dei detenuti palestinesi] ha affermato che al-Tawil è attualmente detenuta nella prigione di Hasharon, nel nord di Israele.

Impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, al-Tawil è stata arrestata più volte dalle forze israeliane. Secondo i media locali, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione.

Al-Tawil è stata arrestata per la prima volta a 18 anni. Ha scontato cinque mesi della sua condanna a 18 mesi prima di essere rilasciata nel 2011 nel quadro di un accordo di scambio di prigionieri.

Tuttavia, è stata nuovamente arrestata nel 2014 e ha trascorso in stato di detenzione i restanti 11 mesi della sua pena. Nel 2017, è stata ancora arrestata e ha trascorso otto mesi in prigione.

Suo padre, Jamal al-Tawil, è un ex leader della municipalità di al-Bireh. È stato rilasciato il 5 dicembre dopo due anni di detenzione amministrativa.

Gli studenti sono un bersaglio dell’esercito israeliano

Anche Shatha Hassan, una studentessa di 20 anni e coordinatrice del consiglio studentesco della Università di Birzeit, è stata arrestata la scorsa settimana a Ramallah nella sua casa di famiglia.

Il PPS ha riferito che martedì è stata sottoposta ad una detenzione amministrativa di tre mesi.

Il 12 dicembre, con un raid prima dell’alba, un grosso contingente di veicoli militari israeliani ha circondato la sua casa nel quartiere di Ain Misbah.

I video diffusi sui social media mostrano sua madre che grida: “Dio sia con te” a cui Shatha risponde: “Prega per me!” prima di essere spinta dai soldati su di una jeep israeliana.

I media locali hanno riferito che l’esercito israeliano ha improvvisato un checkpoint sulla strada che porta all’Università Birzeit nella Cisgiordania centrale per verificare l’identità degli studenti che transitavano in vista di una conferenza organizzata dal braccio studentesco del movimento di Hamas.

Prima dell’arresto della Hassan è stato diffuso dall’esercito israeliano un video in cui si afferma che l’Università Birzeit sia un “centro di reclutamento per terrorismo e di incitamento alla violenza”.

Ghassan Khatib, un docente universitario, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Dalla nostra lunga esperienza sull’occupazione israeliana, ogni volta che loro lanciano una campagna di disinformazione sull’università significa che si stanno preparando ad una campagna di oppressione e ad un’accentuazione della repressione sull’ organizzazione educativa nei territori palestinesi.”

L’ Università Birzeit è stata a lungo un bersaglio da parte dell’esercito israeliano. Nel marzo 2018 l’allora presidente del consiglio studentesco Omar Kiswani è stato arrestato durante un raid nell’università da parte di militari israeliani sotto copertura.

Secondo la campagna sul diritto all’istruzione, più di 80 studenti sono attualmente detenuti nelle carceri israeliane, dei quali 20 ancora senza processo.

La campagna spiega sul suo sito web: “Queste detenzioni e misure non sono altro che una spaventosa violazione della libertà di parola e di espressione”.

Il PPS ha riferito che il numero di donne detenute nelle carceri israeliane è arrivato a 42, di cui 38 nella prigione di Damoon, mentre le restanti quattro, inclusa Tawil, sono imprigionate nel centro di detenzione di Hasharon.

Secondo i dati ufficiali palestinesi, più di 5.500 palestinesi stanno attualmente languendo nelle carceri israeliane, con 450 [di loro] in [stato di] detenzione amministrativa.

52 anni di privazione delle libertà fondamentali

Indipendentemente da questo, martedì scorso Human Rights Watch (HRW), con sede a New York, ha pubblicato un rapporto in cui si chiede a Israele di concedere ai palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata, come minimo, le stesse garanzie di legge dei cittadini israeliani.

Il rapporto di 92 pagine – intitolato Nato senza diritti civili: l’utilizzo israeliano delle draconiane direttive militari per la repressione dei palestinesi in Cisgiordania – evidenzia l’uso da parte di Israele di norme militari che criminalizzano l’attività politica non violenta.

“La legge militare israeliana in vigore da 52 anni – ha detto Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva degli uffici del HRW attivi nel Medio Oriente e nel Nord Africa – esclude i palestinesi in Cisgiordania da libertà fondamentali come [poter] sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, aderire a tutti i principali movimenti politici e pubblicare materiale politico”.

“Questi direttive danno carta bianca all’esercito per perseguire chiunque organizzi politicamente, parli pubblicamente o addirittura riferisca le notizie con modalità non gradite all’esercito”.

