I palestinesi lottano contro lo sfratto dalle case di Silwan, Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

7 dicembre 2018 Al Jazeera

L’occupazione di Batan al-Hawa a Gerusalemme Est da parte dei coloni è “il più esteso processo di espulsione” degli ultimi anni

Batan al-Hawa, Gerusalemme est occupata – Nel corso degli anni, i coloni israeliani hanno continuato ad offrire milioni di dollari a Zuheir Rajabi e ai suoi vicini per le loro modeste case accatastate sul pendio di Silwan a Batan al-Hawa, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata.

Le case si trovano in quello che è noto come il Bacino Storico della Città Vecchia, in prossimità della sacra Moschea di Al-Aqsa, ciò che le rende possedimenti preziosi.

Un colono ebreo una volta offrì a Rajabi un assegno in bianco per la sua casa, chiedendogli di scrivere qualsiasi cifra volesse, da 3 a 30 milioni di shekel (da 800.000 a 8 milioni di dollari).

Ma per Rajabi e gli 700 altri residenti del quartiere – ora minacciati di sfratto – nessuna somma di denaro basterebbe a farli lasciare le loro case.

“Pensavano che in 30 giorni le persone avrebbero abbandonato le loro case”, ha detto Rajabi, dal terrazzo sul tetto del Centro di Comunità del quartiere, che domina la valle.

“La gente qui è molto semplice; hanno una cosa sola, l’onore. Non ci importa di vivere in povertà o in un ambiente malsano, non possiamo sopportare di perdere il nostro onore”, ha detto Rajabi, che è anche il portavoce del comitato Batan al-Hawa.

Gran parte dei residenti di Batan al-Hawa vi abita da oltre 70 anni, molti dopo essere stati espulsi dalle loro ataviche case quando si stava costituendo Israele.

I residenti ora affrontano un’altra espulsione, da parte dell’associazione di coloni ebrei Ateret Cohanim, che sta cercando di lanciare quella che Ir Amim, una ONG israeliana, definisce come la più grande occupazione di quartieri palestinesi a Gerusalemme Est da quando Israele l’ha occupata nella guerra arabo-israeliana del 1967.

La giudaizzazione di Gerusalemme Est

Ateret Cohanim, che ha come obiettivo la giudaizzazione di Gerusalemme est, sostiene che le case di Batan al-Hawa furono costruite su un terreno di proprietà del ‘Jewish Benvenisti Trust’ [cartello religioso ebraico, ndtr.] nel XIX secolo, che lo adibiva all’insediamento in zona degli ebrei yemeniti.

Nel 2002, il Ministero della Giustizia israeliano ha emesso un atto di proprietà del terreno, circa 5,5 dunams (1,4 acri), a favore del Benvenisti Trust, senza informarne i residenti. A quel punto, Ateret Cohanim ha assunto il controllo del Trust.

L’atto è stato utilizzato come fondamento per gli avvisi di sfratto ai residenti, come quello ricevuto dalla famiglia Rajabi nel 2015, che disponeva che le sette famiglie che abitano in quella casa se ne andassero.

Nel giugno di quest’anno, oltre un centinaio di residenti palestinesi in lotta contro gli sfratti ha presentato una petizione, sostenendo che il Trust Benvenisti possedeva solo gli edifici e non il terreno su cui si trovavano.

Dal momento che da allora gli edifici originali erano stati distrutti e ricostruiti, il Trust non poteva rivendicare la terra, sostenevano i residenti.

Lo stesso mese, il governo israeliano ha ammesso che il Ministero della Giustizia non aveva indagato sul Trust prima di emettere l’atto di proprietà.

Tuttavia, il mese scorso l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto l’appello dei residenti di annullare la decisione del 2002, consentendo in effetti ad Ateret Cohanim di proseguire con l’occupazione di Batan al-Hawa.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha detto che la sentenza della Corte ha spianato la via alla pulizia etnica dei palestinesi di Silwan.

“La sentenza dimostra, ancora una volta, che l’Alta Corte israeliana dà il suo beneplacito a quasi tutte le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte delle autorità israeliane”.

La “piovra” di Gerusalemme est

Ad oggi, Ateret Cohanim ha sfrattato 17 famiglie e possiede sei edifici nell’area.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, il 45% di tutte le famiglie palestinesi minacciate di sfratto a Gerusalemme Est vive a Batan al-Hawa.

B’Tselem lo ha definito “il più esteso processo di espulsione” in città degli ultimi anni.

Rajabi ha detto che suo padre ha comprato il loro appezzamento di terra nel 1966 dopo che erano stati espulsi dai quartieri ebraici della Città Vecchia, senza alcun risarcimento.

“Sono nato qui, sono cresciuto qui, mi sono sposato qui, ho vissuto qui tutta la mia vita”, ha detto.

Amareggiato dalla sentenza della Corte, ha detto che la società israeliana si sta spostando verso la “estrema destra”.

Rajabi paragona Ateret Cohanim a una piovra i cui tentacoli stanno attanagliando la Città Vecchia e Silwan.

“Ateret Cohanim è un’organizzazione potente, non solo politicamente. Ha anche soldi”, ha detto Rajabi.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’organizzazione usa diverse tattiche per costringere i palestinesi a vendere le loro proprietà, tra cui minacce a carattere sessuale e ricatti di vario tipo – come minacciare di rendere pubblica una vendita concordata in segreto così che il venditore, temendo per la propria vita, sarebbe costretto ad abbassare significativamente il prezzo per evitare l’ira della propria comunità.

[L’ONG israeliana] Ir Amim dice che il governo israeliano è stato direttamente coinvolto nell’agevolare gli insediamenti privati illegali nella città vecchia e nei quartieri palestinesi circostanti.

“Il governo ha agito tramite il Custode Generale e il Registro dei Trust (entrambi sotto il Ministero della Giustizia) per agevolare il sequestro di Batan al-Hawa, aumentando il budget per la sicurezza del 119 % per il periodo 2009-2016 in modo da garantire la protezione degli estremisti ebrei che si insediano nel cuore dei quartieri palestinesi a Gerusalemme Est”, ha affermato la ONG.

Consolidare il controllo ebraico

Secondo un rapporto di Ir Amim, l’obiettivo politico di gruppi come Ateret Cohanim è consolidare il controllo ebraico a Gerusalemme Est e contrastare la soluzione dei due stati.

Yacoub al-Rajabi, membro del comitato di Batan al-Hawa, ha affermato che i coloni stanno cercando di acquistare la sua casa dal 2003.

Un anno e mezzo fa, Ateret Cohanim gli ha offerto 2 milioni di dollari per vendere la sua casa e abbandonare la causa in tribunale, ma senza risultato.

“Se ci sfrattano dalle nostre case, costruiremo tende vicino alle case, non andremo da nessuna parte, ci rifiutiamo di andare altrove, rifiutiamo di essere trasferiti [per la terza volta]”, ha detto Yacoub.

Ha descritto il quartiere come una prigione dove i residenti si sentono intrappolati e sono regolarmente attaccati da coloni, polizia, esercito e istituzioni governative israeliane per spingerli ad andarsene.

Dice che, ad ogni festa ebraica, i residenti non possono lasciare le loro case e per ordine militare i bambini non possono andare a scuola.

“Non abbiamo altro che la nostra risolutezza. Cercheremo di difendere noi stessi e i nostri diritti … Abbiamo la proprietà di questa terra ed è nostra per legge”, ha detto.

L’ufficio di Rajabi si trova nel Centro della comunità costruito per i bambini – l’unico posto nel quartiere dove i bambini possano giocare in sicurezza. In un angolo del suo ufficio, uno schermo mostra i filmati dalle telecamere a circuito chiuso installate all’esterno.

Dall’altra parte della strada, una decina di telecamere controllano la sua casa. Le ha fatte installare per documentare gli attacchi dei coloni o delle autorità israeliane, dopo che suo padre è morto per l’inalazione di gas lacrimogeni sparati dalla polizia.

Rajabi afferma che le telecamere sono state estremamente utili a smentire le false affermazioni dei coloni e delle autorità israeliane.

Il destino delle loro case è ora presso la Pretura di Gerusalemme, che deve decidere se il Trust Benvenisti possiede solo gli edifici o anche la terra.

Ma Yacoub ha detto che c’è poca speranza che la giustizia possa essere difesa dai tribunali israeliani.

“Persino durante l’udienza la stessa giudice ha detto che ci sono alcuni problemi legali nel verdetto del tribunale”, ha detto Yacoub, aggiungendo che i residenti cercheranno con tutti i mezzi di rimanere nelle loro case, anche portando il caso alla Corte Penale Internazionale.

