Un “attacco” contro i mezzi di comunicazione: il blocco di siti web da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese suscita indignazione

Shatha Hammad – RAMALLAH, Territori palestinesi occupati (Cisgiordania)

Venerdì 25 ottobre 2019 – Middle East Eye

Giornalisti e difensori dei diritti umani affermano che la rivolta popolare libanese ha spinto l’Autorità Nazionale Palestinese a soffocare la libertà d’espressione

In seguito a una richiesta del procuratore generale l’Autorità Nazionale Palestinese ha bloccato 59 siti e pagine palestinesi d’informazione sulle reti sociali, una decisione che, secondo i giornalisti e i militanti della società civile, intende soffocare il dissenso e le critiche nei confronti del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

L’ANP accusa i siti vietati di insultare i suoi responsabili, di pubblicare articoli e foto che mettono a rischio la “sicurezza nazionale” e la “pace civile” palestinesi e che nuocciono all’opinione pubblica palestinese.

Evocando le recenti rivolte popolari in Libano e altrove nella regione, chi critica la decisione afferma che questa repressione nei confronti dei mezzi di comunicazione è un tentativo da parte dell’ANP inteso a garantire che i palestinesi non facciano altrettanto.

Il divieto è stato in primo luogo segnalato da Maan, un’agenzia di stampa palestinese strettamente legata all’ANP.

Prende di mira siti web e pagine sulle reti sociali che criticano l’Autorità Nazionale Palestinese o che sono percepiti come sostenitori di Mohammed Dahlan, il rivale esiliato del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Secondo Maan l’ordinanza del tribunale per bloccare l’accesso ai siti è arrivata lunedì, dopo una richiesta della procura in base all’articolo 39 comma 2 della legge relativa ai reati informatici.

I provider e le imprese di telecomunicazioni palestinesi hanno applicato la decisione fin dal suo annuncio.

Nel 2017 l’ANP è stata oggetto di vivaci critiche quando, con un decreto esecutivo, è stata adottata la legge relativa alla criminalità informatica, i cui critici accusavano il governo con sede in Cisgiordania di cercare di soffocare le voci dell’opposizione e le critiche per le sue scelte sia politiche che economiche, compresa l’attuale cooperazione con Israele in materia di sicurezza.

Lunedì “Samidoun”, la rete palestinese di solidarietà con i prigionieri, ha dichiarato che la decisione di vietare i siti “rivela il timore (da parte dell’ANP) di un’esplosione popolare simile alle rivoluzioni arabe, l’ultima delle quali si sta svolgendo attualmente in Libano.”

I siti vietati sono tutti considerati oppositori dell’ANP, e tra questi figurano “Quds News Network” e “Arab48”.

Per Ahmed Jarrar, direttore di “Quds News”, è la seconda volta che l’ANP blocca l’accesso al sito web del canale informativo. Creata nel 2013, la rete è seguita da più di 7,8 milioni di persone sulle reti sociali.

Jarrar dice a Middle East Eye che il personale di “Quds News” è spesso molestato dalle forze di sicurezza israeliane e dell’ANP, che impediscono in particolare di informare sulle manifestazioni ed effettuano regolarmente dei controlli di sicurezza.

Definisce la decisione di bloccare i siti “un massacro contro i media palestinesi. Ci siamo già rivolti alla giustizia palestinese e ci torneremo, nonostante la nostra sensazione che non si tratti di una decisione giudiziaria. Comunque contatteremo le istituzioni per i diritti dell’uomo e quelle internazionali perché ci sostengano e facciano annullare questa decisione,” insiste Jarrar.

Il blocco è un crimine”

Dall’applicazione del divieto, alcuni giornalisti difensori dei diritti dell’uomo e avvocati palestinesi si sono uniti nella campagna telematica spontanea con lo slogan “Il blocco è un crimine”, per chiedere l’annullamento dell’ordinanza.

Omar Nazzal, membro della segreteria generale del sindacato dei giornalisti palestinesi (PJS), ritiene che la decisione di bloccare i siti sia scioccante e che si tratti di una giornata nera per la stampa palestinese.

Questa decisione è un attentato alla libertà d’opinione ed espressione, come anche al diritto dei cittadini di informarsi attraverso fonti diversificate,” ha dichiarato a MEE.

Inoltre sottolinea che il PJS aveva già messo in guardia contro gli effetti distruttivi della legge sulla criminalità informatica per i media palestinesi: “Avevamo già avvertito che questa legge era una spada di Damocle per i giornalisti.”

A Gaza alcuni giornalisti hanno organizzato una manifestazione davanti al locale ufficio del sindacato dei giornalisti per esprimere il proprio rifiuto del blocco.

Secondo loro questa decisione è legata al timore dell’ANP che i palestinesi possano scendere in piazza – in linea con le “rivoluzioni arabe” che si manifestano in tutta la regione – per protestare contro le loro specifiche difficoltà politiche ed economiche.

Un portavoce del sindacato di Gaza, Ahmad Zoabar, dice a MEE che il blocco dei siti è una decisione politica che serve ad Israele, impedendo ai giornalisti palestinesi di mettere in evidenza la corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

L’ Autorità Nazionale Palestinese teme che la stampa ne denunci la corruzione, cosa che potrebbe portare a un’esplosione popolare simile a quella che sta avvenendo il Libano,” ritiene.

Questo mese migliaia di manifestanti libanesi sono scesi in strada per protestare contro la corruzione dello Stato e la disastrosa situazione economica del Paese. Inoltre chiedono la cacciata del governo libanese e dei membri della classe dirigente.

Una legge adottata in segreto

La legge riguardante la criminalità informatica è stata adottata per la prima volta nel 2017, “in segreto” e senza prendere in considerazione i contributi forniti all’ANP dalle istituzioni della società civile palestinese, spiega Issam Abdeen, consigliere politico del gruppo palestinese di difesa dei diritti umani “Al-Haq”.

Dopo una generalizzata reazione di rifiuto, è stata modificata e adottata di nuovo l’anno dopo.

Ciononostante questi “emendamenti sono stati insufficienti”, dichiara Abdeen a Middle East Eye. Secondo Abdeen, l’articolo 39 della legge è particolarmente problematico, in quanto “consente ai servizi di sicurezza di presentare al procuratore generale una richiesta di bloccare i siti web, che in seguito viene inviata al tribunale, il cui unico compito è di esaminarla e prendere una decisione entro 24 ore.”

I siti web e i link possono essere bloccati se le autorità decidono che essi “potrebbero minacciare la sicurezza nazionale, la pace civile, l’ordine pubblico o la moralità pubblica,” stabilisce l’articolo.

Al-Haq” e altre organizzazioni palestinesi di difesa dei diritti dell’uomo hanno chiesto che l’articolo 39 e altri articoli della legge vengano modificati, ma Abdeen sostiene che le loro richieste sono state respinte. Ciò “ci ha spinti a congelare la nostra adesione al comitato formato per modificare la legge,” precisa.