Citando esempi di ordinanze militari israeliane definite in modo generico, secondo il rapporto tra il 1 luglio 2014 e il 30 giugno 2019 l’esercito israeliano ha perseguito 358 palestinesi per “istigazione”, 1.704 per “appartenenza e attività in un’associazione illegale” e 4.590 palestinesi per essere entrati in una “zona militare vietata” – un termine che l’esercito usa frequentemente per i luoghi in cui si svolgono le proteste.

Il rapporto fa anche cenno ad una condanna a 10 anni che può essere inflitta ai palestinesi che partecipino ad un raduno di oltre 10 persone senza un permesso militare per qualsiasi problema “che potrebbe essere interpretata come politico”, o nel caso in cui espongano “bandiere o simboli politici” senza l’approvazione dell’esercito.

Whitson ha affermato che, dato il controllo di lunga data di Israele sui palestinesi, il governo “dovrebbe almeno consentire loro di esercitare gli stessi diritti che garantisce ai propri cittadini, indipendentemente dagli accordi politici in vigore”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Un’impresa basca deve lasciare la metropolitana leggera dell’apartheid israeliana

Alys Samson Estapé

12 dicembre 2019 – The Electronic Intifada

Lavoratori, sindaci e associazioni della società civile si stanno unendo nei Paesi Baschi per opporsi alla partecipazione dell’impresa locale CAF a un progetto per allungare la metropolitana leggera delle colonie israeliane nella Gerusalemme est occupata.

Il progetto viola il diritto internazionale in quanto consolida il controllo di Israele su terra palestinese occupata. Con la sua partecipazione, CAF sta contribuendo a gravi violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

Ad agosto un consorzio tra CAF e l’impresa israeliana per le infrastrutture Saphir è stata scelta dal ministero delle Finanze israeliano per estendere il progetto di metropolitana leggera delle colonie, noto come Jerusalem Light Rail [[Metropolitana leggera di Gerusalemme] (JLR). CAF e Saphir hanno vinto un contratto di circa 1,8 miliardi di euro per estendere la metropolitana leggera ad altre colonie israeliane illegali, soprattutto a Gerusalemme est, e per rafforzare i collegamenti tra queste colonie e Gerusalemme ovest.

Altre multinazionali hanno partecipato alle fasi iniziali dell’offerta per il progetto, comprese Alstom, Siemens, Systra, Bombardier e Macquarie. Però si sono ritirate dall’appalto, lasciando in gara solo due consorzi.

Imbarazzante”

La rivista economica israeliana “Globes” ha spiegato che le altre imprese “ufficialmente non si sono ritirate dalla procedura per ragioni politiche”, ma ha aggiunto che “per la maggior parte delle compagnie internazionali di trasporti e infrastrutture, Gerusalemme è “imbarazzante”.

Preoccupazioni riguardo al progetto sono state sollevate non solo dalle compagnie internazionali, ma anche all’interno della stessa CAF. In ottobre il consiglio di fabbrica della sede centrale di CAF a Beasain [piccolo comune nel centro dei Paesi Baschi sede di altre aziende metalmeccaniche, ndtr.] ha rinnovato l’appello di gennaio perché CAF si ritiri dal progetto, affermando che Israele intende “legittimare” l’occupazione militare israeliana di Gerusalemme est.

Sempre in ottobre a Saragozza [in Aragona, ndtr.] due sindacati, il “Gruppo Indipendente” e la CGT, hanno affermato che CAF dovrebbe ritirarsi dal progetto.

Entrambi i sindacati rappresentano lavoratori della fabbrica CAF che costruirebbe apparecchiature per la JLR. Hanno affermato che il progetto è un “affronto contro i diritti del popolo palestinese.”

Il 29 novembre, Giornata della solidarietà con il popolo palestinese dell’ONU, il consiglio di fabbrica della sede centrale di CAF a Beasain ha di nuovo espresso la propria opposizione al progetto JLR. All’inizio di quella settimana, il consiglio comunale di Beasain ha approvato all’unanimità una mozione di solidarietà con il popolo palestinese e in appoggio ai suoi diritti.

Ad Altsasu, in Navarra, il 29 novembre, durante un altro evento di solidarietà, due sindaci dei Paesi Baschi, Mikel Arregi, sindaco di Zestoa, e Francisco Javier Razquin Flores, noto come Rubio [Biondo], sindaco di Arbizu, hanno chiesto a CAF di ritirarsi dal progetto. I loro villaggi, Zestoa e Arbizu, sono gemellati con Marda, a sud di Nablus, e con Birzeit, entrambi nella Cisgiordania occupata.

Stretti legami di solidarietà”

Arregi ha detto a Electronic Intifada che “è importante che CAF, un’importante impresa della nostra regione, non sia complice delle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.”

