Hamas reprime le proteste per le condizioni di vita a Gaza

Kaamil Ahmed

16 marzo 2019, Middle East Eye

I palestinesi di Gaza hanno protestato per tre giorni contro il crescente costo della vita e gli aumenti delle tasse

Pare che le forze di Hamas abbiano represso le proteste per migliori condizioni di vita nella Striscia di Gaza assediata, incolpando delle dimostrazioni la rivale Autorità Nazionale Palestinese. 

Le proteste sono proseguite sabato per il terzo giorno consecutivo, per denunciare le misere condizioni economiche, il crescente costo della vita e gli aumenti delle tasse.

Le manifestazioni si sono svolte in tutta Gaza, ma si sono concentrate a Deir al-Balah, una cittadina a sud di Gaza City.

Riprese dal vivo postate sui social media da Deir al-Balah sembrano mostrare forze di sicurezza di Hamas in assetto antisommossa che picchiano i manifestanti con bastoni.

Dei testimoni, che in gran parte filmavano dalle loro case, hanno gridato vedendo altri abitanti inseguiti, compreso un uomo che sembrava chiedesse agli altri manifestanti di smettere di lanciare oggetti contro la polizia.

La giornalista di Gaza e corrispondente di MEE Hind Khoudary ha detto che i manifestanti, comprese le donne, sono stati picchiati e che le forze di sicurezza hanno fatto incursione nelle case intorno al luogo della protesta. Ha aggiunto che durante le dimostrazioni si è sentito il rumore di proiettili veri.

L’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha criticato le “gravi aggressioni” ai manifestanti, inclusi tre membri dell’associazione di Gaza per i diritti ‘Commissione indipendente per i diritti umani’.

“Le aggressioni contro di loro sembrano indicare che i servizi di sicurezza a Gaza volevano impedire che conducessero il loro lavoro a favore dei diritti umani, e ostacolare il loro monitoraggio e la documentazione delle violazioni e le relative conseguenze sulla situazione dei diritti umani”, ha detto sabato Al-Haq in una dichiarazione.

L’organizzazione ha affermato che centinaia di manifestanti si erano radunati in diverse città, esponendo cartelli che chiedevano sia al governo de facto di Hamas che al suo rivale, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) capeggiata da Fatah con sede nella Cisgiordania occupata, di migliorare le condizioni di vita.

Gaza ha subito per oltre un decennio un blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele ed Egitto, che limita il movimento sia di merci che di persone. Nello stesso periodo vi è stata una contrapposizione tra Hamas e Fatah, dopo che il primo ha assunto il controllo di Gaza nel 2007 in seguito alle elezioni legislative del 2006 in cui la vittoria di Hamas è stata contestata da Fatah. 

Dal 2017 il leader di Fatah e presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha cercato di aumentare la pressione su Hamas, tagliando la fornitura di elettricità a Gaza e bloccando il pagamento dei salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Dopo il ritiro dell’ANP da Gaza nel 2007, essa ha continuato tuttavia a pagare quei dipendenti a condizione che non lavorassero per Hamas. Nelle drammatiche condizioni dell’enclave assediata, i salari dell’ANP sono stati spesso un’ancora di salvezza per molte famiglie di Gaza.

Una dichiarazione di Hamas di sabato attribuisce la colpa delle condizioni economiche del territorio all’assedio e alle misure dell’Autorità Nazionale Palestinese, definendole un “crimine nazionale, morale ed umanitario” finalizzato a seminare divisione tra i palestinesi.

Dopo le proteste di venerdì, l’ufficio ONU per l’Alto Commissario dei diritti umani ha detto di essere “scioccato dalla risposta violenta delle forze di sicurezza di Hamas nel disperdere le dimostrazioni nella Striscia di Gaza”.

“Personale della sicurezza in borghese, tra cui molti armati di bastoni, ha fatto irruzione nelle manifestazioni e impedito con la forza ai partecipanti di filmare o fotografare anche i casi di pestaggi e ricoveri in ospedale di molti manifestanti. Un numero imprecisato di dimostranti è stato arrestato e detenuto dalle forze di sicurezza”, si afferma nella dichiarazione.

Le proteste per le condizioni di vita a Gaza sono iniziate nel momento in cui venerdì per la prima volta è stata annullata la protesta della ‘Grande Marcia del Ritorno’, dopo che aerei israeliani hanno fatto incursioni notturne nell’enclave e sono stati lanciati razzi su Tel Aviv.

La ‘Grande Marcia del Ritorno’, una serie di manifestazioni periodiche iniziata il 30 marzo 2018, chiedeva la fine dell’assedio e la concretizzazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi le cui famiglie furono espulse al momento della nascita dello Stato di Israele. Dall’inizio della marcia le forze israeliane hanno ucciso a Gaza più di 255 palestinesi e ne hanno feriti oltre 29.000. Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

La sospensione della ‘Grande Marcia del Ritorno’ avviene nel momento in cui pare che l’Egitto stia facendo da intermediario in un accordo di tregua tra Israele e Hamas – nel timore che, se non si fa nulla, le attuali tensioni possano sfociare in una vera e propria guerra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Un’impennata della censura: nel 2018 Israele ha censurato in media un articolo al giorno

Haggai Matar

15 marzo 2019, +972

Lo scorso anno la censura dell’esercito israeliano ha vietato la pubblicazione di più notizie che in quasi ogni altro anno in questo decennio. Mentre meno articoli che negli anni precedenti sono stati sottoposti alla verifica, la percentuale di articoli che sono stati parzialmente o totalmente censurati è stata notevolmente più alta.

Nel 2018 la censura militare israeliana ha vietato la pubblicazione di 363 articoli, più di 6 alla settimana, mentre ha parzialmente o totalmente cancellato un totale di 2.712 notizie che le sono state sottoposte a controllo preventivo. Secondo i dati, forniti in risposta a una richiesta relativa alla libertà di informazione presentata da +972 Magazine [sito web israeliano di sinistra in inglese, ndt.], da “Local Call” [versione in ebraico di +972, ndt.] e dal “Movimento per la libertà d’informazione” [associazione israeliana per la trasparenza nell’informazione, ndt.], nel 2018 il censore ha vietato la pubblicazione di notizie più che in qualunque altro anno del decennio.

È aumentato anche il numero di notizie pubblicate con l’intervento della censura, in quanto la percentuale di informazioni censurate nel 2018 è stata più alta che in qualunque anno dal 2011. Solo il 2014 – l’anno dell’ultima guerra israeliana contro Gaza – ha visto una censura altrettanto significativa sulla stampa, quando il censore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha parzialmente o totalmente cancellato 3.122 notizie e ha completamente bloccato la pubblicazione di altri 597 articoli.

Rispetto al 2017 il picco di interventi censori è significativo: nell’ultimo anno il censore dell’IDF ha impedito la pubblicazione di 92 articoli in più rispetto all’anno precedente, mentre ha parzialmente o totalmente cancellato altre 625 notizie. Negli ultimi otto anni il censore ha impedito che venisse stampato un totale di 2.661 informazioni.

In Israele viene chiesto a tutti i mezzi di comunicazione di sottoporre al controllo della censura dell’IDF gli articoli riguardanti la sicurezza e le relazioni internazionali prima della loro pubblicazione. Il censore ricava la propria autorità dalle “disposizioni d’emergenza” messe in atto dopo la fondazione di Israele e che sono rimaste in vigore fino ad oggi. Queste disposizioni consentono al censore di cancellare totalmente o parzialmente un articolo, vietando ai mezzi di comunicazione di segnalare in qualche modo se un articolo è stato modificato. Negli ultimi anni, tuttavia, sempre più giornalisti in Israele hanno utilizzato il termine “approvato dalla censura” nei loro articoli.

Negli ultimi anni il censore ha anche cercato di estendere il raggio del proprio potere per controllare informazioni prima della pubblicazione in rete, anche notificando a blogs indipendenti e a pubblicazioni digitali, come +972 Magazine, che devono sottoporre a controllo certi articoli.

