Un dipartimento del ministero della Difesa israeliano è incaricato di nascondere le prove della Nakba – da “Haaretz”

Jonathan Ofir

5 luglio 2019 MondoWeiss

Israele ha un dipartimento segreto del ministero della Difesa incaricato di far sparire documenti relativi alla Nakba. Oggi il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un‘estesa inchiesta di Hagar Shezaf intitolata “Seppellire la Nakba: come Israele ha sistematicamente nascosto le prove dell’espulsione degli arabi nel 1948”.

Il dipartimento è chiamato “Direzione della sicurezza dell’Istituzione della Difesa”, con l’acronimo in ebraico MALMAB. In ebraico risulta persino più ossessivo, perché le parole “Difesa” e “Sicurezza” sono le stesse (‘Bitahon’), quindi sarebbe “Direzione della Sicurezza per l’Istituzione della Sicurezza”. Quindi, da cosa l’istituzione della sicurezza si sta proteggendo?

Apparentemente si tratta della ricerca di documenti relativi a informazioni sensibili che riguardano il programma nucleare segreto di Israele. Ma è chiaro che il dipartimento si è occupato di informazioni sulla pulizia etnica della Palestina nel 1948 (e anche di espulsioni successive) in quanto minaccia strategica. Quindi documenti che sono già stati approvati dal censore per essere declassificati, già pubblici e citati, sono stati di nuovo messi in cassaforte per ordine di questi funzionari.

Per parecchi decenni il dipartimento segreto ha fatto sparire documenti. Alla fine degli anni ’80 le prove documentali relative ad avvenimenti della Nakba da parte di storici quali Benny Morris, Ilan Pappe e Avi Shlaim, noti anche come “Nuovi Storici”, sono diventate un problema per lo Stato, in quanto mettevano in dubbio la versione della propaganda israeliana e confermavano in larga misura quella che era stata derisoriamente definita la “narrazione palestinese”. Yehiel Horev, l’ufficiale che ha fondato e guidato il dipartimento per due decenni, fino al 2007, non è stato per niente reticente riguardo alla sua subdola motivazione. Alla domanda riguardo a un documento problematico che Morris aveva già citato nel 1986, Horev ha detto:

Non ricordo il documento a cui lei si riferisce, ma se l’ha citato e quello stesso documento non è là (cioè dove Morris dice che sia), allora i fatti di cui parla non sono affidabili. Se dice: ‘Sì, ho il documento,’ non lo posso discutere. Ma se dice che è scritto là, potrebbe essere vero o falso. Se il documento fosse già stato reso pubblico e fosse rinchiuso in archivio, direi che è una follia. Ma se qualcuno l’ha citato, c’è una differenza tra il giorno e la notte riguardo alla validità della prova che ha citato.

In altre parole, l’obiettivo del lavoro è minare la credibilità di quanti hanno già citato quei documenti.

Il documento specifico a cui ci si riferisce nella domanda non è un documento qualunque. È un documento del 30 giugno 1948 chiamato “L’emigrazione degli arabi della Palestina”, redatto dal servizio di intelligence militare israeliana, che elenca le ragioni della fuga dei palestinesi. Vengono elencati undici motivi in ordine di importanza, di cui i primi tre sono:

1. Operazioni ostili ebraiche (Haganah/IDF [principale milizia sionista/esercito israeliano, ndtr.] dirette contro insediamenti arabi;

2. Gli effetti delle nostre (Haganah/IDF) operazioni ostili contro insediamenti (arabi) vicini…(…soprattutto la caduta di grandi centri nei dintorni);

3. Operazioni di dissidenti (ebrei: Irgun Tzvai Leumi e Lohamei Herut Yisrael [altre due milizie sioniste ultranazionaliste e dedite al terrorismo fin dagli anni ‘30, ndtr.]).

In seguito il documento riepiloga i fattori e conclude:

Per riassumere le sezioni precedenti, si potrebbe pertanto dire che l’impatto delle “azioni militari ebraiche (Haganah e dissidenti) sulla migrazione è stato decisivo, in quanto circa il 70% degli abitanti ha lasciato le proprie comunità ed è emigrato in conseguenza di queste azioni.

A conferma che queste sono state le principali e fondamentali ragioni della fuga dei palestinesi, il documento attesta che i palestinesi per lo più se ne andarono per il timore immediato e a causa delle ostilità dirette, e non, come sosteneva la versione della propaganda israeliana, perché “i leader arabi glielo avevano detto.” Tale documento si riferisce alla responsabilità in termini di espulsione attiva dei palestinesi, indicando la nozione di pulizia etnica – che Ilan Pappe ha esplicitato nel suo libro fondamentale del 2006 “La pulizia etnica della Palestina.”

Dopo aver scritto l’articolo nel 1986, Morris ha citato questo documento anche in libri successivi. Ho fatto riferimento a questo in precedenti articoli, citando queste parti cruciali.

Quel documento è molto esteso. Nel bel mezzo della Nakba descrive già nei minimi dettagli lo spopolamento di 219 villaggi e 4 città, di 239.000 palestinesi. La campagna di pulizia etnica era in pieno svolgimento, e in sei mesi avrebbe riguardato lo spopolamento di 500 villaggi e città e circa 750.000 palestinesi. Il documento contiene 29 pagine ed è meticoloso in modo agghiacciante. Elenca il numero di abitanti in ogni località “durante un periodo normale”, in modo molto preciso (per esempio: Salihiyya – 1.520”; “Mansura – 360”) e poi elenca la ragione dello spopolamento (ad esempio: “Ein Zaytoun – distruzione del villaggio da parte nostra”; Qabba’a – nostro attacco contro di loro”). In genere viene elencata la direzione della fuga (per esempio: Qabba’a – “Libano”).

Quindi, che ne è di questo documento? C’è stato un incidente, una crepa nel muro del negazionismo. Benché sia diventato riservato dopo essere già stato citato, e nonostante il gruppo di lavoro del Malmab avesse ordinato che rimanesse segreto, pochi anni dopo ricercatori di Akevot, un istituto di ricerca che si dedica a documentare questioni relative ai diritti umani nel conflitto israelo-palestinese, trovarono una copia del testo e lo mostrarono alla censura militare – che ne autorizzò senza condizioni la pubblicazione. A quanto pare i dipartimenti deputati a nascondere le prove non hanno comunicato in modo corretto tra di loro. Questo documento fondamentale ora si può trovare integralmente grazie ad Akevot.

Ma il sistema di occultamento retroattivo continua a funzionare. Haaretz racconta la recente vicenda della storica israeliana Tamar Novick, che ha scoperto un documento del 1948 presso l’archivio Yad Yaari [centro di documentazione e studio su alcuni movimenti sionisti, ndtr.] di Givat Haviva [centro di documentazione del movimento dei kibbutz, ndtr.]. Il documento afferma:

Safsaf (in origine un villaggio palestinese nei pressi di Safed) – 52 uomini sono stati presi, legati uno all’altro, hanno scavato una fossa e sono stati colpiti a morte. Dieci si stavano ancora contorcendo. Sono arrivate le donne, chiedendo pietà. Sono stati trovati i corpi di 6 anziani. C’erano 61 corpi. Tre casi di stupro, uno a est di Safed, una ragazzina di 14 anni, e quattro uomini colpiti e uccisi. A uno hanno tagliato le dita con un coltello per prendergli l’anello.

Continua descrivendo altri massacri, saccheggi e violenze. Il documento in sé non era firmato (benché fosse nella documentazione del funzionario del dipartimento arabo del partito di sinistra MAPAM Yosef Vashitz) ed era tagliato a metà, per cui Novick ha deciso di consultarsi con Morris – che aveva citato avvenimenti simili nei suoi scritti. Le descrizioni di Morris sono prese da un altro documento (un rapporto del membro del Comitato Centrale del MAPAM Aharon Cohen), che proveniva anch’esso dallo stesso archivio. Quindi Novick è tornata a Givat Haviva per confermare i due documenti, ed ha scoperto che quello citato da Morris non c’era più.

In un primo tempo ho pensato che forse Morris non era stato preciso nelle sue note, che forse aveva fatto un errore,” ricorda Novick. “Mi ci è voluto del tempo prima di prendere in considerazione la possibilità che il documento fosse semplicemente scomparso.” Quando ha chiesto ai responsabili dove fosse il documento, le è stato detto che era stato messo sottochiave allo Yad Yaari per ordine del ministero della Difesa.

La Malmab ha fatto sparire anche documenti successivi. Per esempio una testimonianza del geologo Avraham Parnes relativa a un’espulsione di beduini nel 1956:

Un mese fa abbiamo visitato Ramon (cratere). Nella zona di Mohila alcuni beduini sono venuti da noi con le loro greggi e le loro famiglie e ci hanno chiesto di mangiare con loro. Ho risposto che avevamo molto lavoro da fare e non avevamo tempo. Nella nostra visita di questa settimana abbiamo di nuovo visitato Mohila. Invece dei beduini e delle loro greggi c’era un silenzio di morte. Una serie di carcasse di cammelli era sparsa nella zona. Abbiamo saputo che tre giorni prima l’IDF aveva ‘tolto di mezzo’ i beduini e le loro greggi erano state sterminate – i cammelli a fucilate, le pecore con le granate. Uno dei beduini, che ha iniziato a protestare, era stato ucciso, gli altri erano scappati…Due settimane prima era stato loro ordinato per il momento di rimanere dov’erano, poi era stato ordinato di andarsene e per accelerare le cose più di 500 capi erano stati massacrati…L’espulsione era stata realizzata ‘in modo efficace’.