“Questa [sentenza del tribunale] non ci spezzerà, continueremo a lottare per i nostri diritti, continueremo a lottare per la nostra proprietà sulla terra e sulle nostre case”, ha affermato.

(traduzione di Luciana Galliano)




Secondo il ministero 18 palestinesi sono stati feriti in quanto l’esercito israeliano ha sparato contro i manifestanti di Gaza

MEE e agenzie

venerdì 30 novembre 2018, Middle East Eye

Da marzo circa 6.000 palestinesi sono rimasti feriti a causa dell’uso di proiettili veri da parte dell’esercito israeliano durante le proteste nella Striscia di Gaza

Il ministero della Sanità dell’enclave assediata ha affermato che venerdì almeno 18 palestinesi sono rimasti feriti dopo che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco contro le proteste settimanali nella Striscia di Gaza.

Il ministero ha detto che sono stati colpiti da proiettili veri quando qualche migliaio di palestinesi si è radunato in diversi punti lungo la barriera che divide Israele da Gaza, e che nessuno risulterebbe in pericolo di vita.

Ogni settimana dalla fine di marzo i palestinesi di Gaza hanno manifestato come parte della “Grande Marcia del Ritorno”.

I manifestanti chiedono la fine dell’opprimente blocco contro il territorio costiero palestinese e rivendicano il diritto al ritorno ai loro luoghi d’origine in quello che ora è Israele.

Il numero di partecipanti alle proteste è diminuito da quando all’inizio di questo mese è stato raggiunto un accordo di cessate il fuoco tra Israele ed Hamas, che governa Gaza.

Inoltre da marzo almeno 235 palestinesi di Gaza sono stati uccisi, per lo più dal fuoco israeliano, ma anche da attacchi aerei e con i carri armati. Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

Secondo il ministero della Sanità palestinese almeno altri 6.000 palestinesi sono stati feriti dall’uso da parte dell’esercito israeliano di proiettili veri contro le proteste. All’inizio di questa settimana Medici senza Frontiere (MSF) ha affermato che il sistema sanitario di Gaza sta lottando per far fronte alle necessità dei palestinesi che sono stati feriti da proiettili veri durante le manifestazioni.

In seguito a ciò, secondo l’ente di assistenza sanitaria migliaia di abitanti di Gaza stanno soffrendo di ferite che richiedono molto tempo per essere curate e la maggioranza dei pazienti di MSF necessita di ulteriore trattamento medico per guarire adeguatamente dalle ferite o ricevere le cure necessarie per la riabilitazione.

L’assistenza del pronto soccorso si sta svolgendo in modo rallentato a Gaza a causa delle accresciute necessità dei pazienti colpiti dall’esercito israeliano e gravemente feriti durante le proteste,” afferma l’organizzazione.

Questo onere è troppo pesante da sopportare per il sistema sanitario di Gaza nella sua attuale forma, in quanto è indebolito da più di un decennio di blocco.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il ministro del governo israeliano Erdan invita a boicottare Airbnb

21 novembre 2018, Al Jazeera

La risposta del ministro arriva dopo che Airbnb ha affermato che avrebbe rimosso 200 annunci di appartamenti in colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Un ministro del governo israeliano ha chiesto il boicottaggio di Airbnb ed ha pubblicizzato uno dei suoi concorrenti, intensificando la risposta del governo contro la decisione dell’impresa per l’affitto di case di togliere dalle offerte colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Airbnb ha affermato che avrebbe eliminato 200 annunci dal suo sito – che consente a proprietari di affittare a persone le proprie stanze, appartamenti e case – provocando una reazione da parte degli israeliani.

Oggi faccio un appello a tutti quelli che appoggiano Israele e si oppongono a boicottaggi discriminatori. Dovrebbero smettere di utilizzare Airbnb e rivolgersi ad altri servizi,” ha detto mercoledì il ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan ad una conferenza a Gerusalemme.

Peraltro Booking.com è un ottimo servizio,” ha aggiunto Erdan, il principale responsabile dei tentativi del governo israeliano di combattere il boicottaggio filo-palestinese.

Airbnb ha affermato che l’iniziativa si è fondata su uno schema interno utilizzato per giudicare come gestisce le offerte nei territori occupati nel mondo.

Abbiamo concluso che avremmo dovuto togliere gli annunci nelle colonie israeliane in Cisgiordania, che sono al centro della disputa tra israeliani e palestinesi,” ha affermato un comunicato sul sito web di Airbnb.

L’impresa toglierà offerte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, ma ciò non include Gerusalemme est e le Alture del Golan occupate.

Il direttore di Human Rights Watch [organizzazione per i diritti umani con sede a New York, ndtr.] per Israele e i territori occupati, Omar Shakir, ha detto che la decisione di Airbnb è “un passo positivo”.

Airbnb ha mandato un importante messaggio al resto del mondo degli affari,” ha detto Shakir ad Al Jazeera.

Non è posibile fare affari (nella Cisgiordania occupata) senza contribuire a gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali e dei diritti umani dei palestinesi.

Stava accettando una politica per cui chi ha un documento di identità palestinese non ha il permesso di entrare in insediamenti solo per quello che è – e questo sembra essere l’unico caso al mondo in cui i padroni di casa di Airbnb hanno l’obbligo per legge di discriminare in base all’origine nazionale,” ha aggiunto.

Mercoledì, rivolgendosi ad un’altra conferenza, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked ha appoggiato la richiesta di Erdan di boicottare Airbnb ed ha suggerito che anche Israele ricorra alle proprie leggi contro le discriminazioni.

Israele ha affermato che si rivolgerà all’amministrazione Trump e potrebbe appoggiare azioni legali contro Airbnb all’interno di Stati degli USA che hanno leggi contro il boicottaggio a Israele.

In un comunicato spedito ad Al Jazeera il responsabile globale di Airbnb per la politica commerciale e la comunicazione, Chris Lehane, ha affermato: “Israele è un luogo speciale e i nostri oltre 22.000 padroni di casa sono persone speciali che hanno accolto centinaia di migliaia di ospiti in Israele. Comprendiamo che si tratta di un problema difficile e complicato e prendiamo in considerazione la prospettiva di tutti.”

Colonie israeliane

Tutte le colonie israeliane sono illegali in base alle leggi internazionali.

Gli annunci di Airbnb in Cisgiordania sono stati a lungo criticati dalla comunità palestinese e dagli attivisti per i diritti umani.

In un rapporto del 2016 Human Rights Watch ha affermato che imprese che operino all’interno o in coordinamento con le colonie israeliane nei territori palestinesi traggono vantaggio e contribuiscono a un sistema illegale che viola i diritti dei palestinesi.

Secondo Peace Now [ong israeliana contraria all’occupazione dei territori palestinesi, ndtr.] i progetti di colonizzazione in Cisgiordania sono aumentati dall’inizio del 2017, quando il presidente Donald Trump, un alleato fondamentale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha assunto l’incarico di presidente degli Stati Uniti.

Secondo dati palestinesi, nella Cisgiordania occupata ora vivono più di 700.000 coloni ebrei in 196 insediamenti (costruiti con l’approvazione del governo israeliano) e in più di 200 avamposti di coloni (costruiti senza la sua approvazione).

Le leggi internazionali vedono la Cisgiordania e Gerusalemme est come territori occupati e considerano illegale ogni colonia ebraica sul territorio. Esse sono anche viste come uno dei principali ostacoli ai tentativi di pace, in quanto sono costruite su terre che i palestinesi vogliono destinare al proprio futuro Stato.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un attivista palestinese imprigionato per essere andato in bicicletta nel suo villaggio

Oren Ziv

14 novembre 2018, +972

Un tribunale militare israeliano ha condannato Abdullah Abu Rahma, un noto difensore dei diritti umani, a 110 giorni di prigione per essere andato in bicicletta durante una protesta contro l’occupazione due anni fa.

Mercoledì un tribunale militare israeliano ha condannato il noto attivista palestinese Abdullah Abu Rahma a quattro mesi di prigione per due accuse relative una corsa in bicicletta per celebrare la giornata della Nakba [la “Catastrofe”, cioè l’espulsione dei palestinesi da quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele nel 2048, ndtr.] del 2016.

Abu Rahma, uno dei più noti leader della lotta popolare contro il muro di separazione, è stato condannato alcune settimane fa per aver violato, nel maggio 2016, un ordine di zona militare chiusa e aver intralciato un soldato durante una corsa a Bil’in, il suo villaggio. Centinaia di ciclisti palestinesi e internazionali avevano preso parte alla cosiddetta “corsa del ritorno”, partita da Ramallah e terminata nel villaggio della Cisgiordania.