Questa legge è una delle più gravi e più pericolose per la libertà d’opinione e d’espressione, per le libertà dei mezzi di informazione e le libertà digitali, così come per l’accesso alle informazioni,”

Mohammed al-Hajjar ha contribuito a questo articolo da Gaza.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Quando dare del pane a Gaza costituisce un crimine

Yvonne Ridley

25 ottobre 2019 – Middle East Monitor

L’inviato del Qatar Mohammed Al-Emadi è arrivato a Gaza lo scorso weekend con 180 milioni di dollari da distribuire ai palestinesi bisognosi. Nel caso di Gaza questo significa potenzialmente l’intera popolazione, visto che essa si dibatte da una crisi umanitaria all’altra a causa del feroce assedio imposto da Israele da un lato e dall’Egitto dall’altro.

Il denaro del Qatar è disperatamente necessario per pagare il combustibile per l’elettricità, i salari e gli aiuti economici alle famiglie palestinesi che lottano per vivere sotto l’assedio. La speciale consegna non è una sorpresa per Israele, poiché già in maggio il Qatar ha annunciato che avrebbe inviato 480 milioni di dollari alla Cisgiordania occupata e a Gaza per “aiutare il popolo palestinese fratello a far fronte ai propri bisogni primari.”

Il denaro è entrato con l’appoggio (senza dubbio riluttante) di Tel Aviv, che con la mediazione dell’Egitto ha accettato una tregua “ufficiosa” con Hamas, che sostanzialmente governa ancora la Striscia di Gaza. Il denaro sarà utilizzato per pagare i dipendenti pubblici dell’Autorità Nazionale Palestinese ed ha permesso all’ONU di incrementare gli aiuti.

Comunque, il fatto stesso che questo sta accadendo ha un enorme significato e dovrebbe ora essere usato come prova per mettere fine al dramma kafkiano che ha visto cinque americani palestinesi incarcerati in quello che è stato descritto come uno dei peggiori casi di errore giudiziario negli Stati Uniti. Il dramma è iniziato nel 2004 quando l’FBI, insieme al Dipartimento del Tesoro statunitense e ad una serie di diverse forze di polizia del Texas e della California, ha arrestato dei funzionari della ‘Holy Land Foundation’ (Fondazione Terra Santa) nel corso di ispezioni a sorpresa. I “cinque HLF” erano –e sono ancora – Shukri Abu Baker, Mohammad El-Mezain, Ghassan Elashi, Mufid Abdulqader e Abdulrahman Odeh, che nel 1990 avevano fondato l’associazione musulmana di beneficienza.

I cinque sono stati accusati di aver fornito supporto materiale a Hamas e nel primo processo la giuria non ha raggiunto un verdetto. Il nuovo processo presso il tribunale federale di Dallas è iniziato nel settembre 2008 ed ha incluso una testimonianza senza precedenti fornita segretamente da una spia israeliana nota semplicemente come “Avi”. Gli avvocati della difesa non sono stati in grado di mettere in discussione il passato e le credenziali di Avi.

Il giudice Jorge Solis ha detto alla giuria che era consentito soppesare la credibilità del soggetto alla luce del suo anonimato, ma ha respinto il diritto dell’imputato, in base al Sesto Emendamento, di “confrontarsi con i testimoni contro di lui.” Fino ad allora niente nella costituzione americana aveva permesso una condanna in base ad accuse anonime, ma il tribunale è andato avanti ed ha condannato tutti i cinque uomini.

Una delle 108 accuse contenute nella condanna affermava che la ‘Holy Land Foundation’ aveva favorito gli attacchi suicidi fornendo assistenza agli orfani degli attentatori. È poi risultato che, dei 200 attentatori suicidi che hanno agito in Palestina in quel periodo, nessuno aveva dei figli. Infatti – ed in stridente contrasto – in realtà la HLF ha fornito assistenza finanziaria ai figli di persone messe a morte da Hamas per collaborazionismo con Israele.

E’ anche emerso che le ispezioni a sorpresa e l’arresto dei cinque sono stati la conseguenza di supposizioni fatte dallo Stato di Israele che l’associazione fosse il terminale di un’operazione illecita di riciclaggio di denaro, che dirottava finanziamenti ad Hamas (dichiarata organizzazione terroristica dagli USA sotto la presidenza di Bill Clinton) attraverso i Comitati Zakat [fondati in Kuwait nel 1981 per raccogliere denaro in base alla legge islamica, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

Simili illazioni hanno portato gli USA a definire nel 2003 la ‘British Charity Interpal’ un “ente terrorista globale”, senza che uno straccio di prova sia mai stato prodotto dal governo americano (o israeliano). Quella definizione è ancora in vigore oggi, nonostante Interpal operi legalmente in Inghilterra e fornisca tuttora aiuti ai palestinesi in difficoltà.

Nel corso del secondo processo contro HLF gli imputati sono stati accusati di aver fornito “supporto materiale” a Hamas e, nel 2009, sono stati condannati dai 15 ai 65 anni di carcere. Il processo è stato presentato come una farsa in un duro libro pubblicato l’anno scorso da Mike Peled, figlio di un famoso generale israeliano e fervente anti-sionista.

Peled ha intervistato le persone incriminate e i loro familiari e si è anche recato nei loro luoghi di nascita in Cisgiordania. Il suo resoconto dettagliato del caso della ‘Holy Land Foundation’ prova senza ombra di dubbio che si è trattato di un caso politico messo in piedi dalle lobby sioniste e da Israele per compromettere, intimidire e criminalizzare chiunque lavori o doni denaro alle associazioni di beneficienza che assistono i palestinesi bisognosi.

La questione è semplice: è impossibile distribuire denaro nella Palestina occupata senza chiedere il permesso delle autorità al potere. Nella Cisgiordania occupata i soldi confluiscono nelle associazioni di beneficienza registrate non solo presso l’Autorità Nazionale Palestinese, ma anche in Israele e in alcuni casi presso il governo giordano. I trasferimenti monetari devono essere certificati dal sistema bancario israeliano e chiunque si presenti di persona a nome di un’associazione di beneficienza deve ottenere l’autorizzazione dalle stesse autorità per entrare nel Paese. Nel caso della Striscia di Gaza questo significa il governo democraticamente eletto in mano a Hamas e tutte le associazioni di beneficienza devono essere registrate presso l’ANP e gli israeliani. Con questa procedura i soldi non passano di mano, ma le organizzazioni assistenziali e le associazioni di beneficienza operano su autorizzazione delle autorità.

Ora che sappiamo che il Qatar ha spedito un inviato con 180 milioni di dollari in contanti a Gaza con il permesso di Tel Aviv, dovrebbe esserci spazio per un ricorso da parte dei cinque di ‘Holy land Foundation’, in quanto ciò demolisce l’insensatezza dell’onnipresente argomentazione del ”supporto materiale”.

Il sistema giudiziario statunitense dovrebbe vergognarsi del fatto che questi uomini continuino a languire in carcere per non aver svolto altro che un compito umanitario. I veri criminali non sono quelli che sfamano i bambini palestinesi, ma quelli dell’amministrazione Trump che preferirebbero vedere i bambini di Gaza morire di fame piuttosto che consentire loro una sembianza di vita normale in quelle che sono circostanze del tutto anormali.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un giudice multa i promotori di una petizione contro la vendita di armi di Israele alle Filippine

Orly Noy

17 ottobre 2019 – +972

Un giudice condanna i promotori di un ricorso, che hanno fatto causa al governo nel tentativo di porre fine all’esportazione di armi nelle Filippine, a pagare una multa, mandando un chiaro messaggio a quanti protestano contro la complicità di Israele con alcuni dei regimi più repressivi al mondo

Giovedì la giudice Gilia Ravid, del tribunale distrettuale di Tel Aviv, ha emesso una sentenza su un ricorso presentato dall’avvocato per i diritti umani Eitay Mack per conto di più di 50 attivisti per i diritti umani che chiedono che Israele smetta di esportare armi alle Filippine. Come avviene di solito nel caso di ricorsi di questo genere, l’udienza si è tenuta a porte chiuse e la sentenza è stata tenuta segreta. Tuttavia, con un’iniziativa inusuale, il giudice ha imposto ai ricorrenti il pagamento di 10.000 shekel (circa 2.500 euro) per le spese legali – l’unica parte della sentenza di cui è stata autorizzata la pubblicazione. 