La lettera continua citando quello che aveva detto uno dei soldati a Parnes, secondo la sua testimonianza:

Non se ne sarebbero andati se non avessimo fatto fuori le loro greggi. Una ragazza di circa 16 anni si è avvicinata a noi. Aveva una collana di perline di serpenti d’ottone. Le abbiamo strappato la collana e ognuno di noi ha preso un pezzetto come souvenir.

Recenti interviste, come quelle rilasciate all’inizio degli anni 2000 dal centro Yitzhak Rabin, sono state quasi tutte fatte sparire dalla Malmab, come questa sezione con il generale (della riserva) Elad Peled, intervistato dallo storico Boaz Lev Tov:

Peled: “Guarda, lascia che ti racconti qualcosa ancora meno piacevole e più crudele riguardo alla grande incursione a Sasa (villaggio palestinese nell’Alta Galilea). L’obiettivo era in effetti di scoraggiarli, di dire loro: ‘Cari amici, il Palmach (le truppe d’assalto dell’Haganah) può raggiungere ogni posto, voi non siete al sicuro.’ Quello era il cuore dell’insediamento arabo. Ma cosa abbiamo fatto? Il mio plotone ha fatto saltare 20 case con tutto quello che c’era dentro.”

Lev Tov: “Mentre la gente vi stava dormendo?”

Peled: “Penso di sì. Quello che avvenne là: arrivammo, entrammo nel villaggio, piazzammo una bomba nei pressi di ogni casa e poi Homesh suonò una tromba, perché non avevamo radio, e quello era il segnale perché (le nostre forze) se ne andassero. Corremmo all’indietro, gli artificieri rimasero, schiacciarono i pulsanti, era tutto rudimentale. Accesero la miccia o premetterono sul detonatore e tutte quelle case sparirono.”

Fortunatamente Haaretz ha avuto le trascrizioni integrali.

Questa ‘task force’ chiamata Malmab ha anche lanciato minacce contro archivisti. Menahem Blondheim, direttore dell’archivio presso l’Istituto di Ricerca Harry S. Truman dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ricorda i suoi scontri con funzionari della Malmab nel 2014:

Ho detto loro che i documenti erano vecchi di decenni e che non potevo immaginare che ci potesse essere alcun problema di sicurezza che potesse giustificare una restrizione al loro accesso per i ricercatori. Mi hanno risposto: ‘Mettiamo che ci sia una testimonianza secondo cui durante la guerra d’indipendenza [la guerra tra milizie israeliane, Paesi arabi e palestinesi nel 1947-48, ndtr.] i pozzi vennero avvelenati?” Ho risposto: “Bene, quella gente dovrebbe essere processata.”

Haaretz nota come “il rifiuto di Blondheim portò a un incontro con un funzionario più importante del ministero, solo che questa volta l’atteggiamento che riscontrò fu diverso e vennero fatte minacce esplicite. Alla fine le due parti raggiunsero un compromesso.”

A quanto pare questo intervento di un ente segreto del ministero della Difesa sta provocando un considerevole dissenso negli archivi di Stato. Circa un anno fa, il consigliere giudiziario degli archivi di Stato, l’avvocatessa Naomi Aldouby, ha scritto un parere intitolato “Documenti negli archivi pubblici secretati senza autorizzazione.” Secondo lei la politica di accessibilità agli archivi pubblici è di esclusiva competenza del direttore di ogni istituzione. Gli storici sospettavano che questo ente segreto esistesse, perché ne avevano trovato tracce. Benny Morris:

Ne ero a conoscenza. Non ufficialmente, nessuno mi ha informato, ma ci ho avuto a che fare quando ho scoperto che documenti che avevo visto nel passato ora sono secretati. C’erano documenti dell’archivio dell’esercito che avevo usato per un articolo su Deir Yassin [villaggio palestinese in cui nel 1948 avvenne la strage più nota, ndtr.) e che ora sono secretati. Quando sono andato nell’archivio non mi è più stato possibile vedere l’originale, per cui ho sottolineato in una nota (nell’articolo) che l’archivio di Stato aveva negato l’accesso ai documenti che avevo reso pubblici 15 anni prima.

Questa scomparsa di documentazione in precedenza disponibile è parte di un più generale modello di segretezza. Secondo il direttore di Akevot , Lior Yavne, l’archivio dell’IDF, che è il più grande di Israele, è quasi del tutto inaccessibile. L’archivio dello Shin Bet (servizio di sicurezza [interna]) è “totalmente chiuso salvo una manciata di documenti.” Nel 1998 la riservatezza dei documenti più antichi dello Shin Bet e del Mossad [servizio di sicurezza esterno, ndtr.] doveva scadere (dopo 50 anni). Nel 2010 esso è stato retroattivamente esteso a 70 anni, e lo scorso febbraio a 90 anni, nonostante l’opposizione del Consiglio Supremo degli Archivi.

Lo storico Tuvia Friling, che fu capo archivista tra il 2001 e il 2004, dice che una delle ragioni principali per cui diede le dimissioni fu questo intervento da parte della Malmab. Afferma che in un primo tempo accettò il suo intervento con il pretesto che i documenti sarebbero stati messi su internet e che essa operava con il mandato di impedire che segreti nucleari divenissero accessibili a tutti, ma poi censurarono altre cose:

La secretazione posta su documenti riguardanti l’emigrazione araba nel 1948 è esattamente un esempio di quello che temevo. Il sistema di conservazione e archiviazione non è un’arma delle relazioni pubbliche dello Stato. Se c’è qualcosa che non ti piace – bene, così è la vita. Una società sana impara anche dai propri errori…Lo Stato può imporre riservatezza su alcuni dei suoi documenti – la domanda è se la questione della sicurezza non agisca come una sorta di copertura. In molti casi è già diventata una beffa.

Il fondatore della Malmab Yehiel Horev ha detto a Hagar Shezaf:

Quando lo Stato impone riservatezza, il lavoro pubblicato viene danneggiato perché lui (Morris) non ha il documento.

Shefaz gli chiede:

Ma nascondere documenti presenti nelle note di libri non è un tentativo di chiudere la porta della stalla dopo che i buoi sono già scappati?

Horev:

Se qualcuno scrive che il bue è nero, se il bue non è fuori dalla stalla, non puoi dimostrare che lo sia davvero.

Ma il bue è davvero nero. Un’altra intervista che la Malmab ha tentato di nascondere è quella con il generale Avraham Tamir (sempre tratta dalle interviste del Centro Yitzhak Rabin). Tamir dice:

Ben Gurion stabilisce come politica che dobbiamo demolire (i villaggi) in modo che non abbiano dove tornare. Cioè, tutti i villaggi arabi.

Proprio come la sistematica distruzione dei villaggi durante la Nakba, l’agenzia segreta israeliana Malmab “per la sparizione di documenti” sta cercando di far sparire le tracce della Nakba, in modo che gli storici non possano avere “nessun posto in cui tornare” in termini di ricerche, persino quando si tratta di verificare una documentazione storica critica già citata. La Malmab cerca di riportare i “buoi” della Nakba nella stalla – in modo che per dimostrare che “il bue è nero”, per dimostrare che c’è stata una Nakba, l’onere della prova spetti agli storici. E allora tutto diventa una discussione tra “narrazioni”.

Come dice Horev:

C’è ogni sorta di narrazione. Alcuni dicono che non ci fu nessuna fuga, solo espulsioni. Altri che ci fu una fuga. Non è bianco o nero. C’è una differenza tra la fuga e quelli che dicono che furono espulsi con la forza. È un’immagine diversa.

Hover e Israele sanno, precisamente, che nella stragrande maggioranza dei casi si trattò di una questione di espulsione forzata e del terrore di tale espulsione che si sparse tra le comunità palestinesi. Cercano di nascondere proprio i documenti che confermano ciò in termini chiari. La logica di questa negazione è evidente: intende scongiurare il problema della colpa per l’espulsione, per la pulizia etnica, in modo da negare la responsabilità per il ritorno dei rifugiati. Perché l’espulsione dei palestinesi è stata una necessità assolutamente fondamentale per il sionismo e Israele nei termini dell’”equilibrio demografico” in uno Stato “ebreo e democratico”. Conservare questo “equilibrio”, e negare il ritorno ai rifugiati è un obiettivo centrale del sionismo, e lo è stato dalla creazione di Israele.

La doppia presenza del termine “sicurezza” nell’acronimo Malmab è indicativo del suo opposto, l’insicurezza. Questa è l’intrinseca insicurezza morale israelo-sionista, che deriva dalla consapevolezza che il progetto sionista è basato per la sua stessa esistenza sullo sradicamento di altri. C’è una profonda consapevolezza in ogni sionista: non si potrà mai ottenere la sicurezza se non verrà posto rimedio al torto della (continua) pulizia etnica. Invece di affrontarlo, Israele pratica la negazione, nella speranza che se esso ne andrà via. Ma non lo farà. Questo bue è decisamente nero.