Mentre i criteri giuridici che definiscono il mandato della censura militare sono sia stringenti che decisamente ampi, la decisione su quali articoli sottoporre al controllo rimane a discrezione dei direttori dei mezzi di informazione israeliani. Nel 2018 i giornalisti hanno sottoposto a controllo 10.938 articoli, meno che nell’anno precedente (11.035). La diminuzione degli articoli presentati, insieme all’aumento degli interventi censori, potrebbe indicare che i redattori hanno imparato cosa sia o non sia di reale importanza per il censore, diventando più selettivi riguardo a quello che presentano [alla censura]. Oppure la riduzione può essere il risultato del fatto che i mezzi di comunicazione pubblicano meno articoli su problemi riguardanti la sicurezza.

Mentre il censore dell’esercito israeliano non rivela quali articoli ha revisionato con maggiore frequenza, è probabile che il significativo aumento della censura lo scorso anno sia legato alle attività dell’esercito israeliano, sia palesi che occulte, contro l’Iran in Siria e in Libano, o ad articoli sulle unità israeliane in incognito nella Striscia di Gaza denunciate da Hamas lo scorso novembre.

Israele è l’unico Paese del mondo democratico in cui ai giornalisti e alle pubblicazioni è legalmente richiesto di sottoporre a controllo i propri articoli prima della pubblicazione e l’unico in cui questa censura può essere imposta penalmente. Oltretutto i poteri della censura militare israeliana si estendono al di là dei mezzi di informazione e includono l’autorità di controllare prima della loro pubblicazione e censurare libri e documenti negli archivi di Stato.

Nel 2018 gli editori israeliani hanno sottoposto 83 libri alla censura militare israeliana, di cui solo 34 sono stati approvati senza nessun intervento. Nel contempo lo scorso anno il censore ha parzialmente o totalmente censurato 49 libri. Nel 2017 sono stati presentati alla censura dell’IDF 84 libri, 53 dei quali sono stati censurati e 31 approvati.

Negli ultimi anni il censore dell’IDF ha anche controllato documenti negli archivi di Stato, presumibilmente come parte di un tentativo di rendere disponibili questi documenti al pubblico. Il personale degli archivi di Stato ha sempre usato la propria discrezionalità riguardo a quali documenti rendere pubblici e quali potessero eventualmente rappresentare una minaccia per il prestigio internazionale o per la sicurezza nazionale. Nel 2018 gli archivi di Stato hanno sottoposto a controllo solo 2.908 documenti, rispetto ai 7.770 del 2016 e ai 5.213 del 2017. La censura dell’IDF, tuttavia, ha rifiutato di comunicare il numero di documenti su cui è intervenuta.

Il censore dell’IDF è escluso dalla legge sulla libertà di informazione e quindi non è affatto obbligato a pubblicare i propri dati. Nel corso degli anni si è anche modificata l’ampiezza delle informazioni condivise. Prima che nel 2015 il generale di brigata Ariella Ben Avraham assumesse l’incarico di capo censore, eravamo abituati a ricevere risposte su quanto materiale di archivio fosse stato censurato, così come su quanto spesso i censori avessero chiesto di eliminare o modificare le informazioni che erano già state pubblicate senza essere sottoposte a controllo.

In una lettera del 2018 il generale di brigata Ben Avraham ha scritto che questi dati non sono più raccolti e di conseguenza non possono più essere divulgati al pubblico. In merito Racheli Edri, direttrice esecutiva del “Movimento per la Libertà di Informazione” ha chiesto che il censore tenga nota di questi dati e li renda pubblici in futuro, ma non ha ricevuto risposta.

Questi dettagli non sono stati inclusi nell’ultima serie di dati diffusi dal censore nel 2019.

Tutti sanno che, di questi tempi, tutta l’istituzione della censura militare deve essere in qualche modo rivista,” dice Edri. “Poiché cerchiamo di capire l’ampiezza del lavoro di revisione dei censori, ci rivolgiamo a loro con l’intesa non scritta che rispondano davvero. Tuttavia, quando non condividono le informazioni con noi, i nostri strumenti per impugnare la loro decisione sono molto scarsi, quasi inesistenti.”

Edri spiega che in un certo senso ciò crea una specie di censura doppia: “Prima loro censurano, poi non forniscono le informazioni sull’ampiezza della censura.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Elezioni in Israele, bombe su Gaza

Patrizia Cecconi

15 marzo 2019 , Pressenza

Tutto è cominciato nella tarda serata di ieri, 14 marzo, quando due razzi del tipo Fajar sono stati lanciati su Tel Aviv. Uno dei due è stato intercettato e neutralizzato dall’iron dome e l’altro è caduto in zona disabitata senza creare danni né a persone né a cose.

I razzi Fajar hanno una gittata capace di raggiungere il centro di Israele, sono in possesso del partito della Jihad Islamica a cui sarebbero forniti dall’Iran. Infatti la prima dichiarazione israeliana ha tirato in mezzo proprio l’Iran che, come tutti sanno, è la bestia nera di Netanyahu. Per la prima volta Israele non ha accusato Hamas del lancio, bensì la Jihad proprio in quanto questa sarebbe foraggiata dal paese islamico che il premier israeliano sogna di distruggere e non ne fa mistero. Così, grazie ai due razzi Fajar, Israele ha potuto accusare al tempo stesso due nemici assoluti: l’Iran e l’islam, ottenendo i consensi che sa di ottenere quando gioca sulla confusione tra islamici e islamisti mettendo nello stesso cesto l’Isis e i suoi avversari musulmani, cosa che fa abitualmente riferendosi ad Hamas il quale, in realtà, è il vero baluardo contro l’Isis. Ma la storia dei razzi fajar questa volta ha del giallo, visto che il partito della Jihad, per voce del suo rappresentante Dawod Shihab, ha categoricamente smentito ogni implicazione ed altrettanto ha fatto il partito al governo, lasciando trapelare nell’aria l’idea che possa essersi trattato di “missili elettorali”.

Per esperienza pluriennale, ogni analista politico sa che tutte le azioni contro Israele partite da Gaza vengono rivendicate con orgoglio e come esempio di resistenza attiva, per cui suona veramente strano che quest’azione non abbia rivendicazioni dall’interno della Striscia. Dopo i recenti episodi di infiltrazioni straniere, non stupisce l’ipotesi che questo lancio possa essere stato pilotato a distanza, una distanza che qualcuno legge come servizi speciali israeliani e qualcuno come mano palestinese profondamente avversa sia alla riconciliazione che al partito al governo nella Striscia.

Al momento ogni opinione ha una sua possibilità di accoglimento, ma nessuna di queste si fonda su basi documentate. Ciò che invece è sotto gli occhi di qualunque lettore minimamente attento, è l’uso elettorale pro-Netanyahu che i due Fajar stanno giocando. A poche settimane dalle elezioni , con cause pendenti per frode e corruzione e con avversari politici che dirigono il loro consenso elettorale sul dichiarato impegno genocidario verso i palestinesi, cosa può essere più indicato – per la risalita nel gradimento elettorale del premier uscente – di una punizione collettiva all’incubo-Gaza, anticipando i vari Gantz, o Bennet, o Lieberman nell’uso dell’aviazione di guerra?

Per quanto Israele ci abbia abituati ad agire in totale libero arbitrio e quindi a uccidere quasi quotidianamente, arrestare adulti e bambini, rubare terra e, non ultimo, bombardare senza doverne mai rispondere, l’ultimo rapporto Onu deve aver influenzato il primo ministro il quale, secondo la comprovata ratio del lupo e dell’agnello, ha avuto bisogno del casus belli per trovare il consenso mondiale alla sua azione, riconquistando, attraverso la punizione collettiva contro Gaza, l’elettorato israeliano.

Interessante notare la correlazione suggerita da diversi media più o meno filo-israeliani, tra le manifestazioni dei gazawi contro il carovita, represse dalla polizia governativa, e il lancio dei razzi su Tel Aviv, come fossero non semplici concomitanze ma frutto di una stessa strategia. Ma se così fosse, la strategia mirerebbe ad accrescere il dissenso verso il governo e a far considerare la “punizione collettiva” come indotta dal partito che governa la Striscia. Ovvero mirerebbe all’abbattimento dall’interno, grazie ad una serie di azioni combinate, della componente che governa Gaza. Chi beneficerebbe di questo, oltre a Israele? E, prima di tutto, ha basi reali per essere presa in considerazione una tale ipotesi o è pura fanta-politica basata su connessioni non troppo dissimili da quelle create da statistici fantasiosi capaci di correlare l’aumento delle vendite di lavatrici in Scozia con l’aumento delle nascite in California?