In risposta alla richiesta dello Stato in questo senso, l’udienza si è tenuta a porte chiuse “per evitare danni alla sicurezza dello Stato e alle relazioni internazionali.” Mentre questa è la norma per simili processi, non si può fare a meno di chiedersi la ragione che ci sta dietro e la reale efficacia di una richiesta simile, dato che la maggior parte delle prove presentate dai ricorrenti era già di dominio pubblico ed è stata riferita sia dai media israeliani che internazionali.

Il ricorso era basato su comunicati stampa ufficiali delle autorità filippine che elencano in dettaglio le forniture di armi da Israele. Le prove includono post sulla pagina Facebook della polizia e della guardia costiera filippine e di un’industria bellica che agevola le vendite da Israele, oltre a informazioni ufficiali pubblicate dalla polizia filippina, dal ministero della Difesa e da fonti di informazione ufficiali.

Nel settembre 2019, durante la sua visita in Israele, il presidente filippino Rodrigo Duderte ha ammesso di aver ordinato alle forze di sicurezza di acquistare armi solo da Israele, dato che, a differenza di Stati Uniti, Germania e persino Cina, Israele non pone nessuna restrizione sul suo traffico d’armi. Ha fatto questa dichiarazione durante una conferenza stampa a Gerusalemme, davanti al presidente israeliano Reuven Rivlin e a molti leader mondiali.

Non è neppure un segreto come il governo di Duderte utilizzi queste armi. Secondo i gruppi per i diritti umani, da quando nel giugno 2016 Duderte ha preso il potere, la polizia e le milizie filippine che con essa collaborano hanno ucciso senza un regolare processo almeno 12.000 persone come parte della “lotta alla droga” del regime.

Se tutte le informazioni del ricorso sono note e disponibili all’opinione pubblica, perché l’udienza si è svolta a porte chiuse? E perché non è stato reso pubblico il verdetto del giudice? Come sempre la parola magica è “sicurezza dello Stato”, sufficiente a rendere i giudici acquiescenti nei confronti della volontà dei servizi di sicurezza e del governo. L’ufficio del pubblico ministero del distretto, che rappresenta lo Stato, ha argomentato a favore del silenzio stampa affermando che, dato che lo Stato non può rispondere pubblicamente all’azione legale, il suo silenzio potrebbe essere mal interpretato dai media.

Ciò presuppone che i mezzi di comunicazione israeliani abbiano un qualche interesse in questo tipo di denunce. Storicamente i media locali non hanno mai sfidato la pesante censura dello Stato su informazioni riguardanti le vendite di armi ad alcuni dei regimi più repressivi al mondo, nonostante il fatto che i ricorsi siano stati presentati in “tempo reale”, e che i Paesi che comprano le armi stiano commettendo gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e contro l’umanità.

Altrettanto irragionevole della decisione del tribunale di accogliere la censura sul caso è la decisione della giudice Ravid di imporre un’ammenda ai promotori. Ciò manda un chiaro e sconfortante messaggio all’opinione pubblica: “Siete stati avvertiti: protestare ha un prezzo.”

Questo tipo di ricorsi viene presentato con un’intrinseca mancanza di equilibrio dei poteri, perché lo Stato presenta i suoi documenti al tribunale senza notificarli alla parte avversa,” ha detto Mack. “Il tribunale ora è andato oltre, punendo i cittadini che hanno esercitato il proprio dovere civico cercando di impedire la complicità del loro Paese in crimini contro l’umanità,” ha aggiunto.

Secondo Mack i promotori hanno quasi finito di raccogliere di fondi necessari per coprire le spese legali imposte dal tribunale. “Ho avuto l’appoggio di ogni gruppo sociale, veramente da tutti, compresi personaggi di destra che stanno facendo una lotta per proprio conto su questo problema,” ha affermato.

C’è qualcosa di anacronistico riguardo alle ripetute richieste da parte dei ministeri degli Esteri e della Difesa dell’imposizione del silenzio stampa. L’opinione pubblica percepisce questo comportamento come rivoltante. I ministeri possono anche vincere la battaglia, però stanno perdendo la guerra. Nessun divieto può cancellare le orribili immagini che arrivano dalle Filippine,” ha aggiunto Mack.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I costruttori dei muri dell’apartheid israeliana speculano sulla militarizzazione dei confini statunitensi

Nora Barrows-Friedman

8 ottobre 2019 – Electronic Intifada

Una grande azienda di armamenti israeliana è stata scelta come uno delle principali beneficiari della speculazione sulla militarizzazione dei confini statunitensi.

Secondo la ricerca del giornalista Todd Miller, Elbit Systems ha ottenuto dal governo degli Stati Uniti contratti per la protezione della frontiera per un valore di 187 milioni di dollari.

Il più importante, assegnato durante l’amministrazione Obama, è quello relativo alla costruzione di più di 50 torri di sorveglianza a ridosso del confine tra Stati Uniti e Messico per la Customs and Border Protection [Agenzia delle Dogane e della Frontiera] (CBP) del governo degli Stati Uniti.

Dieci di quelle torri si troveranno su terreni appartenenti alla Nazione Indigena dei Tohono O’odham in Arizona.

Un’ analisi di Bloomberg del 2014 ha previsto che i profitti iniziali di Elbit potrebbero moltiplicarsi se il Congresso autorizzasse maggiori stanziamenti per la militarizzazione del confine.

Il rapporto di Miller – “Più di un muro: speculazione aziendale e militarizzazione dei confini statunitensi” – è stato recentemente pubblicato dal Transnational Institute [Istituto Transnazionale], un gruppo di ricerca sui diritti umani, in collaborazione con No More Deaths [Non Più Morti], un’organizzazione umanitaria che protegge i migranti lungo il confine meridionale degli Stati Uniti.

Il rapporto traccia un profilo delle 14 principali società che traggono profitto dalla militarizzazione delle frontiere statunitensi, inclusa Elbit.

Nel 2004, Elbit ha vinto un contratto con il governo degli Stati Uniti per la fornitura di droni Hermes da utilizzare lungo il confine.

L’organizzazione benefica britannica War on Want [Lotta contro la Povertà n.d.tr.] nel 2013 ha dichiarato che Israele “ha ‘testato sul campo’, nel corso degli attacchi a Gaza, quei droni che hanno causato la morte di molti palestinesi, compresi bambini”.

In particolare, afferma il nuovo rapporto, Elbit “vende un’esperienza maturata attraverso la costruzione dei muri in Cisgiordania e a Gaza”.

Da quando nel 2002 Israele ha iniziato a costruire il suo muro intorno a Gerusalemme e altrove, all’interno della Cisgiordania occupata, Elbit e le sue filiali hanno incassato contratti per l’installazione di tecnologie di sorveglianza elettronica “progettate per mantenere operativi i centri di comando e controllo [dell’esercito israeliano]”.