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Si sono tenute nuove proteste ma più moderate per l’uccisione di un adolescente, mentre le autorità invitano alla calma

Redazione di Times of Israel

3 luglio 2019 – Times of Israel

A Tel Aviv la polizia blocca l’incrocio di Azrieli, compie numerosi arresti, ma la maggior parte delle manifestazioni è stata più pacata il giorno dopo la violenza generalizzata per la rabbia provocata dall’uccisione di Solomon Tekah

Mercoledì pomeriggio membri della comunità etiope-israeliana ed altri si sono riuniti nei principali incroci in tutto il Paese mentre Israele si preparava a nuove manifestazioni il giorno dopo violente dimostrazioni contro l’uccisione di un diciannovenne da parte di un poliziotto fuori servizio.

A metà pomeriggio era chiaro che le proteste erano molto più tranquille delle violente dimostrazioni di martedì.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu e altri importanti dirigenti hanno fatto appello alla calma ed hanno promesso di stroncare la violenza, nel contesto della rabbia scatenata dall’uccisione di Solomon Tekah domenica ad Haifa.

All’incrocio di Azrieli a Tel Aviv, un importante nodo viario, la polizia ha impedito sia alle auto che ai manifestanti di arrivare all’incrocio, nel tentativo di evitare la ripetizione del caos generalizzato e della violenza del giorno prima in quel luogo. Come è scesa la notte, l’incrocio è stato riaperto e il traffico scorreva normalmente.

Cinque persone sarebbero state arrestate a Tel Aviv, dove molti dimostranti portavano magliette o simboli che li identificavano come attivisti del Meretz [partito della sinistra sionista, ndtr.] o della Lista Unitaria dei partiti arabi. Si è parlato di sporadici arresti in altre città anche mercoledì, ma le manifestazioni sono state nel complesso tranquille se paragonate ai giorni precedenti.

Da lunedì dimostranti in tutto il Paese hanno bloccato strade, bruciato copertoni e denunciato quella che hanno definito una discriminazione sistematica contro la comunità etiope-israeliana.

Le manifestazioni si sono inasprite martedì, quando alcuni dimostranti hanno incendiato veicoli e si sono scontrati con la polizia e con quanti hanno tentato di attraversare gli improvvisati blocchi stradali.

Secondo la polizia, negli scontri sono rimasti feriti più di 110 poliziotti, tra cui alcuni da pietre e bottiglie lanciate contro di loro, e 136 dimostranti sono stati arrestati per i disordini.

Mercoledì, mentre manifestanti si riunivano sulle principali autostrade e incroci in tutto il Paese, Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione in cui riconosce che “ci sono problemi che devono essere risolti,” ma ha avvertito che le autorità “non tollereranno il blocco delle strade.”

Vi chiedo: risolviamo insieme i problemi facendo rispettare la legge,” ha supplicato i manifestanti dopo un incontro del gabinetto per la sicurezza.

All’inizio della settimana la polizia ha consentito ai dimostranti di bloccare strade in alcune località, ma mercoledì ha avvertito che era pronta ad agire con maggiore decisione.

Il commissario operativo della polizia Moti Cohen ha messo in guardia i manifestanti che non sarebbe più stata tollerata alcuna violenza.

Non c’è posto per aggressioni a poliziotti, istituzioni e beni pubblici,” ha detto Cohen prima delle proteste previste.

Non verrà più dato spazio al turbamento dell’ordine pubblico, né al blocco di strade o alla violenza,” ha affermato. “Continueremo a rispondere in modo proporzionato, a fare distinzione tra quanti esercitano il proprio diritto a protestare in un Paese democratico e quanti incitano alla violenza e aggrediscono.”

Mercoledì anche il presidente Reuven Rivlin ha lanciato un appello alla calma: “Dobbiamo smetterla, ripeto, smetterla – e pensare insieme come risolvere tutto questo.

Questa non è una guerra civile. È una lotta condivisa di fratelli e sorelle per la patria comune e il comune futuro. Chiedo a tutti voi di agire in modo responsabile e con moderazione,” ha affermato in un comunicato.

Dobbiamo consentire che l’inchiesta sulla morte di Solomon segua il suo corso ed evitare la prossima morte [di qualcuno]. Il prossimo attacco. La prossima umiliazione. Siamo tutti impegnati a farlo,” ha detto Rivlin.

Tekah, l’adolescente etiope ucciso, è stato colpito a morte da un poliziotto fuori servizio domenica durante una lite nel quartiere di Kiryat Haim ad Haifa. Un testimone oculare della sparatoria avrebbe detto al Dipartimento per le Indagini della Polizia Interna del ministero della Giustizia (PIID) che, contrariamente alle affermazioni del poliziotto, non pare fosse in pericolo quando ha aperto il fuoco.

L’ufficiale che ha sparato a Tekah è stato arrestato in quanto sospettato di omicidio, ha affermato lunedì il PIID. La pretura di Haifa lo ha in seguito rilasciato agli arresti domiciliari, diffondendo ulteriore rabbia nella comunità [degli etiopi-israeliani, ndtr.]. Sarebbe sottoposto a stretta sorveglianza per timori riguardo alla sua incolumità.

Secondo il notiziario di Canale 12, il poliziotto sostiene di aver mirato verso il basso e che una pallottola è rimbalzata dal terreno, colpendo Tekah. Ha affermato di aver cercato di sedare una rissa per strada in cui si era imbattuto, ma di essere stato aggredito da tre giovani che gli hanno lanciato contro pietre, mettendo in pericolo la sua vita.

Martedì il PIID ha emanato un insolito comunicato, affermando di aver raccolto nuove prove nell’indagine, compresa una testimonianza diretta e immagini di una camera di sicurezza nei pressi della scena.

Informazioni di mezzi di comunicazione in ebraico [affermano che] gli investigatori propendono per un’accusa meno grave di omicidio colposo, indicando che le autorità starebbero accettando la testimonianza secondo cui ha sparato a terra.

Più di 135.000 ebrei di origine etiope vivono in Israele. Gli immigrati arrivarono in due ondate principali, nel 1984 e 1991, ma molti hanno lottato con fatica per integrarsi nella società israeliana. Molti nella comunità lamentano razzismo, mancanza di opportunità e sistematici maltrattamenti da parte della polizia, nonostante le ripetute promesse da parte del governo di occuparsi del problema.

Mentre alle proteste di lunedì hanno partecipato principalmente manifestanti etiopi-israeliani, martedì ha visto una mobilitazione di appartenenti alla società israeliana nel suo complesso, che si sono uniti agli slogan contro la brutalità della polizia nei confronti delle minoranze.

Gli organizzatori della protesta hanno convocato per mercoledì pomeriggio cortei nelle strade in tutto il Paese.

Secondo post sulle reti sociali, gli organizzatori hanno affermato che dimostranti si sono riuniti agli svincoli di Kiryat Ata, nei pressi di Haifa, e di Yokne’am; in piazza Indipendenza ad Afula; agli svincoli di Poleg e a quello di Azrieli a Tel Aviv; davanti alla stazione di polizia di Rosh Ha’ayin; sulla Strada 4 nei pressi di Rishon Lezion e di Yavne; all’entrata nordoccidentale di Gerusalemme; presso le entrate e uscite cittadine lungo la Strada 431; agli svincoli di El Al nei pressi di Lod, di Bilu, di Kastina, della Ashkelon Arena; alla stazione centrale degli autobus di Beersheba.

Mercoledì pomeriggio è stato riportato un intenso traffico in alcune aree di Tel Aviv e di Gerusalemme. Tuttavia molti pendolari che martedì sono rimasti bloccati per ore sulla strada hanno scelto di evitare le autostrade, determinando un traffico ridotto su parti della superstrada di Ayalon che corre attraverso Tel Aviv e intasando il treno ad alta velocità tra le due città.

Il ministero dei Trasporti ha aperto una linea telefonica per israeliani bloccati in code previste a causa delle proteste di massa. La linea telefonica nazionale, che può essere raggiunta al numero *8787, fornirà agli automobilisti aggiornamenti sul traffico e consentirà alle persone di informare su strade bloccate e altri incidenti nella zona in cui si trovano.

Nel contempo il commissario Cohen e il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan si sono incontrati con i dirigenti della comunità etiope-israeliana in un ultimo disperato tentativo di evitare violenti scontri durante le proteste. “Condivido la sofferenza e comprendo la protesta,” ha detto mercoledì Erdan, promettendo di organizzare un’unità interna della polizia per vigilare su denunce di razzismo e avviare azioni disciplinari contro episodi simili.

La polizia israeliana ha coraggiosamente e onestamente riconosciuto che ci sono state troppe azioni di polizia (nelle comunità di etiopi-israeliani), e ce ne stiamo occupando, anche collaborando con voi,” ha detto ai dirigenti secondo una dichiarazione del suo ufficio. “Ovviamente, c’è ancora molto altro che deve essere affrontato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Germania: attivista del BDS espulso dagli eventi pro-Palestina

24 giugno 2019 – Middle East Monitor

La Germania ha proibito allo scrittore e giornalista palestinese Khalid Barakat e a sua moglie Charlotte Keats di partecipare agli eventi pro-Palestina a causa del loro supporto al movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele.

Barakat vive a Berlino da 18 mesi e lavora come libero professionista, mentre sua moglie è coordinatrice internazionale per Samidoon, una agenzia di comunicazione palestinese che si occupa di difendere i prigionieri palestinesi. Entrambi sono stati accusati di sostenere il BDS, come riferito da Arab 48 il 23 giugno.