Comunque le forze di sicurezza israeliane avevano invaso il villaggio ancor prima che la corsa iniziasse. Abu Rahma era stato arrestato mentre cercava di spiegare ai soldati che si trovavano sulla sua terra. Era stato gettato a terra, arrestato e detenuto per 11 giorni.

Quasi tutte le forme di protesta sono illegali per i palestinesi che vivono sotto il governo militare israeliano in Cisgiordania.

Mercoledì il giudice militare israeliano maggiore Haim Baliti ha accettato che Abu Rahma inizi a scontare la pena a metà dicembre, in modo da “corsa del ritorno”,dare il tempo alla difesa di fare appello sia contro la sentenza che contro la condanna.

Baliti ha anche applicato parte di una sentenza sospesa con la condizionale relativa a una precedente condanna per la partecipazione a un’altra protesta un anno prima. La sentenza sospesa è stata rimessa in vigore dall’attuale condanna. Abu Rahma sconterà un totale di 110 giorni in un carcere militare israeliano.

Abdullah è un difensore dei diritti umani”, ha detto dopo il pronunciamento della sentenza Gaby Lasky, la sua avvocatessa. “Si oppone in modo non violento all’occupazione – ecco ciò che fa di lui un obiettivo così importante. Finché si trova in prigione non può essere attivo sul campo.”

Queste punizioni per la resistenza nonviolenta in corso indicano che il tribunale militare non è una corte di giustizia; il suo unico scopo è mantenere l’occupazione e impedire ogni resistenza contro di essa”, ha aggiunto Lasky.

Abu Rahma, che nel 2010 ha avuto il riconoscimento di “difensore dei diritti umani” impegnato nella nonviolenza, è uno dei principali leader nella lotta contro il muro ed ha contribuito a guidare le proteste popolari a Bil’in iniziate nel 2005.

Ha trascorso oltre un anno in carcere per il suo ruolo nelle proteste di Bil’in e ora sta affrontando un’altra serie di accuse perché avrebbe danneggiato il cancello della barriera di separazione nel villaggio dove vive.

Nel 2010, la rivista +972 ha nominato Abu Rahma suo “personaggio dell’anno” per il suo ruolo nel “movimento di opposizione ben organizzato, nonviolento e di base a Bil’in – che riunisce sostenitori palestinesi, israeliani e internazionali in una lotta comune”.

Sono arrabbiato e addolorato per la decisione”, ha detto Abu Rahma alla fine dell’udienza. “Questo non è un vero tribunale – è un tribunale politico. Ne pagherò il prezzo, ma questa punizione mi darà coraggio per continuare a sostenere il popolo dovunque sia – che è il mio dovere come palestinese – finché finirà l’occupazione e otterremo l’indipendenza.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza: sei morti nelle sparatorie fra Israele e Hamas

MEE staff,

12 novembre 2018 (aggiornato 13 novembre), Middle East Eye

Decine di attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza uccidono sei palestinesi, i missili di Hamas fanno morire un palestinese in Israele

Quattro palestinesi sono stati uccisi lunedì e altri due martedì, quando l’esercito israeliano ha sferrato decine di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, mentre centinaia di missili venivano lanciati dall’enclave assediata.

Il ministero della Sanità di Gaza ha identificato i sei palestinesi uccisi come Mohammed Zakariya al-Tatari, 27 anni, Mohammed Zuhdi Odeh, 22 anni, Hamad Mohammed al-Nahal, 23 anni, Moussa Iyad Abd al-Aal, 22 anni, Khaled Riyadh al-Sultan, 26 anni e Musaab Hoss, 20. Da lunedì pomeriggio sono stati feriti altri 25 palestinesi.

Secondo quanto riferito da Haaretz, un palestinese è stato ucciso da un missile partito da Gaza che ha colpito la sua casa nella città israeliana di Ashkelon. Il razzo avrebbe ferito gravemente anche due donne che si trovavano nella casa.

La morte del quarantenne, un palestinese originario della città di Hebron in Cisgiordania, è la prima morte confermata dovuta alla raffica di razzi lanciati da Gaza iniziata lunedì pomeriggio, a seguito di una micidiale operazione delle forze speciali israeliane nell’enclave.

Secondo quanto riportato dai media israeliani, l’esercito israeliano ha colpito almeno 70 bersagli a Gaza, mentre 300 missili sono stati lanciati dal territorio palestinese verso Israele per tutto il lunedì.

Un attacco israeliano ha ucciso un altro palestinese martedì, ha detto il Ministro della Salute di Gaza, portando così a cinque il bilancio delle vittime nell’enclave in meno di 24 ore.

Un testimone oculare a Gaza ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano lunedì ha bombardato l’edificio che a Gaza City ospita la stazione televisiva Al-Aqsa, legata a Hamas.

I media locali e internazionali hanno riferito che l’edificio è stato completamente distrutto durante l’attacco, e le strutture vicine danneggiate.

Non ci sono state notizie di vittime, secondo quanto riferito da Reuters.

L’attacco aereo è arrivato dopo che i militari israeliani hanno sparato cinque missili antideflagranti vicino all’edificio, hanno riferito a Reuters funzionari e testimoni palestinesi.

“Proprio come abbiamo affrontato gli attacchi precedenti, stiamo gestendo anche questo”, ha detto Rami Abu Dayya, un cameraman che ha lavorato per Al-Aqsa TV negli ultimi 14 anni durante i quali ha assistito a quattro diversi attacchi israeliani contro l’edificio.

Abu Dayya, 33 anni, ha detto anche di aver personalmente subìto tre diverse ferite durante gli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza negli ultimi anni.

“Israele sta cercando di mettere a tacere i media palestinesi. Tuttavia, pochi minuti dopo che l’edificio di Al-Aqsa è stato preso di mira, siamo stati in grado di riprendere le trasmissioni [da un altro luogo] “, ha detto lunedì a MEE.

Dawoud Shihab, capo dell’ufficio stampa della fazione palestinese Islamic Jihad, ha affermato che la distruzione dell’edificio del canale televisivo Al-Aqsa e di molte altre case è stata “un attacco grave e aggressivo”.

“Ciò provocherà un’escalation nella rappresaglia della resistenza (palestinese)”, ha detto Shihab in una dichiarazione.

Nel contempo, il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito che l’esercito israeliano avrebbe colpito 70 bersagli nell’enclave palestinese assediata intorno alle 16 di lunedì.

Il sistema israeliano di difesa missilistica Iron Dome ha intercettato circa 60 dei 300 razzi lanciati da Gaza verso Israele, ha riferito il giornale. La maggior parte dei razzi sono atterrati in zone disabitate, ha detto l’esercito israeliano, ha riferito Haaretz.

Gli attacchi aerei israeliani hanno colpito anche case appartenenti agli attivisti di Hamas a Rafah e Khan Younis, nel sud di Gaza, e un hotel a Gaza utilizzato dal governo di Hamas per gestire la sua agenzia di sicurezza interna.

Saeb Erekat, segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha detto che Israele è responsabile degli attacchi a Gaza e del deterioramento della situazione nel territorio.

“Ribadiamo la nostra richiesta di protezione internazionale. Chiediamo alla comunità internazionale di fare tutto il necessario per prevenire un nuovo massacro a Gaza “, ha detto Erekat.

Anche l’Egitto ha invitato Israele a fermare le violenze a Gaza, secondo quanto riferito dalla televisione pubblica/ egiziana, e come riportato da Reuters.

Le fonti dicono che l’Egitto avrebbe comunicato a Israele la necessità di impegnarsi in un processo di allentamento della tensione e ha anche intensificato l’impegno con i palestinesi a tale riguardo.

Abu Obeida, portavoce dell’ala armata di Hamas Brigate al-Qassam, ha twittato “quello che è successo ad Ashkelon è responsabilità del comando nemico”.

A seguito delle violenze, il gabinetto di sicurezza israeliano è stato convocato per martedì mattina.

 

Violenze dopo un fallito raid israeliano

Haaretz ha riferito di un soldato israeliano di 19 anni rimasto gravemente ferito da “un missile anti-carro ” che ha colpito un autobus nel sud del territorio israeliano nel distretto regionale di Shaar HaNegev.

Il servizio sanitario di emergenza israeliano Magen David Adom (MDA), che ha portato l’adolescente al Soroka Medical Center di Beersheba, ha descritto l’incidente come un’esplosione. Altri sei israeliani sono stati leggermente feriti nella città meridionale di Sderot, secondo MDA.