Ha continuato: “Ci sono molti di noi nei Paesi Baschi che stanno dalla parte del popolo palestinese e non vogliono che questo progetto vada avanti. Quindi ci stiamo mobilitando per bloccarlo.”

Spesso nei Paesi Baschi si tengono iniziative sulla Palestina. Il 30 novembre a Donostia [san Sebastian] lo scrittore palestinese Salah Jamal e lo chef basco Zigor Iturrieta [noto cuoco e conduttore di un programma televisivo di cucina, ndtr.] hanno partecipato all’ evento “Sapori di Palestina”, organizzato dal Comune di un villaggio, durante il quale è stato di nuovo messo in discussione il coinvolgimento di CAF nel progetto di metropolitana leggera a Gerusalemme.

Solo la settimana precedente Sahar Francis, dell’organizzazione per i diritti dei prigionieri “Addameer” e Nidal al-Azza, dell’associazione per i diritti dei rifugiati “Badil” hanno fatto un tour nei Paesi Baschi.

Xabier Aguirregabiria, di “Sodepaz”, un’organizzazione spagnola per i diritti umani, ha affermato che gli oppositori alla partecipazione di CAF nel progetto continueranno a mobilitarsi “finché CAF non sarà più complice dell’occupazione israeliana.”

Ci sono stretti rapporti di solidarietà tra i popoli basco e palestinese, dovuti alla comune esperienza di lotta per i nostri diritti e la nostra libertà,” ha detto. “La società civile, i politici e i sindacati stanno lavorando insieme nei Paesi Baschi per opporsi alla partecipazione di CAF a questo progetto israeliano di colonizzazione a Gerusalemme est.”

Il coinvolgimento di imprese nei crimini del regime israeliano di occupazione e apartheid è legalmente perseguibile e moralmente deprecabile. Può anche danneggiare gli affari. Nel 2015 l’impresa francese Veolia è stata obbligata a rinunciare [alla partecipazione] allo stesso progetto di colonizzazione illegale israeliana, dopo aver perso miliardi di dollari in appalti internazionali a causa di prolungate campagne del BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndtr.].

CAF deve tener conto degli appelli dei suoi stessi lavoratori e della società civile basca e palestinese e stare dalla parte giusta della storia ritirandosi da questo progetto illegale.

Alys Samson Estapé è la coordinatrice delle campagne del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC) in Europa.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Era un angolo di paradiso”: i palestinesi della Cisgiordania che sono autorizzati ad accedere alla loro terra solo per un istante

Shatha Hammad – RAMALLAH, Cisgiordania occupata

Mercoledì 11 dicembre 2019 – Middle East Eye

Queste terre in Cisgiordania sono loro, ma queste famiglie palestinesi non hanno diritto di recarvisi che qualche ora due volte all’anno, sotto il controllo dell’esercito di occupazione israeliano

Alle 7 del mattino di questo 2 novembre una decina di vetture che trasportano 35 famiglie palestinesi si presentano una dopo l’altra all’ingresso del villaggio di Janiya, a nord-est di Ramallah, in attesa che l’esercito israeliano le autorizzi ad accedere ai terreni agricoli.

Queste famiglie devono pazientare per più di 3 ore, i bambini iniziano ad innervosirsi e gli adulti a perdere la pazienza, mentre i soldati prendono posizione nella zona.

Poco dopo le 10 i soldati ritirano le carte d’identità di tutti quanti e danno il segnale che consente alla fila di auto palestinesi di entrare, accompagnate dall’esercito. I veicoli devono attraversare la colonia di “Talmon A” e dovranno imboccare lo stesso cammino al ritorno tra qualche ora. Il villaggio di Janiya è quasi totalmente circondato dalle colonie ebraiche.

Dall’inizio degli anni ’90, quando i coloni si sono impossessati delle zone circostanti, l’esercito autorizza i palestinesi ad accedere alle loro fattorie solo due volte all’anno, ogni volta per una giornata. Tuttavia negli ultimi due anni l’esercito ha impedito loro di accedere alle loro terre per la semplice ragione che la stagione della raccolta coincideva con giorni di feste ebraiche.

Questa visita è una grande occasione per le famiglie palestinesi, anche se vivono solo a qualche minuto in macchina da lì, nel villaggio.

Nabiha è madre di dieci figli ed ha un’ottantina di nipoti. Questa ottuagenaria è arrivata in sedia a rotelle con una trentina di membri della sua famiglia, indossando il tradizionale thobe [abito tipico, ndtr.] ricamato palestinese, che ha attentamente scelto la sera prima.