La polizia tedesca ha arrestato Barakat lo scorso sabato mentre si stava recando a un evento sulla Palestina, organizzato da una serie di comunità arabe residenti nella capitale tedesca.

Secondo quanto riportato da Arab 48, la polizia tedesca ha informato Barakat che da quel momento in poi non potrà più prendere parte ad alcun evento politico o culturale e neanche a riunioni familiari composte da più di dieci persone. Infrangere queste restrizioni gli costerà la detenzione per un anno e il pagamento di una multa.

L’ordinanza specifica che tale decisione è basata su informazioni raccolte dai servizi di intelligence tedesca “su un lungo periodo di tempo”. Dichiara anche che Barakat è stato coinvolto in una serie di incontri e attività che “provano” il suo essere “un antisemita e anti-israeliano”.

Idris ha anche dichiarato che la disposizione accusa Barakat di essere una minaccia alla sicurezza interna, di istigare all’odio contro gli ebrei e di essere membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP).

Lo scorso mese il parlamento tedesco ha approvato una legge per definire il BDS un movimento antisemita. La mozione affermava che “gli argomenti, atteggiamenti e metodi del movimento BDS hanno i caratteri dell’antisemitismo”, contestando ad esempio il fatto che gli adesivi “non comprare”, utilizzati dal BDS per identificare l’origine israeliana di un prodotto in modo che il consumatore possa scegliere di non comprarlo, “rievocano una associazione mentale con lo slogan nazista ‘non comprate dagli ebrei’”, cose che “ricordano alcuni dei momenti più terrificanti della storia tedesca”.

L’iniziativa è stata criticata sin da subito: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha criticato duramente la decisione definendola “pericolosa”, mentre le ONG palestinesi obiettano che azioni del genere possono delegittimare le forme di resistenza pacifica.

( Traduzione di Maria Monno)




Proseguono gli scioperi della fame dei prigionieri

Alessandra Mincone

20 giugno 2019, Nena News

Dalla prigione di Ashqelon a quella di Damon i detenuti palestinesi, uomini e donne, portano avanti questa forma di protesta che riesce a frenare abusi e restrizioni attuate dalle autorità carcerarie israeliane

Dopo sabato 15 giugno, quando le celle della prigione centrale di Ashqelon, “Shikma”, sono state prese d’assalto dalle guardie carcerarie, più di quaranta detenuti hanno minacciato uno sciopero della fame ottenendo che numerose rivendicazioni venissero poste all’attenzione delle autorità israeliane. Tra queste, si chiede di mettere fine alle aggressioni da parte delle guardie; l’accesso all’acqua calda; il recupero di beni fondamentali per i prigionieri come cibo, indumenti, carta, penne e libri; il diritto a ricevere visite di legali e familiari; la possibilità di usufruire di cabine telefoniche, di poter godere di tempi e spazi d’aria adeguati alla luce del sole e di eliminare i ripetitori delle frequenze per i telefoni cellulari (usati dalle guardie) dannosi per la salute. Inoltre di mettere fine alla pratica dei trasferimenti eseguite in veicoli militari chiamati “bosta”, una sorta di “bara” in cui i prigionieri viaggiano piegati in strette gabbie di metallo e incatenati  braccia e gambe, persino quelli in precarie condizioni di salute, per tragitti che durano anche tre giorni.

La Società Palestinese dei Detenuti ha riscontrato un primo esito positivo dalla discussione con l’amministrazione carceraria, tanto da affermare che con lo sciopero ad Ashqelon è stato ottenuto un trattamento sanitario per quattro prigionieri gravemente malati e, inoltre, si consentirà il ritorno di un altro prigioniero a Shikma entro il 1 luglio.

Lo scorso aprile, circa 400 prigionieri avevano aderito ad uno sciopero della fame a tempo indeterminato al grido della parola “dignità”. Una protesta che nonostante abbia fallito nella trattativa con le istituzioni carcerarie, è comunque riuscita ad allargarsi ai centri di detenzione di massima sicurezza di Gilboa, Megiddo, Eshel, Ofer, Nafha e Ramon; questi ultimi due edifici formano un’unica prigione che si trova nell’area desertica a sud-est della Palestina. Nafha, denunciato come uno dei carceri più duri e severi attivo dagli anni ottanta, fu progettato per imprigionare i leader delle proteste palestinesi al fine di isolarli. I palestinesi affermano che vi vengono praticate “forme di tortura” con le quali i reclusi sono gradualmente “spinti verso la morte”. Mentre il complesso di Ramon, edificio più recente, proprio lo scorso 17 giugno è stato teatro di tensioni a causa di agguati e saccheggi da parte delle guardie penitenziarie.

Nelle prigioni israeliane la pratica dello sciopero della fame rappresenta storicamente un modello di lotta con cui i palestinesi hanno provato a contrastare l’abuso di potere esercitato quotidianamente dalle guardie. È l’esempio della prigione di Ramleh, dove nel 1953 furono imprigionati i primi palestinesi, e nel 1968 si assisté ai due primi scioperi della fame a causa degli abusi fisici, dell’esposizione costante alla pioggia e per ottenere quaderni, penne e libri nelle celle. Riguardo invece la prigione Shikma di Ashqelon, essa è conosciuta come una delle più dure sin dagli anni Settanta. Se inizialmente una parte dell’edificio di Ashqelon fu strutturato solo come centro per gli interrogatori ai detenuti (tutt’ora in vigore), in seguito fu furono costruite aree murate per imprigionare chi si opponeva all’occupazione israeliana delle terre palestinesi.

Proprio ad Ashqelon alcune indagini portate avanti da gruppi israeliani per i diritti umani – quali B’Tselem e HaMoked – dimostrano che le dinamiche di umiliazione così come i trattamenti degradanti hanno inizio proprio dalla fase dell’interrogatorio dei prigionieri: deprivazione del sonno e dei servizi igienici, isolamento ed esposizione a temperature estreme, minacce, violenze di vario genere, negazione a consultare degli assistenti legali. Tecniche che secondo Noga Kadman di B’Tslem sono orchestrate dall’intelligence israeliana, dagli uffici delle Procure e dall’intero apparato statale, con il beneplacito consenso addirittura dell’Autorità Nazionale Palestinese, al fine di estorcere delle dichiarazioni dall’interrogato completamente manovrate e distorte. Le due organizzazioni hanno congiuntamente scritto che: “hanno tutti contribuito a diversi aspetti di trattamenti abusivi, crudeli, disumani e degradanti subiti dai detenuti palestinesi a Shikma e in altri centri di detenzione”.

L’associazione per i diritti umani e il supporto ai prigionieri palestinesi, mostra sul proprio sito alcuni dati aggiornati fino a Maggio 2019. Sono 5350 i prigionieri politici nelle carceri israeliane, di cui 480 in “detenzione amministrativa” – ossia, reclusi senza processo e quindi formalmente senza aver commesso alcun reato e senza il diritto all’assistenza legale; mentre 210 sono i minori, di cui 26 al di sotto dei 16 anni.

Dal 1967 le forze israeliane hanno arrestato più di 50.000 bambini e giovanissimi. Dallo scoppio della Seconda Intifada, nell’anno 2000, sono stati imprigionati circa 16.500 bambini con un aumento vertiginoso degli arresti nel 2011. Le accuse di provocazione per il lancio di pietre contro i militari e i più recenti aquiloni incendiari (da Gaza verso il territorio meridionale israeliano), hanno prodotto pesanti abusi delle autorità israeliane contro i diritti di ragazzi e giovani a cui viene negata la libertà e possibilità a livello scolastico e sanitario.

Dal malcontento dei prigionieri e delle prigioniere, sottolinea la Rete di Solidarietà dei detenuti politici palestinesi Samidoun, si può sperare nel successo delle lotte avviate. In un comunicato dove si congratula per le proteste di Ashqelon, la Rete coglie l’occasione per lanciare un appello delle prigioniere palestinesi in vista del prossimo sciopero della fame collettivo, proclamato per il 1 luglio nel carcere di Damon. Nena News

“Canterò nella cella della mia prigione

nella stalla

sotto la sferza

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me milioni di usignoli

per cantare la mia canzone di lotta.”

Mahmoud Darwish




L’inviato USA dice che Israele ha ‘il diritto’ di annettersi parte del territorio della Cisgiordania: intervista al NYT

MEE e Agenzie

8 giugno 2019 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato le affermazioni di David Friedman in quanto ‘non hanno nulla a che vedere con la logica, la giustizia o la legge’

L’ambasciatore USA in Israele ha detto al New York Times che Israele ha il diritto di annettersi almeno “parte” della Cisgiordania occupata, facendo considerazioni che probabilmente accentueranno l’opposizione palestinese a un piano USA atteso da lungo tempo.

I dirigenti palestinesi hanno rigettato il piano prima ancora che sia totalmente reso noto, facendo riferimento a una serie di iniziative da parte dell’amministrazione del presidente USA Donald Trump che secondo loro mostra la sua irrimediabile parzialità a favore di Israele.

Nell’intervista pubblicata sabato dal New York Times l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha affermato che un certo livello di annessione della Cisgiordania sarebbe legittimo.

A determinate condizioni penso che Israele abbia il diritto di tenersi parte della Cisgiordania, ma difficilmente tutta,” ha detto.