Le sirene hanno suonato nel sud di Israele per tutto il pomeriggio e la sera, e una è risuonata anche vicino al Mar Morto.

Mda ha detto che 50 israeliani sono stati ricoverati all’ospedale Barzilai di Ashkelon, per tutta la giornata di lunedì. Fra di essi, 19 persone sono state ferite da razzi, mentre altre 31 sono state curate per lo shock, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Ynet.

Il quotidiano ha riferito che il personale del Soroka Medical Center di Beersheba ha curato lunedì altri tre israeliani feriti dal lancio di razzi, e altri 44 sotto shock.

La violenza di lunedì fa seguito al micidiale raid dell’esercito israeliano via terra e via aria su Gaza domenica sera, durante il quale sette palestinesi – tra cui un comandante dell’ala militare di Hamas, le brigate al-Qassam – e un ufficiale israeliano sono stati uccisi.

L’incidente, che costituisce un raro esempio di truppe di terra israeliane penetrate così addentro nella Striscia di Gaza, ha scatenato la paura di un’escalation di violenza nel territorio costiero palestinese.

Lunedì l’inviato del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha manifestato il suo totale sostegno a Israele, fedele alleato degli Stati Uniti, e ha twittato che “gli attacchi con i razzi e i colpi di mortaio contro le città israeliane devono essere condannati da tutti”.

“Israele è ancora una volta costretto a ricorrere all’azione militare per difendere i suoi cittadini e noi stiamo con Israele che si difende dagli attacchi”, ha detto Greenblatt.

L’incursione israeliana e il successivo scambio di fuoco hanno avuto luogo nonostante gli sforzi egiziani di negoziare un accordo tra Hamas e Israele, in mezzo alle continue proteste di massa a Gaza che mettono sotto pressione Israele affinché ponga fine al blocco della Striscia.

Di recente, Israele ha accettato di consentire al Qatar di donare milioni di dollari in aiuti per contribuire a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza e per coprire i costi del carburante necessario ad alleviare una crisi nell’elettricità.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva in precedenza difeso la sua decisione di permettere al Qatar di trasferire denaro a Gaza nonostante le critiche del suo governo, dicendo di voler evitare la guerra, se non fosse stata necessaria.

Israele ha ucciso più di 200 palestinesi e ne ha feriti circa 20.000 dall’inizio più di sette mesi fa delle proteste della Grande Marcia del Ritorno.

I partecipanti alle marce settimanali hanno chiesto la fine del paralizzante assedio di Gaza, in essere da 11 anni, e il permesso per i profughi palestinesi di tornare alle case dei loro antenati.

Aggiornamenti di Mohammed Asad e Maha Hussaini a Gaza

Questo articolo è disponibile in francese sull’edizione francese di Middle East Eye.

(traduzione di Luciana Galliano)




Striscia di Gaza. Commando israeliano compie azione terrorista

Patrizia Cecconi

La situazione a Gaza precipita. Israele ha ripreso a bombardare da molte ore e la resistenza gazawa in accordo con tutte le formazioni politiche presenti nella Striscia, nessuna esclusa, ha deciso di rispondere. 
Sono stati lanciati, che si sappia, cento missili di cui circa 70 intercettati e gli altri no. Un autobus è stato colpito e ci sono degli israeliani feriti. 
La domanda è “perché? perché Israele ha voluto questo?” 
Di seguito un articolo con gli ultimi aggiornamenti.
12 novembre 2018, Pressenza

“Cessate il fuoco” sembra un ritornello amaramente beffardo da queste parti.  Ancora ieri sera, 11 novembre, Israele ha mostrato che non è sua intenzione stare ai patti nonostante la mediazione egiziana e i compromessi accomodanti col Qatar.

Come confermato anche dal portavoce dell’IDF (l’esercito di occupazione israeliano), un’auto civile con un commando di soldati e ufficiali in abiti borghesi è entrato nella Striscia assediata per compiere un’azione di stampo terroristico definita dall’IDF “attività operativa” finalizzata all’immediata uccisione del vice comandante delle brigate Ezz al Din al Qassam, Nur Barake.

Ma gli israeliani del commando, alcuni pare vestissero abiti femminili palestinesi per portare a compimento la loro missione di morte, hanno incontrato la resistenza di militanti di Hamas i quali, nonostante la sorpresa, hanno reagito e nello scontro a fuoco che ne è scaturito è stato ucciso un tenente colonnello israeliano facente parte del commando, un altro israeliano è stato ferito e altri tre palestinesi sono stati uccisi prima che l’aviazione israeliana entrasse in azione lanciando circa 40 missili sulle postazioni palestinesi e portando a sette il numero complessivo dei morti di cui quattro militari che non stavano esercitando alcun ufficio militare durante l’aggressione e tre civili.

All’azione, che ha innescato ovvie reazioni da parte gazawa – reazioni misurabili in 17 missili qassam alcuni dei quali intercettati dall’iron dome e gli altri capaci di provocare grande paura e fughe nei bunker della zona in cui sono caduti – la reazione pubblica da parte israeliana è quanto meno sconcertante. Ignorando totalmente la causa, ovvero l’azione oggettivamente di stampo terroristico del commando israeliano, il presidente Rivlin ha dichiarato di essere “stordito e addolorato per la perdita dell’ufficiale dell’IDF ucciso stasera.” Ed ha aggiunto “ Prego, insieme a tutti i cittadini israeliani, per la salute dell’ufficiale ferito“.

Dal canto loro Lieberman e Bennet, i falchi di estrema destra che non perdono occasione per invitare alla “soluzione finale” della causa palestinese, hanno fatto a gara nel tessere lodi all’assassino a sua volta ucciso dal fuoco palestinese arrivando a dichiarare (Bennett) che “grazie a eroi come questi, possiamo tutti vivere qui sani e salvi“.

Il primo ministro Netanyahu, solo poche ore prima, durante il forum sulla pace a Parigi aveva dichiarato che “per Gaza non ci sono opzioni politiche” paragonando inoltre, assurdamente, Gaza all’Isis e anticipando in tal modo il suo consenso all’azione terroristica o, per usare la formula di cortesia che la Tv italiana riserva a Israele, la “missione dell’intelligence”.

Avvertito di quanto successo, il premier israeliano ha lasciato Parigi per mostrarsi vicino al suo popolo e al suo esercito, cioè quello che ha organizzato – certo non autonomamente – la sanguinosa spedizione costata la vita ad almeno sette palestinesi e un israeliano.

Lo stesso Netanyahu, che a Parigi aveva escluso opzioni politiche, pochi giorni prima aveva dichiarato di voler evitare una nuova aggressione massiccia e di auspicare un cessate il fuoco durevole. Come si conciliano quindi queste due posizioni contraddittorie? Cosa c’è dietro quest’azione che, seppur fosse andata come previsto dall’intelligence  israeliana non avrebbe certo lasciato la resistenza gazawa immobile a piangere le sue vittime?

E’ lecito pensare che l’accoglienza inaspettatamente negativa fatta all’ambasciatore del Qatar, dopo che Israele aveva graziosamente consentito l’entrata di denaro per ammorbidire  la resistenza gazawa possa aver avuto il suo peso nella decisione di quest’azione terroristica di cui non si vedeva la necessità politica. O forse, come ipotizza qualche osservatore locale, Netanyahu ha bisogno di distrarre l’opinione pubblica israeliana dai suoi capi di imputazione per corruzione e frode e Gaza è il miglior espediente per richiamare lo spirito nazionalista a far quadrato mettendo all’angolo i guai giudiziari che potrebbero farlo affondare.

Intanto oggi la calma sembra essere tornata, i palestinesi contano i danni delle case distrutte e piangono i loro morti, mentre gli israeliani si stringono intorno al premier e alla destra estrema che onora come eroe nazionale il tenente colonnello che, mascheratosi da palestinese, è andato per uccidere ed è rimasto ucciso. Ma Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha dichiarato che la “vigliacca aggressione israeliana” avrà la sua risposta e che “la resistenza palestinese è pronta a svolgere il suo dovere” e il portavoce della Jihad ha ribadito lo stesso concetto.

Mentre scriviamo arriva notizia di un attacco di artiglieria israeliano sulla striscia settentrionale di Gaza, vicino a una postazione di Hamas. Chiariamo ai nostri lettori che anche gli uffici ministeriali sono considerati postazioni di Hamas.

A questo punto sembra chiaro che si stia provocando la risposta promessa da Hamas e dalla Jihad, e la domanda alla quale non abbiamo ancora risposta certa si riaffaccia: perché proprio ora, mentre si cercava di raggiungere un cessate il fuoco duraturo? A favore, o forse a danno di chi questa ripresa delle ostilità?