Per evitare di essere trascinati nella spirale del caos, che impedisce di vedere i fatti nella loro concretezza contestuale, partiamo dalla situazione reale ponendo, metaforicamente, su una superficie piana l’avvicendarsi degli eventi. Da una parte Israele, con le prossime elezioni e gli elementi considerati vincenti dai vari candidati. Dall’altra parte Gaza, come parte della Palestina che rivendica la fine dell’assedio e il rispetto di una Risoluzione Onu, la 194 che Israele calpesta da sempre e che riguarda tutti i palestinesi. Per quanto riguarda le elezioni in Israele, basta una rapida occhiata a quanto successo in tutte le tornate elettorali per capire che il consenso va a chi mostra maggior truculenza, possibilmente genocidaria, verso i palestinesi. Netanyahu è sempre stato uomo di parola, ha rispettato le sue promesse elettorali con espropriazioni di terre palestinesi, incremento degli insediamenti ebraici su terreno palestinese, politiche di arresti e di demolizione di case palestinesi e solenne promessa che con lui al potere non ci sarebbe mai stato uno Stato palestinese. Ciò nonostante, nel democratico Stato ebraico c’è chi promette di più. C’è chi, ignaro dei fondamentali tanto della politica che dell’economia, promette che col suo eventuale governo si arriverebbe alla “soluzione finale” della Striscia di Gaza, senza l’uso di camere a gas, perché quelle appartengono a un passato che non tutti gli ebrei accetterebbero, ma con l’uso di armi moderne già sperimentate nei terribili massacri – ovviamente impuniti – di “piombo fuso” e “margine protettivo”. Questi dichiarati fascisti ebrei ignorano quanto Gaza possa servire economicamente e politicamente a Israele o, forse, non lo ignorano ma contano sull’ignoranza e l’odio viscerale dei loro potenziali elettori.

In questa gara in cui “vinca il migliore” si trasforma in “vinca chi offre maggiori garanzie antipalestinesi” anche il falco Netanyahu sembra poco affidabile ed ecco quindi la necessità di dar prova del suo coraggio da leone nel bombardare in poche ore – ovviamente dall’alto, sapendo che Gaza non ha né aviazione, né unità di contraerea – ben 100 strutture dette, ad usum delphini, postazioni di Hamas, vale a dire uffici pubblici, caserme, palestre, posti di guardia e così via.
Come iniziare un bombardamento così possente, durato un’intera notte? Forse senza il rapporto ONU non ci sarebbe neanche stato bisogno dei missili, comunque i due missili sono stati lanciati, seppur senza danni, e tutto rientra perfettamente nel quadro della risposta del povero Israele aggredito dal terrorismo palestinese. Bugia che ormai non dovrebbe più reggere ma che viene alimentata dai media trasmettitori della narrazione israeliana ormai senza più neanche bisogno di istruzioni. Se qualche operatore dell’informazione stesse qui ora, in Gaza city, scrivendo mentre i droni volano bassi e il loro insopportabile ronzio avverte, da oltre 12 ore, i gazawi che l’occupante guarda dall’alto e può decidere in ogni momento un bombardamento addizionale, forse scriverebbero altro che non la narrazione israeliana, sebbene in salse diversamente colorite come si addice alla forma democratica che accantona la sostanza. Questo tormento di “zannana” cioè dei droni, come vengono chiamati qui per il loro ronzio insopportabile, viene ripreso e rimandato sui canali televisivi israeliani in modo che i telespettatori sappiano che Netanyahu sa come tenere a bada la popolazione assediata di Gaza e in tal modo le pesanti accuse di frodi e corruzioni passino per peccati veniali.

Dall’altra parte della nostra metaforica superficie piana abbiamo una popolazione di circa 2 milioni di abitanti di cui un’alta percentuale è stremata dal disagio economico crescente e dalla mancanza di prospettive; abbiamo al governo un partito che molti anni fa vinse legalmente le elezioni grazie anche al suo impegno a migliorare strutture sanitarie e sociali in genere che ora, però, non riesce più a offrire. Un governo oggettivamente intollerante e bigotto, ma anche ostacolato ed emarginato dal mondo in omaggio a Israele e, secondariamente, all’Anp. Abbiamo un lavorio subdolo portato avanti, anche in buona fede, da molti occidentali che indirettamente fanno cantare nelle menti dei gazawi le sirene del consumismo e, insieme, la frustrazione di non poterle raggiungere. Abbiamo una larga fetta di popolazione che non vuole neanche sentire la parola “politica” ormai considerata solo come clientelismo e rovina, che però sta perdendo il suo antico orgoglio, distruggendolo con continue richieste di elemosine a quell’Occidente che immagina tenutario di ricchezze infinite e dal quale, anche psicologicamente, finisce per dipendere. Ma abbiamo anche energie, minoritarie come numero, ma fortissime come volontà, che sono il vero incubo di Israele. Sono quelle che respingono con dignità e orgoglio il “deal of century” di Trump e il paternalismo del Qatar che pensava di tacitare la popolazione gazawa a beneficio di Israele offrendo denaro e caramelle. E’ questa minoranza che rappresenta la vera resistenza di Gaza, è questa minoranza l’incubo di Israele. Il cuore pulsante, attualmente, ce l’ha nell’organizzazione della Grande marcia del ritorno, anche se Hamas ormai cerca ti tenerne il controllo. L’innovazione politica ce l’ha la costruzione di “Alleanza democratica”, la nuova formazione che raggruppa tutti i partiti di sinistra unendo l’aspetto politico e quello sociale e ponendosi come terzo polo tra Fatah e Hamas. E’ con questa che Israele dovrà fare i conti anche se dovesse arrivare, grazie alla mediazione dell’Egitto, a un accordo con Hamas.

Proprio mentre la delegazione egiziana ieri sera era in riunione con Hamas per stabilire gli eventuali passi per una tregua di lunga durata sono partiti i “missili elettorali” che Gaza NON rivendica. E proprio l’immediato avviso dell’IDF alla delegazione egiziana di lasciare immediatamente la Striscia è stato il campanello d’allarme che ha permesso di svuotare le cosiddette “postazioni di Hamas” ed evitare martiri, nonostante i massicci bombardamenti.
Data la situazione particolarmente drammatica, la Grande Marcia oggi è stata eccezionalmente sospesa. Che sia un bene o un male lo diranno gli eventi. Al momento sappiamo che il governo di Gaza non vuole un’escalation militare. Sappiamo che la resistenza gazawa questa notte ha risposto ai pesanti bombardamenti israeliani lanciando una ventina di missili e sparando colpi di mortaio. Sappiamo che la stampa mainstream ha posto umana attenzione verso gli israeliani spaventati dai razzi i quali correvano nei rifugi – che loro fortunatamente hanno – e che 5 di loro sono stati soccorsi da personale paramedico per ansia da stress. Sappiamo che una donna di Rafah ha subito l’amputazione di una mano e che ci sono diversi altri feriti. Per quanto riguarda lo stress, questo per i palestinesi non è preso in considerazione. Sappiamo inoltre che se non fosse Israele, ma un altro paese ad agire così, non avremmo remore a definirlo Stato canaglia. Sappiamo anche che i droni che fanno impazzire per il loro ronzio sono l’occhio di Israele su Gaza, ma ciò che non sappiamo ancora è chi e perché ha lanciato quei due missili che hanno permesso a Netanyahu di mostrare agli israeliani la faccia che a loro piace di più. Altra cosa che non sappiamo ancora è se Israele è sazio o se stanotte ci sarà un’altra nottata “elettorale”




La polizia israeliana aggredisce i fedeli e chiude il complesso di Al-Aqsa

12 marzo 2019, Al-Jazeera

Sono scoppiati disordini dopo che la polizia israeliana ha affermato che era stata lanciata una bomba incendiaria contro la sua postazione all’interno dell’area sacra

Una fonte ufficiale palestinese ha detto che forze israeliane hanno chiuso tutte le entrate nel conflittuale complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, tra continui scontri con fedeli palestinesi. “Decine di soldati israeliani hanno fatto irruzione nel complesso di Al-Aqsa e aggredito alcune personalità religiose,” ha detto martedì in un comunicato Firas al-Dibs, portavoce dell’Autorità delle Dotazioni Religiose di Gerusalemme, un ente diretto dalla Giordania incaricato della supervisione dei luoghi musulmani e cristiani della città.