Non è chiaro a quali territori della Cisgiordania si riferisca Friedman e se la presa di possesso da parte di Israele rientrerebbe in un accordo di pace che includa scambi di terre – un’idea ventilata in precedenti negoziati – piuttosto che un’iniziativa unilaterale come l’annessione, ha detto la Reuter [agenzia di notizie inglese, ndtr.].

Il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha condannato sulle reti sociali le affermazioni di Friedman.

Nel contempo un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato che Friedman è una delle molte figure di rilievo della politica USA che sul problema israelo-palestinese sono “estremiste” e mancano di “maturità politica”.

Il ministero degli Esteri dell’ANP ha affermato che sta pensando di presentare sulla questione una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI).

In base a quale logica Friedman pensa che Israele abbia il diritto di annettersi parte della Cisgiordania?” ha chiesto domenica il ministero in un comunicato stampa. “Su quale realtà basa la sua convinzione? Sulla legge internazionale che vieta l’annessione di territori con la forza? O sulla realtà imposta dalle autorità dell’occupazione?”

Il ministero ha proseguito chiamando Friedman una “persona ignorante in politica, in storia e in geografia e che appartiene allo Stato delle colonie…(Egli) non ha niente a che vedere con la logica, la giustizia o la legge finché è al servizio dello Stato dell’occupazione, che egli è desideroso di difendere con ogni mezzo.”

Sabato il centro israeliano di monitoraggio delle colonie Peace Now ha chiesto a Trump di rimuovere Friedman dal suo incarico se vuole che i suoi tentativi di pace abbiano una qualche credibilità.

L’ambasciatore Friedman è un cavallo di Troia inviato dalla destra dei coloni, che sabota gli interessi di Israele e le possibilità di pace. Il prezzo sarà pagato dagli abitanti dell’area, non da Friedman o Trump. Se intende fungere da mediatore corretto, stasera il presidente USA dovrebbe mandare Friedman a fare i bagagli,” avrebbe detto Peace Now citato da Haaretz.

La fondazione di uno Stato palestinese nei territori, compresa la Cisgiordania, che Israele ha occupato nella guerra dei Sei Giorni del 1967, è stata al centro di ogni piano di pace in Medio Oriente del passato. Tuttavia i palestinesi hanno sempre più spesso affermato che la soluzione dei due Stati, come è nota, è da tempo diventata impraticabile a causa dei tentativi israeliani di consolidare il controllo sulle terre palestinesi e incrementare la costruzione di colonie illegali.

Alcuni sostengono che lo status quo rende una soluzione per uno Stato unico con uguali diritti per cittadini sia israeliani che palestinesi l’unica opzione equa per garantire l’autodeterminazione e i diritti umani per tutti. Non è stata fissata nessuna data certa per la presentazione del piano dell’amministrazione Trump, comunemente noto come l’accordo del secolo, anche se alla fine di questo mese si terrà in Bahrein una conferenza sui suoi aspetti economici.

Le affermazioni pubbliche rese da funzionari dell’amministrazione USA suggeriscono finora che il piano si baserà in modo consistente sull’appoggio finanziario all’economia palestinese, per la maggior parte con fondi degli Stati arabi del Golfo, in cambio di concessioni sul territorio e sulla fondazione di uno Stato.

Assolutamente l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno Stato fallito palestinese tra Israele e la Giordania,” ha affermato Friedman nell’intervista al Times. “Forse non lo accetteranno, forse non risponde alle loro condizioni minime. Ci basiamo sul fatto che il giusto piano, nel momento giusto, col tempo riscuoterà la giusta reazione.”

Friedman, un fiero sostenitore delle colonie illegali israeliane, ha detto al Times che il piano di Trump mira a migliorare la qualità della vita dei palestinesi ma non è in grado di ottenere “una soluzione permanente del conflitto.”

Comunque ha detto che gli Stati Uniti intendono avere uno stretto coordinamento con la Giordania, alleato arabo, che potrebbe affrontare rivolte tra la vasta popolazione palestinese riguardo a un piano percepito come apertamente favorevole a Israele. I palestinesi rifiutano in modo massiccio un piano centrato sull’economia per risolvere un conflitto durato 71 anni che ha portato all’espulsione forzata e all’esilio di milioni di rifugiati e all’imposizione di un’occupazione militare brutale e discriminatoria su quelli che sono rimasti.

La pubblicazione dell’accordo del secolo si prevede sarà ulteriormente rimandata dopo che il parlamento israeliano ha convocato elezioni anticipate per settembre, le seconde di quest’anno.

Il piano potrebbe essere considerato troppo delicato da essere reso noto nel corso della campagna elettorale.

In aprile, durante la campagna per le prime elezioni generali [di quest’anno], il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere colonie a Israele, un’iniziativa a lungo sostenuta da molti parlamentari della sua alleanza di destra e di partiti religiosi.

In seguito alla continua espansione delle colonie da parte dei successivi governi di Netanyahu, più di 600.000 coloni ebrei vivono ora in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata, in violazione delle leggi internazionali.

Un funzionario USA, parlando in forma anonima, ha detto alla Reuter: “Nessun piano per l’annessione unilaterale da parte di Israele di qualunque parte della Cisgiordania è stato presentato da Israele agli USA, né è in discussione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il rapper Talib Kweli respinge la richiesta della Germania di denunciare il boicottaggio di Israele

Tamara Nassar

7 giugno 2019 – Electronic Intifada

Il rapper americano Talib Kweli [noto cantante hip hop statunitense di origine ghanese, ndtr.] ha rifiutato di cedere alle richieste da parte di un festival tedesco di condannare il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per i diritti dei palestinesi.

Di conseguenza è stato tolto dal programma del festival che si tiene a luglio. Kweli afferma di rifiutare di “autocensurarsi e mentire sul BDS in cambio di un assegno.”

Recentemente la camera bassa del Parlamento tedesco, il Bundestag, ha approvato una risoluzione che equipara il BDS all’antisemitismo.

Le calunnie nei confronti di un movimento nonviolento che respinge ogni forma di razzismo hanno provocato proteste da parte dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate e accuse da parte dell’intera società palestinese.

Impostato sul modello della campagna mondiale di solidarietà che ha favorito la fine dell’apartheid in Sudafrica, il movimento BDS si oppone ad ogni forma di intolleranza, compresi l’antisemitismo e l’islamofobia.

Richiesta

Questa settimana Kweli ha rivelato di aver ricevuto una email da Philipp Maiburg, direttore artistico dell’‘Open Source Festival’ della città occidentale di Dusseldorf, in cui si metteva in rilievo la decisione del Bundestag e si chiedeva quale fosse la posizione dell’artista riguardo al BDS.

Come lei sa, in Germania vi sono molte discussioni riguardo al BDS e agli artisti che vi hanno aderito. Vi è stata anche molta confusione persino per festival molto più importanti del nostro”, ha scritto Maiburg.

Adesso la nuova situazione è che dal 17 maggio 2019 esiste una posizione ufficiale del governo tedesco sottoscritta da tutti i partiti che in sostanza dichiara ufficialmente che le affermazioni ed i metodi del BDS sono antisemiti.”

Benché la risoluzione del Bundestag non sia vincolante, Maiburg ha affermato che “tutte le amministrazioni delle regioni o delle città, come anche i rappresentanti delle istituzioni pubbliche, sono sollecitati a non concedere al BDS alcuno spazio o tribuna.”

Poiché noi stiamo lavorando anche con finanziamenti pubblici, non abbiamo altra scelta che chiederle una dichiarazione ufficiale riguardo alla sua posizione verso il BDS”, ha aggiunto.

Clima da maccartismo

Anche se non possono essere accusati della violazione di alcuna legge, gli organizzatori del festival probabilmente temono le pressioni e la denigrazione che potrebbero subire per il fatto di ospitare Kweli nell’atmosfera maccartista antipalestinese assecondata dai media e dalle elite della Germania e ulteriormente alimentata dal voto del Bundestag.

La risoluzione del Bundestag invita a rifiutare finanziamenti pubblici alle organizzazioni che sostengono il movimento per il boicottaggio o mettono in discussione il preteso “diritto all’esistenza” di Israele.

Diverse amministrazioni pubbliche tedesche sono sponsor del festival.

Questo è fascismo”

Kweli ha detto che gli è stato chiesto di “condannare il BDS oppure di non esibirsi” ed ha postato sulla sua pagina Facebook una risposta pubblica alla lettera di Maiburg.

Mentendo e sostenendo che il BDS è un movimento antisemita, il governo tedesco si sta dimostrando fascista e non rende un buon servizio al popolo tedesco”, ha scritto Kweli.

Il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni sono soluzioni pacifiste alla crisi che distrugge le case e le vite dei palestinesi. È l’opposto del terrorismo.”

Ha funzionato nel fare del Sudafrica una Nazione più giusta ed equa e potrebbe funzionare in Israele se i suoi oppositori non fossero così ostili ai neri e ai musulmani.”

Kweli si rifiuta categoricamente di piegarsi alle richieste del festival.

Mi piacerebbe esibirmi in Germania, ma non ne ho bisogno. Preferisco comportarmi come un degno essere umano e sostenere ciò che è giusto piuttosto che autocensurarmi e mentire riguardo al BDS in cambio di un assegno.”