Nabiha descrive i suoi ricordi nella fattoria con qualche parola: “Passavamo tutta l’estate qui. Ci stavamo fino alla stagione della raccolta delle olive, in ottobre. Coltivavamo ogni sorta di verdure estive. Mi ricordo di una pianta di pomodori che una volta ne produsse 16! Vendevamo i nostri prodotti nei villaggi intorno e, all’arrivo dell’inverno, tornavamo a casa a Janiya.”

Quando la famiglia arriva al suo appezzamento di terreno di circa 2 ettari, Nabiha si piazza davanti alla sorgente, nei pressi di dove una volta si trovava la sua casa. Oggi l’edificio è vuoto, porte e finestre sono state sfasciate e dei rifiuti costellano il suolo, lasciati lì da altri arrivati prima di loro. Per un attimo Nabiha fissa il campo, canta una lamentazione per il marito defunto e rifiuta di parlare con chiunque. Approfitta di questo momento per rivivere i suoi preziosi ricordi in questo luogo.

Ma non assomiglia più a come se lo ricordava. Dei coloni hanno installato delle altalene e delle sedie di legno in ogni angolo e hanno piantato nuovi alberi. Si sono riuniti lì per tutto l’anno nei pressi della sorgente, Umm Siraj, che scorre nel bacino davanti alla casa di Nabiha.

L’anziana signora rifiuta di definire la sua terra come “confiscata” finché ci può andare, anche se solo due volte all’anno.

Questa terra era un angolo di paradiso – noi la coltivavamo tre volte all’anno. La sabbia era rossa e non c’erano pietre. La cisterna era sempre pulita, bevevamo e innaffiavamo le piante con la sua acqua”, racconta Nabiha a Middle East Eye, circondata dai suoi nipoti affascinati dalle storie della nonna a proposito di quel luogo.

Ogni volta che la famiglia vi torna, lei ci trova sempre meno ulivi, abbattuti dai coloni. Questa volta sono rimasti scioccati nel trovare l’albero più grande e antico tagliato in due.

La tristezza regna nella famiglia, come se avessero perso uno dei loro cari. “Passavamo tre giorni a raccogliere le olive di quell’albero,” racconta Mayza, una delle figlie di Nabiha. “Nessun dolore è pari a quello di aver perso quest’albero. Sono scoraggiata.”

Mayza passa il resto della giornata chiusa nel suo silenzio.

Corsa contro il tempo

La famiglia lavora come può, impegnata nella corsa contro il tempo. Alle 15 i soldati arriveranno e daranno l’ordine di andarsene dal terreno, anche se non hanno terminato il loro lavoro. La figlia di Nabiha, Fatima, e sua figlia di 19 anni, Mariam, raccolgono le olive come macchine, senza fermarsi, per anticipare l’arrivo dell’esercito.

Fatima, 50 anni, s’è svegliata presto ed ha preparato i dolci da portare per la colazione. Confida che non ha potuto dormire la notte prima per l’entusiasmo.

Il suo sguardo si illumina guardando la fattoria. “Mia madre ci portava qui quando eravamo bambini, ci passavamo otto mesi all’anno. In pratica sono cresciuta qui – non si tratta solo dei nostri ricordi, qui ci sono anche le nostre anime,” dichiara a MEE.

Io e i miei fratelli e sorelle abbiamo imparato a nuotare in questa cisterna,” continua indicando il bacino ormai vuoto.

Fa notare che in primavera la terra fioriva e i bambini della famiglia avevano memorizzato i nomi delle diverse piante: “Mi ricordo che c’era un alveare su uno degli ulivi. Avevamo troppa paura per avvicinarci.”

Le restrizioni israeliane relative all’accesso delle famiglie palestinesi s’inaspriscono ogni anno, con lo scopo di scoraggiarle al tornarvi. Di conseguenza la terra ne soffre, così come le persone che se ne occupano.

La terra e gli alberi qui hanno bisogno di cure, sono stati trascurati. Alcuni dei nostri ulivi hanno smesso di produrre, per cui un certo numero di famiglie non viene più,” spiega Fatima.

Quando mio padre ha visto quello che era successo alla nostra terra la prima volta che abbiamo potuto tornare, ha avuto un infarto. Da quel momento la sua salute è peggiorata fino alla sua morte nel 2009,” continua.

Mariam, la figlia di Fatima, piange ascoltando il racconto di sua madre: “Raccogliere le olive era una delle nostre attività preferite in famiglia, anche se è faticoso. La storia dei nostri genitori e della nostra famiglia qui fa sì che noi siamo cresciuti ereditando questo attaccamento e l’amore per questa terra,” confida.

Tre soldati israeliani fanno la guardia mentre la famiglia lavora la terra.