Secondo al-Dibs, il direttore della moschea di Al-Aqsa Omar Kiswani e Sheikh Wasef al-Bakri, il giudice supremo dei tribunali islamici di Gerusalemme attualmente in carica, sono stati tra le persone aggredite dalla polizia israeliana. Ha affermato che poliziotti che brandivano bastoni hanno attaccato decine di fedeli musulmani nei pressi della moschea di Omar [o Cupola della Roccia, ndt.], nel complesso di Al-Aqsa.

“Almeno cinque palestinesi sono stati fermati prima di essere arrestati per ulteriori accertamenti,” ha detto al-Dibs.

Informando da Gerusalemme est occupata, Harry Fawcett di Al Jazeera ha affermato che la polizia israeliana sostiene che “una bottiglia molotov è stata lanciata verso un edificio della polizia” all’interno del complesso.

“Abbiamo sentito fonti palestinesi all’interno del luogo sostenere che invece potrebbero essere stati fuochi d’artificio. Quello che è avvenuto in seguito sono stati scontri piuttosto prevedibili tra le forze di sicurezza israeliane e fedeli palestinesi,” ha detto Fawcett, aggiungendo che sono state chiuse porte all’interno della Città Vecchia.

Secondo l’ong palestinese “Ir Amim” [organizzazione israeliana che sostiene la convivenza tra ebrei e palestinesi a Gerusalemme, ndt.] almeno 10 palestinesi sono rimasti feriti durante gli scontri, dopo di che tutti i fedeli sono stati obbligati ad uscire dal sito.

Martedì “Ir Amim” ha scritto in un comunicato che “la polizia ha risposto con una forza eccessiva, buttando violentemente a terra una donna e spingendo con aggressività altre persone.”

“La risposta eccessivamente dura da parte della polizia israeliana può essere interpretata come una sfacciata affermazione dell’autorità israeliana sul complesso. Svuotare Al-Aqsa, chiuderne le porte e limitare l’accesso a tre importanti ingressi della Città Vecchia trasmette un chiaro messaggio di controllo unilaterale di Israele.”

L’ong ha avvertito che l’uso eccessivo della forza per minacciare lo status quo porterà a un ulteriore incremento delle tensioni nel sito.

Mentre la presidenza palestinese ha condannato l’escalation nel conflittuale luogo religioso, le autorità israeliane non hanno ancora fatto commenti.

Un comunicato pubblicato dall’agenzia di notizie palestinese WAFA dice che il presidente palestinese Mahmoud Abbas sta mantenendo “intensi contatti” con tutte le parti interessate nella speranza di disinnescare la situazione.

Abbas ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire ed ha accusato la polizia israeliana e i coloni di “violare sistematicamente la sacralità della moschea e di provocare la sensibilità dei musulmani.”

Lo scorso mese nella Gerusalemme occupata è montata la tensione quando la polizia israeliana ha chiuso la porta Al-Rahma del complesso di Al-Aqsa, situata nei pressi del muro orientale della Città vecchia, scatenando manifestazioni palestinesi.

Nelle settimane seguenti le autorità israeliane hanno vietato a decine di palestinesi, compresi funzionari religiosi, di entrare ad Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro per l’Islam.

“Quella che era già una situazione tesa in seguito a una lotta di tre settimane per quest’area all’interno del complesso della moschea di Al-Aqsa, con questo ultimo incidente è ora precipitata,” ha detto Fawcett.

Israele ha occupato Gerusalemme est, dove si trova il complesso di Al-Aqsa, durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ha annesso tutta la città nel 1980 con un’iniziativa che non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il New York Times lascia che sia Israele a fare il suo “controllo dei fatti”

Michael F. Brown

7 marzo 2019, Electronic Intifada

Il New York Times mi ha detto che è assolutamente disposto ad accettare la parola del governo israeliano sui fatti.

Avevo avvertito il giornale dell’informazione secondo cui l’editorialista Bret Stephens ha travisato i fatti nella sua implicita replica all’incisivo articolo di opinione di Michelle Alexander che chiedeva di rompere il silenzio sulla Palestina.

Stephens aveva scritto: “In questo secolo circa 1.300 civili israeliani sono stati uccisi durante attacchi terroristici palestinesi: questo in proporzione corrisponde a circa 16 volte l’11 settembre negli Stati Uniti.”

Ciò è falso.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, che raccoglie statistiche scrupolose, dal 29 settembre 2000 alla fine di gennaio di quest’anno sono stati uccisi 823 civili israeliani, insieme a 433 “persone delle forze di sicurezza israeliane”.

Nello stesso periodo circa 10.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele – il corrispettivo di decine di 11 settembre, per utilizzare il metro di valutazione di Stephens – anche se per lui a quanto pare le vittime palestinesi non hanno nessuna importanza.

Invece di correggere o verificare con decisione l’informazione errata presentata dal suo editorialista antipalestinese, il caporedattore degli articoli di opinione James Dao mi ha scritto che Stephens aveva avuto la sua “informazione dal governo israeliano, e a me va bene così.”

A me invece non va per niente bene. Trasmettere all’opinione pubblica un’informazione falsa del governo israeliano come se fosse vera è propaganda, non giornalismo o un commento legittimo.

Stephens è autorizzato ad avere le proprie opinioni, ma non i propri dati di fatto. Né lo è il governo israeliano. La parola del governo israeliano – e di Bret Stephens – dovrebbe essere messa a confronto con i dati reali.

In questo caso, non solo ci ha mentito, ma ha affermato che tutti i combattenti palestinesi sono terroristi e tutti gli israeliani – anche i soldati armati dell’occupazione – sono civili.

Il giornale, che giustamente è pronto a contraddire le menzogne del presidente Donald Trump, in questo caso sta prendendo un atteggiamento molto diverso verso le menzogne del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Notevole peggioramento

Ciò è pericoloso. E riduce la credibilità di un giornale che ho a lungo sollecitato perché facesse di meglio.

Non aver fatto una rettifica rappresenta un notevole peggioramento da quando, quasi 14 anni fa, parlai al public editor [giornalista incaricato di verificare la correttezza degli articoli pubblicati dal suo quotidiano, ndt.] del New York Times, Daniel Okrent.

Ci sono meno opportunità ora di quante ce ne fossero allora, in quanto il quotidiano non ha più un garante a cui i lettori possano rivolgersi.

Non lo posso sapere con certezza, ma penso che Okrent sarebbe sconcertato dal fatto che il “controllo dei fatti” sia stato appaltato al governo israeliano.

Stephens è di parte. E gioca a favore del razzismo contro i palestinesi. La sua credibilità è stata intaccata – o lo avrebbe dovuto essere – quando ha scritto di un “feticismo del sangue dei palestinesi.” Questo è un estremismo vile e lampante contro il popolo palestinese.

Sorprendentemente ha fatto un’affermazione altrettanto generale nel suo recente articolo domenicale quando ha reagito contro i progressisti che sono sempre più preoccupati per le politiche discriminatorie di Israele: “Tutto ciò è profondamente inquietante per una comunità ebraica che ha in genere visto il partito Democratico come il proprio referente politico.”

Questa è una generalizzazione antisemita da parte di Stephens, né tutti nella comunità ebraica la pensano come sostiene Stephens. Gli ebrei americani non sono monolitici quando si tratta dei tentativi di garantire i diritti e la libertà dei palestinesi.

Molti ebrei si oppongono all’occupazione israeliana e ad altri crimini, e sono profondamente sconvolti dai continui attacchi da parte di membri della lobby israeliana contro donne di colore che parlano a favore dei diritti dei palestinesi.

Oltretutto molti ebrei rifiutano l’ideologia ufficiale di Israele, il sionismo, in quanto colonialismo di insediamento e apartheid. Oltre ai dubbi sollevati da “Jewish Voice for Peace” [“Voce Ebraica per la Pace”, organizzazione di ebrei USA contraria all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.] riguardo al sionismo, gruppi ebraici antisionisti includono Neturei Karta [gruppo di ebrei religiosi contrari al sionismo e all’esistenza di Israele, ndt.] e Satmar Hasidim, la principale setta hassidica [corrente religiosa ebraica con tendenze mistiche e messianiche, ndt.] negli Stati Uniti.

