L’esercito israeliano ora usa un “drone parlante” per disperdere le proteste in Cisgiordania

Oren Ziv

3 febbraio 2020 – +972

Un nuovo drone delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] invita i manifestanti palestinesi del villaggio di Qaddum ad “andare a casa”, mentre sollecita gli attivisti israeliani a “non stare dalla parte del nemico.”

L’esercito israeliano sta utilizzando un drone parlante per invitare palestinesi e israeliani che partecipano alle proteste in Cisgiordania a smettere di manifestare e a disperdersi. Il drone è stato scoperto per la prima volta il 17 gennaio durante la dimostrazione settimanale contro l’occupazione nel villaggio di Qaddum, nel corso della quale ha ordinato in arabo ai manifestanti palestinesi di “andare a casa” e in ebraico a quelli israeliani di non “stare dalla parte del nemico”. Secondo i dimostranti di Qaddum questa è stata la prima volta che l’esercito ha usato questo tipo di drone, che probabilmente è stato ideato dall’impresa cinese DJI ed ha attaccato un altoparlante della ditta Mavic 2 che consente di far sentire messaggi preregistrati.

Sharon Weiss, un’attivista israeliana che era presente alla manifestazione, ha affermato che il drone le ha detto in ebraico di “andare a casa” e “non stare dalla parte dei nemici”, prima di andare da qualcun altro. “C’è praticamente sempre un drone durante le proteste, ma questa è la prima volta che ci ha parlato,” ha detto Weiss. “Lo scopo è di farci capire che ci stanno vedendo e che ci sorvegliano.”

Weiss ha detto che il “drone parlante” ha provocato una sensazione diversa tra i manifestanti. “È un ulteriore passo per fare pressione sui manifestanti perché non partecipino (alle proteste). È un’ ulteriore forma di intimidazione contro quanti osano opporsi all’occupazione dei palestinesi con i palestinesi stessi.”

Il portavoce delle IDF ha confermato che l’esercito ha utilizzato il drone, ma ha sostenuto che sia stato usato solo per dire ai dimostranti di “andare a casa”.

Anche altri attivisti palestinesi e israeliani presenti alle proteste hanno detto che il drone gli ha parlato sia in arabo che in ebraico. Un attivista ha affermato di credere che l’obiettivo degli appelli sia di fare in modo che i manifestanti guardino in alto affinché il drone possa fotografare il loro volto.

L’artista e fotografo israeliano Oded Yedaya, che documenta regolarmente le dimostrazioni a Qaddum, ha sostenuto che i manifestanti si sono “abituati al drone occasionale che si libra sulle nostre teste durante le proteste, che consente ai soldati di pianificare come inseguirci o riconoscere le nostre facce. Questa è stata la prima volta che abbiamo visto un drone parlante.”

Secondo il portavoce delle IDF il drone è stato usato “come parte dei tentativi di disperdere disordini violenti,” e che le IDF “utilizzano vari mezzi in base alle necessità operative sul campo.”

Questa non è la prima volta che l’esercito ha sperimentato una nuova tecnologia, una nuova tattica e nuove armi sui manifestanti della Cisgiordania. Nel suo film “The Lab”, il regista israeliano Yotam Feldman ha mostrato come la Cisigordania sia diventato un luogo fondamentale per le imprese belliche che vogliono testare i propri prodotti prima di venderli all’estero.

Negli anni l’esercito ha usato vari mezzi per disperdere manifestazioni non violente in Cisgiordania. Durante le prime proteste popolari nel villaggio cisgiordano di Bil’in l’esercito ha usato “L’Urlo”, un’arma sonora che obbliga i manifestanti a coprirsi le orecchie in modo che non possano lanciare pietre.

Nel 2009 l’esercito ha iniziato ad utilizzare “La Puzzola”, un cannone ad acqua mobile che spara un liquido puzzolente contro i dimostranti. Nel 2014 a Betlemme i soldati hanno iniziato ad utilizzare cannoni ad acqua a controllo remoto per disperdere le proteste nei pressi del checkpoint 300. Oggi le IDF usano droni per sparare candelotti lacrimogeni contro i manifestanti.

Oren Zin è un fotogiornalista, un membro fondatore del collettivo fotografico “Activestills” e un redattore di Local Call [la versione in ebraico di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di problemi sociali e politici in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, con una particolare attenzione per le comunità militanti e per le loro lotte. I suoi reportage si concentrano sulle proteste popolari contro il muro e contro le colonie, le abitazioni economiche e altre questioni socio-economiche, l’antirazzismo e le lotta contro le discriminazioni e per liberare gli animali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’Autorità Nazionale Palestinese annuncia la chiusura di tutti i rapporti con Israele e gli Stati Uniti

Redazione di Middle East Eye

1 febbraio 2020 MEE

Il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha affermato che “che non ci sarà più alcun rapporto” con Israele e gli Stati Uniti

Sabato Mahmoud Abbas ha dichiarato che l’Autorità Nazionale Palestinese ha interrotto tutti i rapporti con Stati Uniti e Israele dopo aver respinto la controversa proposta di Trump per Israele e Palestina.

“Abbiamo informato la controparte israeliana … che non ci sarà più alcun rapporto con loro e con gli Stati Uniti, nemmeno gli accordi sulla sicurezza”, ha detto Abbas in una riunione straordinaria della Lega Araba al Cairo in cui ha ribadito il suo “totale” rifiuto del piano.

Sabato, anche la Lega Araba ha respinto il piano. Il piano prevede la creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato, con ampie aree della Cisgiordania occupata annesse a Israele.

Negoziato tra Israele e gli Stati Uniti, il piano non contiene contributi palestinesi.

L’ANP aveva stretto accordi sulla sicurezza con Israele con cui collabora nelle aree controllate della Cisgiordania occupata che sono sotto il controllo palestinese. Anche gli accordi di condivisione dell’intelligence stipulati dall’ANP con la CIA potrebbero ora essere in pericolo.

Alla riunione del Cairo, alla quale hanno partecipato i ministri degli esteri arabi, Abbas ha dichiarato di essersi rifiutato di discutere il piano con Trump. “Mi hanno detto che Trump voleva inviarmi l’accordo del secolo perché lo leggessi, ho detto che non lo avrei fatto”, ha detto sabato Abbas alla riunione dei ministri degli Esteri della Lega Araba.

“Trump mi ha chiesto di parlargli al telefono, ma io ho detto ‘no’ e che voleva mandarmi una lettera, e mi sono rifiutato di riceverla.”La reazione al piano da parte dei paesi arabi non è stata univoca; alcuni Stati del Golfo hanno partecipato alla presentazione a Washington e altri, come la Giordania, lhanno decisamente rifiutato. Il capo della Lega araba, Ahmed Aboul-Gheit, ha dichiarato mercoledì che il piano “ha ignorato i legittimi diritti dei palestinesi nei territori”.