I coloni si comportano come se questa terra fosse loro e noi fossimo dei semplici visitatori. Ciò ci fa infuriare e significa che continueremo a doverci battere per venire qui, ma non rinunceremo,” aggiunge Mariam.

La famiglia ha deciso di procedere in anticipo al raccolto, temendo che le autorità israeliane non l’autorizzino a tornare durante la stagione della raccolta l’anno prossimo. “Viviamo con la paura e l’angoscia costanti all’idea di perdere questa terra a favore dei coloni… è circondata e dominata dalle colonie,” sottolinea Fatima.

Tayseer Abu Fkhaida, presidente del consiglio municipale di Janiya, descrive la zona della sorgente di Umm Siraj come una delle più fertili della regione, costellata di antichi uliveti romani e che produce un olio d’oliva di grande qualità.

Dice a MEE che centinaia di ettari sono già stati confiscati al villaggio: “Si sono già impossessati del 65% circa delle terre. Oggi il villaggio non conta più di 300 degli 800 ettari originari.”

Temiamo che questa zona venga confiscata. I coloni e l’esercito tentano di imporre il fatto compiuto. Ci aspettiamo che in ogni momento l’accesso alle nostre terre ci venga totalmente vietato,” dichiara Abu Fkhaida.

Sono circa le 15,30. L’esercito decide che è giunta l’ora e comincia a cacciare dalla zona le famiglie, anche se non hanno finito il loro lavoro.

Al momento di andarsene, i soldati li trattengono per circa due ore in più, con il pretesto di verificare le loro carte d’identità, allungando questo viaggio faticoso che un tempo non era che un breve tragitto fino alle loro case nel villaggio.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il procuratore della CPI agisce da avvocato difensore di Israele

Ali Abunimah

5 dicembre 2019 – Electronic Intifada

Il procuratore della Corte Penale Internazionale sta di nuovo permettendo a Israele di farla franca sul [caso] del suo assalto mortale di dieci anni fa contro la flottiglia [diretta] a Gaza.

I soldati israeliani hanno colpito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara dopo aver fatto irruzione sulla nave, che faceva parte di una flottiglia civile.

Lunedì Fatou Bensouda ha dichiarato di confermare la sua decisione del 2015 di non aprire un’indagine sull’attacco, nonostante i giudici della corte le abbiano chiesto per due volte di riconsiderarla.

A settembre, i giudici d’appello della Corte Penale Internazionale hanno definito Bensouda “irrispettosa” affermando che lei avrebbe affrontato in “modo superficiale” un [loro] precedente invito a riconsiderare il caso.

Le hanno nuovamente chiesto di tornare sui propri passi e di giungere ad una nuova decisione – quella emessa questo lunedì.

La sua nuova decisione in realtà stabilisce che Israele dovrebbe continuare a beneficiare della medesima impunità a cui la Corte Penale Internazionale sembra voglia porre fine.

Bensouda riconosce che “esiste un ragionevole fondamento per credere che siano stati commessi dei crimini di guerra da parte di membri delle forze di difesa israeliane” quando salirono a bordo della Mavi Marmara.

Ma insiste sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “talmente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

Nelle prime ore del 31 maggio 2010 i commando israeliani salirono a bordo e sequestrarono le imbarcazioni nelle acque internazionali del Mediterraneo orientale.

Le forze israeliane effettuarono un attacco armato particolarmente violento contro la nave più grande, la Mavi Marmara, uccidendo nove persone. Una decima vittima è deceduta nel maggio del 2014 a causa delle ferite riportate.

A bordo della Mavi Marmara almeno altre 20 [persone] vennero gravemente ferite.

“Pretesti procedurali”

Questo giovedì gli avvocati delle vittime hanno accusato il procuratore di parzialità e hanno preannunciato un appello.

“Con questa decisione – affermano gli avvocati – l’intento è quello di difendere Israele nei confronti di qualsiasi accusa di crimini di guerra in maniera così sfacciatamente palese proprio sotto gli occhi della comunità internazionale.

Poiché il procuratore della CPI non può in alcun modo coprire questi crimini, si nasconde dietro pretesti procedurali”.

In effetti, la decisione di Bensouda dello scorso lunedì è accompagnata da un documento di 44 pagine che espone numerose giustificazioni procedurali sul perché non possa perseguire il caso.

Sembra più la relazione di un avvocato difensore al fianco di Israele piuttosto che di un procuratore che tenti di porre fine all’impunità per crimini internazionali.

In alcuni punti sembra incolpare le vittime, sostenendo che “le persone che sono state uccise e ferite intenzionalmente sono state vittime di circostanze come minimo conseguenti alla violenta resistenza dei passeggeri all’abbordaggio del Mavi Marmara da parte delle IDF [esercito israeliano].”