Lettere invece di un fatto accertato

Invece di pubblicare una rettifica, Dao mi ha suggerito di mandare piuttosto una lettera. Ma quella era stata la mia reazione prima ancora di rivolgermi a lui.

La lettera non era stata pubblicata. Né avrebbe sortito un risultato del tutto accettabile. Una rettifica da parte del giornale ha un peso molto maggiore rispetto all’opinione di chi avesse scritto una lettera.

Più di un decennio fa il New York Times Magazine [supplemento domenicale del NYT, ndt.] ebbe un approccio simile e insistette che scrivessi una lettera su un errore riguardante la posizione della barriera israeliana e il fatto che in molti punti non separa Israele dalla Cisgiordania occupata ma la Cisgiordania dalla Cisgiordania [perché non segue il percorso del confine tra Israele e Giordania precedente alla guerra del ’67, ma passa per lo più nei territori palestinesi occupati, ndt.].

Invece il supplemento pubblicò una rettifica piuttosto insignificante riguardo all’articolo, rilevando che una didascalia “aveva sbagliato ad identificare un mezzo meccanico su una strada nei pressi della struttura. Si trattava di un veicolo militare israeliano e non di un carrarmato.”

Questa “rettifica” affermava persino che l’articolo a cui faceva riferimento riguardava la “discussa barriera costruita per separare Israele dalla Cisgiordania.” In altre parole, la “rettifica” conteneva un errore peggiore di quello che avrebbe dovuto correggere.

Come segnalato, il giornale da allora ha fatto lo stesso errore e non lo ha corretto nonostante numerose sollecitazioni.

Nel marzo 2017 il giornalista Russell Goldman ha scritto: “L’inafferrabile artista di strada Banksy ha decorato gli interni dell’hotel “Walled Off” [Recintato], un albergo di nove stanze nella città cisgiordana di Betlemme le cui finestre danno sulla barriera che separa il territorio da Israele.”

Ancora una volta il New York Times avrebbe dovuto descrivere una barriera che in larga misura separa i palestinesi tra loro e dalle loro terre all’interno della Cisgiordania occupata.

La posizione della barriera e il fatto che molti israeliani uccisi non erano civili ma forze militari di occupazione sono dati informativi che possono essere facilmente verificabili.

Il fatto che il New York Times rifiuti di correggere Stephens, confidando in modo incondizionato nelle affermazioni di fonti ufficiali israeliane, indica che a Stephens è stato dato troppo spazio per proporre la propaganda legata ad Israele.

Non credo che Dao nutra lo stesso animo antipalestinese di Stephens – e venerdì persino Stephens ha criticato gli “attacchi demagogici contro gli arabi israeliani” da parte di Netanyahu, benché non si sia potuto spingere fino a chiamarli cittadini palestinesi di Israele o manifestare un minimo di preoccupazione per l’occupazione e per i crimini di guerra di Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.

Ma critiche relativamente moderate nei confronti di Netanyahu non possono mitigare grossolani errori riguardo ai fatti, insinuazioni razziste e indulgenza nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, come Stephens ha fatto nella sua carriera. Con questi precedenti, Dao non dovrebbe privilegiare la parola di Stephens – e del governo israeliano – rispetto a quella di una credibile organizzazione per i diritti umani.

Il New York Times dovrebbe pubblicare una rettifica alla fine del prossimo articolo di Stephens, chiarendo che il governo israeliano ha fornito un’informazione errata e che chi controlla i fatti non ha cercato altre fonti di informazione più attendibili.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Khalida Jarrar lascia il carcere israeliano con “messaggi di libertà”

Tamara Nassar

2 marzo 2019, Electronic Intifada

Giovedì Israele ha rilasciato la parlamentare [del Consiglio Legislativo Palestinese dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] di sinistra Khalida Jarrar, dopo averla tenuta in carcere senza accuse né processo per 20 mesi.

È stata portata via da casa sua il 2 luglio 2017 durante un’incursione prima dell’alba nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Israele ha incarcerato Jarrar molte volte.

“Hanno detto alla mia famiglia che sarei stata rilasciata a mezzogiorno al checkpoint militare di al-Jalameh, ma l’autorità penitenziaria ha fatto arrivare un bosta speciale e ha deciso di portarmi al checkpoint di Salem e di rilasciarmi al mattino presto”, ha detto Jarrar in un video.

Bosta è il nome di un veicolo usato per trasferire i prigionieri in piccole gabbie di metallo con braccia e gambe incatenate, spesso per lunghe ore – una crudele forma di violenza.

“Hanno rilasciato la mamma molto presto al mattino e in un luogo diverso e l’hanno lasciata a camminare da sola in mezzo al nulla. A dispetto dei tentativi di Israele di disturbare la festa [per accogliere il suo rilascio], la mamma è libera!”, ha detto sui social media la figlia di Jarrar, Yafa, secondo quanto riportato dall’associazione per i diritti dei prigionieri “Samidoun”.

Dopo il suo rilascio Khalida Jarrar ha fatto visita alla tomba del padre.

“ In definitiva, ci auguriamo il rilascio di tutti i prigionieri e portiamo i loro messaggi di libertà”, ha aggiunto Jarrar.

Le condizioni dei prigionieri

La parlamentare ha sottolineato “le difficili condizioni in cui vivono le donne detenute, soprattutto dopo che sono state raggruppate e trasferite dal carcere HaSharon a quello di Damon, dove vivono in condizioni disumane.”

La commissione per i prigionieri dell’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato che le autorità penitenziarie israeliane distribuivano alle detenute di Damon cibo avariato e scaduto.

Ha aggiunto che vi sono ancora telecamere di sorveglianza installate nel cortile, che costringono le donne a indossare l’hijab – il velo sul capo – anche dentro le loro stanze.

Intanto i palestinesi delle prigioni israeliane nella regione del Naqab (Negev) nel sud di Israele stanno sciogliendo le organizzazioni dei prigionieri per protesta contro le repressioni delle autorità carcerarie israeliane.

Le donne palestinesi detenute nel carcere di HaSharon hanno contestato la decisione delle autorità di installare a settembre telecamere di sorveglianza nel cortile del carcere, rifiutandosi di andare in cortile.

Secondo The Times of Israel, Jarrar ha parlato del piano di peggiorare le condizioni dei palestinesi nelle prigioni israeliane e riportare il loro livello di vita al “minimo indispensabile” , annunciato il mese scorso, del ministro israeliano per la Pubblica Sicurezza Gilad Erdan.

Erdan fa parte di una commissione composta da diversi membri del parlamento israeliano, come anche lo Shin Bet [servizio di sicurezza interno, ndtr.], che stabilisce le condizioni dei prigionieri palestinesi ed impone loro ulteriori restrizioni.

“Parte dell’attacco è stato contro le donne detenute”, ha detto Jarrar alla rete televisiva Wattan dopo il suo rilascio. “Stanno cercando di ridurre le detenute in una situazione in cui ricomincino la loro lotta dal punto di partenza.”

“Le celle sono molto umide, le installazioni elettriche sono pericolose perché sono bagnate, soprattutto d’inverno, e questo provoca incendi”, ha detto Jarrar. “Il cortile è pieno di telecamere. Non abbiamo una biblioteca, non abbiamo un’aula scolastica. Non esiste cucina e le detenute sono costrette a cucinare nelle loro umide celle.”

Erdan ha annunciato il blocco dei fondi destinati dall’Autorità Nazionale Palestinese ai servizi per i detenuti, riducendo la loro autonomia e limitando le forniture d’acqua.

Secondo Haaretz, ha sostenuto che il consumo d’acqua dei prigionieri è “folle” ed è un loro modo “di sovvertire lo Stato”.

Il quotidiano non ha specificato quanta acqua si presume consumino i prigionieri palestinesi.

Citati in un rapporto del governo

Allo scopo di screditare e diffamare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele] (BDS) per i diritti dei palestinesi, il governo israeliano il mese scorso ha pubblicato un rapporto intitolato “Terroristi in giacca: i legami tra le ONG che promuovono il BDS e le organizzazioni terroriste”.