Ad agosto, l’ANP ha minacciato di interrompere le relazioni con Israele per via delle demolizioni [israeliane] nella cittadina occupata di Sur Bahir, nella Gerusalemme Est occupata, che hanno prodotto decine di sfollati palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




Avanti, annettiamo la Cisgiordania

Meron Rapoport 

23 gennaio 2020 – + 972

L’annessione della Valle del Giordano renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid dal fiume al mare. Ma potrebbe essere meno terribile di come pensiamo.

Si è saputo che anche Benny Gantz, rivale di centro del Primo Ministro Netanyahu, persegue l’obiettivo che Israele annetta la Valle del Giordano. Martedì, durante una visita in quella zona della Cisgiordania occupata, Gantz ha affermato che la Valle del Giordano è “lo scudo difensivo di Israele verso est in qualsiasi futuro conflitto. Consideriamo questa terra come parte inseparabile dello Stato di Israele.” Dopo le elezioni, ha continuato Gantz, avrebbe esteso la sovranità sulla valle con una “mossa concordata a livello nazionale” e coordinata con la comunità internazionale.

Non è una posizione nuova tra i falchi del centro israeliano. Un piano strategico pubblicato nell’ottobre 2018 dal National Security Research Institute, il luogo di formazione ideologica di ex generali dell’IDF come Gantz, afferma che Israele avrebbe già dovuto dichiarare la Valle del Giordano area strategica, da mantenere sotto controllo israeliano fino a quando Israele non arriverà ad un sufficiente accordo per la sicurezza.

È peraltro vero che le recenti condizioni poste da Gantz – che l’annessione della Valle del Giordano abbia il consenso nazionale e sia coordinato a livello internazionale – potrebbero far sì che la dichiarazione resti priva di fondamento. A parte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (e anche questo non è del tutto certo), è improbabile che la “comunità internazionale” accetti la mossa.

Eppure, anche se non ha alcuna reale intenzione di annettere la Valle, Gantz ha deliberatamente scelto di schierarsi con la retorica della destra israeliana, per la quale l'”annessione” è diventata una questione di buone maniere, cartina di tornasole per qualsiasi personaggio politico.

Le affermazioni di Gantz ricordano in qualche modo lo slogan della campagna elettorale di Netanyahu del 1996: “Fare una pace sicura”. Netanyahu all’epoca non aveva intenzione di fare la pace, così come oggi sembra che Gantz non abbia alcuna intenzione di procedere all’annessione. Tuttavia, tre anni dopo gli Accordi di Oslo, Netanyahu fu costretto ad includere il centro-sinistra israeliano dell’epoca, per cui la parola “pace” era una categoria a parte. Questo vale per gli ultimi 25 anni della politica israeliana: la pace è out, l’annessione è in.

Potrebbe non essere terribile come si pensa. Per alcuni aspetti, è veramente deplorevole che la coalizione di destra, secondo recenti sondaggi, non sarà in grado di assicurarsi 61 seggi della Knesset nelle prossime elezioni di marzo. Se dovesse vincere Netanyahu, è difficile immaginare come se la caverà con le sue chiare promesse di annettere immediatamente la Valle del Giordano. Nell’attuale situazione politica, l’annessione è il miglior regalo che possano sperare gli avversari dell’occupazione.

Questo non significa che le cose debbano peggiorare prima di migliorare. L’annessione scuoterà lo status quo di espansione infinita fatta di occupazione e insediamento, diventata molto comoda per Israele. Costringerà la società israeliana e parti della comunità internazionale a tornare a discutere una soluzione politica del conflitto, un obiettivo quasi scomparso. E costringerà i sostenitori della soluzione a due Stati, e persino i sostenitori di un singolo Stato, a uscire dalla loro zona protetta e ricalibrare i loro desideri con la realtà concreta.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’impatto dell’annessione sui confini definitivi di Israele o la fattibilità dell’idea dei due Stati non creerebbero necessariamente un discrimine. Israele ha annesso Gerusalemme Est più di 52 anni fa, pochi giorni dopo la fine della guerra del 1967; ciò non ha impedito a rappresentanti israeliani, ufficiali e non, di discutere dell’annessione in vari negoziati con i palestinesi e concordare che il futuro Stato palestinese avrebbe controllato i quartieri palestinesi della città.

Ciò vale anche per l’ex primo ministro Ehud Olmert, che ha fatto carriera politica nel partito Likud promettendo di tenere Gerusalemme “per l’eternità” (Olmert è stato anche protagonista della campagna elettorale del 1996 di Netanyahu, accusando i laburisti di Shimon Peres di “dividere Gerusalemme”). Un decennio dopo, durante i colloqui di pace con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, fu Olmert a proporre di dividere la città. E l’annessione delle Alture del Golan nel 1981 non ha impedito a Ehud Barak – e secondo i documenti, allo stesso Netanyahu – di discutere della possibilità di restituire il Golan alla Siria di Hafez al-Assad.

L’annessione non migliorerà particolarmente la situazione dei pochi coloni israeliani che vivono nella Valle del Giordano. Oggi, e specialmente dopo un decennio di governo di Netanyahu, la Linea Verde [confine tra Israele e Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza prima dell’occupazione del 1967, ndtr.] è quasi del tutto irrilevante e i coloni che vivono in Cisgiordania godono di diritti quasi identici ai cittadini israeliani all’interno dei confini del 1948.

L’annessione può rimuovere alcune delle barriere attualmente imposte ai coloni, ma può anche rendere loro la vita difficile. Nel momento in cui la Valle del Giordano diventasse soggetta ufficialmente alla legge israeliana – piuttosto che agli ordini militari – potrebbe essere molto più difficile confiscare terre, sfrattare palestinesi e stabilire colonie di soli ebrei.

Anche se Israele decidesse di concedere ai palestinesi che annette lo status di residenti invece della piena cittadinanza (come a Gerusalemme est), tale status consentirebbe loro di muoversi liberamente e lavorare all’interno di Israele, il che sicuramente migliorerebbe la loro attuale situazione. Eppure ci sono poche ragioni per credere che i palestinesi annessi rinuncerebbero alle loro aspirazioni nazionali: non è accaduto a Gerusalemme est dopo 52 anni di occupazione, non è accaduto con i palestinesi cittadini di Israele.

Ma c’è la possibilità che l’annessione possa dare impulso non solo ai palestinesi che si trovano sotto la sovranità israeliana, ma alla lotta palestinese in generale. L’annessione costringerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese a emergere dal suo coma; renderebbe più facile smantellarla, costringerebbe Israele a riprendere il diretto controllo sulla Cisgiordania, e il ritorno a una lotta per i diritti civili in uno Stato democratico tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo], simile al programma politico originario dell’OLP.

Se Israele, in effetti, rifiutasse di concedere pieni diritti civili ai palestinesi, sarà ancora più facile dimostrare che il regime in Cisgiordania non è un problema temporaneo di “territorio conteso”, come ama sostenere Israele. L’apartheid diventerebbe la politica ufficiale dello Stato.