Il muro della Cisgiordania è illegale ai sensi del diritto internazionale e, sulla base di una sentenza del 2004 della Corte di giustizia internazionale, deve essere smantellato.

Nel 2013 Elbit ha installato sistemi simili nelle alture del Golan siriane occupate, grazie ad un contratto del valore di 55 milioni di euro.

Il rapporto afferma che due anni dopo Elbit ha iniziato a sviluppare una “tecnologia di rilevazione dei tunnel” da utilizzare attorno alla Striscia di Gaza assediata. Tale tecnologia sarebbe diventata parte di un muro sotterraneo profondo circa 40 metri che Israele ha iniziato a costruire nel 2017.

In occasione della gara per il contratto sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico, Elbit ha presentato come caratteristica auto-promozionale l’impegno ultra-decennale nel “proteggere i confini più difficili del mondo” e il possesso di una “comprovata esperienza”.

Una manna

Insieme a Elbit, società del settore bellico tra cui Raytheon, Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, G4S, IBM e Northrop Grumman hanno incassato quello che il rapporto descrive come una “manna [proveniente dalla politica] di protezione delle frontiere”.

Tra il 2006 e il 2018, i contratti per la militarizzazione delle frontiere statunitensi con tali società hanno totalizzato almeno 80,5 miliardi di dollari.

Ma, secondo le stime del rapporto, questa somma è “certamente inferiore a quella reale” poiché le agenzie che emettono i contratti non sono state sempre trasparenti.

Secondo il rapporto, gli stanziamenti annuali per la militarizzazione delle frontiere statunitensi sono più che raddoppiati negli ultimi 15 anni e sono aumentati di oltre il 6.000% dal 1980.

Alcune società incaricate dalla CBP hanno commesso significative violazioni etiche.

Ma, afferma il rapporto, i ripetuti scandali che coinvolgono alcune delle più grandi società [impegnate nel campo] della sicurezza delle frontiere “hanno fatto poco per ridurre il flusso dei guadagni”.

G4S, la più grande compagnia al mondo nell’ambito della sicurezza e importante appaltatore statunitense, ha dovuto affrontare procedimenti legali per abuso e morte di detenuti negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

Gli attivisti hanno esercitato con successo pressioni su istituzioni e governi perché interrompessero i contratti con G4S a causa delle violazioni dei diritti umani.

Questi abusi includono il ruolo nelle prigioni israeliane in cui i palestinesi vengono regolarmente torturati.

Lobbismo verso i parlamentari

Le aziende hanno fatto pressioni su esponenti politici statunitensi e hanno contribuito alle [loro] campagne elettorali nel tentativo di espandere i contratti con la CBP.

Elbit, ad esempio, ha finanziato le deputate repubblicane del Congresso Martha McSally dell’Arizona e Kay Granger del Texas.

McSally ha usato la retorica per demonizzare gli immigrati o i richiedenti asilo.

È una convinta sostenitrice delle brutali politiche sulle frontiere dell’amministrazione Trump.

E Granger è un membro di rango del Comitato per gli stanziamenti della Camera che assegna i finanziamenti per la militarizzazione delle frontiere.

Il rapporto afferma che è tempo di rivelare come le aziende che traggono profitto dalla crudeltà e dalla militarizzazione alle frontiere influenzino i parlamentari.

“La costante spinta verso [la costruzione] di ulteriori barriere di confine, verso maggiori tecnologie, più incarcerazioni, maggiore criminalizzazione, fa parte – sostiene – di un modello aziendale che aderisce alle dinamiche imprenditoriali legate alla dottrina della crescita”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Artista israeliana in Germania messa in guardia perché non appoggi il BDS

Tamara Nassar

4 ottobre 2019 – Electronic Intifada

I responsabili di un locale in Germania hanno comunicato a un’artista tedesco-israeliana che il suo imminente concerto a Monaco sarà annullato se lei manifesta il proprio sostegno al movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi.

Il centro culturale Gasteig ha mandato una lettera a Nirit Sommerfeld, una discendente di sopravvissuti all’Olocausto, in cui esige che, durante il concerto del 5 ottobre, non faccia commenti antisemiti o di sostegno al BDS, mettendo insieme le due cose.

Se risultasse che il testo riportato qui sopra verrà menzionato durante l’evento, saremo costretti ad annullarlo,” si sostiene nella lettera.

La musicista klezmer [musica tipica degli ebrei dell’Europa orientale, ndtr.] ha risposto garantendo al centro culturale che lei dal palco non ha mai parlato di BDS, ma è comunque indignata per il fatto che abbiano confuso l’antisemitismo con il sostegno ai diritti dei palestinesi.

Per anni ho usato l’arte per promuovere la giustizia in Israele e i diritti umani per i palestinesi. Basta questo per essere sospettata di antisemitismo?” si chiede.

Vi ricordo che sono una donna ebrea nata in Israele, figlia di un sopravvissuto all’Olocausto e nipote di un nonno assassinato dagli antisemiti nel campo di concentramento di Sachsenhausen.”

Sommerfeld ha scritto spesso dei tweet a sostegno dei diritti dei palestinesi e ha invitato gli artisti a rispettare il boicottaggio culturale di Israele.

Il movimento BDS si oppone con chiarezza a tutte le forme di intolleranza, inclusi l’antisemitismo e l’islamofobia.

Atmosfera maccartista

La lettera del centro culturale Gasteig rientra nel contesto della decisione presa dal comune di Monaco nel 2017 di impedire ai sostenitori del BDS di utilizzare spazi pubblici.

Nella sua risposta Sommerfeld evidenzia che lei è stata una dei 240 accademici ebrei e israeliani che hanno firmato una lettera respingendo la recente mozione della camera bassa del parlamento tedesco che equiparava il BDS e l’antisemitismo.

Sebbene la mozione del Bundestag non sia vincolante, essa fomenta l’atmosfera maccartista anti-palestinese incoraggiata dai media e dalle élite tedeschi.

Dopo la mozione e a causa del loro sostegno ai diritti per i palestinesi, molte figure del mondo culturale sono state perseguitate o hanno subito la cancellazione di eventi in Germania.

Il mese scorso, la città di Dortmund, nel nord-ovest della Germania, ha revocato un premio alla scrittrice Kamila Shamsie a causa del suo sostegno al BDS.

La giuria del premio Nelly Sachs ha annunciato la sua decisione dopo che blogger del sito anti-palestinese Ruhrbarone hanno accusato lei di antisemitismo e la giuria di promuovere “la distruzione di Israele.”

Shamsie ha risposto confermando il suo sostegno al BDS.

Mi indigna sapere che il movimento BDS (ispirato al boicottaggio del Sud Africa) e che conduce delle campagne contro il governo di Israele per le sue azioni discriminatorie e brutali contro i palestinesi, sia considerato ingiusto e da deplorare.”

Sommerfeld è una fra decine di artisti, scrittori e musicisti che hanno espresso la loro solidarietà a Shamsie.

Revoca dei premi

Lunedì anche la città di Aachen, nella Germania occidentale, ha revocato il premio all’artista libanese-americano Walid Raad a causa del suo sostegno al BDS.