Ha anche utilizzato Twitter per affermare la sua posizione dopo che i sostenitori di Israele hanno iniziato ad attaccarlo.

Il governo tedesco sta chiedendo agli artisti che si esibiscono all’ ‘Open Source Festival’, un evento finanziato dallo Stato, di condannare il BDS come antisemita. Il BDS non è antisemita. Questo è fascismo. Io non accetterò censure”, ha twittato Kweli.

Sostenere la Palestina

Questa non è la prima volta che il rapper ha fatto dichiarazioni di principio a favore dei diritti dei palestinesi.

Nel 2014 Kweli ha cancellato i progetti per esibirsi in Israele in seguito agli appelli degli attivisti per i diritti dei palestinesi.

Ha anche espresso il suo appoggio ai diritti palestinesi attraverso la sua musica.

L’anno scorso il gruppo musicale scozzese ‘Young Fathers’si è visto annullare lo spettacolo da un altro festival tedesco perché aveva rifiutato di ritirare il sostegno ai diritti dei palestinesi.

Il gruppo ha definito “una decisione sbagliata e molto scorretta” la richiesta agli artisti di “ripudiare i nostri principi sui diritti umani perché l’esibizione potesse avere luogo.”

Di conseguenza i palestinesi hanno invitato al boicottaggio del festival triennale della Ruhr.

Diversi artisti hanno accettato l’invito e annullato le proprie esibizioni.

Di fronte alla grande manifestazione di solidarietà per i ‘Young Fathers’ il festival ha cambiato idea e ha nuovamente invitato la band.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




“Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”

Hind Khoudary

6 giugno 2019 – +972

Date le crescenti restrizioni sociali e politiche sotto il controllo di Hamas, i musicisti incontrano notevoli difficoltà se vogliono sviluppare la propria carriera musicale nella Striscia. Molti intendono andarsene per cercare opportunità altrove.

GAZA CITY – Abed Nasser, il proprietario del ristorante Ceda a Gaza City ha dato la notizia ai suoi clienti in un post su Facebook: lo spettacolo musicale tanto atteso in programma più tardi per la serata di Ramadan era stato annullato per le persecuzioni e l’intromissione dell’amministrazione di Hamas.

Secondo Nasser, la polizia aveva cercato di impedire l’accesso a un pubblico misto. Gli avevano ordinato di non permettere agli uomini di partecipare, a meno che non facessero parte di una famiglia che partecipava all’evento. A Nasser è stato chiesto di presentarsi alla sezione dell’intelligence della polizia di Gaza, ma lui ha rifiutato.

La musica sta diventando sempre di più un modo per i giovani di Gaza per sfogare stress e traumi – I palestinesi a Gaza hanno dovuto sopportare, per decenni, violenze e violazioni di diritti umani, in particolare da quando Israele ha imposto il blocco sulla Striscia nel 2007. Ma, con le crescenti restrizioni, sociali, politiche e religiose sotto il governo di Hamas, le opportunità per i musicisti sono ridotte, dato che il governo impedisce a gruppi e attività commerciali di offrire un palco per farlo.

Gli artisti che vogliono esibirsi o i locali che intendono ospitare eventi culturali devono prima procurarsi un permesso. Questo implica rivolgersi ad almeno quattro differenti autorità: il ministero del Turismo, il ministero della Pubblica Sicurezza, l’Unità Generale di Investigazioni che, fra le altre cose, agisce come una polizia della morale pubblica, e la stazione di polizia di Abbas. I permessi sono rilasciati in base a considerazioni di sicurezza e di carattere sociale. Parecchi titolari di esercizi che sono stati oggetto di tali restrizioni sono stati contattati per questo articolo, ma si sono rifiutati di rilasciare interviste per paura di intimidazioni governative.

Hamada Naserallah, un cantante professionista, laureato in legge, ha detto che Hamas gli ha impedito di esibirsi a Gaza almeno cinquanta volte. “Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”, ha detto Naserallah, che canta con il gruppo Sol Band, una band musicale palestinese che ha preso il nome della quinta nota della scala musicale. Il gruppo di otto componenti suona sia musica moderna che araba tradizionale. “Reprimere, umiliare, vietare feste, controllare la libertà – non posso cantare liberamente come tutti gli altri cantanti su questo pianeta”, ha aggiunto Naserallah.

Ci ha detto che, dopo il concerto del 2016 nella sala della Mezzaluna rossa, la polizia ha proibito al gruppo Sol Band di esibirsi per due anni, perché le donne e le ragazze del pubblico applaudivano e cantavano con Naserallah. Ora un ufficiale di polizia è presente a tutti i suoi concerti, sorveglia la lista delle canzoni e le interazioni con il pubblico. “Ricordo che la polizia una volta ha minacciato di buttarmi giù dal palco se avessi cantato ‘canzoni d’amore’, ha commentato.

In aprile Sol Band ha avuto l’opportunità di esibirsi all’Expo musicale palestinese, a Ramallah. Per Naserallah il sogno di lasciare Gaza si è avverato. Andarsene da Gaza è costoso, e richiede un permesso difficile da ottenere e Israele proibisce ai palestinesi quasi tutti i viaggi tra la Cisgiordania e Gaza. Per Naserallah questa è stata anche l’occasione di esibirsi su un palcoscenico senza una supervisione o censura governative, dato che Ramallah è relativamente più liberale di Gaza.

Prima che Hamas prendesse il controllo nel giugno 2007, la comunità palestinese a Gaza era per la maggior parte tradizionalista e conservatrice”, scrisse nel 2010 Mkhaimer Abu Saada, docente di scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza. Ma, da quando controlla la Striscia, Hamas ha intensificato gli sforzi per imporre un’interpretazione conservatrice delle regole della Sharia, anche sulla vita sociale della Striscia.

Ayman Al Batniji, un portavoce della polizia di Gaza a cui è stato chiesto un commento, ha detto che le autorità impediscono solo le feste che “incoraggiano le frequentazioni anormali” fra i sessi. La polizia vieta le riunioni che possono danneggiare i valori della comunità, ha aggiunto, sottolineando che Gaza è una società conservatrice. La gente o i locali a cui è stato impedito di fare una festa avevano avuto in precedenza problemi con il governo in relazione alla moralità, ha detto Batniji, ma per il resto le autorità non impediscono alla gente di esibirsi o di tenere eventi culturali.

Secondo uno studio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, che ha preso in esame l’amministrazione di Hamas nella Striscia dal 2011 al 2015, Hamas ha informalmente permesso un approccio più liberale di esistere parallelamente al suo governo conservatore. Per esempio, Hamas incoraggia la separazione dei sessi in scuole e università, ma non l’ha imposta ufficialmente. Basandosi sui dati del medesimo rapporto, Hamas ha comunque mostrato “poca tolleranza nei confronti di una presenza mista ad attività culturali, specialmente se implicano musica, danza e canto”.

Le restrizioni sociali stanno avendo un impatto, al punto che Sol Band ha rinunciato ad esibirsi a Gaza. Hanno invece deciso di crearsi un pubblico sui social media, postando video su Instagram e Facebook. Comunque anche questo sta diventando difficile, dice Naserallah, dato che Hamas non permette ai musicisti a Gaza di filmare video mentre cantano o suonano uno strumento in strada senza prima avere un permesso del Ministero degli Affari Interni, neppure per una storia su Istagram.

Tre dei componenti del gruppo hanno già lasciato Gaza per sempre a causa della mancanza di libertà e di opportunità di sviluppare la propria carriera. A uno dei più giovani, Rahaf Shamaly, 16 anni, è proibito cantare su un palcoscenico, in ristoranti e caffè a Gaza, semplicemente perché è una donna. L’anno scorso la polizia ha impedito a Shamaly di esibirsi al Jazz Journey in Palestine tenuto a Gaza dall’UNESCO.

Vivo in una comunità conservatrice, dove la cultura e le tradizioni controllano la gente. A Gaza non si è abituati a vedere una donna cantare con musicisti maschi” ci ha detto Shamaly. Lei non crede di avere un futuro da cantante a Gaza, date queste restrizioni. Come molti giovani palestinesi, frustrati dai vari livelli di oppressione, con una disoccupazione crescente e limitazioni alla libertà, sta progettando di lasciare la Striscia dopo il diploma di scuola superiore.

Hind Khoudary è un reporter che vive a Gaza.

(traduzione di Mirella Alessio)




Un fotogiornalista palestinese rischia di essere espulso da Israele

Linah Alsaafin

1 giugno 2019 – Al Jazeera

Mustafà al-Kharouf, che vive a Gerusalemme est occupata, rischia l’espulsione in Giordania

Negli ultimi cinque mesi Mustafà al-Kharouf è stato a languire nel carcere israeliano di Givon, lontano dalla moglie Tamam e dalla figlia Asia di un anno e mezzo, ma ora rischia la deportazione in Giordania.

Il trentaduenne fotogiornalista, figlio di madre algerina e padre palestinese, ha vissuto a Gerusalemme dal 1999, quando la sua famiglia vi è tornata.

Nonostante vari tentativi negli ultimi dieci anni, gli è stato negato lo status di residente permanente, a cui avrebbe diritto, facendo quindi di lui un apolide.

Quando la famiglia di Kharouf ha raggiunto i requisiti stabiliti dalle regole per avere la residenza, Mustafà aveva 18 anni e la sua famiglia non poteva presentare per lui una richiesta di ricongiungimento familiare o di registrazione di un minore.