Inoltre, l’annessione porterebbe la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo arabo. Il governo giordano sta già affrontando una forte opposizione al suo accordo di pace con Israele. Recenti manifestazioni nel Regno hascemita contro l’accordo con Israele per il gas sono ulteriori prove di dissenso. Se l’annessione dovesse avvenire, è difficile pensare che re Abdullah si atterrebbe all’accordo con Israele, volendo mantenere il potere.

La Giordania potrebbe trasformarsi in Palestina, come sperava Netanyahu nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations [Un posto fra le Nazioni, ndtr.] – ma questa “Palestina” avrebbe un esercito che potrebbe puntare le sue armi su Israele per solidarietà con i fratelli dall’altra parte del fiume Giordano.

Netanyahu, che conosce la scena internazionale meglio di qualsiasi altro leader a destra – e forse in Israele – è ben consapevole di tutto ciò. Questo è il motivo per cui, durante il suo decennio al potere, ha evitato di compiere passi drastici, perfezionando allo stesso tempo lo status quo. Le sue politiche hanno assicurato l’annessione strisciante di sempre più colonie, la cancellazione della Linea Verde dalla coscienza israeliana e la completa normalizzazione dell’occupazione.

Netanyahu sperava che l’opinione pubblica israeliana, la comunità internazionale, i regimi arabi filo-occidentali e forse gli stessi palestinesi avrebbero alla fine accettato il dominio israeliano sull’intera terra e avrebbero tolto l’opzione di uno Stato palestinese dal tavolo. Ha funzionato brillantemente; persino Gantz, il maggior rivale di Netanyahu, non parla di due Stati.

Ma per il primo ministro potrebbe aver funzionato troppo bene. Proprio perché uno Stato palestinese non sembra più essere preso in considerazione, la destra nazionalista-religiosa ha trasformato l’annessione in richiesta politica – qualcosa che non ha fatto in 40 anni di permanenza al governo, da quando la destra ha preso il potere nel 1977. Se gli insediamenti sono riusciti a impedire l’istituzione di uno Stato palestinese, dicono, perché non passare alla fase successiva e realizzare l’ideale del Grande Israele?

Finché Netanyahu è stato politicamente forte, poteva evitare di parlare di annessione a gente come Naftali Bennett [politico israeliano dell’estrema destra dei coloni ed attuale ministro della Difesa, ndtr.] Ma non appena i problemi legali hanno cominciato a premergli addosso, lo spazio di manovra di Netanyahu è diminuito. Non ha altra scelta che abbracciare il linguaggio del sovranismo, che solo pochi anni fa giaceva in qualche posto nelle plaghe dormienti della destra.

Non che Netanyahu non creda nell’esclusiva sovranità ebraica tra il fiume e il mare: semplicemente non credeva che dovesse realizzarsi attraverso l’annessione formale. Oggi non si tratta più di buttare sul tavolo l’annessione in cambio dell’immunità politica. È annessione o prigione.

Non vi è dubbio che l’annessione sia una violazione del diritto internazionale, che sarebbe imposta ai palestinesi con la forza e trasformerebbe ufficialmente Israele in uno Stato di apartheid. Bisogna opporsi. Ma dopo tanti anni sotto il dominio della fazione del Grande Israele, potrebbe essere il momento di mettere alla prova la proposta della destra. L’annessione chiarirà il vero dibattito Israele-Palestina: uguaglianza e autodeterminazione per ogni Nazione che vive tra la Giordania e il mare o supremazia ebraica.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La Cisgiordania era ed è ancora il principale campo di battaglia di Israele

Adnan Abu Amer

24 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Circoli israeliani hanno accusato Hamas di continuare ad aggravare il conflitto contro l’esercito e i coloni in Cisgiordania al fine di destabilizzare la sicurezza interna. Questo si è trasformato in crescenti tensioni da parte di Israele, soprattutto in quanto uno dei motivi degli accresciuti timori israeliani è quello di una lotta per la successione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Alla luce di tali timori il servizio di sicurezza [interno] Shin Bet ha annunciato di aver sventato nel 2019 560 importanti operazioni, compresi sei attentati kamikaze, quattro rapimenti di soldati e coloni e oltre 300 uccisioni. L’esercito ha neutralizzato circa 12 cellule armate palestinesi, che avevano programmato di condurre operazioni violente usando esplosivi.

Questi dati israeliani confermano che col passare del tempo le tensioni in Cisgiordania stanno aumentando e che l’opinione prevalente è che un’operazione armata, simile a quella di agosto nella colonia Dolev vicino a Ramallah, in cui è stata uccisa una colona israeliana con un ordigno esplosivo, può avere un buon esito dopo che la cellula che ha condotto l’operazione è riuscita a eludere il sistema di controllo israeliano. Comunque l’identificazione da parte dello Shin Bet della cellula che ha eseguito l’operazione ha svelato una vasta infrastruttura militare.

L’esercito israeliano e i suoi servizi segreti si concentrano su ciò che definiscono l’importante ruolo ricoperto all’interno di Hamas dalla sua struttura in Cisgiordania, che è responsabile della direzione delle operazioni in Cisgiordania. Sta operando su più vasta scala e con maggiore intensità per destabilizzare la sicurezza e per prendere di mira soldati e coloni. Vale la pena sottolineare che alcune delle recenti decisioni prese a livello politico israeliano relativamente ai palestinesi non fanno che gettare benzina sul fuoco, scatenando ulteriori tensioni.

Quindi lo stato di allerta dell’esercito israeliano in Cisgiordania è recentemente aumentato in previsione della possibilità di un improvviso allontanamento di Abbas dalla scena politica. La ragione è che la lotta per la successione potrebbe portare ad una resistenza popolare che sconfini in resistenza armata, dato che la maggioranza dei candidati alla successione ha iniziato ad accumulare armi, sollevando gravi preoccupazioni in Israele.

Il principale fattore che influirà sulla situazione della sicurezza in Cisgiordania restano le elezioni israeliane e la parallela diffusione di messaggi provocatori da parte dei politici israeliani riguardo al futuro della Cisgiordania. Questi includono l’annessione della Valle del Giordano, di importanti blocchi di colonie, il divieto di costruzione per i palestinesi in area C ed altre decisioni arbitrarie.

Tutti questi orientamenti politici e comportamenti israeliani sul campo non faranno che esacerbare le tensioni per la sicurezza in Cisgiordania, suscitando reazioni negative tra i palestinesi, ed hanno un effetto dannoso sul coordinamento per la sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese, che contribuisce ampiamente alla stabilità dell’esercito e dei coloni. Questo richiede che Israele sia preparato ad ogni sorpresa che possa verificarsi in Cisgiordania.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il processo contro il software di sorveglianza israeliano si svolge a porte chiuse

Pegasus è collegato allo spionaggio politico in Messico, Emirati Arabi e Arabia Saudita: Citizen Lab dell’università di Toronto.

