Un attivista palestinese imprigionato per essere andato in bicicletta nel suo villaggio

Oren Ziv

14 novembre 2018, +972

Un tribunale militare israeliano ha condannato Abdullah Abu Rahma, un noto difensore dei diritti umani, a 110 giorni di prigione per essere andato in bicicletta durante una protesta contro l’occupazione due anni fa.

Mercoledì un tribunale militare israeliano ha condannato il noto attivista palestinese Abdullah Abu Rahma a quattro mesi di prigione per due accuse relative una corsa in bicicletta per celebrare la giornata della Nakba [la “Catastrofe”, cioè l’espulsione dei palestinesi da quello che sarebbe diventato lo Stato di Israele nel 2048, ndtr.] del 2016.

Abu Rahma, uno dei più noti leader della lotta popolare contro il muro di separazione, è stato condannato alcune settimane fa per aver violato, nel maggio 2016, un ordine di zona militare chiusa e aver intralciato un soldato durante una corsa a Bil’in, il suo villaggio. Centinaia di ciclisti palestinesi e internazionali avevano preso parte alla cosiddetta “corsa del ritorno”, partita da Ramallah e terminata nel villaggio della Cisgiordania.

Comunque le forze di sicurezza israeliane avevano invaso il villaggio ancor prima che la corsa iniziasse. Abu Rahma era stato arrestato mentre cercava di spiegare ai soldati che si trovavano sulla sua terra. Era stato gettato a terra, arrestato e detenuto per 11 giorni.

Quasi tutte le forme di protesta sono illegali per i palestinesi che vivono sotto il governo militare israeliano in Cisgiordania.

Mercoledì il giudice militare israeliano maggiore Haim Baliti ha accettato che Abu Rahma inizi a scontare la pena a metà dicembre, in modo da “corsa del ritorno”,dare il tempo alla difesa di fare appello sia contro la sentenza che contro la condanna.

Baliti ha anche applicato parte di una sentenza sospesa con la condizionale relativa a una precedente condanna per la partecipazione a un’altra protesta un anno prima. La sentenza sospesa è stata rimessa in vigore dall’attuale condanna. Abu Rahma sconterà un totale di 110 giorni in un carcere militare israeliano.

Abdullah è un difensore dei diritti umani”, ha detto dopo il pronunciamento della sentenza Gaby Lasky, la sua avvocatessa. “Si oppone in modo non violento all’occupazione – ecco ciò che fa di lui un obiettivo così importante. Finché si trova in prigione non può essere attivo sul campo.”

Queste punizioni per la resistenza nonviolenta in corso indicano che il tribunale militare non è una corte di giustizia; il suo unico scopo è mantenere l’occupazione e impedire ogni resistenza contro di essa”, ha aggiunto Lasky.

Abu Rahma, che nel 2010 ha avuto il riconoscimento di “difensore dei diritti umani” impegnato nella nonviolenza, è uno dei principali leader nella lotta contro il muro ed ha contribuito a guidare le proteste popolari a Bil’in iniziate nel 2005.

Ha trascorso oltre un anno in carcere per il suo ruolo nelle proteste di Bil’in e ora sta affrontando un’altra serie di accuse perché avrebbe danneggiato il cancello della barriera di separazione nel villaggio dove vive.

Nel 2010, la rivista +972 ha nominato Abu Rahma suo “personaggio dell’anno” per il suo ruolo nel “movimento di opposizione ben organizzato, nonviolento e di base a Bil’in – che riunisce sostenitori palestinesi, israeliani e internazionali in una lotta comune”.

Sono arrabbiato e addolorato per la decisione”, ha detto Abu Rahma alla fine dell’udienza. “Questo non è un vero tribunale – è un tribunale politico. Ne pagherò il prezzo, ma questa punizione mi darà coraggio per continuare a sostenere il popolo dovunque sia – che è il mio dovere come palestinese – finché finirà l’occupazione e otterremo l’indipendenza.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza: sei morti nelle sparatorie fra Israele e Hamas

MEE staff,

12 novembre 2018 (aggiornato 13 novembre), Middle East Eye

Decine di attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza uccidono sei palestinesi, i missili di Hamas fanno morire un palestinese in Israele

Quattro palestinesi sono stati uccisi lunedì e altri due martedì, quando l’esercito israeliano ha sferrato decine di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, mentre centinaia di missili venivano lanciati dall’enclave assediata.

Il ministero della Sanità di Gaza ha identificato i sei palestinesi uccisi come Mohammed Zakariya al-Tatari, 27 anni, Mohammed Zuhdi Odeh, 22 anni, Hamad Mohammed al-Nahal, 23 anni, Moussa Iyad Abd al-Aal, 22 anni, Khaled Riyadh al-Sultan, 26 anni e Musaab Hoss, 20. Da lunedì pomeriggio sono stati feriti altri 25 palestinesi.

Secondo quanto riferito da Haaretz, un palestinese è stato ucciso da un missile partito da Gaza che ha colpito la sua casa nella città israeliana di Ashkelon. Il razzo avrebbe ferito gravemente anche due donne che si trovavano nella casa.

La morte del quarantenne, un palestinese originario della città di Hebron in Cisgiordania, è la prima morte confermata dovuta alla raffica di razzi lanciati da Gaza iniziata lunedì pomeriggio, a seguito di una micidiale operazione delle forze speciali israeliane nell’enclave.

Secondo quanto riportato dai media israeliani, l’esercito israeliano ha colpito almeno 70 bersagli a Gaza, mentre 300 missili sono stati lanciati dal territorio palestinese verso Israele per tutto il lunedì.

Un attacco israeliano ha ucciso un altro palestinese martedì, ha detto il Ministro della Salute di Gaza, portando così a cinque il bilancio delle vittime nell’enclave in meno di 24 ore.

Un testimone oculare a Gaza ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano lunedì ha bombardato l’edificio che a Gaza City ospita la stazione televisiva Al-Aqsa, legata a Hamas.

I media locali e internazionali hanno riferito che l’edificio è stato completamente distrutto durante l’attacco, e le strutture vicine danneggiate.

Non ci sono state notizie di vittime, secondo quanto riferito da Reuters.

L’attacco aereo è arrivato dopo che i militari israeliani hanno sparato cinque missili antideflagranti vicino all’edificio, hanno riferito a Reuters funzionari e testimoni palestinesi.

“Proprio come abbiamo affrontato gli attacchi precedenti, stiamo gestendo anche questo”, ha detto Rami Abu Dayya, un cameraman che ha lavorato per Al-Aqsa TV negli ultimi 14 anni durante i quali ha assistito a quattro diversi attacchi israeliani contro l’edificio.

Abu Dayya, 33 anni, ha detto anche di aver personalmente subìto tre diverse ferite durante gli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza negli ultimi anni.

“Israele sta cercando di mettere a tacere i media palestinesi. Tuttavia, pochi minuti dopo che l’edificio di Al-Aqsa è stato preso di mira, siamo stati in grado di riprendere le trasmissioni [da un altro luogo] “, ha detto lunedì a MEE.

Dawoud Shihab, capo dell’ufficio stampa della fazione palestinese Islamic Jihad, ha affermato che la distruzione dell’edificio del canale televisivo Al-Aqsa e di molte altre case è stata “un attacco grave e aggressivo”.

“Ciò provocherà un’escalation nella rappresaglia della resistenza (palestinese)”, ha detto Shihab in una dichiarazione.

Nel contempo, il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito che l’esercito israeliano avrebbe colpito 70 bersagli nell’enclave palestinese assediata intorno alle 16 di lunedì.

Il sistema israeliano di difesa missilistica Iron Dome ha intercettato circa 60 dei 300 razzi lanciati da Gaza verso Israele, ha riferito il giornale. La maggior parte dei razzi sono atterrati in zone disabitate, ha detto l’esercito israeliano, ha riferito Haaretz.

Gli attacchi aerei israeliani hanno colpito anche case appartenenti agli attivisti di Hamas a Rafah e Khan Younis, nel sud di Gaza, e un hotel a Gaza utilizzato dal governo di Hamas per gestire la sua agenzia di sicurezza interna.