A questo punto a poco serve la mediazione egiziana, tornata in gioco intensificando i suoi sforzi per un cessate il fuoco che, ormai è ampiamente prevedibile, durerà fino a che Israele non avrà bisogno di interromperlo ripetendo un gioco chiamato sicurezza che si ripeterà tristemente all’infinito a meno che l’ONU non entri davvero in campo e i paesi complici di questa mattanza, accompagnata da assoluta illegalità, non diano a Israele un segnale di stop. Al momento segnali di questo tipo non se ne vedono.

Arriva in questo esatto momento la notizia che la resistenza gazawa ha risposto al bombardamento israeliano di poco fa. Un enorme lancio di razzi lanciato su Israele da Gaza. E’ stato colpito un autobus e ferito gravemente un giovane israeliano.

Forse Israele vuole davvero la guerra e da Gaza rispondono come sanno e come possono.

Se una nuova aggressione massiccia come Margine protettivo o Piombo fuso ci sarà, Gaza pagherà il prezzo più alto ma questa scelta non farà bene neanche agli israeliani.

Chiudiamo al momento ricordando le parole del ministro di orientamento fascista Naftali Bennett, che sembrano in questo momento ancora più assurde di poco fa “grazie a eroi come questi, possiamo tutti vivere qui sani e salvi“.

Per il momento dalla Palestina è tutto.




Israele uccide sette palestinesi in un’incursione segreta a Gaza

12 novembre 2018, Al Jazeera

Un alto ufficiale di Hamas ucciso dalle forze speciali israeliane in un’operazione sul confine in cui è morto un soldato israeliano.

Le forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi nella Striscia di Gaza durante un’incursione clandestina che aveva come obiettivo un comandante di Hamas e con gli attacchi aerei che hanno fornito ai militari la copertura per fuggire in Israele in automobile.

L’incursione e gli attacchi aerei israeliani hanno provocato il lancio di razzi dall’enclave controllata da Hamas domenica sera. Un alto ufficiale di Hamas ha detto che la squadra di forze speciali israeliane si è introdotta in una zona vicino alla città meridionale di Khan Younis in un veicolo civile.

Tra le persone che risultano uccise nell’attacco vi è Nour Baraka, un importante comandante delle brigate al-Qassam, l’ala armata di Hamas.

Un’operazione sul terreno all’interno della Striscia di Gaza non è usuale e probabilmente incrementerà le tensioni in modo significativo.

“Abbiamo saputo che un’unità speciale israeliana è entrata a Khan Younis ed ha assassinato Nour Baraka ed un altro (comandante)”, ha detto ad Al Jazeera Ghazi Hamad, alto ufficiale di Hamas.

“Dopodiché la vettura in cui si trovava questa unità speciale o alcuni collaboratori ha tentato di fuggire…ma è stata inseguita da Hamas e dalle brigate al-Qassam e quindi Israele ha cercato di coprire quell’auto colpendo Gaza”, ha aggiunto.

Dei testimoni hanno detto che, durante l’inseguimento, aerei israeliani hanno lanciato più di 40 missili nella zona in cui era successo il fatto, uccidendo almeno altre quattro persone.

Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas, ha denunciato ciò che ha definito un “vigliacco attacco israeliano”.

Scontro a fuoco

L’esercito ha dichiarato che un soldato israeliano è stato ucciso in uno scontro a fuoco durante l’operazione, mentre sta aumentando la tensione con l’enclave palestinese guidata da Hamas.

“Nel corso di un’azione operativa delle forze speciali israeliane nella Striscia di Gaza si è verificato uno scontro a fuoco”, ha affermato l’esercito in una dichiarazione.

“In questo incidente è stato ucciso un ufficiale dell’esercito ed un altro ufficiale è stato lievemente ferito”, ha aggiunto.

L’esercito ha detto che i suoi soldati sono rientrati (in Israele).

Dopo lo scoppio dello scontro si è sentito il suono delle sirene nel sud di Israele, che segnalavano il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza.

Secondo l’esercito, sono stati identificati diciassette lanci (di razzi) da Gaza verso Israele e due di essi sono stati intercettati dalla difesa missilistica israeliana. Non è del tutto chiaro dove gli altri abbiano colpito.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, in visita ufficiale in Francia, ha annunciato il suo immediato rientro in Israele per occuparsi della crisi.

Tempismo perfetto

Harry Fawcett di Al Jazeera, inviato a Gerusalemme

La squadra delle forze speciali clandestine israeliane è penetrata per tre chilometri all’interno del territorio di Gaza oltre la barriera di confine, viaggiando su un veicolo civile. Là ha ucciso il 37enne Nour Baraka, un alto comandante delle brigate al-Qassam di Hamas, l’ala militare del gruppo.

Sono stati poi uccisi altri sei palestinesi in quello che è diventato un inseguimento in cui gli israeliani si ritiravano sotto copertura di pesanti attacchi aerei. L’esercito israeliano afferma di aver intercettato tre dei 17 razzi lanciati da Gaza dopo l’incursione.

Questa escalation arriva con un perfetto tempismo, quando vi erano stati alcuni progressi negli sforzi per raggiungere una tregua a lungo termine tra Hamas ed Israele, con la mediazione di Egitto e Nazioni Unite e il coinvolgimento di finanziamenti del Qatar.

E’ giunta anche nel momento in cui Netanyahu era a Parigi a parlare del suo dichiarato impegno a creare una situazione più stabile a Gaza. Nello stesso Israele, Netanyahu ha subito contraccolpi politici per essersi dimostrato troppo moderato nei confronti di Hamas.

Una ripresa da parte di Israele della politica di mirare a singoli comandanti di Hamas – tattica ampiamente abbandonata negli ultimi anni – potrebbe aggravare significativamente le tensioni al confine.

Israele e i miliziani palestinesi a Gaza hanno combattuto tre guerre dal 2008 e gli ultimi mesi di disordini hanno sollevato il timore di una quarta.

Un assedio soffocante

Sono spesso scoppiate violenze sulla frontiera da quando il 30 marzo i palestinesi hanno iniziato le settimanali proteste .

I palestinesi della Striscia di Gaza hanno fatto manifestazioni lungo il confine con Israele chiedendo il diritto al ritorno alle case e alla terra da cui le loro famiglie vennero espulse 70 anni fa.

Chiedono inoltre la fine del soffocante assedio della Striscia di Gaza, che ha devastato l’economia dell’enclave costiera e privato i suoi due milioni di abitanti di molti servizi indispensabili.

Da quando sono iniziate le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, sono stati uccisi oltre 200 palestinesi e feriti in migliaia dalle truppe israeliane dispiegate sull’altro lato della barriera (di confine).

Egitto, Qatar e Nazioni Unite hanno tentato di mediare per un cessate il fuoco a lungo termine.

Mouin Rabbani, un professore associato presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina, ha detto a Al Jazeera che è evidente che l’operazione sotto copertura di domenica è stata un “omicidio premeditato”.

“La domanda che sorge è: quali erano le motivazioni di Israele? Stava cercando, come tante volte in passato, di infliggere un colpo ad Hamas giusto per ricordargli chi comanda e che sarà Israele a decidere i termini in cui verrà raggiunto qualunque cessate il fuoco?

O invece sta forse cercando di affossare questa iniziativa di cessate il fuoco e forse iniziare un più ampio conflitto, come è accaduto nel 2008, 2009, 2012 e 2014?”, ha detto Rabbani.

“La mia impressione è che in questa fase Israele sia probabilmente più interessato a colpire sanguinosamente Hamas e a cercare di ricordare alla gente chi comanda e che sarà Israele a decidere fino a quando l’illegale assedio della Striscia di Gaza verrà mantenuto.”

I soldi del Qatar

Venerdì i dipendenti pubblici palestinesi nella squattrinata Gaza hanno iniziato a ricevere i salari dopo mesi di pagamenti sporadici, grazie ai 15 milioni di dollari arrivati in valigie dal Qatar all’enclave attraverso Israele.

Hamas ha risposto diminuendo l’intensità delle proteste del venerdì alla frontiera.

Le autorità di Gaza hanno detto che un totale di 90 milioni di dollari verrà distribuito in rate semestrali, soprattutto per coprire i salari dei funzionari che lavorano per Hamas.

Il Qatar ha inoltre detto che darà 100 dollari ad ognuna delle 50.000 famiglie povere, ed anche una somma maggiore ai palestinesi feriti negli scontri lungo il confine tra Gaza e Israele.