16 gennaio 2020 – Al Jazeera

Giovedì un tribunale israeliano ha disposto le udienze a porte chiuse del processo intentato da Amnesty International per bloccare le esportazioni del gruppo NSO [dalle iniziali dei fondatori dell’azienda: Niv, Shalev e Omri, è una società tecnologica israeliana, ndtr.] di software di spionaggio, che le associazioni per i diritti affermano vengano usati per spiare giornalisti e dissidenti in tutto il mondo.

Una giudice della Corte Distrettuale di Tel Aviv ha citato preoccupazioni relative alla sicurezza nazionale quando ha escluso il pubblico e i media dalle udienze. L’iniziativa ha comportato un’immediata condanna da parte dell’associazione di attivisti.

“È vergognoso che veniamo costretti al silenzio”, ha detto ai giornalisti Gil Naveh, un portavoce di Amnesty.

Il Ministero della Difesa di Israele – che ha richiesto il divieto della Corte – e NSO hanno rifiutato di commentare la causa intentata da Amnesty. La causa potrebbe stabilire se il governo debba inasprire i controlli sulle esportazioni di strumenti informatici – un settore in cui Israele è leader mondiale.

Amnesty afferma che i governi hanno usato il software di hackeraggio dei cellulari della società israeliana per reprimere gli attivisti in tutto il mondo. Uno studio di Citizen Lab [Laboratorio dei Cittadini, associazione che difende i cittadini dallo spionaggio illecito dei governi, ndtr.] dell’università di Toronto ha collegato Pegasus allo spionaggio politico in Messico, Emirati Arabi e Arabia Saudita.

NSO ha affermato di vendere la propria tecnologia solo ad enti statali e alle forze dell’ordine per “aiutarle nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata.”

La giudice Rachel Barkai inizialmente aveva detto che avrebbe permesso che le argomentazioni di Amnesty fossero ascoltate dal pubblico, ma gli avvocati del governo hanno sostenuto che sarebbe parso che lo Stato stesse accettando le accuse di Amnesty e Barkai ha cambiato idea.

NSO è finita sotto esame quando un dissidente saudita legato al giornalista assassinato Jamal Khashoggi ha intentato causa sostenendo che NSO aveva aiutato la corte reale ad entrare nel suo cellulare e a spiare le sue comunicazioni con Khashoggi.

NSO ha negato che la sua tecnologia sia stata utilizzata nell’omicidio di Khashoggi.

In ottobre WhatsApp, che è di proprietà di Facebook Inc., ha fatto causa a NSO presso la corte federale degli Stati Uniti a San Francisco. WhatsApp ha accusato NSO di aiutare le spie governative ad entrare nei telefoni di circa 1.400 utenti in quattro continenti.

Nella causa di Amnesty, intentata da membri e sostenitori del suo ufficio di Israele, l’organizzazione ha affermato che NSO continua a trarre profitti dal suo programma spia che viene usato per commettere violazioni contro attivisti in tutto il mondo e che il governo israeliano “è rimasto a guardare senza fare niente.”

“Il modo migliore per impedire che i potenti prodotti di spionaggio di NSO arrivino ai governi repressivi è revocare la licenza di esportazione della società, e questo è esattamente ciò che questa causa legale intende fare”, ha detto Danna Ingleton, vicedirettrice di Amnesty Tech.

Amnesty Tech è descritta sul sito web di Amnesty International come una collettività globale di avvocati, esperti di informatica, ricercatori e tecnologie che sfidano “la sistematica minaccia ai nostri diritti” da parte delle imprese di spionaggio.

NSO, che l’anno scorso è stata acquisita dalla società privata Novalpina Capital con sede a Londra, a settembre ha annunciato che avrebbe iniziato ad attenersi alle linee guida dell’ONU sulle violazioni dei diritti umani.

FONTE: Agenzia di informazioni Reuters

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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“Ci sposteranno, ma solo da morti”: scontro fra Israele e i beduini nel Negev

Jack Dodson

17 gennaio 2020 – Middle East Eye

Le autorità israeliane hanno intenzione di trasferire 36.000 beduini che vivono nella regione desertica per far posto a ebrei israeliani e progetti industriali e militari

Mohammad Danfiri, dal recinto delle pecore della sua famiglia beduina nel deserto del Negev, guarda verso i due ripetitori cellulari in cima alla collina vicina. Sono situati in uno spazio aperto fra il limitare tra il suo villaggio e un altro, un’area, spiega, dove sarà costruito un ampliamento della principale autostrada orientale di Israele.

Una fila di case sta a circa 60 metri dalle torri dove sono stati approvati i progetti per l’autostrada. Ma il governo israeliano sta procedendo con dei progetti per cacciare non solo i residenti più vicini alla strada progettata.

L’intera popolazione del villaggio, 5.000 persone e molte altre del circondario, verrà trasferita in unità abitative temporanee secondo il piano del governo, limitando seriamente la possibilità di allevare pecore e sviluppare l’agricoltura, le attività principali delle comunità beduine.

Danfiri è uno degli almeno 36.000 beduini del Negev israeliano che si trova ad affrontare l’espulsione (in arabo la Nakba, la catastrofe) a causa di vari progetti come l’ampliamento della superstrada.

Per mettere in pratica questi piani di sviluppo proposti da enti governativi, dall’esercito israeliano, da aziende private e da gruppi no-profit, l’Autorità israeliana per gli insediamenti beduini, l’ente governativo responsabile per la gestione dei rapporti tra beduini e Stato, mira a trasferire decine di migliaia di persone in alloggi temporanei.

I beduini chiamano questi alloggi provvisori “caravan”, perché sono casette mobili in cui gli israeliani intendono insediare intere famiglie. A ottobre, una commissione edilizia distrettuale israeliana ha cominciato a valutare se approvare questi piani di trasferimento.

I residenti che possono essere trasferiti vivono in villaggi che il governo ritiene “non riconosciuti”, sebbene la maggior parte sia vissuta su quei terreni o nelle vicinanze fin dalla fondazione del Paese nel 1948. Durante gli ultimi 50 anni, Israele ha cercato di spostare i beduini in comunità “riconosciute”, sostenendo ripetutamente che quelli delle aree non riconosciute non hanno diritti sulle terre.

I villaggi non riconosciuti non sono provvisti di infrastrutture o servizi governativi. Non ci sono mezzi di trasporto, strade, scuole e le autorità israeliane non riconoscono i leader locali né negoziano con loro.

Di conseguenza le comunità vivono una vita di sussistenza su una terra ostile. Molti allevano pecore per venderne la carne. Alcuni riescono a trovar lavoro in aziende israeliane nei dintorni.

‘Nessuna soluzione’

Danfiri, 47 anni, racconta di essere cresciuto nel villaggio dove l’unica fonte idrica era un pozzo che raccoglieva acqua piovana. Lui e i suoi amici tiravano su l’acqua e sua mamma usava il foulard per filtrare la sporcizia. I venerdì gli adulti attaccavano una televisione alla batteria di un’auto per guardare i cartoni animati e i film egiziani.

“Oggi i bambini hanno tutto” dice Danfiri, riferendosi ai pannelli solari che ora sono installati sopra molte case beduine. “Frigoriferi, internet, tutto è immediatamente disponibile.”