Saeb Erekat, segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha detto che Israele è responsabile degli attacchi a Gaza e del deterioramento della situazione nel territorio.

“Ribadiamo la nostra richiesta di protezione internazionale. Chiediamo alla comunità internazionale di fare tutto il necessario per prevenire un nuovo massacro a Gaza “, ha detto Erekat.

Anche l’Egitto ha invitato Israele a fermare le violenze a Gaza, secondo quanto riferito dalla televisione pubblica/ egiziana, e come riportato da Reuters.

Le fonti dicono che l’Egitto avrebbe comunicato a Israele la necessità di impegnarsi in un processo di allentamento della tensione e ha anche intensificato l’impegno con i palestinesi a tale riguardo.

Abu Obeida, portavoce dell’ala armata di Hamas Brigate al-Qassam, ha twittato “quello che è successo ad Ashkelon è responsabilità del comando nemico”.

A seguito delle violenze, il gabinetto di sicurezza israeliano è stato convocato per martedì mattina.

 

Violenze dopo un fallito raid israeliano

Haaretz ha riferito di un soldato israeliano di 19 anni rimasto gravemente ferito da “un missile anti-carro ” che ha colpito un autobus nel sud del territorio israeliano nel distretto regionale di Shaar HaNegev.

Il servizio sanitario di emergenza israeliano Magen David Adom (MDA), che ha portato l’adolescente al Soroka Medical Center di Beersheba, ha descritto l’incidente come un’esplosione. Altri sei israeliani sono stati leggermente feriti nella città meridionale di Sderot, secondo MDA.

Le sirene hanno suonato nel sud di Israele per tutto il pomeriggio e la sera, e una è risuonata anche vicino al Mar Morto.

Mda ha detto che 50 israeliani sono stati ricoverati all’ospedale Barzilai di Ashkelon, per tutta la giornata di lunedì. Fra di essi, 19 persone sono state ferite da razzi, mentre altre 31 sono state curate per lo shock, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Ynet.

Il quotidiano ha riferito che il personale del Soroka Medical Center di Beersheba ha curato lunedì altri tre israeliani feriti dal lancio di razzi, e altri 44 sotto shock.

La violenza di lunedì fa seguito al micidiale raid dell’esercito israeliano via terra e via aria su Gaza domenica sera, durante il quale sette palestinesi – tra cui un comandante dell’ala militare di Hamas, le brigate al-Qassam – e un ufficiale israeliano sono stati uccisi.

L’incidente, che costituisce un raro esempio di truppe di terra israeliane penetrate così addentro nella Striscia di Gaza, ha scatenato la paura di un’escalation di violenza nel territorio costiero palestinese.

Lunedì l’inviato del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha manifestato il suo totale sostegno a Israele, fedele alleato degli Stati Uniti, e ha twittato che “gli attacchi con i razzi e i colpi di mortaio contro le città israeliane devono essere condannati da tutti”.

“Israele è ancora una volta costretto a ricorrere all’azione militare per difendere i suoi cittadini e noi stiamo con Israele che si difende dagli attacchi”, ha detto Greenblatt.

L’incursione israeliana e il successivo scambio di fuoco hanno avuto luogo nonostante gli sforzi egiziani di negoziare un accordo tra Hamas e Israele, in mezzo alle continue proteste di massa a Gaza che mettono sotto pressione Israele affinché ponga fine al blocco della Striscia.

Di recente, Israele ha accettato di consentire al Qatar di donare milioni di dollari in aiuti per contribuire a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza e per coprire i costi del carburante necessario ad alleviare una crisi nell’elettricità.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva in precedenza difeso la sua decisione di permettere al Qatar di trasferire denaro a Gaza nonostante le critiche del suo governo, dicendo di voler evitare la guerra, se non fosse stata necessaria.

Israele ha ucciso più di 200 palestinesi e ne ha feriti circa 20.000 dall’inizio più di sette mesi fa delle proteste della Grande Marcia del Ritorno.

I partecipanti alle marce settimanali hanno chiesto la fine del paralizzante assedio di Gaza, in essere da 11 anni, e il permesso per i profughi palestinesi di tornare alle case dei loro antenati.

Aggiornamenti di Mohammed Asad e Maha Hussaini a Gaza

Questo articolo è disponibile in francese sull’edizione francese di Middle East Eye.

(traduzione di Luciana Galliano)




Striscia di Gaza. Commando israeliano compie azione terrorista

Patrizia Cecconi

La situazione a Gaza precipita. Israele ha ripreso a bombardare da molte ore e la resistenza gazawa in accordo con tutte le formazioni politiche presenti nella Striscia, nessuna esclusa, ha deciso di rispondere. 
Sono stati lanciati, che si sappia, cento missili di cui circa 70 intercettati e gli altri no. Un autobus è stato colpito e ci sono degli israeliani feriti. 
La domanda è “perché? perché Israele ha voluto questo?” 
Di seguito un articolo con gli ultimi aggiornamenti.
12 novembre 2018, Pressenza

“Cessate il fuoco” sembra un ritornello amaramente beffardo da queste parti.  Ancora ieri sera, 11 novembre, Israele ha mostrato che non è sua intenzione stare ai patti nonostante la mediazione egiziana e i compromessi accomodanti col Qatar.

Come confermato anche dal portavoce dell’IDF (l’esercito di occupazione israeliano), un’auto civile con un commando di soldati e ufficiali in abiti borghesi è entrato nella Striscia assediata per compiere un’azione di stampo terroristico definita dall’IDF “attività operativa” finalizzata all’immediata uccisione del vice comandante delle brigate Ezz al Din al Qassam, Nur Barake.

Ma gli israeliani del commando, alcuni pare vestissero abiti femminili palestinesi per portare a compimento la loro missione di morte, hanno incontrato la resistenza di militanti di Hamas i quali, nonostante la sorpresa, hanno reagito e nello scontro a fuoco che ne è scaturito è stato ucciso un tenente colonnello israeliano facente parte del commando, un altro israeliano è stato ferito e altri tre palestinesi sono stati uccisi prima che l’aviazione israeliana entrasse in azione lanciando circa 40 missili sulle postazioni palestinesi e portando a sette il numero complessivo dei morti di cui quattro militari che non stavano esercitando alcun ufficio militare durante l’aggressione e tre civili.

All’azione, che ha innescato ovvie reazioni da parte gazawa – reazioni misurabili in 17 missili qassam alcuni dei quali intercettati dall’iron dome e gli altri capaci di provocare grande paura e fughe nei bunker della zona in cui sono caduti – la reazione pubblica da parte israeliana è quanto meno sconcertante. Ignorando totalmente la causa, ovvero l’azione oggettivamente di stampo terroristico del commando israeliano, il presidente Rivlin ha dichiarato di essere “stordito e addolorato per la perdita dell’ufficiale dell’IDF ucciso stasera.” Ed ha aggiunto “ Prego, insieme a tutti i cittadini israeliani, per la salute dell’ufficiale ferito“.

Dal canto loro Lieberman e Bennet, i falchi di estrema destra che non perdono occasione per invitare alla “soluzione finale” della causa palestinese, hanno fatto a gara nel tessere lodi all’assassino a sua volta ucciso dal fuoco palestinese arrivando a dichiarare (Bennett) che “grazie a eroi come questi, possiamo tutti vivere qui sani e salvi“.

Il primo ministro Netanyahu, solo poche ore prima, durante il forum sulla pace a Parigi aveva dichiarato che “per Gaza non ci sono opzioni politiche” paragonando inoltre, assurdamente, Gaza all’Isis e anticipando in tal modo il suo consenso all’azione terroristica o, per usare la formula di cortesia che la Tv italiana riserva a Israele, la “missione dell’intelligence”.

Avvertito di quanto successo, il premier israeliano ha lasciato Parigi per mostrarsi vicino al suo popolo e al suo esercito, cioè quello che ha organizzato – certo non autonomamente – la sanguinosa spedizione costata la vita ad almeno sette palestinesi e un israeliano.