Il rapporto definisce Jarrar, che fa parte del consiglio direttivo dell’associazione “Addameer” per i diritti dei prigionieri, come una dei “numerosi membri e agenti terroristi che sono diventati figure dirigenti in organizzazioni non governative che delegittimano e promuovono boicottaggi contro Israele, mentre nascondono o minimizzano il loro passato di terroristi.”

È da notare che Israele non ha mai formulato accuse contro Jarrar negli scorsi 20 mesi, nonostante sostenga che lei abbia legami “col terrorismo”.

Jarrar è membro del Consiglio Legislativo Palestinese e ex leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera quella fazione politica, come praticamente tutti gli altri partiti politici palestinesi, un’organizzazione “terroristica”. Attualmente ci sono otto parlamentari palestinesi nelle carceri israeliane, cinque dei quali in detenzione amministrativa [cioè senza accuse e senza processo, ndtr.].

Anche l’artista palestinese Mustapha Awad è citato nel rapporto.

E’ in carcere da luglio e a novembre è stato condannato ad una pena di un anno in una prigione israeliana.

Awad, che ha 36 anni, è nato nel campo profughi di Ein al-Hilweh in Libano e a 20 anni ha ottenuto asilo in Belgio.

Come molti rifugiati palestinesi, Awad non era mai stato in Palestina e ha deciso di visitarla la scorsa estate, ma è stato arrestato dalle autorità israeliane quando ha cercato di entrare nella Cisgiordania occupata dalla Giordania, e da allora è in carcere.

Israele accusa Awad, che è co-fondatore di un gruppo di danza popolare, di appartenere al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

L’Egitto rilascia membri di Hamas

Giovedì le autorità egiziane hanno rilasciato quattro membri di Hamas, che erano stati rapiti da uomini armati in Egitto nell’agosto 2015, e altri quattro palestinesi della Striscia di Gaza.

I membri di Hamas Abdeldayim Abu Libdah, Abdullah Abu al-Jubain, Hussein al-Zibdah e Yasir Zannoun sono arrivati attraverso il valico di Rafah nella Striscia di Gaza accompagnati dal membro dell’ufficio politico di Hamas Rawhi Mushtaha.

Il leader di Hamas Ismail Haniyeh, che era tornato nella Striscia il giorno prima, avrebbe ringraziato le autorità egiziane per aver rilasciato gli uomini.

I quattro membri di Hamas sono stati rapiti da uomini mascherati dopo essere entrati in Egitto da Gaza attraverso il valico di Rafah e si trovavano su un autobus diretto all’aeroporto internazionale del Cairo quando è avvenuto il rapimento.

L’Egitto non ha mai ammesso ufficialmente di detenerli in carcere.

Tamara Nassar è assistente di redazione di ‘The Electronic Intifada’

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele dovrebbe essere giudicato per l’uccisione illegale di manifestanti a Gaza

Middle East Monitor

28 febbraio 2019

video proiettato durante le sedute della Commissione ONU

La Reuter [agenzia di stampa britannica, ndt.] ha informato che giovedì membri di una commissione d’inchiesta ONU hanno affermato che lo scorso anno a Gaza le forze di sicurezza israeliane potrebbero aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità per l’uccisione di 189 palestinesi e il ferimento di più di altri 6.100 durante le proteste settimanali.

La commissione indipendente ha affermato di aver avuto informazioni confidenziali su coloro che ritiene essere responsabili di queste uccisioni illegali, compresi cecchini e comandanti dell’esercito israeliano. Ha chiesto ad Israele di incriminarli.

Quando hanno sparato le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso e menomato manifestanti palestinesi che non rappresentavano una minaccia immediata di morte o di gravi ferite ad altri, né stavano partecipando direttamente agli scontri,” si afferma, aggiungendo che le proteste sono state “di carattere civile”.

Le vittime includono minori, giornalisti e una persona amputata ad entrambe le gambe che era su una sedia a rotelle.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto il rapporto ed ha accusato il Consiglio ONU per i Diritti Umani, che ha promosso l’inchiesta, di ipocrisia e di menzogne alimentate da “un odio ossessivo verso Israele.”

Israele ha affermato di aver aperto il fuoco per difendere il confine da incursioni e attacchi da parte di miliziani armati.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha affermato che i risultati dell’indagine confermano che “Israele ha commesso crimini di guerra contro il nostro popolo a Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme.”

In un comunicato ha detto che la Corte Penale Internazionale dovrebbe agire immediatamente e aprire un’inchiesta in merito.

Le proteste sul confine tra Israele e la Striscia di Gaza sono iniziate nel marzo dello scorso anno, con i gazawi che chiedevano che Israele alleggerisse il blocco dell’enclave e il riconoscimento del loro diritto al ritorno alle terre da cui le loro famiglie fuggirono o che vennero obbligate a lasciare quando Israele venne fondato nel 1948.

La commissione ha scoperto che 183 dei 189 manifestanti sono stati uccisi con proiettili veri. Ha espresso una grande preoccupazione per le regole d’ingaggio segrete stilate dai dirigenti civili e militari israeliani che “a quanto pare consentono di sparare proiettili veri contro dimostranti come ultima risorsa… e di sparare alle gambe dei ‘principali agitatori’.”

Sostiene che il concetto israeliano di ‘principali agitatori’ non esiste nelle leggi internazionali.

Dice che circa 122 feriti, tra cui 20 minori, hanno avuto un arto amputato.

La commissione afferma che nessun soldato israeliano è stato ucciso durante le proteste, tranne uno durante un giorno di manifestazioni ma non in un luogo in cui stavano avvenendo proteste, mentre quattro sono stati feriti.

Una portavoce militare israeliana lo ha contestato, sostenendo che il soldato sia stato colpito a morte durante disordini nelle vicinanze che erano “stati provocati per attirare soldati e poterli attaccare.”

Il rapporto, che riguarda il periodo dal 30 marzo al 31 dicembre 2018, si basa su centinaia di interviste con vittime e testimoni, così come su reperti medici, video, riprese da droni e fotografie.

Il rapporto dice che il 14 maggio le forze israeliane hanno ucciso 60 dimostranti, il più alto numero di vittime in un solo giorno a Gaza dall’attacco militare del 2014 [l’operazione “Margine Protettivo”, ndt.].

In un comunicato Amnesty International ha affermato: “I responsabili da questi crimini deprecabili non devono rimanere impuniti. I risultati di questo rapporto devono portare a fare giustizia per le vittime di crimini di guerra.”

Corte Penale Internazionale

I membri della commissione d’indagine dicono che l’alta commissaria ONU per i diritti umani Michelle Bachelet dovrebbe condividere i risultati con la CPI.

Israele non fa parte della CPI né ne riconosce la giurisdizione, ma la corte con sede all’Aia nel 2015 ha aperto un’indagine preliminare riguardo alle denunce di violazioni dei diritti umani da parte di Israele sul territorio palestinese.

La Striscia di Gaza, l’enclave costiera controllata dal gruppo islamista Hamas, ospita 2 milioni di palestinesi. Nel 2005 Israele ritirò le sue truppe e i suoi coloni da Gaza, ma conserva un rigido controllo sui suoi confini terrestri e marittimi. Anche l’Egitto limita il movimento dentro e fuori Gaza.

Il presidente della commissione Santiago Cantón, un giurista argentino, ha detto: “Alcune di queste violazioni possono rappresentare crimini di guerra o contro l’umanità e devono essere immediatamente indagate da Israele.”

Durante una conferenza stampa ha affermato: “La nostra inchiesta ha scoperto che i manifestanti erano nella stragrande maggioranza disarmati, anche se non sempre pacifici.”

Trentacinque minori, due giornalisti e tre paramedici “chiaramente individuabili” sono stati tra le vittime delle forze israeliane, in violazione delle leggi umanitarie internazionali, afferma il rapporto.

Sara Hossain, membro della commissione e avvocatessa presso la Corte Suprema del Bangladesh, ha sostenuto: “Stiamo affermando che hanno sparato intenzionalmente a minori. Hanno sparato intenzionalmente a persone disabili, hanno sparato intenzionalmente a giornalisti.” E ha aggiunto: “Abbiamo scoperto che una persona con entrambe le gambe amputate è stata colpita ed uccisa mentre era seduta sulla sua sedia a rotelle. In due giorni diversi due persone visibilmente con le stampelle sono state colpite alla testa. Sono state uccise.”