Danfiri dice che per proteggere lo stile di vita della comunità i beduini respingeranno i piani governativi di trasferimento. Nel caso dovessero assolutamente spostarsi, dice che rifiuteranno i “caravan” e staranno il più vicino possibile alle loro case originarie, anche se di fianco a un cantiere.

“Non ci sposteremo, lotteremo” dice. “Non succederà … un progetto come questo farebbe sparire la cultura e il patrimonio culturale dei beduini.”

Per una comunità che si riconosce in uno stile di vita tradizionale basato sull’agricoltura, la rimozione forzata è vista come l’ultima mossa di una campagna governativa decennale per concentrarli in aree specifiche. Per gente come Danfiri ciò significa rinunciare a una parte della propria identità.

Ovunque io vada la cosa di cui sono più fiero è essere un beduino. Ed è soprattutto nei villaggi non riconosciuti che i beduini conservano di più la loro cultura tradizionale.” dice.

Adalah, una ONG [israeliana] con sede a Haifa specializzata nei diritti sanciti dalla legge per gli arabi in Israele, si oppone ai piani per vari motivi. Innanzitutto, sostiene l’organizzazione, le unità residenziali progettate non sono adatte, a termini di legge, perché non hanno infrastrutture adeguate e non rispettano le norme relative alle dimensioni abitative.

Il mese scorso l’ONG ha anche pubblicato un libro bianco, sostenendo che i piani rappresenterebbero un approccio che considera i cittadini israeliani del Negev “separati ma uguali”.

Un sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per il beneficio, il benessere e lo sviluppo futuro di cittadini e comunità ebraiche israeliane e che pone i cittadini ebrei israeliani al centro del processo” scrive.

L’altro sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per l’evacuazione e il trasferimento dei cittadini beduini in residenze temporanee imponendo all’intera popolazione palestinese beduina una situazione opprimente senza averla consultata.”

Adalah afferma anche che il piano farà crescere la povertà dei beduini che sono trasferiti e di quelli che vivono nelle comunità dove verranno costruiti i campi, perché potrebbe danneggiare l’accesso al lavoro per entrambi i gruppi.

Myssana Morany, un’avvocatessa che lavora per Adalah, dice che non è chiara la velocità con cui i piani verranno eseguiti e quante persone verranno trasferite in totale. Dato che il modo di esprimersi del governo sui piani che hanno presentato è vago, dice, ciò rivela un progetto più ampio che potrebbe coinvolgere fino a 80.000 persone. Per questo stesso motivo l’assenza di un numero preciso di unità abitative significa che il governo può sfrattare quante persone vuole.

Per noi ciò significa che non hanno una soluzione per le persone che progettano di far sgombrare” dice Morany.

Hussein El Rafaiya, 58 anni, è di Birh Hamam un villaggio non riconosciuto e dal 2002 al 2007 è stato a capo di un comitato che rappresenta i villaggi non riconosciuti. Israele non riconosce l’autorità del comitato e non negozia con loro.

Rafaiya ha ricordato esempi fatti nel corso degli anni di pressioni israeliane sulle comunità beduine per costringerle ad andarsene dalle loro case, per esempio decenni di demolizioni di case e sfratti effettuati dal governo.

Noi non abbiamo nessuna possibilità di risolvere la situazione per vie legali” dice Rafaiya, spiegando che la legge israeliana semplicemente non riconosce le rivendicazioni dei beduini sulla terra o sulle case.

Questo non è il comportamento di uno Stato: è un comportamento da criminali … Tutti quegli sforzi per l’Autorità Beduina [ente governativo creato nel 2007 per occuparsi dei beduini, ndtr.]non sono stati abbastanza efficaci, così hanno deciso di creare questi campi temporanei di sfollati.”

Agli inizi del 2020, la commissione urbanistica del distretto meridionale israeliano deciderà se procedere. I due piani residenziali temporanei del governo enfatizzano la necessità di sfrattare “urgentemente” i beduini in base ai progetti di sviluppo. Agli occhi dei gruppi per i diritti umani è un modo per escogitare una soluzione rapida ma giuridicamente inefficace per espellere la gente.

Una presenza in espansione

In anni recenti l’esercito israeliano ha spostato delle basi nel Negev nel tentativo di espandervi la presenza militare e industriale e per aumentare la popolazione. Il governo ha anche investito risorse per promuovere Be’er Sheba, la più grande città meridionale, come un hub per la tecnologia e l’imprenditorialità.

Il Negev è diventato il luogo di un’ampia gamma di progetti, inclusi parchi solari, centrali elettriche, serre e altre imprese industriali. Il governo ha espresso interesse nel sostenere le coltivazioni di marijuana a scopo medico, l’industria manifatturiera e la difesa informatica, tutto tramite fondi e sussidi.

Secondo il Ministero dell’Economia dello Stato, l’idea è di far concorrenza alla Silicon Valley.

Uno dei protagonisti di questo processo è il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico] (JNF) un’organizzazione con sedi negli USA e a Gerusalemme che ha ricevuto un’autorizzazione governativa speciale da parte di Israele per acquistare e sviluppare dei terreni per i coloni ebrei.

Supervisiona molti progetti nella regione, spesso bonificando enormi distese di terreni per piantare foreste. Alcune comunità non riconosciute di beduini si trovano in aree destinate a essere evacuate per i progetti del JNF.

Sul sito del JNF, dove si presenta il piano per il Negev, si illustra un progetto per insediarvi 500.000 persone provenienti da altre parti della regione.

Il deserto del Negev rappresenta il 60% del territorio di Israele ma ospita solo l’8% della popolazione del Paese” c’è scritto. “E in queste cifre sbilanciate noi vediamo un’opportunità di crescita senza precedenti.”

Il “Progetto Negev” del JNF dà grande evidenza alla priorità di sostenere le comunità beduine della regione, ma elenca collaborazioni solo con città beduine “riconosciute”.

Nessun portavoce del JNF ha risposto a un’email con cui si richiedeva un commento.

Thabet Abu Rass, il co-direttore di Abraham Initiatives, un’ONG che opera per i diritti politici in Israele, ha detto di non essere d’accordo con il piano governativo principalmente perché non tiene conto di nessuna delle necessità delle comunità beduine.

È un modo diverso per parlare dello sradicamento delle persone. Qui il problema è lo sradicamento delle persone.” ha detto Rass.

Il governo israeliano sta investendo un sacco di soldi nella pianificazione. Se da un lato è bene pianificare per la gente, dall’altro non va bene pianificare contro la loro volontà … i beduini non hanno voce in capitolo.”

Rass rammenta molti casi in cui il governo d’Israele ha fatto dei piani per il Negev senza consultare i beduini e senza accettare o neppure prendere in considerazione i loro diritti sulla terra.

La terra in Israele è una questione che ha motivazioni ideologiche” ha detto Rass. “Israele si definisce uno Stato ebraico e per loro è importante controllare sempre maggiori estensioni di territorio.”