A gennaio Mustafà, che lavorava per l’agenzia Anadolu [agenzia di notizie turca, ndtr.], è stato arrestato dopo che il suo legale si è opposto alla decisione del ministero dell’Interno israeliano di negargli la domanda per la regolarizzazione. Ora il suo destino è nelle mani di un tribunale israeliano, che deciderà se sarà espulso in Giordania, un Paese con cui non ha nessun legame.

Per ottenere lo status legale come palestinesi in città, la famiglia di Kharouf aveva presentato richieste di ricongiungimento familiare.

Ma alla base delle complicate leggi israeliane per i residenti palestinesi di Gerusalemme – a cui vengono concessi i diritti di residenza ma non la cittadinanza israeliana – è la politica del “centro della vita”, che è stata descritta come una “pulizia etnica legalizzata”.

Questa politica, che esige dai palestinesi che vivono nella Gerusalemme est occupata di dimostrare di avere il centro della propria vita in città per conservare il proprio status giuridico, è stata criticata dai gruppi per i diritti umani in quanto discriminatoria e come prodromo dell’espulsione – una grave violazione delle leggi internazionali.

Status giuridico rifiutato dal ministero degli Interni israeliano

Adi Lustigman, l’avvocatessa di Kharouf dell’organizzazione israeliana per i diritti umani “HaMoked”, ha detto ad Al Jazeera che per anni Kharouf ha cercato di regolarizzare la propria situazione a Gerusalemme, ma senza risultati. “Ha avuto un permesso temporaneo per qualche tempo, ma per il resto si è solo arrangiato in qualche modo, come fanno molti altri abitanti di Gerusalemme, apolidi e privi di status,” ha affermato Lustigman. “Ovviamente è estremamente difficile essere una persona senza diritti, senza permesso di lavoro e senza un luogo in cui andare per essere legale.”

Dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015 Kharouf ha ottenuto un visto israeliano di lavoro B/1 per “ragioni umanitarie”. Eppure alla fine le richieste di una proroga del visto sono state rigettate dal ministero dell’Interno per “ragioni di sicurezza”.

Lustigman crede che i rifiuti del ministero riguardino il suo lavoro come fotogiornalista che documenta le violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità israeliane a Gerusalemme est occupata.

Dopo che nel 2016 si è sposato con Tamam, una palestinese di Gerusalemme, Kharouf ha presentato un’altra domanda di ricongiungimento familiare, ma è stata di nuovo rigettata nel dicembre del 2018 dal ministero dell’Interno.

Secondo Lustigman, la decisione era basata su accuse infondate secondo cui Kharouf sarebbe membro di Hamas, messa fuorilegge da Israele.

Il 21 gennaio 2019 l’avvocatessa ha presentato appello contro la decisione, ma il giorno dopo le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di Kharouf e lo hanno arrestato, e da allora è sottoposto a detenzione amministrativa – incarcerazione indefinita senza processo o accuse contro di lui. “Mio marito è la persona più ottimista che conosca, ma ora è disperato,” ha detto ad Al Jazeera Tamam, la moglie di Kharouf.

Tamam ha il permesso di visitare suo marito una volta alla settimana per un massimo di 20 minuti solo attraverso una vetrata.

Il suo stato d’animo è molto peggiorato da quando è stato arrestato,” dice la ventisettenne consulente scolastica. “Ha perso 10 chili ed è molto depresso.”

Pochi mesi fa, in aprile, il tribunale distrettuale israeliano ha rigettato l’appello di Kharouf e gli ha concesso un permesso provvisorio perché non sia espulso, in modo che possa presentare il suo caso all’Alta Corte israeliana, con il 5 maggio come scadenza. L’appello è già stato presentato, ma l’Alta Corte non ha ancora preso una decisione. Kharouf rimane esposto al rischio di essere espulso in Giordania.

Ordine di espulsione ‘illegale’

Saleh Hijazi, il capo dell’ufficio di Amnesty International a Gerusalemme, ha definito la decisione israeliana di negare la richiesta di residenza di Kharouf e di espellerlo “crudele e illegale”. “[Kharouf] deve essere rilasciato immediatamente e gli deve essere concessa la residenza permanente a Gerusalemme est in modo che possa riprendere la sua vita normale con la moglie e la figlia,” dice Hijazi.

L’arresto arbitrario e la prevista espulsione di Mustafà al-Kharouf riflettono la pluriennale politica israeliana di riduzione del numero di palestinesi residenti a Gerusalemme est, negando loro i diritti umani,” prosegue.

In seguito all’annessione illegale di Gerusalemme est da parte di Israele nel 1967, almeno 14.600 palestinesi si sono visti revocare il permesso di residenza.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra l’espulsione da un territorio occupato di persone protette è illegale. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che “la deportazione o il trasferimento [da parte del potere occupante] di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o fuori da questo territorio” costituisce un crimine di guerra.

Una persona non può essere resa apolide,” ha sostenuto in aprile con un comunicato stampa Jessica Montell, direttrice esecutiva di HaMoked. “A livello pratico, non ha senso mantenere Mustafà in ‘attesa di espulsione’ quando non c’è nessun Paese in cui Israele lo possa espellere.

L’Alta Corte di Giustizia ha riconosciuto gli abitanti di Gerusalemme est come popolazione indigena con uno status unico. Israele quindi deve rilasciare senza indugio Mustafà e concedergli lo status legale a cui ha diritto in quanto gerosolimitano.”

Tamam si è molto impegnata per consultare avvocati e vedere quello che si può fare, ma dice che la maggior parte di loro afferma che il caso di suo marito è troppo complicato ed ha rifiutato di occuparsene.

Non ho mai pensato a un progetto alternativo per noi,” dice Tamam. “Se Mustafà viene espulso in Giordania, non otterrà la residenza, per non parlare della cittadinanza. Di fatto verrà arrestato dalle autorità giordane appena attraversato il confine per tutto il tempo che ci vorrà perché controllino la sua documentazione e prendano una decisione su cosa farne di lui,” continua. Se viene espulso non sarà solo una famiglia che verrà separata. Verrà strappato a me e a mia figlia, ai suoi genitori e ai suoi suoceri.”

Lustigman afferma che mettere in evidenza il caso di Kharouf può fare la differenza per non sradicare la vita del fotogiornalista.

Speriamo che l’opinione pubblica, l’interesse della stampa e le azioni delle Ong possano avere un certo peso ed aiutare,” sostiene l’avvocatessa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele stravolge la legge per evitare l’inchiesta della CPI

Maureen Clare Murphy

30 maggio 2019 – The Electronic Intifada

Israele conta sui muscoli degli USA per bloccare l’inchiesta della Corte Penale Internazionale sui presunti crimini di guerra perpetrati nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.

“La Corte Penale Internazionale dell’Aia non ha giurisdizione per discutere materie riguardanti il conflitto israelo-palestinese”, ha dichiarato questa settimana Sharon Afek, procuratore generale militare di Israele, alla conferenza annuale di Herzliya, una riunione ad alto livello delle élite politiche e militari israeliane.

“Israele è un Paese rispettoso delle leggi, con un sistema giudiziario indipendente e forte e non vi è motivo perché le sue azioni vengano prese in esame dalla CPI”, ha aggiunto Afek.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha affermato che recentemente l’ufficio della procura generale militare ha anche pubblicato un rapporto che sostiene che l’esercito ha svolto “conferenze e seminari sulle implicazioni giuridiche” delle azioni delle forze di occupazione.

“L’iniziativa è stata sollecitata dagli scontri settimanali tra soldati e palestinesi nell’ultimo anno, come anche dall’esame della Corte Penale Internazionale sulle azioni (dell’esercito) nella guerra contro Gaza del 2014”, ha aggiunto Haaretz.

La situazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è sottoposta ad indagine preliminare da parte della Corte Penale Internazionale dal 2015. Lo scorso anno il suo procuratore capo rivolto un monito senza precedenti ai leader israeliani, avvertendo che potrebbero subire un processo per le uccisioni di manifestanti disarmati a Gaza.

Durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno a Gaza più di 200 palestinesi, compresi 44 minori, sono stati uccisi e altre migliaia sono state ferite. Nella sola giornata del 14 maggio 2018, il giorno più letale delle proteste da quando sono cominciate all’inizio di quell’anno, circa 1400 palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri nel corso delle proteste.

I giudici dell’Aia hanno anche ordinato alla Corte Penale Internazionale di mettersi in comunicazione con le vittime dei crimini di guerra in Palestina.

Indagini di facciata

Afek ha ordinato un’inchiesta della polizia militare sull’uccisione di 11 palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno.

Israele mantiene l’apparenza di un solido apparato interno di indagine per evitare di essere chiamato a rispondere di fronte ai tribunali internazionali. Le associazioni per i diritti umani hanno definito le inchieste dell’esercito israeliano sulle sue violazioni contro i palestinesi un meccanismo di insabbiamento.

All’inizio di questo mese l’esercito ha chiuso la sua indagine sull’uccisione di Ibrahim Abu Thurayya, un uomo con le gambe amputate colpito alla testa durante una protesta nel dicembre 2017.

A settembre 2016 l’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha affermato che “dal 1987 nessun soldato o comandante israeliano è stato incriminato per aver deliberatamente causato la morte di un palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.”