Lo stesso Netanyahu, che a Parigi aveva escluso opzioni politiche, pochi giorni prima aveva dichiarato di voler evitare una nuova aggressione massiccia e di auspicare un cessate il fuoco durevole. Come si conciliano quindi queste due posizioni contraddittorie? Cosa c’è dietro quest’azione che, seppur fosse andata come previsto dall’intelligence  israeliana non avrebbe certo lasciato la resistenza gazawa immobile a piangere le sue vittime?

E’ lecito pensare che l’accoglienza inaspettatamente negativa fatta all’ambasciatore del Qatar, dopo che Israele aveva graziosamente consentito l’entrata di denaro per ammorbidire  la resistenza gazawa possa aver avuto il suo peso nella decisione di quest’azione terroristica di cui non si vedeva la necessità politica. O forse, come ipotizza qualche osservatore locale, Netanyahu ha bisogno di distrarre l’opinione pubblica israeliana dai suoi capi di imputazione per corruzione e frode e Gaza è il miglior espediente per richiamare lo spirito nazionalista a far quadrato mettendo all’angolo i guai giudiziari che potrebbero farlo affondare.

Intanto oggi la calma sembra essere tornata, i palestinesi contano i danni delle case distrutte e piangono i loro morti, mentre gli israeliani si stringono intorno al premier e alla destra estrema che onora come eroe nazionale il tenente colonnello che, mascheratosi da palestinese, è andato per uccidere ed è rimasto ucciso. Ma Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha dichiarato che la “vigliacca aggressione israeliana” avrà la sua risposta e che “la resistenza palestinese è pronta a svolgere il suo dovere” e il portavoce della Jihad ha ribadito lo stesso concetto.

Mentre scriviamo arriva notizia di un attacco di artiglieria israeliano sulla striscia settentrionale di Gaza, vicino a una postazione di Hamas. Chiariamo ai nostri lettori che anche gli uffici ministeriali sono considerati postazioni di Hamas.

A questo punto sembra chiaro che si stia provocando la risposta promessa da Hamas e dalla Jihad, e la domanda alla quale non abbiamo ancora risposta certa si riaffaccia: perché proprio ora, mentre si cercava di raggiungere un cessate il fuoco duraturo? A favore, o forse a danno di chi questa ripresa delle ostilità?

A questo punto a poco serve la mediazione egiziana, tornata in gioco intensificando i suoi sforzi per un cessate il fuoco che, ormai è ampiamente prevedibile, durerà fino a che Israele non avrà bisogno di interromperlo ripetendo un gioco chiamato sicurezza che si ripeterà tristemente all’infinito a meno che l’ONU non entri davvero in campo e i paesi complici di questa mattanza, accompagnata da assoluta illegalità, non diano a Israele un segnale di stop. Al momento segnali di questo tipo non se ne vedono.

Arriva in questo esatto momento la notizia che la resistenza gazawa ha risposto al bombardamento israeliano di poco fa. Un enorme lancio di razzi lanciato su Israele da Gaza. E’ stato colpito un autobus e ferito gravemente un giovane israeliano.

Forse Israele vuole davvero la guerra e da Gaza rispondono come sanno e come possono.

Se una nuova aggressione massiccia come Margine protettivo o Piombo fuso ci sarà, Gaza pagherà il prezzo più alto ma questa scelta non farà bene neanche agli israeliani.

Chiudiamo al momento ricordando le parole del ministro di orientamento fascista Naftali Bennett, che sembrano in questo momento ancora più assurde di poco fa “grazie a eroi come questi, possiamo tutti vivere qui sani e salvi“.

Per il momento dalla Palestina è tutto.




Israele uccide sette palestinesi in un’incursione segreta a Gaza

12 novembre 2018, Al Jazeera

Un alto ufficiale di Hamas ucciso dalle forze speciali israeliane in un’operazione sul confine in cui è morto un soldato israeliano.

Le forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi nella Striscia di Gaza durante un’incursione clandestina che aveva come obiettivo un comandante di Hamas e con gli attacchi aerei che hanno fornito ai militari la copertura per fuggire in Israele in automobile.

L’incursione e gli attacchi aerei israeliani hanno provocato il lancio di razzi dall’enclave controllata da Hamas domenica sera. Un alto ufficiale di Hamas ha detto che la squadra di forze speciali israeliane si è introdotta in una zona vicino alla città meridionale di Khan Younis in un veicolo civile.

Tra le persone che risultano uccise nell’attacco vi è Nour Baraka, un importante comandante delle brigate al-Qassam, l’ala armata di Hamas.

Un’operazione sul terreno all’interno della Striscia di Gaza non è usuale e probabilmente incrementerà le tensioni in modo significativo.

“Abbiamo saputo che un’unità speciale israeliana è entrata a Khan Younis ed ha assassinato Nour Baraka ed un altro (comandante)”, ha detto ad Al Jazeera Ghazi Hamad, alto ufficiale di Hamas.

“Dopodiché la vettura in cui si trovava questa unità speciale o alcuni collaboratori ha tentato di fuggire…ma è stata inseguita da Hamas e dalle brigate al-Qassam e quindi Israele ha cercato di coprire quell’auto colpendo Gaza”, ha aggiunto.

Dei testimoni hanno detto che, durante l’inseguimento, aerei israeliani hanno lanciato più di 40 missili nella zona in cui era successo il fatto, uccidendo almeno altre quattro persone.

Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas, ha denunciato ciò che ha definito un “vigliacco attacco israeliano”.

Scontro a fuoco

L’esercito ha dichiarato che un soldato israeliano è stato ucciso in uno scontro a fuoco durante l’operazione, mentre sta aumentando la tensione con l’enclave palestinese guidata da Hamas.

“Nel corso di un’azione operativa delle forze speciali israeliane nella Striscia di Gaza si è verificato uno scontro a fuoco”, ha affermato l’esercito in una dichiarazione.

“In questo incidente è stato ucciso un ufficiale dell’esercito ed un altro ufficiale è stato lievemente ferito”, ha aggiunto.

L’esercito ha detto che i suoi soldati sono rientrati (in Israele).

Dopo lo scoppio dello scontro si è sentito il suono delle sirene nel sud di Israele, che segnalavano il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza.

Secondo l’esercito, sono stati identificati diciassette lanci (di razzi) da Gaza verso Israele e due di essi sono stati intercettati dalla difesa missilistica israeliana. Non è del tutto chiaro dove gli altri abbiano colpito.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, in visita ufficiale in Francia, ha annunciato il suo immediato rientro in Israele per occuparsi della crisi.

Tempismo perfetto

Harry Fawcett di Al Jazeera, inviato a Gerusalemme

La squadra delle forze speciali clandestine israeliane è penetrata per tre chilometri all’interno del territorio di Gaza oltre la barriera di confine, viaggiando su un veicolo civile. Là ha ucciso il 37enne Nour Baraka, un alto comandante delle brigate al-Qassam di Hamas, l’ala militare del gruppo.

Sono stati poi uccisi altri sei palestinesi in quello che è diventato un inseguimento in cui gli israeliani si ritiravano sotto copertura di pesanti attacchi aerei. L’esercito israeliano afferma di aver intercettato tre dei 17 razzi lanciati da Gaza dopo l’incursione.

Questa escalation arriva con un perfetto tempismo, quando vi erano stati alcuni progressi negli sforzi per raggiungere una tregua a lungo termine tra Hamas ed Israele, con la mediazione di Egitto e Nazioni Unite e il coinvolgimento di finanziamenti del Qatar.

E’ giunta anche nel momento in cui Netanyahu era a Parigi a parlare del suo dichiarato impegno a creare una situazione più stabile a Gaza. Nello stesso Israele, Netanyahu ha subito contraccolpi politici per essersi dimostrato troppo moderato nei confronti di Hamas.

Una ripresa da parte di Israele della politica di mirare a singoli comandanti di Hamas – tattica ampiamente abbandonata negli ultimi anni – potrebbe aggravare significativamente le tensioni al confine.

Israele e i miliziani palestinesi a Gaza hanno combattuto tre guerre dal 2008 e gli ultimi mesi di disordini hanno sollevato il timore di una quarta.

Un assedio soffocante

Sono spesso scoppiate violenze sulla frontiera da quando il 30 marzo i palestinesi hanno iniziato le settimanali proteste .