Per Rafaiya i progetti sono semplicemente inaccettabili. I beduini delle comunità riconosciute non si sposteranno.

Questo piano per noi è un disastro” dice Rafaiya. “Lo Stato può venire e distruggere case e comunità. Ma noi ci sposteremo solo da morti, saremo seppelliti nella nostra terra.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele comincia ad estendere la sua “annessione silenziosa” della Cisgiordania, col beneplacito dell’amministrazione Trump

Yumna Patel 

15 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il ministro della Difesa di Israele ha annunciato mercoledì di aver approvato la creazione di sette nuove riserve naturali israeliane nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Secondo il Jerusalem Post la mossa, che include anche l’espansione di 12 riserve naturali già esistenti, rappresenterebbe la prima approvazione di questo tipo ad essere rilasciata dalla firma degli Accordi di Oslo.

La notizia segue a ruota quella di un controverso forum di accademici e attivisti di destra la settimana scorsa a Gerusalemme dove Naftali Bennet, l’attuale ministro della Difesa, ha dichiarato alla folla che l’intera Area C della Cisgiordania occupata “appartiene a Israele”.

“Stiamo cominciando una battaglia vera, imminente per il futuro della Terra di Israele ed il futuro dell’Area C”, ha detto Bennet al Kohelet Policy Forum, facendo riferimento al 60% e più della Cisgiordania designato come sotto controllo israeliano dagli Accordi di Oslo.

Come leader del partito della “Nuova Destra”, Bennet è da lungo tempo un sostenitore del movimento dei coloni e promotore dell’annessione dei territori palestinesi occupati ad Israele. L’espressione delle sue opinioni riguardo dell’Area C non può quindi sorprendere, ma dato il sostegno dell’attuale amministrazione statunitense, sono particolarmente allarmanti.

Sostegno dagli Stati Uniti

Il Kohelet Policy Forum è stato inaugurato da un videomessaggio del Segretario di Stato [USA] Mike Pompeo che ha dichiarato che “Stiamo riconoscendo che queste colonie non sono una violazione intrinseca delle leggi internazionali. Questo è importante. Stiamo sconfessando il memorandum di Hansell del 1978 [parere giuridico di Hebert J. Hansell, consigliere del presidente Carter, che considerava illegale l’occupazione israeliana, ndtr.] che era profondamente sbagliato, e stiamo ritornando ad un più equilibrato e serio approccio alla questione come durante la presidenza Reagan.”

La posizione dell’amministrazione Trump sulla questione delle colonie ha generato un diffuso criticismo da parte della leadership e degli attivisti palestinesi, così come da parte della comunità internazionale, che a larga maggioranza considera le colonie essere il principale ostacolo per la pace nella regione.

Anche l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, si è rivolto al forum, sottolineando la nuova posizione americana, secondo la quale le circa 200 colonie presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non rappresentano una violazione delle leggi internazionali.

“Gli israeliani hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria,” ha detto Friedman, elogiando la precedente decisione del presidente degli Stati Uniti Trump di riconoscere la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle alture del Golan.

Pare che siano già in corso degli sforzi coordinati da parte dei governi di Netanyahyu e Trump per estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania.

Nel suo discorso Bennett ha anche dichiarato come da circa un mese abbia iniziato a sviluppare piani per imporre la sovranità israeliana sul terreno, e ha lasciato intendere come abbia discusso con l’amministrazione Trump per “[spiegare] il modo in cui lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire che queste aree siano parte dello Stato di Israele”.

Fatti sul terreno

La spaventosa realtà delle parole di Bennett è che la “guerra” di Israele a proposito dell’Area C rappresenta più delle semplici promesse di un politico.

All’incirca nello stesso momento in cui Bennett faceva la sua dichiarazione, il presidente dell’Autorità Palestinese della Commissione Contro il Muro e le Colonie, Walid Assaf, ha annunciato che nel 2019 sono state demolite dalle autorità israeliane circa 700 costruzioni palestinesi, di cui 300 demolizioni nella sola Gerusalemme.

Solo il giorno prima, l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva dato torto a un gruppo di cittadini palestinesi che chiedevano l’annullamento del piano regolatore per le colonie di Ofra, visto che tale piano include circa 5 ettari di terreni privati palestinesi.

E il giorno prima ancora, un’organizzazione di monitoraggio delle colonie, Peace Now, ha riportato che l’amministrazione civile israeliana ha annunciato piani per costruire 1936 abitazioni nelle colonie. Il gruppo ha fatto notare come “l’89% delle unità immobiliari proposte sono in colonie che gli israeliani potrebbero dover evacuare in caso di un futuro accordo di pace coi palestinesi.”.

Hanan Ashrawi, importante dirigente palestinese, ha dichiarato giovedì che Israele ha accelerato i suoi progetti per creare uno stato di “annessione de facto” della Cisgiordania: “Israele sta perseguendo una annessione silenziosa della terra palestinese per impedire in maniera definitiva il diritto fondamentale del popolo palestinese alla libertà e alla giustizia”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Ortona)




I laureati si arrabattano per avere uno stipendio migliore

Jaclynn Ashly e Alaa Daraghmeh

9 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Neppure avere una laurea ha aiutato Fathi Taradi.

Taradi, 34 anni, ha cercato per un decennio di trovare lavoro come giornalista nella Cisgiordania occupata. Alla fine ha dovuto accontentarsi di un lavoro nell’edilizia a Gerusalemme. “I primi giorni di lavoro in Israele avevo il cuore a pezzi perché avevo rinunciato a tutti i miei sogni di diventare giornalista,” dice Taradi a The Electronic Intifada nella sua casa di Taffuh, a ovest di Hebron.

Taradi è uno dei molti laureati palestinesi obbligati a cercare un lavoro umile in Israele o nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est dopo aver perso la speranza di trovare un lavoro nel proprio campo [di studi].

Ha passato molti anni nel tentativo di lavorare sottopagato in stazioni radio locali della Cisgiordania, finché, cinque anni fa, ha ricevuto un permesso di lavoro israeliano.

Non avrei mai pensato di lavorare in Israele,” dice. “Ho molte competenze. Pensavo che a questo punto sarei diventato un cameraman di successo.”

All’inizio Taradi ha dovuto alzarsi ogni giorno alle 3 del mattino per viaggiare fino al checkpoint 300, a nord di Betlemme, rimanendo a volte in piedi per ore con centinaia di altri palestinesi imprigionato tra pareti di cemento e sbarre di ferro in attesa che i soldati israeliani aprissero i tornelli e controllassero i permessi rilasciati da Israele che consentono loro di entrare a Gerusalemme. Vedeva raramente i suoi quattro figli.

All’inizio di quest’anno Israele ha “migliorato” il checkpoint 300, insieme a quello di Qalandiya, nei pressi di Ramallah, creando più corsie e installando porte automatiche a cui i palestinesi avvicinano i permessi di ingresso biometrici per passare.