Da allora vi sono state due incriminazioni – entrambe in episodi di notevole gravità in cui l’uccisione è stata ripresa in un video.

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Nel 2017 il medico militare israeliano Elor Azarya è stato condannato a 18 mesi (di carcere) per l’uccisione a bruciapelo di Abd al-Fattah al-Sharif nella città cisgiordana di Hebron nel 2016. Quella sentenza è stata in seguito ridotta di un terzo.

L’anno scorso Ben Dery è stato condannato a nove mesi di prigione per quella che ‘Defence for Children International Palestine’ ha definito l’“uccisione deliberata” del diciassettenne Nadim Nuwara durante le proteste fuori da una prigione militare della Cisgiordania nel maggio 2014.

Distorcere la legge

Durante il suo intervento alla conferenza di Herzliya, Afek ha accusato le autorità di Hamas a Gaza di mandare migliaia di persone “a varcare la barriera di confine.”

“Questo solleva sostanziali problemi giuridici, incluso quale sia l’adeguato quadro giuridico in base al quale l’esercito deve rispondere”, ha aggiunto.

Israele ha cercato di giustificare l’uso della forza letale contro i manifestanti di Gaza dicendo che le manifestazioni e la loro repressione mortale fanno parte di un conflitto armato con Hamas.

Una commissione d’inchiesta indipendente promossa dalle Nazioni Unite ed associazioni palestinesi per i diritti umani lo hanno confutato. Affermano che le manifestazioni di massa lungo il confine tra Gaza e Israele sono una questione di applicazione della legge riguardante i civili sottoposta al diritto umanitario internazionale. Le uccisioni e le menomazioni di manifestanti non possono quindi essere giustificate sostenendo che sono avvenute durante un conflitto armato.

La commissione d’inchiesta ha predisposto un fascicolo riservato contenente dei dossier su presunti responsabili di crimini internazionali in relazione alla Grande Marcia del Ritorno, da sottoporre alla Corte Penale Internazionale.

Israele fa affidamento sulle minacce e intimidazioni da parte degli USA per impedire una regolare inchiesta da parte della CPI.

Anche Paul Ney, procuratore del Dipartimento della Difesa USA, è intervenuto alla conferenza di Herzliya durante quello che Haaretz ha descritto come “un attacco coordinato contro la giurisdizione della Corte Penale Internazionale”, da parte di USA e Israele.

Ney ha detto che gli USA “non hanno in nessun modo dato il consenso ad alcun esercizio della competenza giurisdizionale da parte della CPI” e che la sua presa in esame di accuse contro personale USA è ritenuta “una flagrante violazione della nostra sovranità nazionale e un attacco allo stato di diritto americano.”

La CPI si arrende alle intimidazioni

In aprile i giudici istruttori della CPI hanno deciso all’unanimità di rinunciare ad aprire un’inchiesta sui crimini di guerra in Afghanistan, adducendo le scarse probabilità di “ottenere una significativa collaborazione da parte delle autorità competenti”, riferendosi agli USA.

L’annuncio è arrivato alcuni giorni dopo che gli USA hanno revocato il visto al procuratore capo della Corte Penale Internazionale.

Il presidente USA Donald Trump ha avvertito che “qualunque tentativo di incriminare personale americano, israeliano o alleato troverà una pronta e dura risposta.”

Alla conferenza di Herzliya Ney ha detto che la CPI non ha giurisdizione per perseguire presunti crimini internazionali di Israele e degli USA, perché nessuno dei due Stati ha aderito allo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte.

Gli USA hanno inoltre adottato misure punitive e coercitive contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per i suoi tentativi di vedere Israele incriminato presso la CPI, compresa la chiusura della sua rappresentanza a Washington l’anno scorso.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha aderito allo Statuto di Roma nel 2015, accettando la giurisdizione della CPI riguardo a presunti crimini commessi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, dal 13 giugno 2014.

Maureen Clare Murphy è capo redattrice di ‘The Electronic Intifada’ e vive a Chicago.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Reporter Senza Frontiere accetta un premio da un regime che uccide giornalisti

Ali Abunimah

28 maggio 2019 – Electronic Intifada

Reporter Senza Frontiere sta affrontando dure critiche per aver accettato un premio da un regime che uccide giornalisti.

All’inizio del mese l’associazione, spesso nota con le sue iniziali in francese RSF, durante una cerimonia all’università di Tel Aviv a cui ha partecipato il presidente israeliano Reuven Rivlin, ha ricevuto il premio “Dan David” per “la difesa della democrazia”.

Il direttore di RSF Christophe Deloire ha ritirato il premio a nome del gruppo.

L’ambasciatrice francese a Tel Aviv Hélène Le Gal ha definito la cerimonia di premiazione “una bellissima serata”.

Elsa Lefort, militante francese per i diritti umani, ha detto di “essere rimasta senza parole davanti a un simile cinismo.”

Lefort, moglie di Salah Hamouri, avvocato franco-palestinese recentemente incarcerato per più di un anno da Israele senza imputazioni, ha aggiunto che i suoi pensieri sono andati ai “giornalisti palestinesi uccisi a Gaza e a quelli che languiscono nelle prigioni dell’occupante.”

Prendere di mira i giornalisti

In febbraio una commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU ha rilevato che lo scorso anno i cecchini israeliani “hanno sparato intenzionalmente” a giornalisti palestinesi che stavano informando sulle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza.

Due sono stati uccisi – Yaser Murtaja and Ahmed Abu Hussein.

All’inizio di questo mese, la madre di Murtaja, Khairiya, ha chiesto alla pop star Madonna di non esibirsi alla competizione musicale Eurovision.

Yaser era un giovane modesto, pacifico, disarmato, che andava sul confine di Gaza con la sua videocamera per trasmettere al mondo la vera immagine di Israele, che assassina i sogni di bambini e giovani,” ha scritto.

Mio figlio non voleva morire, cercava la vita, amava il suo lavoro, voleva far crescere suo figlio con dignità e libertà. Yaser amava questo Paese, e non voleva lasciarmi.” La Commissione per la Protezione dei Giornalisti ha definito l’uccisione di Murtaja e di Abu Hussein “parte di uno schema”, notando che nessuno è mai stato chiamato a rispondere di queste e altre uccisioni di operatori dei media da parte di Israele.

L’organizzazione per i diritti umani con sede a Gaza “Al Mezan” ha documentato più di 230 attacchi contro giornalisti durante la Grande Marcia del Ritorno, 100 dei quali con proiettili veri e altrettanti provocati da candelotti lacrimogeni.

Hamza Abu Eltarabesh, che spesso collabora con questo giornale, recentemente ha detto al podcast di Electronic Intifada di aver smesso di indossare un giubbotto con la scritta STAMPA quando informa sulle proteste di Gaza e cerca solo di mischiarsi alla folla perché l’esercito israeliano ha deliberatamente preso di mira moltissimi giornalisti.

All’inizio di questo mese aerei da guerra israeliani hanno attaccato e distrutto a Gaza City gli uffici dell’agenzia di notizie turca Anadolu.

Persino Reporter Senza Frontiere ha riconosciuto che “le forze israeliane hanno continuato a sottoporre giornalisti palestinesi ad arresti, interrogatori e detenzioni amministrative, spesso senza basi concrete” e che negli ultimi anni le autorità dell’occupazione israeliana hanno ripetutamente chiuso mezzi di informazione palestinesi.

Il giorno dopo la cerimonia di premiazione lo stesso Deloire, il direttore di Reporter Senza Frontiere, ha accusato Israele di “crimini di guerra” contro giornalisti.

Credibilità danneggiata

Il fatto che Reporter Senza Frontiere abbia ricevuto questo premio danneggia gravemente la sua credibilità,” ha osservato la pubblicazione francese ‘Agence Média Palestine’.

In effetti, ricevendo un premio per la ‘democrazia’ in presenza di Reuven Rivlin, il presidente del regime israeliano che lo scorso luglio ha approvato la legge sullo Stato-Nazione che istituisce ufficialmente l’apartheid, non contribuisce alla democrazia, semmai il contrario.”

L’agenzia “Média Palestine” ha accusato Reporter Senza Frontiere di aver preso parte a una manifestazione propagandistica intesa a ripulire l’immagine di Israele.

Gli attivisti palestinesi hanno chiesto a precedenti destinatari di rifiutarsi di accettare il premio Dan David.

Per esempio, nel 2010 il PACBI, la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele, ha detto alla celebre scrittrice canadese Margaret Atwood che la sua accettazione del premio avrebbe appoggiato una “campagna ben avviata per occultare le gravi violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani fondamentali da parte di Israele.”

L’autrice di “Il Racconto dell’Ancella” ha ignorato gli appelli dei palestinesi ed ha accettato il versamento di un milione di dollari del “Dan David”.

Il premio “Dan David” è assegnato dall’università di Tel Aviv, che è essa stessa totalmente complice del sistema di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid di Israele.

La commissione del “Dan David Price” include Henry Kissinger, l’uomo di stato americano noto per una spaventosa serie di crimini, compreso il fatto di aver architettato il colpo di stato militare in Cile nel 1973 e i bombardamenti genocidi in Cambogia che hanno ucciso 1,7 milioni di persone.

(traduzione di Amedeo Rossi)