Marcel Philipp, il sindaco di Aachen, in precedenza aveva affermato che Raad è “un sostenitore del movimento BDS che ha partecipato, in vari modi, al boicottaggio culturale di Israele.”

Philipp ha definito il movimento” antisemita”.

Il museo che gestisce l’Aachen Art Prize ha tuttavia annunciato che comunque concederà a Raad un premio di 10.000 dollari.

Il Ludwig Forum for International Art ha comunicato che garantirà i fondi indipendentemente dal Comune.

Il museo ha manifestato il suo disaccordo con la decisione del Comune non trovando in Raad alcuna traccia di antisemitismo.

Secondo la rivista ARTnews, il sostegno pubblico di Raad al BDS sembra consistere nell’aver firmato nel 2014 una lettera aperta in cui si chiedeva agli artisti di ritirarsi da una mostra in un’università israeliana.

Phillip ha detto che quando Raad è stato interpellato a proposito del BDS si è dimostrato “vago” e non ha “preso le distanze” dal movimento.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Israele uccide un cittadino di Gaza durante le proteste

Maureen Clare Murphy

4 ottobre 2019 – Electronic Intifada

Venerdì, nel corso della 77a settimana delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, lungo il confine orientale di Gaza le forze di occupazione israeliane hanno ucciso un palestinese ­­­­

Alaa Nizar Ayyash Hamdan, 28 anni, colpito al petto con pallottole vere nella zona nord di Gaza, è il duecentotreesimo palestinese ucciso durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Venerdì il gruppo per i diritti umani Al Mezan ha dichiarato che nel corso delle proteste di quella giornata le forze israeliane hanno ferito 29 palestinesi con pallottole vere e ne hanno colpiti direttamente altri 16 con candelotti lacrimogeni.

Secondo Al Mezan, un medico volontario è stato colpito alla testa con un candelotto lacrimogeno mentre portava via due manifestanti feriti.

Il mese scorso, durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, sono stati uccisi tre palestinesi, tra cui due minorenni.

L’esercito israeliano ha sostenuto che la scorsa settimana, quando è stato ucciso Saher Awadallah Jeer Othman, 20 anni, non avrebbe utilizzato contro i manifestanti pallottole vere.

L’esercito continua a sparare e uccidere i manifestanti nonostante alcuni mesi fa abbia modificato, come riportato lo scorso mese dai media israeliani, le sue “regole di ingaggio”.

Secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, invece di fare affidamento sui cecchini per dissuadere i manifestanti dall’avvicinarsi alla barriera di confine tra Gaza e Israele, ai comandanti israeliani verrebbe ora “ordinato di schierare le forze all’interno di veicoli blindati a poche decine di metri dalla barriera”.

“Ciò ha comportato un numero notevolmente inferiore di vittime – ha aggiunto Haaretz – poiché i cecchini devono sparare con minore frequenza”.

Da un’indagine indipendente delle Nazioni Unite sull’uso da parte di Israele della forza contro la Grande Marcia del Ritorno, è emerso che “l’uso di pallottole vere da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti è stato illegale”.

Israele trasferirà il gettito fiscale

Sempre venerdì, l’Autorità Nazionale Palestinese ha annunciato che Israele trasferirà una parte delle entrate fiscali che ha rifiutato di versare [ad iniziare] da febbraio.

Quel mese Israele ha dichiarato che avrebbe ridotto i trasferimenti delle entrate fiscali all’ANP di circa 127 milioni di euro, l’importo destinato ai palestinesi incarcerati da Israele e alle loro famiglie. L’Autorità Nazionale Palestinese ha rifiutato di accettare trasferimenti inferiori all’intera cifra raccolta.

Una legge approvata l’anno scorso consente a Israele di detrarre i pagamenti effettuati ai prigionieri palestinesi e alle loro famiglie dalle entrate fiscali dell’Autorità Nazionale Palestinese, di cui Israele possiede il controllo.

La situazione di stallo dei trasferimenti delle tasse ha favorito una “grave crisi di liquidità” dell’ANP, la cui soluzione ha avuto la massima priorità nel corso di una conferenza internazionale di donatori sponsorizzata dall’ONU e tenutasi la scorsa settimana.

Ad agosto è stato effettuato un primo trasferimento delle entrate fiscali congelate. In tale circostanza, secondo quanto riferito da Haaretz, l’ANP ha dichiarato che Israele avrebbe “accettato di esentare l’ANP dall’accisa che applica per il carburante [fornito da Israele] … e di applicare retroattivamente questa esenzione [agli] ultimi sette mesi”.

Israele continuerà a trattenere i fondi equivalenti a quanto l’ANP versa alle famiglie dei prigionieri. Pertanto, il problema alla base della crisi che dura da mesi resta irrisolto.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani Al Mezan il trattenimento da parte di Israele delle entrate fiscali palestinesi è una violazione degli obblighi di Israele ai sensi dei contenuti del Protocollo di Parigi, stabilito a metà degli anni ’90 come parte degli accordi di Oslo .

Come ha affermato B’Tselem, un’altra organizzazione per i diritti umani [israeliana], in base al Protocollo di Parigi Israele riscuote le tasse per conto dell’Autorità Naizonale Palestinese, dandole il “controllo esclusivo sulle frontiere esterne e sulla riscossione delle tasse sull’importazione e del VAT [IVA, ndtr.]”.

Il quadro dell’unione doganale del Protocollo di Parigi è stato adottato perché, aggiunge B’Tselem, Israele “non voleva stabilire una frontiera [in materia] economica con l’Autorità Nazionale Palestinese, un provvedimento che avrebbe avuto un chiaro sentore di sovranità”.

L’Autorità Nazionale Palestinese valuta che l’economia della Cisgiordania e di Gaza subisca una perdita di almeno 320 milioni di euro all’anno a causa del modo in cui Israele mette in pratica il Protocollo di Parigi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La comunità internazionale è complice delle torture di Israele ai palestinesi

Ramona Wadi

2 ottobre 2019 – Middle East Monitor

Le torture subite dal prigioniero palestinese Samer Arabeed da parte degli agenti israeliani dello Shin Bet [servizi segreti interni, ndtr.] che lo interrogavano hanno dimostrato, ancora una volta, che il divieto di tale trattamento, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione ONU contro la Tortura, è poco più di una serie di punti di riferimento utilizzati dalle associazioni per i diritti umani come monito per i torturatori.

Arabeed è stato trasferito all’ospedale Hadassah in seguito a pesanti torture dopo essere stato arrestato per la sua presunta partecipazione in agosto ad un attacco con una bomba. Una dichiarazione dell’associazione di sostegno ai detenuti e per i diritti umani, Addameer, ha riferito che Israele ha ammesso di aver utilizzato “metodi estremi ed eccezionali durante gli interrogatori, che in realtà equivalgono a torture”.

Il ministero di Giustizia israeliano ha annunciato un’indagine per decidere se si debbano avviare procedimenti penali contro i funzionari dello Shin Bet. Le torture subite da Arabeed gli hanno provocato rottura delle costole e perdita di conoscenza. Ora la sua situazione lo mette in pericolo di vita e dipendente da un macchinario di supporto vitale. Il suo trasferimento dal carcere all’ospedale è stato comunicato in ritardo alla sua famiglia e al suo avvocato.