Suggerisce persino che i soldati israeliani bene armati che hanno effettuato un assalto ingiustificato su una nave civile in acque internazionali potrebbero aver agito per “autodifesa” – argomenti che sarebbero potuti provenire direttamente dal governo israeliano.

Uno degli argomenti addotti da Bensouda per non agire è che il numero delle vittime dell’attacco israeliano sia stato “relativamente ridotto rispetto ai casi potenziali derivanti da altre situazioni”.

In precedenza i giudici della CPI avevano sottolineato che il tribunale ha perseguito casi con ancora meno vittime – come [nella causa] contro Bahar Idriss Abu Garda e Abdallah Banda, entrambi accusati di crimini di guerra contro le forze di pace dell’Unione Africana nella regione del Darfur in Sudan.

I giudici hanno stabilito che tali procedimenti giudiziari erano giustificati perché, sebbene i presunti crimini presentassero poche vittime dirette, essi avevano interrotto le operazioni di soccorso umanitario e di mantenimento della pace [condotte] a beneficio di milioni di civili.

Lo stesso ragionamento si applicherebbe esattamente alla flottiglia, che si stava recando a Gaza per rompere un blocco che priva milioni di palestinesi fondamentali diritti umani e umanitari.

Scarso Peso”

L’attacco israeliano alla flottiglia aveva evidentemente lo scopo di inviare un messaggio al mondo secondo il quale nessuno avrebbe dovuto tentare di rompere il blocco illegale di Gaza o fornire solidarietà alla sua gente.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, tra gli altri, considera il blocco una punizione collettiva, una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra.

Ma Bensouda afferma che il significato del messaggio di Israele “non può essere valutato con alcun grado di affidabilità”. Dice quindi di aver dato “scarso peso” alle argomentazioni in base alle quali l’obiettivo di Israele potesse garantire che nessuno osasse rompere il blocco nei confronti di due milioni di persone, la metà delle quali minori.

L’ultima decisione del procuratore sul caso della flottiglia è di cattivo auspicio per i palestinesi che sperano che la CPI garantisca la giustizia a lungo negata.

Dal 2015 il procuratore sta conducendo un esame preliminare di presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, ma non ha ancora avviato alcuna indagine formale che possa condurre a procedimenti giudiziari.

Questo mercoledì l’ufficio di Bensouda ha pubblicato la sua relazione annuale sui suoi esami preliminari.

In essa si afferma che dopo cinque anni di analisi della situazione in Palestina, Bensouda “ritiene che sia tempo di prendere le misure necessarie per portare a termine l’esame preliminare”.

Resta da vedere se tali conclusioni non costituiranno un ulteriore insabbiamento.

ALI ABUNIMAH

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia nella Palestina, ndtr.] appena pubblicato da Haymarket Books.

Ha anche scritto One Country: A Bold-Propos to End the Israel-Palestinian Impasse [Uno Stato unico: Una solida proposta a favore del termine dell’impasse israelo-palestinese].

Le opinioni sono soltanto mie.

(Traduzione di Aldo Lotta)




L’adolescente di Gaza  “arrestato” da Israele e riportato a casa in un sacco per cadaveri

Tareq Hajjaj (Gaza, territori palestinesi occupati)

5 dicembre 2019 Middle East Eye

La morte di Emad Khalil Ibrahim Shahin, arrestato per aver oltrepassato illegalmente la barriera israeliana, è avvolta dal mistero.

Dopo essersi intrufolati attraverso la barriera di sicurezza eretta da Israele lungo la Striscia di Gaza, Emad Khalil Ibrahim Shahin ed i suoi amici si sono infilati in una baracca abbandonata ed hanno acceso un fuoco. Temendo di essere scoperti, sono scappati.

“Abbiamo corso fino a quando abbiamo trovato una duna di sabbia dietro cui nasconderci, dall’altro lato della barriera, ma ci siamo accorti a quel punto che Emad non era con noi. Correva più lentamente perché aveva le stampelle”, racconta a Middle East Eye uno dei suoi compagni, che vuole restare anonimo.

“L’abbiamo visto a terra e gli abbiamo detto di trascinarsi. Ma è stato allora che è arrivato un veicolo militare a tutta velocità e un soldato gli ha sparato addosso, colpendolo alla gamba destra. Poco dopo è arrivato un elicottero e lo ha portato via.”

Emad Shahin è tornato a Gaza solo 355 giorni dopo. È arrivato il 23 ottobre dentro un sacco per cadaveri.

Oggi la sua famiglia e diverse Ong palestinesi ed israeliane chiedono perché l’esercito israeliano abbia trattenuto il corpo del ragazzo di 17 anni così a lungo e come sia apparentemente morto per la semplice ferita di una pallottola a una gamba.