I palestinesi della Striscia di Gaza hanno fatto manifestazioni lungo il confine con Israele chiedendo il diritto al ritorno alle case e alla terra da cui le loro famiglie vennero espulse 70 anni fa.

Chiedono inoltre la fine del soffocante assedio della Striscia di Gaza, che ha devastato l’economia dell’enclave costiera e privato i suoi due milioni di abitanti di molti servizi indispensabili.

Da quando sono iniziate le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, sono stati uccisi oltre 200 palestinesi e feriti in migliaia dalle truppe israeliane dispiegate sull’altro lato della barriera (di confine).

Egitto, Qatar e Nazioni Unite hanno tentato di mediare per un cessate il fuoco a lungo termine.

Mouin Rabbani, un professore associato presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina, ha detto a Al Jazeera che è evidente che l’operazione sotto copertura di domenica è stata un “omicidio premeditato”.

“La domanda che sorge è: quali erano le motivazioni di Israele? Stava cercando, come tante volte in passato, di infliggere un colpo ad Hamas giusto per ricordargli chi comanda e che sarà Israele a decidere i termini in cui verrà raggiunto qualunque cessate il fuoco?

O invece sta forse cercando di affossare questa iniziativa di cessate il fuoco e forse iniziare un più ampio conflitto, come è accaduto nel 2008, 2009, 2012 e 2014?”, ha detto Rabbani.

“La mia impressione è che in questa fase Israele sia probabilmente più interessato a colpire sanguinosamente Hamas e a cercare di ricordare alla gente chi comanda e che sarà Israele a decidere fino a quando l’illegale assedio della Striscia di Gaza verrà mantenuto.”

I soldi del Qatar

Venerdì i dipendenti pubblici palestinesi nella squattrinata Gaza hanno iniziato a ricevere i salari dopo mesi di pagamenti sporadici, grazie ai 15 milioni di dollari arrivati in valigie dal Qatar all’enclave attraverso Israele.

Hamas ha risposto diminuendo l’intensità delle proteste del venerdì alla frontiera.

Le autorità di Gaza hanno detto che un totale di 90 milioni di dollari verrà distribuito in rate semestrali, soprattutto per coprire i salari dei funzionari che lavorano per Hamas.

Il Qatar ha inoltre detto che darà 100 dollari ad ognuna delle 50.000 famiglie povere, ed anche una somma maggiore ai palestinesi feriti negli scontri lungo il confine tra Gaza e Israele.

Lo Stato del Golfo ha iniziato ad acquistare altro combustibile per l’unica centrale elettrica di Gaza, consentendo che le interruzioni di corrente si riducano ai livelli più bassi da anni.

I pagamenti sono una parte di ciò che dovrebbe essere una serie di intese informali tra Israele e Hamas.

Netanyahu domenica mattina ha difeso la sua decisione di consentire al Qatar di trasferire il denaro a Gaza, nonostante le critiche all’iniziativa dall’interno del suo stesso governo, affermando di voler evitare una guerra se non necessaria.

Nella Cisgiordania occupata il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha duramente accusato Israele e gli Stati Uniti di lavorare insieme alle sue spalle per consolidare il controllo di Hamas su Gaza.

Ha anche accusato Hamas di ostacolare il suo obbiettivo di stabilire uno Stato palestinese indipendente che includa tutta la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Il piano di pace di Trump

Mike Hanna di Al Jazeera, inviato a Washington, DC.

Solo una settimana fa il rappresentante di Trump Jason Greenblatt ha avuto un incontro con Netanyahu in Israele in cui è stata discussa la questione di Gaza. L’esito di quell’incontro, come è stato comunicato, è stato che gli Stati Uniti erano molto favorevoli al ritorno della stabilità a Gaza.

Questa distensione avrebbe dovuto essere il preludio al corso dell’iniziativa di Trump per risuscitare il processo di pace da tempo latente. A settembre Trump ha detto che avrebbe portato avanti il suo piano entro due-quattro mesi, il che significa l’inizio di dicembre.

La settimana scorsa Greenblatt ha detto che il piano è pronto per essere presentato entro qualche giorno o forse qualche settimana.

La violenza a Gaza sembra essere un ostacolo, ma Trump sembra pronto a procedere col piano benché una delle parti principali, i palestinesi, non ne vogliano sapere. I palestinesi non considerano più gli USA un arbitro indipendente ed imparziale. Ritengono che lo scopo dell’iniziativa sia soprattutto garantire la sicurezza di Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Abulhawa: per 36 ore sono stata in arresto su un letto sporco nella mia patria, poi sono stata espulsa  

Susan Abulhawa

4 novembre 2018, Mondoweiss

Dopo essere stata espulsa da Israele per la seconda volta in tre anni, Susan Abulhawa ieri ha postato su Facebook il seguente comunicato al festival della letteratura a cui non ha potuto partecipare.

Messaggio per il festival di letteratura palestinese Kalimat:

Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine nei confronti del festival di letteratura palestinese Kalimat, in particolare a Mahmoud Muna, e al Kenyon Institute [istituto di ricerche britannico con sede a Gerusalemme, ndtr.] del British Council per avermi invitata ed aver sostenuto le spese perché partecipassi al festival di letteratura in Palestina di quest’anno.

Come ormai sapete tutti, le autorità israeliane mi hanno negato l’ingresso nel mio Paese e di conseguenza non posso partecipare al festival. Mi addolora molto non essere con i miei amici e colleghi scrittori per analizzare e onorare le nostre tradizioni letterarie con i lettori e tra di noi nella nostra patria. Mi addolora che ci possiamo incontrare ovunque nel mondo tranne che in Palestina, il luogo a cui apparteniamo, da cui scaturiscono le nostre storie e dove tutti i nostri viaggi alla fine ci conducono. Non ci possiamo incontrare sul suolo che è stato fertilizzato per millenni dai corpi dei nostri antenati e innaffiato dalle lacrime e dal sangue dei figli e delle figlie della Palestina che quotidianamente lottano per lei.

Dopo la mia espulsione, leggo che le autorità israeliane hanno dichiarato che mi era richiesto di “coordinare” preventivamente il mio viaggio con loro. Questa è una menzogna. In effetti all’arrivo in aeroporto mi è stato detto che mi era stato richiesto di presentare richiesta di visto per il mio passaporto USA e che questa richiesta non sarebbe stata accettata fino al 2020, almeno cinque anni dopo la prima volta che mi è stato negato l’ingresso. Hanno detto che era mia responsabilità saperlo benché non mi fosse mai stata data nessuna comunicazione di essere stata bandita. Poi hanno detto che la mia prima espulsione nel 2015 era dovuta al fatto che avevo rifiutato di specificare loro la ragione della mia visita. Anche questa è una menzogna. Questi sono i fatti.

Nel 2015 ero venuta in Palestina per costruire parchi giochi in vari villaggi e partecipare all’inaugurazione di quelli che avevamo già costruito nei mesi precedenti. Un altro membro della nostra organizzazione aveva viaggiato con me. Lei risultò essere ebrea e le consentirono di entrare. Vari funzionari israeliani che mi interrogarono mi fecero le stesse domande in forme diverse nel corso di oltre 7 ore e mezza. Risposi a tutte, come dobbiamo fare noi palestinesi se vogliamo avere una possibilità di andare a casa, anche solo come visitatori. Ma non fui abbastanza ossequiosa, né ne ero capace in quel momento. Ma ero sicuramente calma e – ciò che viene richiesto a tutte le persone violentate – “civile”. Alla fine venni accusata di non aver cooperato perché non sapevo quanti cugini avevo e quali fossero tutti i loro nomi ed i nomi delle loro mogli. Fu solo dopo che mi venne detto che mi era stato negato l’ingresso che alzai la voce e mi rifiutai di andarmene tranquillamente. Gridai e confermo ogni cosa che gridai. Secondo “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] Israele affermò che io “mi ero comportata con rabbia, brutalità e volgarità” nel 2015 al [valico di frontiera del] ponte di Allenby [tra Giordania e Cisgiordania, ndtr.].