Lo Stato del Golfo ha iniziato ad acquistare altro combustibile per l’unica centrale elettrica di Gaza, consentendo che le interruzioni di corrente si riducano ai livelli più bassi da anni.

I pagamenti sono una parte di ciò che dovrebbe essere una serie di intese informali tra Israele e Hamas.

Netanyahu domenica mattina ha difeso la sua decisione di consentire al Qatar di trasferire il denaro a Gaza, nonostante le critiche all’iniziativa dall’interno del suo stesso governo, affermando di voler evitare una guerra se non necessaria.

Nella Cisgiordania occupata il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha duramente accusato Israele e gli Stati Uniti di lavorare insieme alle sue spalle per consolidare il controllo di Hamas su Gaza.

Ha anche accusato Hamas di ostacolare il suo obbiettivo di stabilire uno Stato palestinese indipendente che includa tutta la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Il piano di pace di Trump

Mike Hanna di Al Jazeera, inviato a Washington, DC.

Solo una settimana fa il rappresentante di Trump Jason Greenblatt ha avuto un incontro con Netanyahu in Israele in cui è stata discussa la questione di Gaza. L’esito di quell’incontro, come è stato comunicato, è stato che gli Stati Uniti erano molto favorevoli al ritorno della stabilità a Gaza.

Questa distensione avrebbe dovuto essere il preludio al corso dell’iniziativa di Trump per risuscitare il processo di pace da tempo latente. A settembre Trump ha detto che avrebbe portato avanti il suo piano entro due-quattro mesi, il che significa l’inizio di dicembre.

La settimana scorsa Greenblatt ha detto che il piano è pronto per essere presentato entro qualche giorno o forse qualche settimana.

La violenza a Gaza sembra essere un ostacolo, ma Trump sembra pronto a procedere col piano benché una delle parti principali, i palestinesi, non ne vogliano sapere. I palestinesi non considerano più gli USA un arbitro indipendente ed imparziale. Ritengono che lo scopo dell’iniziativa sia soprattutto garantire la sicurezza di Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Fine modulo




Abulhawa: per 36 ore sono stata in arresto su un letto sporco nella mia patria, poi sono stata espulsa  

Susan Abulhawa

4 novembre 2018, Mondoweiss

Dopo essere stata espulsa da Israele per la seconda volta in tre anni, Susan Abulhawa ieri ha postato su Facebook il seguente comunicato al festival della letteratura a cui non ha potuto partecipare.

Messaggio per il festival di letteratura palestinese Kalimat:

Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine nei confronti del festival di letteratura palestinese Kalimat, in particolare a Mahmoud Muna, e al Kenyon Institute [istituto di ricerche britannico con sede a Gerusalemme, ndtr.] del British Council per avermi invitata ed aver sostenuto le spese perché partecipassi al festival di letteratura in Palestina di quest’anno.

Come ormai sapete tutti, le autorità israeliane mi hanno negato l’ingresso nel mio Paese e di conseguenza non posso partecipare al festival. Mi addolora molto non essere con i miei amici e colleghi scrittori per analizzare e onorare le nostre tradizioni letterarie con i lettori e tra di noi nella nostra patria. Mi addolora che ci possiamo incontrare ovunque nel mondo tranne che in Palestina, il luogo a cui apparteniamo, da cui scaturiscono le nostre storie e dove tutti i nostri viaggi alla fine ci conducono. Non ci possiamo incontrare sul suolo che è stato fertilizzato per millenni dai corpi dei nostri antenati e innaffiato dalle lacrime e dal sangue dei figli e delle figlie della Palestina che quotidianamente lottano per lei.

Dopo la mia espulsione, leggo che le autorità israeliane hanno dichiarato che mi era richiesto di “coordinare” preventivamente il mio viaggio con loro. Questa è una menzogna. In effetti all’arrivo in aeroporto mi è stato detto che mi era stato richiesto di presentare richiesta di visto per il mio passaporto USA e che questa richiesta non sarebbe stata accettata fino al 2020, almeno cinque anni dopo la prima volta che mi è stato negato l’ingresso. Hanno detto che era mia responsabilità saperlo benché non mi fosse mai stata data nessuna comunicazione di essere stata bandita. Poi hanno detto che la mia prima espulsione nel 2015 era dovuta al fatto che avevo rifiutato di specificare loro la ragione della mia visita. Anche questa è una menzogna. Questi sono i fatti.

Nel 2015 ero venuta in Palestina per costruire parchi giochi in vari villaggi e partecipare all’inaugurazione di quelli che avevamo già costruito nei mesi precedenti. Un altro membro della nostra organizzazione aveva viaggiato con me. Lei risultò essere ebrea e le consentirono di entrare. Vari funzionari israeliani che mi interrogarono mi fecero le stesse domande in forme diverse nel corso di oltre 7 ore e mezza. Risposi a tutte, come dobbiamo fare noi palestinesi se vogliamo avere una possibilità di andare a casa, anche solo come visitatori. Ma non fui abbastanza ossequiosa, né ne ero capace in quel momento. Ma ero sicuramente calma e – ciò che viene richiesto a tutte le persone violentate – “civile”. Alla fine venni accusata di non aver cooperato perché non sapevo quanti cugini avevo e quali fossero tutti i loro nomi ed i nomi delle loro mogli. Fu solo dopo che mi venne detto che mi era stato negato l’ingresso che alzai la voce e mi rifiutai di andarmene tranquillamente. Gridai e confermo ogni cosa che gridai. Secondo “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] Israele affermò che io “mi ero comportata con rabbia, brutalità e volgarità” nel 2015 al [valico di frontiera del] ponte di Allenby [tra Giordania e Cisgiordania, ndtr.].

Quello che dissi nel 2015 a chi mi interrogava, e che venne anche riportato all’epoca da “Haaretz”, è che avrebbero dovuto essere loro ad andarsene, non io; che sono figlia di questa terra e niente cambierà questo fatto; che la mia stessa storia affonda nella terra e non c’è modo che essi possano sradicarla; che per quanto essi evochino le favole mitologiche sioniste, non possono rivendicare un simile lignaggio personale e familiare, per quanto desiderino di poterlo fare.

Suppongo che possa suonare volgare a orecchie sioniste essere posti di fronte all’autenticità della condizione dei palestinesi in quanto autoctoni nonostante l’esilio, e affrontare la loro apocrifa, sempre cangiante narrazione colonialista.

A quanto pare la mia mancanza di deferenza e la scelta di non accettare tranquillamente la decisione arbitraria di un illegittimo guardiano della mia patria nel 2015 vennero associate al mio nome e, questa volta dopo il mio arrivo il 1 novembre, segnalate per la mia immediata espulsione.

La vera volgarità è che alcuni milioni di europei e altri stranieri vivono ora in Palestina mentre la popolazione indigena vive o in esilio o sotto il crudele giogo dell’occupazione israeliana; la vera volgarità sta nelle file di cecchini che circondano Gaza, che prendono attentamente la mira e sparano a esseri umani assolutamente indifesi, che osano protestare contro il loro imprigionamento collettivo e contro la miseria che gli viene imposta; la vera volgarità sta nel fatto di vedere i nostri giovani a terra sanguinanti, gettati nelle prigioni israeliane, privati di un’educazione, dei viaggi, dell’istruzione o di una qualche possibilità di stare pienamente al mondo; la vera volgarità è il modo in cui hanno preso e continuano a prendere tutto da noi, come ci hanno strappato il cuore, rubato tutto, occupato la nostra storia e calpestato le nostre voci e la nostra arte.

In totale Israele mi ha incarcerata per 36 ore. Non ci è stato consentito di tenere nessun apparecchio elettronico, penne o matite nella cella del carcere, ma ho trovato il modo per avere entrambi – perché noi palestinesi siamo pieni di risorse, astuti e troviamo la nostra via verso la libertà e la dignità con ogni mezzo possibile. Ho foto e video dall’interno di quel terribile centro di detenzione, che ho preso con un secondo telefono nascosto sul mio corpo, ed ho lasciato loro qualche messaggio sui muri dal letto sporco che mi hanno dato per sdraiarmi. Suppongo che troveranno volgare leggere “Palestina libera”, “Israele è uno Stato di apartheid”, o “Susan Abulhawa è stata qui e ha introdotto di nascosto nella sua cella questa matita.”

Ma la parte più memorabile di questo calvario sono stati i libri. Quando sono arrivata al carcere avevo due libri nel mio trolley e ho avuto il permesso di tenerli. Alternativamente leggevo entrambi, dormivo e pensavo.