Lo scorso luglio il prigioniero palestinese Nasser Taqatqa è morto dopo essere stato torturato e interrogato dallo Shin Bet. Le testimonianze di ex prigionieri palestinesi confermano il fatto che negli interrogatori israeliani si utilizza sistematicamente la tortura. Nel 2013 Arafat Jaradat morì sotto tortura mentre era detenuto nel carcere di Megiddo.

Nel novembre 2018 la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza favorevole alla tortura nel caso che il detenuto sia membro di “una organizzazione terroristica individuata come tale”, sia coinvolto nella resistenza armata o quando non esista altro mezzo per ottenere informazioni. Se Israele ha stabilito questa immunità, come si può sperare che il continuo riferimento alle leggi e alle convenzioni internazionali sia sufficiente per impedire la tortura dei prigionieri palestinesi?

Definendo i dettagli sulla proibizione della tortura, la comunità internazionale evitò la responsabilizzazione, allo scopo di garantire i diritti umani agli autori e un labirinto di vicoli ciechi senza uscita per le vittime. Tra questi due estremi, le organizzazioni per i diritti umani si sono fatte carico di difendere i principi al posto dei governi, ma per il loro limitato potere o, in alcuni casi, per i loro programmi parziali, non hanno potuto realizzare nessun sistema di giustizia praticabile.

Israele è assolutamente consapevole di questa discrasia e sfrutta la mancanza di responsabilizzazione per falsificare ciò che costituisce un metodo accettabile di tattiche di interrogatorio. La totale marginalizzazione dei palestinesi da parte della comunità internazionale relativamente ai loro diritti ha facilitato la costante normalizzazione della tortura da parte di Israele, in totale violazione del diritto internazionale, in assenza di una condanna collettiva.

Il risultato è una permanente separazione tra le informazioni diffuse e il tipo di azione legale che fornirebbe ai prigionieri palestinesi una possibilità di giustizia. Le organizzazioni per i diritti umani come Addameer si vedono costrette ad una collaborazione involontaria con la diplomazia, girando continuamente a vuoto per svegliare le coscienze, che è ciò che la comunità internazionale voleva in primo luogo quando non ha potuto mantenere l’assunzione di responsabilità.

Chiedere la liberazione di Arabeed non significherà la fine della feroce violenza di Israele. E’ una mossa preventiva rispetto a nuove torture, ma dietro a questa storia ve ne sono altre che sono sfuggite alla scarsa attenzione dei media che sbatte i nomi delle vittime in prima pagina, anche se per breve tempo. Addameer da sola non può ottenere giustizia per i prigionieri palestinesi. Come minimo, dovrebbe esserci un’attenzione globale collettiva per mostrare la complicità della comunità internazionale nella tortura e la sua agenda ingannevole sui diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramona Wadi

Fa parte della redazione di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)

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Palestinese ricoverato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato interrogato dagli israeliani

Shatha Hammad da Ramallah, Cisgiordania occupata

29 settembre 2019 – Middle East Eye

Gli avvocati e la famiglia di Samir Arbeed accusano lo Shin Bet israeliano di torture in seguito a percosse e a metodi di interrogatorio “eccezionali”

Gli avvocati e la famiglia dicono che un detenuto palestinese è stato ricoverato in ospedale e si trova in condizioni critiche dopo essere stato torturato e duramente percosso durante l’arresto e l’interrogatorio.

Secondo i suoi legali Samir Arbeed, di 44 anni, accusato di essere responsabile di un attacco nella Cisgiordania occupata, era in buone condizioni di salute prima di essere preso in custodia da Israele mercoledì. Tuttavia, dopo essere stato sottoposto a un interrogatorio da parte del servizio di intelligence interno di Israele Shin Bet è stato trasferito all’ospitale Hadassah di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno accusato Arbeed di essere la mente della cellula che in agosto ha effettuato un attentato dinamitardo, che ha ucciso una diciassettenne israeliana, nei pressi della colonia illegale di Dolev, nella Cisgiordania occupata a nord est di Ramallah.

Sabato lo Shin Bet ha affermato che i membri della cellula fanno parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e che tutti e quattro sono stati arrestati. Lo Shin Bet ha anche sostenuto che la cellula stava pianificando un altro attentato.

Secondo mezzi di informazione israeliani un giudice ha concesso al servizio di sicurezza il permesso di “utilizzare mezzi eccezionali per interrogare” Arbeed.

Noura Miselmani, la moglie di Arbeed, ha detto a Middle East Eye di aver visto forze speciali israeliane colpire suo marito mentre veniva arrestato mercoledì di fronte al suo posto di lavoro nella città di al-Bireh. Afferma che giovedì, quando ha detto al giudice di essere sofferente e non in condizioni di mangiare per i colpi subiti, Arbeed è comparso davanti al tribunale con evidenti lividi.

Nonostante le sue difficili condizioni, il giudice ha adottato la decisione di consentire un interrogatorio militare e l’uso della forza per ricavare informazioni da lui,” ha detto.

Condizioni critiche

Sabato le autorità israeliane hanno detto a un avvocato di “Addameer”, un gruppo per i diritti dei detenuti palestinesi, che Arbeed era stato trasferito in ospedale.

Tuttavia Miselmani sostiene che in realtà Arbeed era stato ricoverato da venerdì.

Prima di essere arrestato era in buone condizioni. Mio marito non aveva nessuna malattia e la sua salute è peggiorata a causa delle torture subite,” afferma.

Sabato lo Shin Bet ha rilasciato una dichiarazione in cui dice: “Durante l’interrogatorio del capo della cellula terroristica responsabile dell’attacco nei pressi della sorgente Ein Buvin che ha ucciso Rina Shnerb, chi lo ha interrogato ha rilevato che egli non si sentiva bene. In base alla procedura è stato trasferito all’ospedale per esami e cure mediche. Non può essere fornito nessun altro particolare.”

Gli avvocati di Arbeed hanno detto che a loro è stato concesso di vederlo solo alle 22,30 di domenica, quando hanno scoperto che era arrivato in stato di incoscienza, con fratture alla cassa toracica, lividi, segni di percosse su tutto il corpo e grave insufficienza renale.

La sua famiglia afferma che a loro è stato impedito di vederlo e che lo Shin Bet ha rifiutato di fornire ogni ulteriore informazione sul caso.

Miselmani afferma che solo sabato lo Shin Bet ha emanato un comunicato nel tentativo di evitare ogni responsabilità legale nel caso Arbeed fosse morto.

Chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani di intervenire rapidamente per salvare mio marito Samir e di contribuire a garantire il suo immediato rilascio,” afferma.

Sahar Francis, direttrice di “Addameer”, sottolinea che la tortura di detenuti è illegale e che ogni confessione ottenuta in simili circostanze è inattendibile e dovrebbe essere ignorata.

In base allo Statuto di Roma quello che Samir ha subito è un crimine, soprattutto in quanto è entrato in condizioni critiche entro le 48 ore in conseguenza del fatto di essere stato torturato,” dice a MEE, aggiungendo che il suo ricovero in ospedale “conferma che è stato sottoposto a violenza e a gravissime torture.”

Francis sostiene che durante gli interrogatori militari di detenuti palestinesi le autorità israeliane usano normalmente metodi che costituiscono torture.

Ci sono decisioni della Corte Suprema israeliana che consentono allo Shin Bet di utilizzare la tortura come mezzo per estorcere confessioni,” afferma.