Quello che dissi nel 2015 a chi mi interrogava, e che venne anche riportato all’epoca da “Haaretz”, è che avrebbero dovuto essere loro ad andarsene, non io; che sono figlia di questa terra e niente cambierà questo fatto; che la mia stessa storia affonda nella terra e non c’è modo che essi possano sradicarla; che per quanto essi evochino le favole mitologiche sioniste, non possono rivendicare un simile lignaggio personale e familiare, per quanto desiderino di poterlo fare.

Suppongo che possa suonare volgare a orecchie sioniste essere posti di fronte all’autenticità della condizione dei palestinesi in quanto autoctoni nonostante l’esilio, e affrontare la loro apocrifa, sempre cangiante narrazione colonialista.

A quanto pare la mia mancanza di deferenza e la scelta di non accettare tranquillamente la decisione arbitraria di un illegittimo guardiano della mia patria nel 2015 vennero associate al mio nome e, questa volta dopo il mio arrivo il 1 novembre, segnalate per la mia immediata espulsione.

La vera volgarità è che alcuni milioni di europei e altri stranieri vivono ora in Palestina mentre la popolazione indigena vive o in esilio o sotto il crudele giogo dell’occupazione israeliana; la vera volgarità sta nelle file di cecchini che circondano Gaza, che prendono attentamente la mira e sparano a esseri umani assolutamente indifesi, che osano protestare contro il loro imprigionamento collettivo e contro la miseria che gli viene imposta; la vera volgarità sta nel fatto di vedere i nostri giovani a terra sanguinanti, gettati nelle prigioni israeliane, privati di un’educazione, dei viaggi, dell’istruzione o di una qualche possibilità di stare pienamente al mondo; la vera volgarità è il modo in cui hanno preso e continuano a prendere tutto da noi, come ci hanno strappato il cuore, rubato tutto, occupato la nostra storia e calpestato le nostre voci e la nostra arte.

In totale Israele mi ha incarcerata per 36 ore. Non ci è stato consentito di tenere nessun apparecchio elettronico, penne o matite nella cella del carcere, ma ho trovato il modo per avere entrambi – perché noi palestinesi siamo pieni di risorse, astuti e troviamo la nostra via verso la libertà e la dignità con ogni mezzo possibile. Ho foto e video dall’interno di quel terribile centro di detenzione, che ho preso con un secondo telefono nascosto sul mio corpo, ed ho lasciato loro qualche messaggio sui muri dal letto sporco che mi hanno dato per sdraiarmi. Suppongo che troveranno volgare leggere “Palestina libera”, “Israele è uno Stato di apartheid”, o “Susan Abulhawa è stata qui e ha introdotto di nascosto nella sua cella questa matita.”

Ma la parte più memorabile di questo calvario sono stati i libri. Quando sono arrivata al carcere avevo due libri nel mio trolley e ho avuto il permesso di tenerli. Alternativamente leggevo entrambi, dormivo e pensavo.

Il primo libro era un saggio molto erudito dello storico Nur Masalha, “Palestina: una storia di quattromila anni.” Avevo previsto di intervistare Nur sul palco sulla sua epica rivisitazione della storia millenaria dei palestinesi raccontata non da narrazioni con motivazioni politiche, ma dalla narrazione archeologica e di altre discipline. È la storia di un popolo, che abbraccia le confuse e molteplici identità delle popolazioni native della Palestina dall’Età del Bronzo fino ad ora. In una cella di sicurezza israeliana, con cinque altre donne, tutte dell’Europa dell’Est e ognuna di loro con la propria sofferenza individuale, i capitoli del libro di Nur Masalha mi hanno portata attraverso il passato pluralistico, multiculturale e multireligioso della Palestina, distorto e cristallizzato da invenzioni moderne di un antico passato.

L’amara ironia della nostra condizione non mi era sfuggita. Io, figlia della terra, di una famiglia radicata da almeno 900 anni sulla terra e che ho passato la maggior parte della mia infanzia a Gerusalemme, ero stata espulsa dalla mia patria dai figli e dalle figlie di recente arrivo, venuti in Palestina qualche decennio fa con una filosofia di darwinismo razzista di origine europea, che invocava leggende bibliche e diritti di proprietà concessi dalla divinità.

Mi è venuto anche in mente che tutti i palestinesi – indipendentemente dalla nostra condizione, ideologia o luogo della nostra incarcerazione o esilio – siamo per sempre uniti in una storia comune che inizia con noi e viaggia verso l’antico passato in un posto sulla terra, come le molte foglie e i molti rami di un albero che portano ad un unico tronco. E siamo anche uniti dalla sofferenza comune vedendo gente da ogni parte del mondo colonizzare non solo lo spazio fisico della nostra esistenza, ma anche i suoi luoghi spirituali, familiari e culturali. Penso anche che traiamo forza da questa infinita, inguaribile ferita. Da lì scriviamo le nostre storie, e cantiamo là anche le nostre canzoni e le nostre dabke [musica e danza popolare mediorientale, ndtr.]. Ricaviamo arte da questo dolore. In questo posto raccogliamo fucili e penne, videocamere e pennelli, lanciamo pietre, facciamo volare aquiloni e facciamo balenare la vittoria e i pugni alzati.

L’altro libro che ho letto era l’acclamato, affascinante romanzo di Colson Whitehead “The Underground Railroad” [La ferrovia sotterranea, Sur, 2016]. È la storia di Cora, una ragazza nata in schiavitù da Mabel, la prima schiava scappata dalla piantagione Randal. In questo racconto immaginario Cora scappa dalla piantagione con il suo amico Caesar, il loro risoluto cacciatore di schiavi, Ridgeway, sul cammino lungo la ferrovia sotterranea – una metafora della vita reale resa in una vera ferrovia nel romanzo. Il trauma generazionale di una inconcepibile schiavitù è tanto più devastante in questo romanzo in quanto è raccontato realisticamente dal punto di vista dello schiavo. Un’altra incurabile ferita collettiva di un popolo messa a nudo, un passato comune atrocemente potente, anche una sede della sua potenza, una sorgente delle sue storie e delle sue canzoni.

Ora sono tornata a casa mia, con mia figlia e i nostri amati cani e gatti, ma il mio cuore non lascia mai la Palestina. Quindi, sono là, e continueremo ad incontrarci nei panorami della nostra letteratura, arte, cucina e in tutti i tesori della nostra cultura comune.

Dopo aver scritto questo comunicato, ho appreso che la conferenza stampa si è tenuta a Dar el Tifl [collegio femminile e organizzazione benefica di Gerusalemme, ndtr.]. Ho vissuto lì i migliori anni della mia infanzia, nonostante la separazione dalla mia famiglia e le condizioni a volte difficili che dovemmo affrontare sotto l’occupazione israeliana. Dar el Tifl è l’eredità di una delle donne più ammirevoli che abbia mai conosciuto – Sitt Hind el Husseini. Mi ha salvata in vari modi più di quanto penso si rendesse conto, o di quanto io abbia compreso all’epoca. Salvò molte ragazze. Ci riunì da tutti i mille pezzi della Palestina. Ci diede cibo e rifugio, ci educò e credette in noi e a sua volta ci convinse che valevamo qualcosa. Non c’è un luogo più appropriato di Dar al Tifl per leggere questa dichiarazione.

Voglio lasciarvi con un altro pensiero che mi è venuto quando ero in carcere, ed è questo: Israele è spiritualmente, emotivamente e culturalmente piccolo nonostante i lunghi fucili che punta contro di noi – o forse proprio a causa di questi. È a loro stesso discapito che non possono accettare la nostra presenza nella nostra patria, perché la nostra umanità rimane intatta e la nostra arte è magnifica e vitale, e non stiamo andando da nessuna parte se non a casa.

Su Susan Abulhawa

Susan Abulhawa è autrice del romanzo best seller internazionale “Mornings in Jenin” (Bloomsbury, 2010) [“Ogni mattina a Jenin”, Feltrinelli, 2006) – www.morningsinjenin.com – e fondatrice di “Playgrounds for Palestine” [Parchi giochi per la Palestina] – www.playgroundsforpalestine.org.