Simbolo della contestazione

Emad Khalil Ibrahim Shahin era il minore di nove figli, il cui padre lavora come custode in una scuola, guadagnando un salario basso ma dignitoso.

Secondo la sorella Monira, il ragazzo partecipava con entusiasmo al movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno, come anche il resto della famiglia.

Le manifestazioni, che si svolgono tutti i venerdì dal marzo 2018, chiedono alle autorità israeliane di togliere l’assedio della Striscia di Gaza che dura da undici anni, e di permettere ai rifugiati palestinesi – circa il 70% degli abitanti di Gaza – di ritornare alle loro città e villaggi in quello che ormai è Israele.

Una volta alla settimana si possono vedere i palestinesi manifestare lungo la barriera che separa Israele dall’enclave costiera. Anche se le forze israeliane colpiscono soprattutto i manifestanti vicini alla barriera, sono stati presi di mira anche dei palestinesi ben più lontani.

Temendo i cecchini israeliani, Monira e gli altri parenti di Emad sono rimasti abbastanza lontani dalla barriera durante le manifestazioni. Invece il ragazzo vi si è avvicinato diverse volte, bruciando pneumatici per bloccare la visuale ai soldati che prendono di mira i manifestanti.

Non ci è voluto molto tempo prima che i cecchini sparassero a Shahin ad un piede, il 17 maggio 2018.

“Si è ripreso in fretta”, racconta Monira a Middle East Eye, aggiungendo che appena due settimane dopo era tornato alle manifestazioni con le stampelle.

“Quando sono state ampiamente condivise sulle reti sociali delle sue foto mentre partecipava alle manifestazioni nonostante la ferita, lui ne è andato fiero. Si considerava un simbolo della contestazione.”

Ventuno venerdì dopo, Emad è stato di nuovo ferito, allo stesso piede. Malgrado ciò è ritornato alla marcia.

Quando gli hanno sparato per la terza volta, all’altro piede, i chirurghi hanno dovuto amputargli tre dita.

“Nostra madre ha tentato di impedirgli di ritornare. Tutta la famiglia gli ha detto che aveva fatto il suo dovere per il suo Paese e che ormai doveva stare tranquillo”, racconta Monira.

“Ma lui ha ribattuto di non temere la morte, che la morte era ineluttabile e che preferiva morire per il suo Paese resistendo all’occupazione piuttosto che inutilmente.”

Oltrepassare la linea

Il primo novembre 2018 Emad – zoppicando sulle stampelle – e due amici hanno deciso di oltrepassare la barriera, per tentare di raggiungere una baracca lasciata vuota dall’esercito israeliano a circa 300 metri dall’altro lato della barriera, continua sua sorella.

Secondo lei il suo obbiettivo era sfidare l’assedio e riportare un ‘trofeo’, come la cintura di munizioni di un soldato o la targa di una jeep.

Anche se la zona è molto militarizzata e Emad non si muoveva certo liberamente, il giovane palestinese e i suoi amici hanno raggiunto il campo. Eccitato e senza fiato, ha chiamato sua sorella nel momento in cui si preparavano ad andare.

“Voleva condividere il suo momento di gloria. Ma io gli ho urlato contro imponendogli di andarsene immediatamente prima di farsi uccidere. Ero terrorizzata”, racconta Monira.

“Quando è tornato a casa, mia madre era in lacrime e gli ha chiesto di non farlo più.”

Il sabato seguente Emad si è svegliato presto ed ha annunciato a sua madre che dopo colazione sarebbe andato a fare una piccola commissione. Invece è tornato alla baracca, portandovi della benzina.

Alle 16,30 del 3 novembre 2018 Emad è stato colpito alla gamba vicino alla barriera ad est del campo di rifugiati di Maghazi, che si trova nella zona centrale di Gaza.

Secondo testimoni oculari è stato arrestato da un certo numero di soldati israeliani che lo hanno portato via in elicottero venti minuti dopo, a quanto pare verso il centro medico Soroka nel Negev.

Da quel momento la sorte di Shahin è misteriosa.

Subito dopo la scomparsa del ragazzo la sua famiglia ha contattato delle Ong palestinesi e israeliane, cercando disperatamente informazioni.

Inizialmente le autorità israeliane hanno detto che aveva riportato ferite ‘lievi’, ma il giorno seguente a quello in cui è stato ferito l’Ong ‘Medici per i Diritti Umani’ con sede a Tel Aviv ha comunicato la sua morte.

Nei giorni successivi ‘Medici per i Diritti Umani’ ha insistito per avere risposte ed ha chiesto il referto medico sulla morte del ragazzo.