Estesa caccia all’uomo

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, Arbeed è stato arrestato per la prima volta due settimane fa in quanto sospettato di altri delitti, ma è stato rilasciato.

Nuove informazioni secondo cui sarebbe stato in possesso di esplosivi, lo hanno visto di nuovo in arresto mercoledì, informa Haaretz.

Le forze israeliane hanno condotto una vasta caccia all’uomo in seguito all’attacco nei pressi di Dolev il 23 agosto. Anche il padre e il fratello della diciassettenne Shnerb sono rimasti feriti nell’esplosione.

Domenica il FPLP ha affermato che le forze israeliane hanno arrestato decine di suoi membri in varie località della Cisgiordania, aggiungendo che non si farà intimidire dagli arresti.

Siamo impegnati in un percorso di resistenza e ciò continuerà ad aumentare finché il vulcano palestinese erutterà in faccia all’occupazione e ai coloni,” afferma il FPLP in un comunicato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quando torna a casa papà?

Sarah Algherbawi 

24 settembre 2019 – The Electronic Intifada 

La piccola Mira al-Sultan, di due anni, continua a chiedere quando tornerà a casa papà. Purtroppo lui è morto, ma la mamma di Mira non trova il coraggio di spiegarglielo.

Tamer, il padre di Mira, ha lasciato Gaza ad aprile di quest’anno. Lui, farmacista, sperava di costruire una nuova vita per la sua famiglia in Europa.

Dopo aver attraversato via terra la Turchia, Tamer si è imbarcato su una nave affollata diretta in Grecia. Una volta arrivato in Grecia, ha iniziato un viaggio tortuoso per evitare di essere fermato dalla polizia di frontiera.

Dalla Grecia, Tamer ha attraversato, quasi sempre a piedi, l’Albania e la Serbia. Il suo progetto era di arrivare alla fine in Belgio, via ex Jugoslavia, Italia e Francia.

L’undici agosto, Tamer ha telefonato alla moglie Marwa. “Mi ha detto che stava per addentrarsi nei boschi della Bosnia ed Erzegovina e che ci sarebbero voluti sei giorni per raggiungere la Croazia” ha detto Marwa. “Quella è stata l’ultima volta che ho sentito la sua voce.”

Mentre stava attraversando la foresta in Bosnia, Tamer si è fatto male a un braccio e, poiché la ferita non è stata curata subito, le sue condizioni si sono aggravate.

Pochi giorni dopo un ospedale bosniaco ha comunicato alla famiglia di Tamer che era morto a causa della setticemia. Aveva 38 anni.

A Gaza Tamer aveva una farmacia. “Ma è stato costretto a venderla perché la situazione economica era peggiorata” ha detto Marwa. “Ha deciso di emigrare e trovare un lavoro fuori Gaza.”

Tamer, che era anche un attivista, aveva preso parte ad appelli per far annullare i debiti quando la gente non è in grado di rimborsarli. Nel marzo di quest’anno era stato arrestato dalla polizia di Gaza per aver partecipato a proteste contro la carenza di energia elettrica.

Tamer era il padre di due ragazzini e di una bambina. Sua moglie Marwa aspetta un altro maschietto. “Chiamerò il bambino Tamer come il padre che lui non conoscerà mai”, ha detto. Prima di partire, Tamer aveva piantato una vite e aveva chiesto ai suoi figli di proteggerla fino al suo ritorno. “Cercherò di prendermi cura dell’albero come mi aveva chiesto papà”, ha detto il figlio Wisam di 9 anni. “Sono sicuro che papà sarà felice di saperlo.”

Partenza di massa

Poco dopo la morte di Tamer, si è saputo che Israele attua una politica intenzionale per spingere la gente ad andarsene da Gaza in massa. Più di 35.000 residenti di Gaza sono emigrati nel 2018.

La partenza di massa è stata facilitata dal blocco che Israele ha imposto a Gaza durante gli ultimi 12 anni. Le opportunità all’interno del territorio sono estremamente ridotte. Nel 2018 circa il 52% della forza lavoro di Gaza era disoccupata. Il tasso di disoccupazione nell’età compresa tra i18 e i 29 anni è particolarmente elevato. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, tra il 2008 e l’anno scorso è salito dal 53% al 69%. Ho condotto un sondaggio informale fra 20 giovani, quasi tutti laureati. Diciotto su 20 hanno risposto che stanno progettando di lasciare Gaza in un prossimo futuro. Gli intervistati si sono arrabbiati quando hanno saputo che Israele sta spingendo i residenti di Gaza ad emigrare per una precisa strategia politica.

Nonostante pensino di essere quasi obbligati ad andarsene, non vogliono in nessun modo dare l’impressione di fare un favore a Israele. Come gesto simbolico, molti hanno promesso di non partire dall’aeroporto di Tel Aviv. Ahmad al-Hindi, un musicista disoccupato che si è laureato nel 2016 all’Università al-Azhar di Gaza, è tra quelli che si preparano a partire. “Ma preferirei morire piuttosto che emigrare attraverso un aeroporto israeliano”, ha detto.

Una grande prigione”

Mio cognato, Muhammad Abu al-Tarabeesh, è emigrato da Gaza nel settembre del 2018. Muhammad studiava contabilità all’Università della Palestina a Gaza, ma ha dovuto ritirarsi dal corso perché la famiglia non poteva più permettersi di pagare le tasse. Muhammad, che ora ha 26 anni, è partito per l’Europa per cercare là opportunità migliori. Ha viaggiato attraverso la Turchia per un mese e poi ha intrapreso un viaggio per mare diretto in Grecia, un’esperienza che ha descritto come “spaventosa”. Per gran parte dell’anno scorso, Muhammad è rimasto bloccato in una roulotte sull’isola greca di Leros. Vive in un campo gestito dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Il campo è stato acclamato come un “modello” dall’agenzia stessa.

Muhammad ne ha un’opinione diversa. “È come una grande prigione con due portoni, uno per entrare e l’altro per uscire”, ha detto. “C’è sempre la massima sorveglianza. Ci sono ore fisse per mangiare e dormire e ci trattano come se fossimo semplicemente dei numeri.” Secondo Muhammad ogni roulotte è larga 3 metri e lunga 6 e ospita una media di 12 persone. Lui deve aspettare a Leros fino a quando la sua domanda di asilo non sarà esaminata. Non gli è ancora stato detto se la sua pratica ha fatto dei progressi. La nostra famiglia è preoccupata per Muhammad, ma almeno ci consola sapere che è vivo e, almeno per il momento, al sicuro.

Affogati

Lo stesso non si può dire per molti altri migranti.

Saleh Hamad, 22 anni, ha lasciato Gaza con la sua famiglia all’inizio di giugno di quest’anno. Si sono diretti verso la Turchia e, più tardi nello stesso mese, sono salpati per la Grecia.

Ad agosto, Hamad si è messo in viaggio con il suo amico Moataz Abu Obeid. Il loro piano era di dirigersi verso il Belgio. I due amici hanno cercato varie volte di entrare a piedi in Albania.

Per sei volte sono stati catturati dalla polizia albanese che li ha riportati al confine con la Grecia. Al settimo tentativo, secondo Abu Obeid, erano riusciti ad arrivare ​​in Albania senza essere scoperti e avevano iniziato ad andare a piedi verso la Serbia.