(traduzione di Amedeo Rossi)




È una nuova era, ma gli esercizi di equilibrismo della Cina in Medio Oriente non funzioneranno

Ramzy Baroud

30 ottobre 2018, Palestine Chronicle

Benché i legami tra Washington e Tel Aviv siano più che mai forti, i dirigenti israeliani sono consci di un contesto politico in grande mutamento. Lo stesso fermento politico negli USA e la ridefinizione del potere globale – che è molto evidente in Medio Oriente – indicano che effettivamente si sta realizzando.

Com’era prevedibile, questa nuova era coinvolge la Cina.

Il 22 ottobre il vicepresidente cinese Wang Qishan è arrivato in Israele per una visita di 4 giorni per presiedere la quarta “Commissione per l’Innovazione Cina-Israele”. Si tratta del più alto dirigente cinese a visitare Israele in quasi vent’anni.

Nell’aprile del 2000 l’ex-presidente cinese Jiang Zemin fu il primo leader cinese ad essere andato in Israele, ad aver visitato il museo dell’Olocausto “Yad Vashem” e ad aver reso omaggio diplomatico alle sue controparti israeliane. Allo stesso tempo parlò delle intenzioni della Cina di rinsaldare i legami tra i due Paesi.

Tuttavia la visita di Wang Qishan è diversa. I “legami” tra Pechino e Tel Aviv sono molto più forti di allora, come evidenziato dalle cifre. Poco dopo che i due Paesi scambiarono gli ambasciatori nel 1992 i dati commerciali salirono alle stelle. Anche le dimensioni degli investimenti cinesi in Israele sono cresciute in modo esponenziale, da 50 milioni di dollari all’inizio degli anni ’90 ai clamorosi 16,5 miliardi di dollari, secondo stime del 2016.

I crescenti investimenti cinesi e i rapporti strategici con Israele si basano su forti interessi di entrambi i Paesi nell’innovazione tecnologica, così come nella cosiddetta ferrovia “Red Med”, una rete regionale di infrastrutture marittime e ferroviarie intese a collegare la Cina con l’Europa passando per l’Asia e il Medio Oriente. Inoltre la ferrovia collegherebbe anche i due porti israeliani di Eilat e Ashdod. Notizie sul progetto cinese di gestire il porto israeliano di Haifa hanno già sollevato le ire degli USA e dei loro alleati europei.

Certo i tempi sono cambiati. Sebbene in passato Washington abbia ordinato a Tel Aviv di smettere immediatamente di scambiare tecnologia militare americana con la Cina, obbligandola ad annullare la vendita del sistema di volo di allerta rapida “Phalcon”, ora sta assistendo a come i dirigenti israeliani e cinesi stiano gestendo l’inizio di una nuova era politica che – per la prima volta – non include Washington. Per la Cina il recente amore per Israele è parte di una più complessiva strategia globale che può essere considerata la gemma della rivitalizzata politica estera cinese.

La visita di Qishan in Israele segue immediatamente i serrati tentativi di Pechino di promuovere il suo gigantesco progetto economico da trilioni di dollari, la “Belt and Road Initiative” [nota in Italia come “Nuova Via della Seta”, ndtr.] (BRI).

La Cina spera che il suo grande progetto contribuisca ad aprire nuove opportunità nel mondo e possibilmente a garantire il suo predominio in varie regioni che dalla Seconda Guerra Mondiale ruotano nella sfera di influenza americana. La BRI intende mettere in comunicazione Asia, Africa ed Europa attraverso una “cintura “di strade per il trasporto via terra e un “percorso” marittimo di rotte di navigazione.

La competizione tra la Cina e gli USA si sta accentuando. Washington vuole conservare il più possibile il proprio predominio globale, mentre Pechino sta lavorando con impazienza per soppiantare lo status di superpotenza degli USA, in primo luogo in Asia, poi in Africa e in Medio Oriente. La strategia cinese per raggiungere i suoi obiettivi è assolutamente chiara: a differenza degli sproporzionati investimenti Usa nella potenza militare, la Cina è propensa a conquistarsi lo status a cui ambisce usando, almeno per ora, solo un potere pacifico.

Tuttavia il Medio Oriente è più ricco e quindi più strategico e conteso di ogni altra regione al mondo. Pieno di conflitti e di diversi schieramenti politici, è probabile che più prima che dopo faccia fallire la strategia cinese di un potere pacifico. Mentre la politica estera cinese ha cercato di sopravvivere alla guerra con effetti di polarizzazione in Siria coinvolgendo tutte le parti e giocando in secondo piano rispetto al ruolo guida della Russia nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’occupazione israeliana della Palestina è una sfida politica totalmente diversa.

Per anni la Cina ha mantenuto una posizione coerente di appoggio al popolo palestinese, chiedendo la fine dell’occupazione israeliana e la fondazione di uno Stato palestinese indipendente. Tuttavia la ferma posizione di Pechino riguardo ai diritti dei palestinesi sembra avere pochi effetti sui suoi rapporti con Israele, in quanto la collaborazione tecnologica congiunta, il commercio e gli investimenti continuano ad incrementarsi senza ostacoli.

I responsabili cinesi della politica estera operano con l’errata convinzione che il loro Paese possa essere allo stesso tempo filo-palestinese e filo-israeliano, criticando l’occupazione pur appoggiandola; chiedendo ad Israele di rispettare le leggi internazionali mentre al contempo rafforza Israele, anche senza volerlo, nelle sue continue violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

L’hasbara [propaganda, ndtr.] israeliana ha perfezionato l’arte dell’acrobazia politica, e trovare un equilibrio tra il discorso occidentale degli USA e quello cinese non dovrebbe essere un compito troppo difficile.

In effetti sembra che il cliché spesso ripetuto di Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente” venga leggermente corretto per rispondere alle aspettative di una nascente superpotenza, esclusivamente interessata alla tecnologia, al commercio e agli investimenti. I dirigenti israeliani vogliono che la Cina e i suoi investitori pensino ad Israele come l’unica economia stabile in Medio Oriente.

Come prevedibile, le priorità palestinesi sono totalmente diverse.

Con la lotta palestinese per la libertà e i diritti umani che cattura l’attenzione internazionale con la crescita del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), sempre più Paesi sono sotto pressione perché esprimano una posizione chiara sull’occupazione israeliana e sull’apartheid.

Per la Cina entrare nella mischia con una strategia indecisa ed egoista non è solo moralmente discutibile, ma anche strategicamente insostenibile. I popoli palestinese e arabo sono poco interessati a sostituire la dominazione militare americana con l’egemonia economica cinese che fa poco per cambiare o, al massimo contesta lo status quo prevalente.

Tristemente, mentre Pechino e Tel Aviv lavorano per raggiungere il necessario equilibrio tra politica estera e interessi economici, la Cina si trova senza particolari obblighi di schierarsi con una ben definita posizione araba sulla Palestina, semplicemente perché quest’ultima non esiste. La divisione politica tra i Paesi arabi, le guerre in Siria e altrove hanno allontanato la Palestina dall’essere una priorità araba in uno strano patto che coinvolge la “pace regionale” come parte del cosiddetto “Accordo del Secolo” di Trump.

Questa penosa realtà ha indebolito la posizione palestinese in Cina, che, almeno finora, valuta i propri rapporti con Israele più importanti dei legami storici con la Palestina e con il popolo arabo.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e editore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

(traduzione di Amedeo Rossi)




A Hebron i coloni israeliani attaccano palestinesi che raccolgono le olive

Ma’an News

31 ottobre 2018

Hebron (Ma’an) – Martedì un gruppo di coloni israeliani ha attaccato palestinesi che raccoglievano le olive nella zona di Tel Rumeida, nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata, ed ha cercato di impedire loro di raccogliere le olive nelle loro terre nei pressi dell’illegale colonia israeliana di Ramat Yishai.

Le terre sono di proprietà della locale famiglia di Muhammad Abu Haikal; il proprietario della terra, insieme ad attivisti locali ed internazionali, è entrato nel terreno nonostante le procedure militari israeliane.

I raccoglitori di olive hanno continuato [il lavoro] nonostante attacchi da parte di coloni israeliani in quanto hanno insistito sul fatto di essere sui propri terreni e di non lasciarli senza protezione.