Israele afferma che le sue forze sono state a volte vittime di attacchi da armi da fuoco o granate durante le proteste.

Betty Murungi, che ha fatto parte della commissione, ha anche detto che le autorità di Gaza dovrebbero interrompere l’uso di aquiloni e palloni incendiari, congegni che hanno distrutto coltivazioni israeliane.

Il funzionario di Hamas Ismail Rudwan ha detto alla Reuter a Gaza: “La richiesta della commissione ONU di mettere sotto processo i dirigenti dell’occupazione israeliana è una prova che le forze di occupazione hanno commesso crimini contro l’umanità nella Striscia di Gaza.”

Nell’ultimo decennio Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre.

(traduzione di Amedeo Rossi)




GERUSALEMME. Tensioni ad Al-Aqsa, nuovo punto di rottura

Ben White

Middle East Eye, 21 febbraio 2019

Roma, 25 febbraio 2019, Nena News –  Passate inosservate sui media occidentali, le tensioni nella Gerusalemme occupata si sono intensificate. La scorsa settimana è nato un nuovo scontro sulla questione del complesso della Moschea di Al-Aqsa, nel contesto degli sforzi sempre più intensi che le autorità israeliane e i coloni stanno mettendo in campo per cambiare lo status quo e impossessarsi delle proprietà palestinesi nella Città Vecchia e dintorni.

Il governo giordano ha recentemente deciso di allargare la struttura della Waqf – l’istituzione incaricata di gestire il complesso di Al-Aqsa – per includere un certo numero di “pezzi grossi” palestinesi, oltre ai consolidati membri giordani.

Accessi chiusi 

La mossa è giunta in risposta a quella che Ofer Zalzberg, dell’Unità di Crisi Internazionale, ha descritto ad Haaretz come “l’erosione dello status quo” nella zona, che include anche la tolleranza, da parte delle forze di occupazione israeliane, di un “tranquillo pregare” degli ebrei all’interno del complesso – “uno sviluppo alquanto recente”, nota il giornale.

Giovedì scorso, il comitato appena allargato ha fatto un sopralluogo, e pregato, nell’edificio situato alla Porta della Misericordia (Bab al-Rahma), chiuso dalle autorità israeliane di occupazione dal 2003. Al tempo, la chiusura venne motivata sulla base di ipotetiche attività politiche e legami con Hamas, ma l’edificio da allora è rimasto chiuso.

Domenica notte le forze israeliane hanno messo nuovi lucchetti ai cancelli metallici che portano all’edificio. Quando i fedeli palestinesi hanno cercato di aprire i cancelli, sono scoppiati scontri, e diversi palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Martedì sera ci sono stati altri scontri e arresti, mentre un tribunale israeliano, mercoledì, ha vietato a una decina di palestinesi di entrare nel complesso. Sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che Hamas hanno condannato tali sviluppi, e hanno lanciato l’allarme sulla precarietà della situazione.

Una nuova realtà dei fatti

Ciò che è successo al complesso di Al-Aqsa dev’essere considerato all’interno del più ampio scenario di Gerusalemme, e in particolare di ciò che l’ong israeliana Ir Amir ha definito una “rapida e sempre più intensa catena di nuovi avvenimenti”, tra cui “un crescente numero di campagne, sostenute dallo Stato, per gli insediamenti all’interno dei quartieri palestinesi”.

Un’espressione di tali campagne è lo sfratto di famiglie palestinesi dalle proprie case, in modo che i coloni possano prenderne possesso.  Domenica scorsa, la famiglia di Abu Assab è stata espulsa dalla propria casa nel quartiere musulmano della Città Vecchia, un destino che attende altre centinaia di famiglie palestinesi nella Gerusalemme Est occupata.

Ciò che si sta concretizzando a Gerusalemme è una “campagna organizzata e sistematica dei coloni, con il sostegno degli enti governativi, per espellere intere comunità da Gerusalemme Est e per stabilire insediamenti al loro posto”, secondo le parole di un supervisore israeliano degli insediamenti.

“Ciò che vogliono è evidente: una maggioranza ebraica qui e a Gerusalemme Est”, ha dichiarato recentemente all’Independent Jawad Siyam, un attivista di Silwan. La sua comunità è rovinata dalla presenza dell’insediamento coloniale “Città di David”, destinato a ricevere un nuova spinta dalle autorità israeliane di occupazione, sotto forma di un progetto per una stazione di teleferica.

Gerusalemme è stata per un bel po’ assente dai titoli dei giornali, visto che la gran parte dell’attenzione, per motivi più che comprensibili, è stata riservata alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno nella Striscia di Gaza e ai tentativi, arenati, di ottenere la liberazione dal blocco. Ci sono all’orizzonte anche le elezioni israeliane, e continuano le congetture su cos’abbia in serbo l’amministrazione Trump con il cosiddetto ‘piano di pace’.

In sottofondo, comunque, l’accelerazione delle politiche coloniali israeliane a Gerusalemme Est potrebbe portare a un nuovo punto di rottura.

Attivismo di base 

La Waqf ha dichiarato di mirare all’apertura del sito di Bab al-Rahma, una richiesta che potrebbe diventare il punto fondamentale di quel genere di proteste di massa che si sono viste nell’estate del 2017. Allora, i metal detector introdotti dalle forze israeliane di occupazione fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa innescarono manifestazioni spontanee, e alla fine vennero rimossi.

Che il Waqf decida o meno di procedere, potrebbe ritrovarsi con le mani legate dalla pressione dell’attivismo di base; c’è parecchia preoccupazione, tra i palestinesi, che il governo israeliano – insieme al cosiddetto “Movimento del Tempio” – si stia adoperando per una divisione dello spazio del complesso di Al-Aqsa, con l’instaurazione al suo interno di preghiere ebraiche formalizzate.

Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno procedendo alla chiusura del loro Consolato a Gerusalemme Est e allo spostamento degli “affari” palestinesi in un ufficio all’interno della nuova Ambasciata: un segnale potente, se ce ne fosse bisogno, del fatto che la visione dell’amministrazione Trump traccia una netta separazione anche dalla semplice finzione di una “soluzione dei due Stati”, e del suo timbro di approvazione su Israele come unico Stato di fatto.

Gli eventi di questa settimana, comunque si svilupperanno, costituiscono un monito: mentre Israele e gli Stati Uniti vedono in Gerusalemme una facile preda per un rapido processo di colonizzazione e di maggiore imposizione della sovranità israeliana, i residenti palestinesi della città sono navigati guastafeste dei piani israeliani e potrebbero presto riprendere questo ruolo

Traduzione di Elena Bellini/ Nena News




Deputati israeliani firmano una petizione per insediare 2 milioni di ebrei in Cisgiordania

Ma’an News – 9 febbraio 2019

Betlemme (Ma’an) – Decine tra ministri israeliani e importanti esponenti del Likud e di altri partiti di destra hanno firmato una petizione a favore dell’insediamento di due milioni di ebrei nella Cisgiordania occupata.

Il presidente della Knesset [parlamento] israeliano Yuli Edelstein e i ministri Gilad Erdan, Miri Regev, Yisrael Katz del Likud, Ayelet Shaked e Naftali Bennett del partito “Nuova Destra” sono tra i firmatari di una petizione per abbandonare la soluzione dei due Stati e fondare nuovi insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata.

La petizione che hanno firmato è stata promossa dal movimento “Nahala”, un gruppo di coloni israeliani, per promuovere un progetto di colonizzazione israeliano proposto sotto il governo del defunto primo ministro Yitzhak Shamir all’inizio degli anni ’90.

Il principale obiettivo della petizione è di insediare 2 milioni di ebrei in Cisgiordania.

Recentemente gli attivisti di “Nahala” hanno protestato fuori dalla residenza del primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme, chiedendo che il prossimo governo lavori per la colonizzazione di tutta la Cisgiordania e che venga abbandonata l’idea di una soluzione a due Stati.