Il primo libro era un saggio molto erudito dello storico Nur Masalha, “Palestina: una storia di quattromila anni.” Avevo previsto di intervistare Nur sul palco sulla sua epica rivisitazione della storia millenaria dei palestinesi raccontata non da narrazioni con motivazioni politiche, ma dalla narrazione archeologica e di altre discipline. È la storia di un popolo, che abbraccia le confuse e molteplici identità delle popolazioni native della Palestina dall’Età del Bronzo fino ad ora. In una cella di sicurezza israeliana, con cinque altre donne, tutte dell’Europa dell’Est e ognuna di loro con la propria sofferenza individuale, i capitoli del libro di Nur Masalha mi hanno portata attraverso il passato pluralistico, multiculturale e multireligioso della Palestina, distorto e cristallizzato da invenzioni moderne di un antico passato.

L’amara ironia della nostra condizione non mi era sfuggita. Io, figlia della terra, di una famiglia radicata da almeno 900 anni sulla terra e che ho passato la maggior parte della mia infanzia a Gerusalemme, ero stata espulsa dalla mia patria dai figli e dalle figlie di recente arrivo, venuti in Palestina qualche decennio fa con una filosofia di darwinismo razzista di origine europea, che invocava leggende bibliche e diritti di proprietà concessi dalla divinità.

Mi è venuto anche in mente che tutti i palestinesi – indipendentemente dalla nostra condizione, ideologia o luogo della nostra incarcerazione o esilio – siamo per sempre uniti in una storia comune che inizia con noi e viaggia verso l’antico passato in un posto sulla terra, come le molte foglie e i molti rami di un albero che portano ad un unico tronco. E siamo anche uniti dalla sofferenza comune vedendo gente da ogni parte del mondo colonizzare non solo lo spazio fisico della nostra esistenza, ma anche i suoi luoghi spirituali, familiari e culturali. Penso anche che traiamo forza da questa infinita, inguaribile ferita. Da lì scriviamo le nostre storie, e cantiamo là anche le nostre canzoni e le nostre dabke [musica e danza popolare mediorientale, ndtr.]. Ricaviamo arte da questo dolore. In questo posto raccogliamo fucili e penne, videocamere e pennelli, lanciamo pietre, facciamo volare aquiloni e facciamo balenare la vittoria e i pugni alzati.

L’altro libro che ho letto era l’acclamato, affascinante romanzo di Colson Whitehead “The Underground Railroad” [La ferrovia sotterranea, Sur, 2016]. È la storia di Cora, una ragazza nata in schiavitù da Mabel, la prima schiava scappata dalla piantagione Randal. In questo racconto immaginario Cora scappa dalla piantagione con il suo amico Caesar, il loro risoluto cacciatore di schiavi, Ridgeway, sul cammino lungo la ferrovia sotterranea – una metafora della vita reale resa in una vera ferrovia nel romanzo. Il trauma generazionale di una inconcepibile schiavitù è tanto più devastante in questo romanzo in quanto è raccontato realisticamente dal punto di vista dello schiavo. Un’altra incurabile ferita collettiva di un popolo messa a nudo, un passato comune atrocemente potente, anche una sede della sua potenza, una sorgente delle sue storie e delle sue canzoni.

Ora sono tornata a casa mia, con mia figlia e i nostri amati cani e gatti, ma il mio cuore non lascia mai la Palestina. Quindi, sono là, e continueremo ad incontrarci nei panorami della nostra letteratura, arte, cucina e in tutti i tesori della nostra cultura comune.

Dopo aver scritto questo comunicato, ho appreso che la conferenza stampa si è tenuta a Dar el Tifl [collegio femminile e organizzazione benefica di Gerusalemme, ndtr.]. Ho vissuto lì i migliori anni della mia infanzia, nonostante la separazione dalla mia famiglia e le condizioni a volte difficili che dovemmo affrontare sotto l’occupazione israeliana. Dar el Tifl è l’eredità di una delle donne più ammirevoli che abbia mai conosciuto – Sitt Hind el Husseini. Mi ha salvata in vari modi più di quanto penso si rendesse conto, o di quanto io abbia compreso all’epoca. Salvò molte ragazze. Ci riunì da tutti i mille pezzi della Palestina. Ci diede cibo e rifugio, ci educò e credette in noi e a sua volta ci convinse che valevamo qualcosa. Non c’è un luogo più appropriato di Dar al Tifl per leggere questa dichiarazione.

Voglio lasciarvi con un altro pensiero che mi è venuto quando ero in carcere, ed è questo: Israele è spiritualmente, emotivamente e culturalmente piccolo nonostante i lunghi fucili che punta contro di noi – o forse proprio a causa di questi. È a loro stesso discapito che non possono accettare la nostra presenza nella nostra patria, perché la nostra umanità rimane intatta e la nostra arte è magnifica e vitale, e non stiamo andando da nessuna parte se non a casa.

Su Susan Abulhawa

Susan Abulhawa è autrice del romanzo best seller internazionale “Mornings in Jenin” (Bloomsbury, 2010) [“Ogni mattina a Jenin”, Feltrinelli, 2006) – www.morningsinjenin.com – e fondatrice di “Playgrounds for Palestine” [Parchi giochi per la Palestina] – www.playgroundsforpalestine.org.

(traduzione di Amedeo Rossi)




È una nuova era, ma gli esercizi di equilibrismo della Cina in Medio Oriente non funzioneranno

Ramzy Baroud

30 ottobre 2018, Palestine Chronicle

Benché i legami tra Washington e Tel Aviv siano più che mai forti, i dirigenti israeliani sono consci di un contesto politico in grande mutamento. Lo stesso fermento politico negli USA e la ridefinizione del potere globale – che è molto evidente in Medio Oriente – indicano che effettivamente si sta realizzando.

Com’era prevedibile, questa nuova era coinvolge la Cina.

Il 22 ottobre il vicepresidente cinese Wang Qishan è arrivato in Israele per una visita di 4 giorni per presiedere la quarta “Commissione per l’Innovazione Cina-Israele”. Si tratta del più alto dirigente cinese a visitare Israele in quasi vent’anni.

Nell’aprile del 2000 l’ex-presidente cinese Jiang Zemin fu il primo leader cinese ad essere andato in Israele, ad aver visitato il museo dell’Olocausto “Yad Vashem” e ad aver reso omaggio diplomatico alle sue controparti israeliane. Allo stesso tempo parlò delle intenzioni della Cina di rinsaldare i legami tra i due Paesi.

Tuttavia la visita di Wang Qishan è diversa. I “legami” tra Pechino e Tel Aviv sono molto più forti di allora, come evidenziato dalle cifre. Poco dopo che i due Paesi scambiarono gli ambasciatori nel 1992 i dati commerciali salirono alle stelle. Anche le dimensioni degli investimenti cinesi in Israele sono cresciute in modo esponenziale, da 50 milioni di dollari all’inizio degli anni ’90 ai clamorosi 16,5 miliardi di dollari, secondo stime del 2016.

I crescenti investimenti cinesi e i rapporti strategici con Israele si basano su forti interessi di entrambi i Paesi nell’innovazione tecnologica, così come nella cosiddetta ferrovia “Red Med”, una rete regionale di infrastrutture marittime e ferroviarie intese a collegare la Cina con l’Europa passando per l’Asia e il Medio Oriente. Inoltre la ferrovia collegherebbe anche i due porti israeliani di Eilat e Ashdod. Notizie sul progetto cinese di gestire il porto israeliano di Haifa hanno già sollevato le ire degli USA e dei loro alleati europei.

Certo i tempi sono cambiati. Sebbene in passato Washington abbia ordinato a Tel Aviv di smettere immediatamente di scambiare tecnologia militare americana con la Cina, obbligandola ad annullare la vendita del sistema di volo di allerta rapida “Phalcon”, ora sta assistendo a come i dirigenti israeliani e cinesi stiano gestendo l’inizio di una nuova era politica che – per la prima volta – non include Washington. Per la Cina il recente amore per Israele è parte di una più complessiva strategia globale che può essere considerata la gemma della rivitalizzata politica estera cinese.

La visita di Qishan in Israele segue immediatamente i serrati tentativi di Pechino di promuovere il suo gigantesco progetto economico da trilioni di dollari, la “Belt and Road Initiative” [nota in Italia come “Nuova Via della Seta”, ndtr.] (BRI).

La Cina spera che il suo grande progetto contribuisca ad aprire nuove opportunità nel mondo e possibilmente a garantire il suo predominio in varie regioni che dalla Seconda Guerra Mondiale ruotano nella sfera di influenza americana. La BRI intende mettere in comunicazione Asia, Africa ed Europa attraverso una “cintura “di strade per il trasporto via terra e un “percorso” marittimo di rotte di navigazione.