La scorsa settimana a Tel Rumeida il gruppo “Youth against Settlement” [“Giovani contro le Colonie”, attivisti palestinesi di Hebron, ndtr.] ha lanciato una campagna per la raccolta delle olive, con la partecipazione di organizzazioni internazionali che lavorano per la pace e la giustizia.

Il coordinatore della campagna, Izzat al-Karaki, ha detto: “Stiamo lavorando per appoggiare la tenacia delle famiglie palestinesi che subiscono gli attacchi dei coloni israeliani e dell’esercito nelle aree chiuse della città di Hebron.”

Al-Karaki ha sottolineato che decine di attivisti internazionali e locali hanno partecipato alla raccolta delle olive.

L’agronomo Murad Amr, coordinatore del gruppo “Youth against Settlement”, ha detto che la campagna continua nelle zone ad alta tensione di Tel Rumeida e nelle aree adiacenti alla colonia di Kiryat Arba, ad Hebron.

Amr ha aggiunto che il suo gruppo ha anche formato un comitato di sorveglianza notturna per evitare che il raccolto di olive venga rubato dai coloni israeliani.

La zona di Tel Rumeida è da lungo tempo un punto caldo di tensione tra i palestinesi e i coloni e l’esercito israeliani, in quanto si trova nei pressi di colonie israeliane illegali i cui abitanti sono notoriamente aggressivi verso i palestinesi.

Tel Rumeida è all’interno dell’area della città denominata H2, una zona che occupa la maggior parte della Città Vecchia di Hebron, sotto totale controllo militare israeliano e il luogo in cui si trovano cinque colonie israeliane che si espandono continuamente nei vicini quartieri palestinesi.

L’area H2, controllata dagli israeliani, è abitata da 30.000 palestinesi e circa 800 coloni israeliani che vivono sotto la protezione delle forze israeliane.

Tra i 500.000 ed i 600.000 israeliani vivono nelle colonie di soli ebrei a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate in violazione delle leggi internazionali.

Il governo palestinese non ha giurisdizione sugli israeliani in Cisgiordania, e azioni poste in atto da coloni israeliani spesso avvengono in presenza delle forze militari israeliane che raramente intervengono per proteggere gli abitanti palestinesi.

La maggior parte dei furti commessi contro i palestinesi rimane impunita, e raramente gli israeliani pagano le conseguenze per tali furti.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, solo l’1,9% delle denunce presentate dai palestinesi contro attacchi o furti da parte di coloni israeliani porta ad una condanna, mentre il 95,6% delle indagini per danni agli ulivi viene chiuso per inadempienza della polizia israeliana.

Secondo gruppi palestinesi e dei diritti umani il principale obiettivo di Israele, sia delle sue politiche nell’Area C, in cui più del 60% del territorio palestinese è sotto totale controllo israeliano, che dell’illegale colonizzazione israeliana, è spopolare la terra dei suoi abitanti palestinesi e sostituirli con comunità ebraiche israeliane per manipolare la situazione demografica in tutta la Palestina storica.

B’Tselem afferma che lo spostamento di coloni israeliani che hanno occupato la terra palestinese e poi cacciato la locale popolazione palestinese è stato una “costante” della politica israeliana fin dalla conquista della Cisgiordania e di Gerusalemme nel 1967, sottolineando che tutte le “istituzioni legislative, legali, di pianificazione, di finanziamento e di difesa israeliane” hanno giocato un ruolo attivo nella spoliazione dei palestinesi della loro terra.

B’Tselem sostiene anche che, spacciandola per “occupazione militare temporanea”, Israele ha “utilizzato la terra come se fosse sua: rubandola, sfruttando a proprio favore le risorse naturali della zona e fondando colonie permanenti,” stimando che Israele nel corso degli anni ha espropriato i palestinesi di circa 200.000 ettari di terre nei territori palestinesi occupati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il comitato dell’OLP vota la sospensione del riconoscimento dello Stato di Israele

MEE staff

Lunedì 29 ottobre 2018, Middel East Eye

Il comitato centrale dell’OLP ha votato per sospendere tutti gli impegni presi con “le autorità occupanti”, fino a che Israele non riconoscerà lo Stato palestinese.

Il comitato centrale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha annunciato la sospensione del riconoscimento dello Stato di Israele.

Nella sua decisione, resa nota lunedì sera dopo una riunione, l’OLP ha detto che annullerà tutti i suoi impegni verso le “autorità occupanti” fino a che Israele non riconoscerà uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con Gerusalemme est come capitale.

Questo comprende la cooperazione per la sicurezza e gli accordi commerciali stabiliti tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese.

Se le decisioni del comitato centrale non sono vincolanti, rappresentano però una raccomandazione all’ANP sulle future decisioni politiche. Il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas era presente alla riunione.

Nel 2015 il comitato centrale aveva già chiesto la fine del coordinamento per la sicurezza con Israele.

Ha incaricato Abbas e il Comitato Esecutivo dell’OLP di dar seguito alle decisioni di lunedì.

Il comitato ha anche esplicitamente disapprovato il processo di pace condotto da Donald Trump ed il suo piano di “accordo del secolo” per porre fine al conflitto.

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese Wafa ha riferito che “il comitato ha apprezzato gli sforzi del presidente (Abbas)… per insistere nel rifiuto dell’accordo del secolo e nel contrastarlo con tutti i mezzi disponibili per farlo fallire, come anche nel ritenere l’amministrazione USA partner del governo israeliano di occupazione e parte del problema, non la soluzione”.

Il Consiglio inoltre ha attaccato Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, accusandolo di non aver rispettato il suo impegno e l’accordo di unificazione firmato nell’ottobre dell’anno scorso.

Abbas è sembrato appoggiare le decisioni di lunedì, dicendo che è arrivato il momento di mettere in atto le precedenti misure approvate dal comitato centrale.

Secondo una dichiarazione pubblicata da Wafa, Abbas ha chiamato i palestinesi ad unirsi dietro all’OLP come “unico legittimo rappresentante” del popolo palestinese.

Di fronte alla crescente pressione da parte di Washington per porre fine all’assistenza pubblica dell’Autorità Nazionale Palestinese alle famiglie dei prigionieri e delle persone uccise dalle forze israeliane, Abbas ha detto: “Gli stanziamenti per le famiglie dei martiri e dei feriti costituiscono una linea rossa: non possiamo negoziare riguardo ai loro diritti.”(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Australia e Palestina-Israele: la minaccia dell’estrema destra

Noura Mansour

28 ottobre 2018, Al Shabaka

Recentemente il governo australiano, insieme a Israele e USA, ha votato contro la risoluzione ONU per eleggere la Palestina alla presidenza del “Gruppo dei 77”, che le consente di agire nel 2019 come Stato membro [dell’ONU] a tutti gli effetti. Durante la stessa settimana il primo ministro australiano Scott Morrison ha annunciato che sta prendendo in considerazione il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento là dell’ambasciata australiana.

Per molti aspetti simili iniziative ed annunci non rappresentano una sorpresa: la politica estera australiana su Palestina e Israele è sempre stata assolutamente filo-israeliana e anti-palestinese. Ciò deriva da due ragioni principali.

In primo luogo, entrambi i Paesi rappresentano progetti di colonialismo di insediamento fondati sulla supremazia bianca. In effetti, in un’intervista del 2006 ad “Haaretz” [giornale israeliano di centro-sinistra, ndtr.], l’ex-ambasciatore israeliano in Australia Naftali Tamir ha definito Israele e Australia come “due sorelle bianche in Asia,” e ha parlato di come condividano la stessa razza – diversa dagli “asiatici gialli e con gli occhi a mandorla.” La retorica colonialista del partito Liberale che attualmente governa l’Australia ripete queste opinioni. Alcuni dei suoi membri sostengono che la colonizzazione abbia portato molti vantaggi alle popolazioni native dell’Australia, mentre altri arrivano fino al punto di negare che l’Australia sia mai stata colonizzata – proprio come i sionisti negano che la Palestina sia stata occupata e soggetta a pulizia etnica, affermando che ci fosse “una terra senza popolo per un popolo senza terra.”