L’11 novembre è stato comunicato all’Ong che le cartelle mediche di Emad Shahin non potevano essere rese pubbliche perché il suo corpo non era stato identificato. È stato consigliato di contattare l’Istituto medico-legale israeliano Abu Kabir.

“Ho contattato la dottoressa Maya Hoffmann di Abu Kabir, che ha cercato di localizzare il corpo, senza riuscirci. Sono stato indirizzato a un servizio d’archivio”, spiega a MEE Ran Yaron, di ‘Medici per i Diritti Umani.’

“Il servizio responsabile degli archivi ha dichiarato che nessun corpo non identificato era stato trasferito da Soroka, quindi abbiamo pensato che l’esercito trattenesse il corpo.”

Dopo di ciò HaMoked, un’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, ha chiesto all’esercito israeliano informazioni sul corpo di Shahin. Senza risultato.

“Non capisco ciò che Israele ha fatto del corpo di un ragazzo palestinese per un anno”, dice Yaron.

Interrogato sulla morte di Emad Shahin e sui motivi per cui il suo corpo è stato trattenuto per un anno, l’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye di rivolgersi al Ministero della Difesa.

Interpellato, il Ministero della Difesa ha dichiarato che si trattava di una questione su cui solo l’esercito poteva dare spiegazioni.

Morte senza spiegazioni

La famiglia di Emad Shahin è stata distrutta nell’apprendere della sua morte

“Sapevamo che sarebbe stato incarcerato, ma non ucciso”, commenta Monira. In assenza del corpo, alla famiglia rimaneva una flebile speranza che fosse vivo.

Quando la Croce Rossa internazionale ha informato i familiari che il corpo di Emad era arrivato all’ospedale al-Shifa di Gaza, si sono precipitati per vederlo.

Secondo il dr. Emad Shihada il corpo è stato conservato in azoto liquido per un lungo periodo.

Senza una strumentazione adeguata per scongelarlo, un’autopsia non avrebbe potuto essere eseguita prima di aver lasciato le spoglie al sole per due giorni.

La famiglia ha preferito seppellirlo piuttosto che aspettare, seguendo la tradizione islamica che raccomanda la sepoltura immediatamente dopo la morte.

Anche se non è stata eseguita un’autopsia completa, la famiglia di Emad ha riscontrato parecchi segni inquietanti sul suo corpo.

Dalla metà del torace fino all’addome vi era una cicatrice di 15 cm. che indicava punti di sutura. Lo stesso si riscontrava su 13 cm. che andavano dal lato sinistro del torace sui due lati.

Queste misteriose incisioni hanno fatto pensare ai familiari di Emad che fossero stati prelevati i suoi organi per traffico, una pratica nota che Israele tenta di eliminare dal 2008.

Secondo il dottor Shihada è tuttavia possibile che il corpo sia stato aperto dai medici per cercare di fermare un’emorragia interna.

Un esame esterno ha mostrato che a Shahin era stato sparato tre volte alla gamba destra. Se uno o più proiettili hanno trapassato l’arteria femorale, provocando un’emorragia che non è stata fermata entro 15 minuti, ciò avrebbe potuto provocare la sua morte, spiega a MEE il dottore.

“Emad era solo un ragazzo”, dice Monira. “Israele avrebbe potuto curarlo dopo averlo prelevato. Ma non lo hanno fatto. Lo hanno ucciso.”

Trattenimento dei corpi

Secondo il centro al-Mezan per i diritti umani, le autorità israeliane trattengono tuttora i corpi di quindici palestinesi della Striscia di Gaza uccisi dopo il 30 marzo 2018, tra cui due bambini.

Benché la famiglia di Emad Shahin abbia atteso circa un anno perché le fosse restituito il corpo del ragazzo, le altre famiglie palestinesi che vivono nell’incertezza potrebbero non recuperare mai i corpi dei loro cari.

La scorsa settimana il Ministro della Difesa Naftali Bennett ha ordinato che nessun corpo dei palestinesi trattenuti da Israele venga restituito alle rispettive famiglie, ritenendo questo un “mezzo di dissuasione contro il terrorismo”

Israele è il solo Paese al mondo che applica una politica di sequestro delle spoglie, in base ad una legge che risale al 1945, durante il mandato britannico.

La morte di Emad Shahin e la minaccia di un arresto da parte di Israele non hanno però dissuaso Monira e la sua famiglia dal partecipare alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno.

“La resistenza è il solo mezzo per liberare la nostra terra”, afferma Monira. “E ormai noi ci andiamo anche per onorare Emad. D’ora in poi tutta la famiglia è pronta a morire per sconfiggere l’occupante.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)