Arrivati in Serbia, i due uomini sono stati messi in stato di custodia dalla polizia e poi rilasciati dopo sette ore. Hanno quindi attraversato la Serbia a piedi e, dopo un paio di giorni, hanno deciso di provare ad attraversare il fiume Drina per entrare in Bosnia.

Quando sono arrivati vicino al fiume era buio, quindi hanno deciso di aspettare fino al mattino dopo. Quella notte sono stati attaccati da animali selvatici, ma comunque sono riusciti a scappare.

La mattina seguente, i due uomini erano lungo la riva del fiume quando Hamad ha perso l’equilibrio. È caduto nel fiume, dove c’è una forte corrente e stava per annegare.

Nel frattempo, Abu Obeid era svenuto dopo avere sbattuto contro un albero. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovato circondato dalla polizia serba.

La polizia non è stata di nessun aiuto. Secondo Abu Obeid, si sono rifiutati di organizzare una ricerca per trovare Hamad, dicendo che molti altri erano annegati mentre cercavano di attraversare il fiume.

La polizia ha solo preso alcune informazioni su Salah e sui vestiti che indossava”, ha detto Abu Obeid.

Il corpo di Hamad è stato poi ritrovato a settembre, poche settimane dopo la sua scomparsa. Non è il primo gazawi a morire nel tentativo di cercare una vita migliore all’estero. Ed è probabile che non sia neanche l’ultimo.

Sarah Algherbawi è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Alcune donne palestinesi che manifestavano contro la violenza domestica sono state aggredite dalla polizia israeliana

Shatha Hammad

26 settembre 2019– Middle East Eye

Il gruppo ‘Free Homeland, Free Women’ ha tenuto proteste contro la violenza domestica in tutta la Cisgiordania occupata, a Gaza e in Israele

Giovedì, davanti alle mura del castello turrito che per secoli ha difeso la Città Vecchia di Gerusalemme, centinaia di donne si sono riunite per protestare e chiedere la fine della violenza domestica per poi essere affrontate e, nel caso di alcune di loro, aggredite dalle forze di sicurezza israeliane.

Il gruppo “Free Homeland, Free Women” [Patria Libera, Donne Libere] si è radunato per denunciare che, secondo i dati stilati dal Women’s Centre for Legal Aid and Counselling [Centro per il Sostegno Legale e di Ascolto delle Donne] (WCLAC), lo scorso anno almeno 23 donne palestinesi sono state uccise durante liti domestiche.

Le manifestanti sono state anche motivate dalla recente morte in un ospedale di Betlemme di Israa Ghrayeb, una ‘makeup artist’ diciannovenne, in seguito a quello che i suoi amici e sostenitori hanno descritto come un “delitto d’onore”. Eppure le forze israeliane avevano in mente qualcos’altro. Hanno represso con violenza la protesta pacifica attaccando alcune delle donne mentre marciavano verso il centro della Città Vecchia.

Immagini postate su Facebook mostrano una fila di poliziotti che spingono le dimostranti su per la scalinata e lontano dall’entrata della Porta di Damasco verso la Città Vecchia.

Poi si possono vedere parecchi poliziotti che urtano violentemente le manifestanti gettando a terra alcune di loro.

Nimir al-Mughrabi, un’attivista del gruppo di donne, racconta a Middle East Eye che le forze israeliane hanno colpito molte manifestanti, ferendo una donna a un occhio e un’altra a una mano.

Forze israeliane a cavallo hanno anche inseguito le dimostranti, cercando di procedere ad arresti, dice al-Mughrabi. Uno degli arrestati è un tredicenne identificato come Majdi Abu al-Arabi.

Al-Mughrabi ha raccontato a MEE che le forze israeliane hanno iniziato a usare tattiche intimidatorie quando le donne hanno cominciato a riunirsi in strada dalla Città Vecchia, aggiungendo che le bandiere palestinesi sono state confiscate, mentre le forze israeliane cercavano di sbarrare la strada alla manifestazione.

Un portavoce della polizia israeliana ha detto a MEE che la protesta è stata consentita a patto che non disturbasse l’ordine pubblico.

Ma, ha affermato, alcune manifestanti hanno sventolato bandiere palestinesi, il che rappresenta una violazione dell’ordine pubblico.

Le dimostranti hanno iniziato ad affrontare la polizia ed hanno anche lanciato lattine contro di essa. Ciò ha obbligato la polizia a disperdere il raduno per mantenere l’ordine pubblico,” ha detto il portavoce.

Proteste simili, organizzate da gruppi per i diritti delle donne, si sono tenute durante il giorno nelle città palestinesi di Ramallah, Gaza, Arrabeh,Taybeh, al-Jish, Nazaret, Giaffa e Haifa le ultime 4 località si trovano in Israele, ndtr.], ed anche a Berlino e a Beirut.

https://twitter.com/i/status/1177269621109534720

Il gruppo si definisce un collettivo di donne palestinesi indipendenti che chiedono la fine di ogni forma di violenza contro le donne palestinesi ovunque.

Si è formato dopo che lo scorso mese Israa Ghrayeb è stata uccisa da membri della sua famiglia, scatenando una piccola ondata di proteste nelle comunità palestinesi.

Alcune componenti del gruppo hanno detto di essere particolarmente preoccupate per il “temporeggiamento” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese nel denunciare il crimine e nel farne pagare le conseguenze ai responsabili.

“Noi (donne) rifiutiamo il fatto di essere una priorità che è rinviata a dopo la liberazione nazionale,” dice a MEE Razan Hazim, un’aderente a “Free Homeland, Free Women” che ha partecipato alla protesta di Ramallah. “Rifiutiamo la parola ‘dopo’,” afferma. “Intendiamo ridefinire la liberazione nazionale sulla base della libertà, della giustizia e della dignità sociale.”

Sottolinea che il gruppo intende espandersi progressivamente e continuare il movimento finché la violenza contro le donne palestinesi verrà bloccata.

A Ramallah le manifestanti hanno terminato il corteo davanti al Complesso Medico Palestinese, il principale ospedale pubblico della città, in cui una donna di 39 anni di Jenin viene curata per le percosse che ha subito.

La donna sarebbe stata picchiata dalla sua famiglia ed ha sofferto fratture alle gambe talmente gravi che, secondo i media locali, i medici potrebbero doverle amputare.

Ma, pur dicendo che la protesta del gruppo è concentrata sulle donne uccise durante litigi domestici, Hazim sottolinea anche che l’occupazione israeliana ha solo reso più grave questa violenza.

Le donne che vivono nelle zone controllate da Israele sono più vulnerabili di quelle della Cisgiordania e di Gaza, dice Hazim, dato che sanno di non poter ricorrere all’applicazione della leggi israeliane.

Le manifestazioni oggi rappresentano una garanzia per noi come palestinesi che possiamo sconfiggere la situazione imposta dal colonialismo, la divisione della Palestina e la nostra espulsione,” dice Hazim a MEE.

Le dimostranti hanno sollevato anche un’altra questione nazionale, includendo le pretese da parte di Israele di una Gerusalemme indivisa come sua capitale e i continui arresti di migliaia di prigionieri politici palestinesi.

La marcia di oggi è parte del tentativo di recuperare spazi pubblici confiscati dall’occupazione a Gerusalemme,” dice Hazim, aggiungendo che il suo gruppo appoggia la liberazione di “tutta la Palestina occupata, dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo].”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)