Secondo, la politica estera australiana è in gran parte un riflesso della politica estera e interna degli USA. Ciò si vede non solo nelle sue politiche su Palestina-Israele, ma anche nell’ascesa di movimenti politici di estrema destra in seguito all’elezione di Donald Trump. Più di recente, ministri del partito Liberale hanno votato in appoggio a una mozione palesemente suprematista bianca – denominata “Va bene essere bianchi” –, portata avanti dalla senatrice estremista di destra e anti-immigrati Pauline Hanson, che invitava il senato australiano a riconoscere “la deplorevole ascesa di un razzismo anti-bianco e di attacchi alla civiltà occidentale”. Ovviamente tale appoggio non dovrebbe sorprendere in un Paese che nega cure mediche a richiedenti asilo, tenuti per anni in campi di detenzione all’estero, che tentano il suicidio, o che attribuisce visti speciali per coltivatori sudafricani bianchi perché, proprio come gli australiani, “amano il cricket, le spiagge e le grigliate.”

Quindi, nonostante il fatto che la dichiarazione di Morrison in merito all’ambasciata sia coerente con il quadro su delineato, si tratta di uno spostamento ancora più a destra rispetto alla posizione dei suoi predecessori. All’inizio di quest’anno l’ex-primo ministro Malcolm Turnbull e l’ex-ministra degli Esteri Julie Bishop [entrambi del partito Liberale, ndtr.] si sono opposti alla decisione del consiglio federale del Partito Liberale di seguire l’esempio di Trump e di spostare l’ambasciata.

Paesi vicini come l’Indonesia e la Malaysia hanno manifestato il proprio disappunto riguardo all’affermazione di Morrison, e l’iniziativa rischia di compromettere le relazioni e lo status dell’Australia nella regione. L’Indonesia ha persino diffuso un comunicato secondo cui avrebbe sospeso un importantissimo accordo commerciale con l’Australia se Morrison avesse proceduto a spostare l’ambasciata.

Inoltre i media australiani hanno descritto la dichiarazione del primo ministro come avventata, sciocca e un disperato tentativo sia di far appello alla propria base di estrema destra che di vincere le elezioni suppletive a Wentworth, comune della periferia orientale di Sidney, rivolgendosi agli elettori ebrei, che rappresentano circa il 13% della popolazione della zona. Ciò presuppone che tutti gli ebrei che abitano a Wentworth siano sionisti e accolgano positivamente queste politiche di estrema destra – un presupposto che si è dimostrato falso, in quanto Wentworth ha votato contro il partito Liberale. Ciò lascia il partito con un seggio in meno rispetto alla maggioranza nella Camera dei Rappresentanti, benché il governo federale rimanga invariato.

Consigli politici

  1. Il dibattito riguardante lo spostamento dell’ambasciata ha ignorato due importanti aspetti –giuridici ed etici – che dovrebbero essere messi in luce nelle discussioni sulle politiche filo-israeliane dell’Australia. I discorsi riguardanti lo spostamento dovrebbero sottolinearne l’illegalità in base alle leggi internazionali, così come la sua immoralità, soprattutto il fatto che vada contro valori universali e valori nazionali australiani di democrazia ed impegno per i diritti umani.

2. Le organizzazioni della società civile e i gruppi filo-palestinesi devono organizzare manifestazioni e proteste, così come fare pressione e presentare petizioni per mandare un messaggio a Morrison che la sua politica non sarà ben accolta e sostenuta dal popolo australiano. Dato che si tratta di un punto critico, l’impulso ora deve essere sostenuto, indipendentemente dai risultati delle elezioni suppletive e dalla sconfitta del candidato del partito Liberale, per continuare a fare pressione su un governo che storicamente ha danneggiato i diritti dei palestinesi.

3. L’Australia dovrebbe ridefinire la propria politica estera per metterla più in sintonia con il contesto geopolitico del Paese e con gli interessi nazionali, piuttosto che continuare con le proprie politiche basate sulla razza e con l’importazione di politiche dagli USA indipendentemente dal fatto che siano adatte al contesto australiano. L’Australia deve riconoscere il proprio ruolo in quanto Nazione asiatica con relazioni commerciali fondamentali con Paesi come la Malaysia e l’Indonesia, le cui politiche filo-palestinesi differiscono notevolmente da quelle degli USA. Pressioni dell’opinione pubblica, dei media e dei gruppi della società civile sui partiti più di sinistra, Laburista e Verde, potrebbero contribuire a cambiare la retorica e il discorso in questo senso e, in ultima istanza, rafforzare un cambiamento nella politica relativa a Palestina-Israele.

Noura Mansour

Esperta di politica di Al-Shabaka, Noura Mansour è un’insegnante, scrittrice, attivista e organizzatrice di comunità palestinese originaria della città di Acri [in Israele, ndtr.]. Ha studiato scienze politiche ed educazione ed ha conseguito un master in Relazioni Internazionali all’università di Haifa [in Israele, ndtr.]. Noura ha partecipato al lavoro di sviluppo e di comunità con Ong a Gerusalemme, in Cisgiordania e nella Palestina del ’48 [cioè in Israele, ndtr.]. Ha lavorato con Ong e con movimenti di solidarietà internazionali in Corea e in Australia, dove ora vive e lavora nel settore educativo. Noura è anche una moderatrice di dibattiti ed ha istruito e gestito molti incontri internazionali in Asia, Medio Oriente, Europa ed Australia.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele approva 20.000 unità abitative a Maale Adumim

Ma’an News

28 ottobre 2018,Ma’an News

Gerusalemme (Ma’an) – Il governo israeliano ha approvato la costruzione di più di 20.000 nuove unità abitative nelle colonie israeliane illegali di Maale Adumim, a est di Gerusalemme. Mezzi di comunicazione in lingua ebraica hanno informato che l’approvazione delle nuove abitazioni è arrivata dopo un lungo periodo di timore e di scontri politici.

Alcune fonti hanno menzionato l’esistenza di un accordo di sviluppo complessivo tra il ministero della Costruzione e dell’Abitazione e il Comune di Maale Adumim per la costruzione nei prossimi anni di unità abitative nelle colonie illegali.

Alcune notizie affermano che, con la firma dell’accordo, sarà possibile iniziare i lavori di costruzione di 470 unità abitative, mentre le rimanenti abitazioni, che rappresentano 20.000 alloggi, sono soggette all’approvazione dei partiti politici.

Il ministro israeliano delle Costruzioni e delle Abitazioni, Yoav Galant [del partito di centro Kulanu, ndtr.], ha affermato: “Ci rallegriamo per la firma dell’accordo complessivo che porterà allo sviluppo e al consistente aumento della popolazione di Maale Adumim.”

Galant ha aggiunto che, oltre alle nuove unità abitative, nelle colonie illegali verranno costruiti edifici pubblici ed istituzioni, compresi sinagoghe ebraiche, scuole e asili.

Dobbiamo continuare a rafforzare il controllo sulla zona di Gerusalemme, da Maale Adumim a est fino a Givat Zeev a ovest, da Atarut, nel nord , alla zona di Betlemme e alla tomba di Rachele verso Efrat e Gush Etzion, che sono di importanza storica, strategica e nazionale,” ha sottolineato.

Maale Adumim è la terza più grande colonia per abitanti, e include una larga estensione territoriale all’interno del distretto di Gerusalemme nella Cisgiordania occupata. Molti israeliani la considerano una città della periferia di Gerusalemme, nonostante si trovi su territorio palestinese occupato, in violazione delle leggi internazionali.

Secondo “Peace Now”, che monitora le colonie, nell’anno e mezzo da quando si è insediato il presidente Trump sono state approvate circa 14.454 unità abitative in Cisgiordania, più di tre volte il totale approvato nell’anno e mezzo precedente il suo insediamento (4.476 unità).

Dall’occupazione nel 1967 della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, da 500.000 a 600.000 israeliani si sono spostati nelle colonie israeliane nei territori palestinesi occupati, in violazione delle leggi internazionali.

Le circa 196 colonie riconosciute dal governo israeliano sparse nei territori palestinesi sono tutte considerate illegali dal diritto internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)