Questo miglioramento ha consentito di attraversare il posto di controllo militare più rapidamente e con maggiore efficienza, riducendo a qualche minuto quello che portava via ore. Ma non ha fatto niente per modificare i fondamenti di un’occupazione militare che obbliga palestinesi con titoli di studio come Taradi a lottare per trovare delle opportunità di lavoro.

Non ho mai perso la mia passione per i media,” dice Taradi. “Se avessi una possibilità di tornare nei media lo farei. Amavo il mio lavoro di giornalista.”

É stato inutile”

Per Sabri Saidam, ministro dell’Istruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’economia palestinese non è in grado di assorbire i laureati perché Israele non consente “un serio sviluppo ed investimenti in Palestina.” La pluridecennale occupazione ha soffocato l’economia locale, dice al telefono Saidam a The Electronic Intifada.

Lo fa in molti modi, e l’annientamento dell’economia palestinese in conseguenza dell’occupazione israeliana è ben documentato.

Ovviamente l’occupazione israeliana e la sua colonizzazione della Cisgiordania hanno confiscato vaste aree di terreno, compreso più del 60% della Cisgiordania, nota come Area C, in cui lo sviluppo palestinese è in larga parte vietato ma le colonie israeliane si espandono in modo quasi incontrollato.

I circa 600.000 coloni israeliani in Cisgiordania usano sei volte più acqua dei 2,86 milioni di palestinesi che vi vivono. Secondo il gruppo di ricerca palestinese Al-Shabaka, i costi indiretti delle restrizioni israeliane all’accesso dei palestinesi all’acqua nella Valle del Giordano, che impediscono ai palestinesi di coltivare in modo corretto la propria terra, sono stati di 663 milioni di dollari, l’equivalente dell’8,2% del PIL palestinese nel 2010.

Nel contempo per molti gli stipendi in Cisgiordania sono troppo bassi per poter sopravvivere. Secondo il ministero dell’Istruzione, in Cisgiordania il salario minimo è di 420 dollari al mese. Ma nel settore privato molti ricevono ancora meno.

Anche se Taradi potesse ottenere un lavoro a tempo pieno in una stazione televisiva locale in Cisgiordania, spesso questa potrebbe offrirgli solo circa 650 dollari al mese, mentre il suo lavoro nell’edilizia a Gerusalemme gliene frutta circa 2.000.

Essere diventato un lavoratore nell’edilizia ha consentito a Taradi di sposarsi e di costruire una casa con tre camere da letto per la sua famiglia – una cosa che sarebbe stata difficile fare con uno stipendio in Cisgiordania. “Mi sento come se avessi perso tempo a studiare. Tutto è stato inutile,” afferma.

L’esperienza di Taradi è condivisa da molti palestinesi che pensano di aver ricavato poco dagli titoli universitari. Alcuni hanno ottenuto lauree all’estero solo per tornare in Cisgiordania e non riuscire a trovare un lavoro.

Suhair, la moglie di Taradi, è rimasta disoccupata per otto anni. La trentunenne ha ottenuto la sua laurea in chimica all’università di Hebron nel 2010 ed ha tentato di trovare un lavoro presso il ministero dell’Istruzione dell’ANP.

Non attribuisce il fatto di essere disoccupata solo alla mancanza di opportunità in Cisgiordania, ma anche alla mancanza di wasta – una parola araba che fa riferimento al nepotismo o ai rapporti clientelari che agevolano il cammino alle persone per garantirsi un lavoro o altre possibilità.

Amir, un abitante di Betlemme che parla a patto di rimanere anonimo, ha ottenuto la sua laurea in educazione sportiva all’università Al-Quds nel 2008. Dopo anni di difficoltà con uno stipendio basso in Cisgiordania, questo padre di quattro figli ha riconosciuto la sua sconfitta ed ha cercato lavoro nell’edilizia in Israele.

Anche Amir, 32 anni, ogni giorno attraversa il checkpoint 300.

É veramente penoso immaginare di passare anni della propria vita (per avere una formazione), solo per rimanere fermo a un checkpoint ogni mattina per andare al lavoro,” dice a The Electronic Intifada. “Ma queste sono le condizioni della nostra vita qui,” afferma. “Dobbiamo lavorare per dar da mangiare ai nostri figli.” Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese, nel 2018 127.000 palestinesi hanno lavorato in Israele e nelle colonie – 5.000 in più rispetto al 2017.

Più di metà –il 58% – dei palestinesi tra i 18 e i 29 anni che hanno ottenuto un “diploma di scuola secondaria e oltre” nel 2018 era disoccupato, rispetto al 41% di un decennio prima.

Secondo il ministero dell’Istruzione dell’ANP questi numeri sono ancora maggiori tra le donne laureate, il 73% delle quali era disoccupata, nonostante l’aumento del numero di donne laureate nell’ultimo decennio,

In seguito alla firma degli accordi di Oslo nel 1993 il numero di laureati palestinesi è costantemente aumentato. Le statistiche del ministero dell’Istruzione mostrano che nel 2017-18 circa il 94% dei maschi e il 71% delle femmine tra i 20 e i 24 anni si è iscritto [all’università] o ha ottenuto almeno un diploma. Un diploma significa una qualifica ottenuta dopo una scuola superiore ma non a livello universitario.

Nonostante questo incremento nel numero di laureati palestinesi, l’economia palestinese continua ad essere ostacolata dall’occupazione israeliana, lasciando i laureati senza opportunità di lavoro nel proprio campo. La mancanza di possibilità, insieme ai bassi salari in Cisgiordania, incentiva molti laureati palestinesi a cercare lavoro all’estero o in Israele e nelle sue colonie, una fuga di cervelli che secondo il ministro Saidam priva l’economia palestinese dei suoi cittadini più qualificati.

Vogliono che odiamo noi stessi”

Bahaa Salah, 30 anni, ha ottenuto la propria laurea in Giordania ed ha continuato gli studi in Malaysia, conseguendo un master in comunicazioni e pubbliche relazioni. Quando nel 2013 è tornato nella città natale di al-Eizariya, fuori da Gerusalemme, non ha trovato lavoro nel suo campo. Invece ha lavorato come commesso da Sbitany – un negozio di elettronica in Cisgiordania – e poi in una fabbrica di alluminio.

Poi Salah ha passato senza successo oltre un mese a Dubai alla ricerca di un lavoro, prima di trovare una possibilità di impiego come contabile in una fabbrica di spezie in Cisgiordania. Tuttavia lo stipendio, che afferma essere stato di 555 dollari al mese, era troppo basso per avere una vita decente.

Salah ha deciso di cercare lavoro nella zona industriale di Mishor Adumim, che fa parte di Maaleh Adumim, una grande colonia israeliana, dove lavorava già suo cugino. Nel 2014 ha trovato un impiego come addetto alle pulizie in un supermercato.

Quando Salah confronta la sua vita in Malaysia a quella in Cisgiordania, la sua reazione è viscerale: “Immagina di sperimentare la libertà per anni, e poi torni in patria e improvvisamente sei chiuso in gabbia,” afferma.