La competizione tra la Cina e gli USA si sta accentuando. Washington vuole conservare il più possibile il proprio predominio globale, mentre Pechino sta lavorando con impazienza per soppiantare lo status di superpotenza degli USA, in primo luogo in Asia, poi in Africa e in Medio Oriente. La strategia cinese per raggiungere i suoi obiettivi è assolutamente chiara: a differenza degli sproporzionati investimenti Usa nella potenza militare, la Cina è propensa a conquistarsi lo status a cui ambisce usando, almeno per ora, solo un potere pacifico.

Tuttavia il Medio Oriente è più ricco e quindi più strategico e conteso di ogni altra regione al mondo. Pieno di conflitti e di diversi schieramenti politici, è probabile che più prima che dopo faccia fallire la strategia cinese di un potere pacifico. Mentre la politica estera cinese ha cercato di sopravvivere alla guerra con effetti di polarizzazione in Siria coinvolgendo tutte le parti e giocando in secondo piano rispetto al ruolo guida della Russia nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’occupazione israeliana della Palestina è una sfida politica totalmente diversa.

Per anni la Cina ha mantenuto una posizione coerente di appoggio al popolo palestinese, chiedendo la fine dell’occupazione israeliana e la fondazione di uno Stato palestinese indipendente. Tuttavia la ferma posizione di Pechino riguardo ai diritti dei palestinesi sembra avere pochi effetti sui suoi rapporti con Israele, in quanto la collaborazione tecnologica congiunta, il commercio e gli investimenti continuano ad incrementarsi senza ostacoli.

I responsabili cinesi della politica estera operano con l’errata convinzione che il loro Paese possa essere allo stesso tempo filo-palestinese e filo-israeliano, criticando l’occupazione pur appoggiandola; chiedendo ad Israele di rispettare le leggi internazionali mentre al contempo rafforza Israele, anche senza volerlo, nelle sue continue violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

L’hasbara [propaganda, ndtr.] israeliana ha perfezionato l’arte dell’acrobazia politica, e trovare un equilibrio tra il discorso occidentale degli USA e quello cinese non dovrebbe essere un compito troppo difficile.

In effetti sembra che il cliché spesso ripetuto di Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente” venga leggermente corretto per rispondere alle aspettative di una nascente superpotenza, esclusivamente interessata alla tecnologia, al commercio e agli investimenti. I dirigenti israeliani vogliono che la Cina e i suoi investitori pensino ad Israele come l’unica economia stabile in Medio Oriente.

Come prevedibile, le priorità palestinesi sono totalmente diverse.

Con la lotta palestinese per la libertà e i diritti umani che cattura l’attenzione internazionale con la crescita del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), sempre più Paesi sono sotto pressione perché esprimano una posizione chiara sull’occupazione israeliana e sull’apartheid.

Per la Cina entrare nella mischia con una strategia indecisa ed egoista non è solo moralmente discutibile, ma anche strategicamente insostenibile. I popoli palestinese e arabo sono poco interessati a sostituire la dominazione militare americana con l’egemonia economica cinese che fa poco per cambiare o, al massimo contesta lo status quo prevalente.

Tristemente, mentre Pechino e Tel Aviv lavorano per raggiungere il necessario equilibrio tra politica estera e interessi economici, la Cina si trova senza particolari obblighi di schierarsi con una ben definita posizione araba sulla Palestina, semplicemente perché quest’ultima non esiste. La divisione politica tra i Paesi arabi, le guerre in Siria e altrove hanno allontanato la Palestina dall’essere una priorità araba in uno strano patto che coinvolge la “pace regionale” come parte del cosiddetto “Accordo del Secolo” di Trump.

Questa penosa realtà ha indebolito la posizione palestinese in Cina, che, almeno finora, valuta i propri rapporti con Israele più importanti dei legami storici con la Palestina e con il popolo arabo.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e editore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

(traduzione di Amedeo Rossi)




A Hebron i coloni israeliani attaccano palestinesi che raccolgono le olive

Ma’an News

31 ottobre 2018

Hebron (Ma’an) – Martedì un gruppo di coloni israeliani ha attaccato palestinesi che raccoglievano le olive nella zona di Tel Rumeida, nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata, ed ha cercato di impedire loro di raccogliere le olive nelle loro terre nei pressi dell’illegale colonia israeliana di Ramat Yishai.

Le terre sono di proprietà della locale famiglia di Muhammad Abu Haikal; il proprietario della terra, insieme ad attivisti locali ed internazionali, è entrato nel terreno nonostante le procedure militari israeliane.

I raccoglitori di olive hanno continuato [il lavoro] nonostante attacchi da parte di coloni israeliani in quanto hanno insistito sul fatto di essere sui propri terreni e di non lasciarli senza protezione.

La scorsa settimana a Tel Rumeida il gruppo “Youth against Settlement” [“Giovani contro le Colonie”, attivisti palestinesi di Hebron, ndtr.] ha lanciato una campagna per la raccolta delle olive, con la partecipazione di organizzazioni internazionali che lavorano per la pace e la giustizia.

Il coordinatore della campagna, Izzat al-Karaki, ha detto: “Stiamo lavorando per appoggiare la tenacia delle famiglie palestinesi che subiscono gli attacchi dei coloni israeliani e dell’esercito nelle aree chiuse della città di Hebron.”

Al-Karaki ha sottolineato che decine di attivisti internazionali e locali hanno partecipato alla raccolta delle olive.

L’agronomo Murad Amr, coordinatore del gruppo “Youth against Settlement”, ha detto che la campagna continua nelle zone ad alta tensione di Tel Rumeida e nelle aree adiacenti alla colonia di Kiryat Arba, ad Hebron.

Amr ha aggiunto che il suo gruppo ha anche formato un comitato di sorveglianza notturna per evitare che il raccolto di olive venga rubato dai coloni israeliani.

La zona di Tel Rumeida è da lungo tempo un punto caldo di tensione tra i palestinesi e i coloni e l’esercito israeliani, in quanto si trova nei pressi di colonie israeliane illegali i cui abitanti sono notoriamente aggressivi verso i palestinesi.

Tel Rumeida è all’interno dell’area della città denominata H2, una zona che occupa la maggior parte della Città Vecchia di Hebron, sotto totale controllo militare israeliano e il luogo in cui si trovano cinque colonie israeliane che si espandono continuamente nei vicini quartieri palestinesi.

L’area H2, controllata dagli israeliani, è abitata da 30.000 palestinesi e circa 800 coloni israeliani che vivono sotto la protezione delle forze israeliane.

Tra i 500.000 ed i 600.000 israeliani vivono nelle colonie di soli ebrei a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate in violazione delle leggi internazionali.

Il governo palestinese non ha giurisdizione sugli israeliani in Cisgiordania, e azioni poste in atto da coloni israeliani spesso avvengono in presenza delle forze militari israeliane che raramente intervengono per proteggere gli abitanti palestinesi.

La maggior parte dei furti commessi contro i palestinesi rimane impunita, e raramente gli israeliani pagano le conseguenze per tali furti.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, solo l’1,9% delle denunce presentate dai palestinesi contro attacchi o furti da parte di coloni israeliani porta ad una condanna, mentre il 95,6% delle indagini per danni agli ulivi viene chiuso per inadempienza della polizia israeliana.

Secondo gruppi palestinesi e dei diritti umani il principale obiettivo di Israele, sia delle sue politiche nell’Area C, in cui più del 60% del territorio palestinese è sotto totale controllo israeliano, che dell’illegale colonizzazione israeliana, è spopolare la terra dei suoi abitanti palestinesi e sostituirli con comunità ebraiche israeliane per manipolare la situazione demografica in tutta la Palestina storica.

B’Tselem afferma che lo spostamento di coloni israeliani che hanno occupato la terra palestinese e poi cacciato la locale popolazione palestinese è stato una “costante” della politica israeliana fin dalla conquista della Cisgiordania e di Gerusalemme nel 1967, sottolineando che tutte le “istituzioni legislative, legali, di pianificazione, di finanziamento e di difesa israeliane” hanno giocato un ruolo attivo nella spoliazione dei palestinesi della loro terra.

B’Tselem sostiene anche che, spacciandola per “occupazione militare temporanea”, Israele ha “utilizzato la terra come se fosse sua: rubandola, sfruttando a proprio favore le risorse naturali della zona e fondando colonie permanenti,” stimando che Israele nel corso degli anni ha espropriato i palestinesi di circa 200.000 ettari di terre nei territori palestinesi occupati.

(traduzione di Amedeo Rossi)