Tra i membri del Likud che hanno firmato ci sono Il presidente della Knesset israeliana Yuli Edelstein, il ministro dei Trasporti Yisrael Katz, il ministro del Turismo Yariv Levin, Il ministro della Protezione Ambientale e delle Questioni di Gerusalemme Zeev Elkin, il ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan, la ministra della Cultura Miri Regev, il ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi, il ministro delle Comunicazioni Ayoub Kara, il ministro dell’Immigrazione e dell’Integrazinoe Yoav Gallant, la ministra dell’Uguaglianza Sociale Gila Gamliel e il ministro della Scienza e della Tecnologia Ofir Akunis. Anche la ministra della Giustizia Ayelet Shaked e il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, entrambi del partito “Nuova Destra”, hanno firmato la petizione.

La dichiarazione del movimento “Nahala” afferma: “Con la presente mi impegno ad essere leale nei confronti della terra di Israele, a non cedere un centimetro di quanto abbiamo ereditato dai nostri antenati. Con la presente mi impegno a realizzare il progetto di insediamento di due milioni di ebrei in Giudea e Samaria [la Cisgiordania, ndtr.] in base al piano del primo ministro Yitzhak Shamir, così come a incoraggiare e guidare la redenzione di tutte le terre in Giudea e Samaria. Mi impegno ad agire per cancellare la dichiarazione dei due Stati per due popoli e a sostituirla con la solenne dichiarazione: la terra di Israele: un Paese per un popolo.”

In un comunicato il movimento “Nahala” ha affermato che la petizione è una “verifica ideologica e di fedeltà etica.”

Tra 500.000 e 600.000 israeliani vivono nelle colonie solo per ebrei a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate in violazione delle leggi internazionali, con recenti annunci di espansione delle colonie che hanno provocato la condanna da parte della comunità internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gruppi LGBTQ invitano al boicottaggio di ‘Eurovision’

Riri Hylton

1 febbraio 2019 The Electronic Intifada

Attivisti per i diritti di gay, lesbiche e transessuali hanno chiesto il boicottaggio del concorso musicale ‘Eurovision’ di quest’anno a Tel Aviv.

Più di 60 gruppi LGBTQ da tutto il mondo si sono uniti ad un nuovo appello per dimostrare solidarietà ai palestinesi.

In una dichiarazione, i gruppi accusano Israele di “usare spudoratamente la competizione ‘Eurovision’ ” per sviare l’attenzione da crimini di guerra.

L’organizzazione “alQaws per la Differenza Sessuale e di Genere nella Società Palestinese” sostiene che Israele sia impegnato in un ‘pinkwashing’ – il cinico uso dei diritti LGBTQ da parte di Stati e imprese per minimizzare le loro attività negative.

Haneen Maikey, direttrice di alQaws, ha detto che “Israele sta usando ‘Eurovision’ come diplomazia della cultura pop” e sta cercando di “sfruttare” i sostenitori LGBTQ della competizione.

Maikey ha affermato che Israele “ostenta sostegno ai diritti dei gay mentre rinchiude migliaia di nativi palestinesi in bantustan.”

La dichiarazione appoggiata dai gruppi LGBTQ sostiene che possono essere riscontrate “assonanze” tra la violenza della polizia e dell’esercito subita dai palestinesi e quella inflitta agli attivisti gay e lesbiche. L’incursione della polizia nel 1969 allo Stonewall Inn di New York e i disordini che ne sono seguiti sono universalmente considerati eventi chiave nella storia del movimento di liberazione LGBTQ.

Progressista?

Nonostante diffonda un’immagine progressista, Israele ha negato uguaglianza di diritti tra coppie eterosessuali ed omosessuali. È anche noto che Israele ha posto sotto sorveglianza i palestinesi LGBTQ ed ha cercato di ricattarli con la minaccia di informare gli amici palestinesi.

L’israeliana Netta Barzilai ha vinto la competizione ‘Eurovision’ 2018 a Lisbona con la canzone pop “Toy” ritenuta a favore dell’emancipazione femminile. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu quella sera ha risposto con una telefonata in diretta alla vincitrice, nel corso della quale ha detto a Barzilai che lei era “la miglior ambasciatrice” del Paese.

Il mattino seguente Netanyahu ha definito la vittoria un “regalo”.

Due giorni dopo la sua vittoria, Barzilai si è esibita in Piazza Rabin, a Tel Aviv.

Qualche ora prima, i soldati israeliani hanno compiuto un massacro durante la Grande Marcia del Ritorno a Gaza. E’ stato il giorno più sanguinoso  dall’attacco a Gaza del 2014 durato 50 giorni.

Barzilai nel 2014 ha fatto parte della marina israeliana e si dice che abbia cantato una canzone per i colleghi che hanno preso parte all’attacco a Gaza [si riferisce all’operazione “Margine protettivo”, ndtr.].

Da allora, è apparsa in molti eventi sponsorizzati da Israele, compreso il Pride di Tel Aviv.

“Tolleranza fittizia”

Gli attivisti LGBTQ stanno cercando di boicottare il Pride di Tel Aviv del 2019, come anche ‘Eurovision’.

“Il Pride di Tel Aviv non è come gli altri cortei pride”, ha dichiarato Maikey. “È un esercizio di ‘pinkwashing’, strettamente connesso al governo israeliano e parte della sua ben collaudata strategia di propaganda del “marchio Israele” per trasformare i turisti gay in comparse per il fittizio spettacolo di tolleranza che ha messo in scena.”

La scorsa estate Barzilai ha rilasciato un’intervista alla Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] in cui ha detto: “Israele è fantastico”, ma “abbiamo pessime pubbliche relazioni nel mondo.”

Nel tentativo di promuovere il sostegno a ‘Eurovision’, a novembre Barzilai ha intrapreso un tour. Si è trovata di fronte a proteste e scarsa affluenza.

La sua prima tappa è stata Vienna, dove si è esibita davanti a un pubblico di sole 100 persone, mentre lo spettacolo programmato a Zurigo è stato cancellato a causa della mancanza di interesse riscontrata.

Analogamente, a Berlino si è recato a vederla solo uno scarso numero di persone, in un locale che può ospitare 500 persone.

A Londra si è svolta una manifestazione di protesta particolarmente numerosa, quando Barzilai ha cantato nel gay club Heaven.

All’avvicinarsi di ‘Eurovision’, che si svolgerà a maggio, i sostenitori dei diritti umani hanno intensificato la loro attività. Il mese scorso a Parigi manifestanti hanno invaso il palcoscenico durante un evento indetto per stilare una lista ridotta di candidati a rappresentare la Francia a ‘Eurovision’.

Barzilai stava per presentarsi al pubblico quando è iniziata la protesta.

La campagna di boicottaggio di ‘Eurovision’ di quest’anno ha avuto molto seguito in Irlanda – che ha vinto la competizione ben sette volte.

La sezione radiofonica di Dublino dell’Unione Nazionale Giornalisti ha recentemente messo in discussione ‘Eurovision’. Ha offerto appoggio ai giornalisti che hanno dichiarato obiezione di coscienza per non seguire la competizione.

Questa decisione fa seguito all’impegno preso dalla direzione di RTE, l’emittente irlandese, che nessun membro dello staff subirà punizioni se si rifiuta di andare a Tel Aviv.

E questa settimana 50 artisti britannici hanno chiesto alla BBC di non trasmettere ‘Eurovision’ 2019.

Una lettera pubblicata su The Guardian afferma che “ ‘Eurovision’ può anche essere uno spettacolo leggero, ma non è esente da considerazioni sui diritti umani – e noi non possiamo ignorare la sistematica violazione da parte di Israele dei diritti umani dei palestinesi.”

Tra coloro che hanno firmato la lettera compaiono i musicisti Peter Gabriel e Roger Waters, il regista Ken Loach e la stilista Vivienne Westwood.

“La rapida diffusione spontanea e vivace dell’appoggio all’appello palestinese di boicottare ‘Eurovision’ in Israele ci dà speranza”, ha detto Haneen Maikey di alQaws. “Il ‘marchio’ di Israele è appannato e il suo vero volto di regime coloniale di apartheid si sta sempre più rivelando al mondo.”

Riri Hylton è giornalista e editor freelance che lavora sia nella carta stampata che nel giornalismo radiofonico. Vive tra Londra e Berlino.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)