Le cose per Salah sono ulteriormente peggiorate a partire dall’ondata di violenze del 2015, nota anche come l’Intifada dei lupi solitari o dei coltelli. Prima, dice Salah, nella colonia le guardie di sicurezza israeliane “non erano così violente o cattive.”

Eravamo soliti attraversare il posto di controllo fuori da Mishor Adumim in macchina. Nessuno ci avrebbe fermati. Se hai un permesso di lavoro israeliano devi solo mostrarlo ed entrare in auto,” dice. Ora invece i palestinesi devono ottenere un permesso speciale per far entrare i loro veicoli nella colonia, sostiene.

Tutti devono scendere dall’auto, mettersi in fila e le guardie di sicurezza perquisiscono ogni persona, una alla volta,” dice Salah.

Penso che scelgano le persone più razziste per lavorare in (questo) posto di controllo,” sostiene. “Ti trattano in modo molto violento. Quindi immagina se qualcuno è di malumore ed è già razzista. Ovviamente non ti tratterà bene.”

Salah è diventato sempre più insicuro sul posto di lavoro quando ha notato un numero crescente di clienti israeliani con fucili a tracolla. Parecchi palestinesi sono stati uccisi da israeliani armati dopo veri o presunti attacchi in cui sarebbero rimasti coinvolti. Raramente questi israeliani hanno dovuto subire conseguenze legali.

Ero solito portarmi un cacciavite sul lavoro, ma ho iniziato a temere persino di prenderlo in mano perché loro (gli israeliani) erano spaventati. Quando ti guardavano, era come se stessero vedendo un fantasma o qualcosa del genere,” dice Salah.

Benché il suo permesso gli consenta di entrare sia nelle aree industriali che nella zona residenziale di Maaleh Adumim, le poche volte che il padrone lo manda alla colonia a prendere prodotti per il supermercato Salah si sente confuso e spaventato, perché le due zone hanno norme diverse per i palestinesi.

Secondo Salah ai palestinesi è consentito camminare nelle strade di Mishor Adumim, ma non a Maaleh Adumim. Possono solo entrare come passeggeri di un’auto israeliana.

Ciò significa che se la polizia mi trova a camminare, possono togliermi il permesso e mettermi in carcere – o almeno sulla lista nera e non potrò più ottenere un permesso,” afferma. “Vogliono che tu odi te stesso per il fatto di essere palestinese,” continua Salaha. “Devi attraversare questa linea, non quella. Devi camminare su questa strada, non su quell’altra. Ti fa sentire come uno straniero. Ti fa pensare: ‘Cosa c’è di sbagliato in me?’ Mi fa star male.”

Quindi perché lo sopporta? “Per i soldi.”

Salah dice che nella colonia a volte guadagna più del doppio di quello che potrebbe ottenere nell’economia palestinese. “Lavoro meno ore, meno giorni e sono pagato meglio,” afferma. Nonostante la mancanza di opportunità, tuttavia, Salah rifiuta di credere che i suoi studi siano stati una perdita di tempo.

Per me l’istruzione non riguarda solo avere un lavoro. È lo sviluppo di me stesso e il fatto di imparare di più,” dice. “Sono pur sempre un essere umano, per cui non posso fare a meno di confrontare la mia situazione con quella degli altri.” Per esempio, afferma, è più qualificato a gestire il negozio in cui lavora del suo padrone israeliano, ma sa che, in quanto palestinese con un documento d’identità della Cisgiordania, non potrà mai avere quella posizione.

Persino alcuni israeliani con cui lavoro che sentono la mia storia e sanno del mio livello di studi mi dicono: ‘Se solo tu avessi una carta d’identità diversa la tua vita qui sarebbe veramente buona.’ Ma questo è il mio destino,” sostiene Salah. “Non posso fare niente per cambiarlo.”

Jaclynn Ashly è una giornalista freelance che si occupa di problemi politici e di diritti umani nei territori palestinesi occupati e in Israele.

Alaa Daraghmeh è un giornalista che risiede in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I legislatori del Partito Repubblicano stanno usando gli attacchi recenti contro gli ebrei come scusa per far adottare un curriculum pro-Israele e contro il movimento BDS

Michael Arria

9 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il 9 gennaio il deputato Ted Budd (Repubblicano-Carolina del Nord) ha presentato la risoluzione 782. Il progetto di legge, che è sostenuto dal deputato Lee Zeldin (repubblicano-New York) e David Kustoff (repubblicano, Tennessee), incoraggerebbe “le scuole pubbliche a ideare e insegnare un curriculum sulla storia dell’antisemitismo e dell’Olocausto e sulla storica e vitale importanza dello stato ebraico di Israele.” La proposta cita anche il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) che, si sostiene, sta diffondendo un “antisemitismo dilagante” nei campus dei college.

Il testo della proposta e il comunicato stampa della Camera dei Rappresentanti attribuiscono la motivazione alla base della legge ai recenti attacchi antisemiti (come l’accoltellamento avvenuto in casa del rabbino Chaim Rottenberg a New York).

Dai college al Congresso, dalle celebrazioni per Hanukkah alle sinagoghe, l’antisemitismo è in crescita e si manifesta in molti modi violenti” si legge nella dichiarazione del deputato Zeldin. “Questi violenti attacchi antisemiti sono causati da odio allo stato puro, da una leadership incapace, da una cultura accondiscendente e dalla diffusione dell’antisemitismo. Sono orgoglioso non solo di condannare insieme ai miei colleghi questi attacchi, ma anche di presentare una risoluzione che aiuterà a liberare il nostro paese da questo velenoso antisemitismo. Un ingrediente necessario della ricerca del progresso include il miglioramento dell’istruzione, la consapevolezza e la comprensione dell’antisemitismo, dell’Olocausto e dell’importanza dell’esistenza of Israele.”

La mossa di Budd è già stata applaudita dalle organizzazioni pro-israeliane, inclusa la Zionist Organization of America [Organizzazione sionista d’America] (ZOA).  “In un momento di attacchi senza precedenti contro sinagoghe e altre istituzioni ebraiche, assassini di ebrei innocenti e di prevalenza e promozione di una propaganda orwelliana di falsità anti-Israele e di odio contro gli ebrei nei media, nei campus dei nostri college e persino da parte di figure pubbliche, lo sforzo educativo delineato da Budd  è di importanza vitale e non sarebbe potuto arrivare in un momento migliore” dice Morton Klein, presidente della ZOA.

Budd ha costantemente presentato leggi a favore di Israele sin da quando è entrato a far parte del Congresso nel 2017. L’anno scorso ha presentato una proposta di legge che avrebbe spostato gli aiuti finanziari destinati ai palestinesi verso lo scudo antimissilistico israeliano chiamato “Cupola di ferro” (Iron Dome). Ha anche richiesto la rimozione della deputata Ilhan Omar (Democratica-Minnesota) dal Comitato degli Affari Esteri del Congresso per il suo sostegno al movimento BDS.

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente USA per Mondoweiss

(Traduzione di Mirella Alessio)