Sfollamenti senza fine: la tragedia delle espulsioni forzate a Tulkarem e Jenin

Fayha Shalash – Ramallah

24 aprile 2025 – Palestine Chronicle

Decine di migliaia di palestinesi continuano a subire sfollamenti e perdite a Tulkarem e in altri campi profughi della Cisgiordania settentrionale sotto la continua aggressione militare israeliana.

Tasneem Sleit continua a patire le sofferenze dello sfollamento dopo essere stata espulsa con la sua famiglia dalla loro casa nel campo di Tulkarem, come decine di migliaia di altri palestinesi.

L’aggressione militare israeliana contro i campi profughi nella Cisgiordania settentrionale è in corso da tre mesi, senza che se ne veda una fine.

Tutti i residenti dei campi di Jenin, Tulkarem e Nur Shams sono stati sfrattati con la forza dalle loro case e centinaia di queste abitazioni sono state demolite nell’ambito di un piano più ampio per cancellare i campi profughi e alterarne completamente la struttura con il pretesto di eliminare le cellule della resistenza armata.

Oltre 40.000 sfollati da questi campi vivono in condizioni difficili, senza alcun sostegno palestinese ufficiale. Più della metà di loro si è stabilita in centri, residenze e locali pubblici nelle città di Jenin e Tulkarem, soffrendo per la mancanza di aiuti e un futuro incerto.

Non c’è disperazione più grande

Il 27 gennaio un aereo israeliano ha bombardato un obiettivo nel campo di Tulkarem uccidendo due palestinesi. In quel momento, Tasneem si trovava fuori dalla sua casa, nel quartiere di al-Madaris, e non è riuscita a rientrarvi a causa di un raid su larga scala dell’esercito israeliano.

Da allora Tasneem non ha più visto la sua casa. Lei e suo marito sono stati costretti a prendere in affitto un’abitazione alla periferia del campo, ma l’esercito israeliano l’ha presa d’assalto il 12 marzo, trasformandola in una caserma militare e costringendo la famiglia a fuggire ancora una volta.

“Qualche settimana fa i miei genitori hanno ricevuto dal tribunale israeliano un ordine di demolizione della loro casa all’interno del campo. In seguito ho saputo che la mia casa era stata demolita. Non c’è sensazione più penosa di questa: vedere i ricordi, gli oggetti personali e gli anni meravigliosi che abbiamo trascorso lì svanire in momenti simili. È una cosa estremamente dura”, ha dichiarato al Palestine Chronicle.

“Gli sfollati sono completamente esausti”, dice Tasneem nel descrivere la loro situazione, mentre l’esercito israeliano annuncia che rimarrà nei campi fino al prossimo anno, senza un futuro chiaro davanti a loro.

Stiamo aspettando notizie di un ritiro così da poter tornare alle nostre case, la maggior parte delle quali è stata distrutta, e quelle rimaste sono gravemente danneggiate. La vita nel campo è insostenibile. C’è chi dice che torneremo al campo anche se dovremo vivere in una tenda, pur sapendo che ci è proibito ricostruire le nostre abitazioni,afferma.

Gli sfollati non cercano solo cibo; hanno anche bisogno di molte cose che non sono disponibili, come i vestiti che hanno lasciato nelle loro case, ora sepolti sotto le macerie, e beni di prima necessità per i bambini.

La maggior parte dei volontari che si occupano degli sfollati ha smesso di lavorare, incapace di far fronte al carico sempre più gravoso. Per non parlare dell’elevato numero di abitanti di Tulkarem le cui case sono state distrutte dai soldati perché si affacciavano sul campo o utilizzate come caserme militari.

Gli abitanti non hanno alternative abitative oltre ai rifugi già sovraffollati.

Quando finirà la nostra tragedia?

L’autista di ambulanze Hazem Masarweh sta vivendo i giorni più difficili dopo essere stato sfollato dalla sua casa nel campo di Jenin.

Masarweh ci ha raccontato di essere stato costretto a lasciare l’abitazione all’inizio dell’offensiva. È riuscito a prendere una casa in affitto per evitare di essere confinato nei rifugi, ma non possiede utensili per cucinare o per fare il bucato.

“Tutti gli aiuti alimentari forniti agli sfollati contengono cereali da cucinare, ma non abbiamo fornelli né forni, il che ha aggravato le nostre sofferenze”, ci ha detto.

Per distribuire il pesante carico Hazem e i suoi due figli sono stati costretti a trasferirsi in un luogo mentre sua moglie e sua figlia si sono spostate in un altro e il figlio maggiore in un terzo. Si fanno visita ogni 20 giorni.

Masarweh possiede il Centro Medico Ibn Sina, dove l’esercito israeliano ha fatto irruzione più volte distruggendone i contenuti. Non è a conoscenza della sorte della sua casa all’interno del campo.

Stiamo vivendo uno stato psicologico complesso. Cerchiamo di sopravvivere con quel poco che abbiamo, e pensiamo costantemente alle nostre case e ai vicoli del campo in cui siamo cresciuti. Ci torneremo mai? Come saranno ora? Quando finirà la nostra interminabile tragedia?

Forse la preoccupazione maggiore per gli sfollati è la mancanza di prospettive o di una fine a questa aggressione, come per le precedenti incursioni. Il continuo sfollamento grava pesantemente sulle spalle degli espulsi e sulle loro speranze di una vita dignitosa, che sembrano un miraggio sotto l’occupazione.

FayhaShalash è una giornalista palestinese di Ramallah. Si è laureata all’Università di Birzeit nel 2008 e da allora lavora come reporter e conduttrice. I suoi articoli sono apparsi su diverse pubblicazioni online. Ha collaborato con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Testimone del bombardamento ad una tenda dei giornalisti: “Abbiamo fatto di tutto per salvare Mansour”

Ahmed Aziz a Khan Younis, Palestina occupata

8 aprile 2025Middle East Eye

Ahmed Aziz, collaboratore di MEE, si trovava accanto alla tenda presa di mira. Ricorda una scena di caos e confusione, mentre le fiamme avvolgevano i giornalisti all’interno

Nota dell’editore: Il seguente racconto personale del giornalista palestinese e collaboratore di MEE Ahmed Aziz, che si trovava a Khan Younis sulla scena dell’attacco israeliano a una tenda di giornalisti, è stato riferito a Lubna Masarwa [giornalista del MEE, ndt.]. È stato modificato per brevità e chiarezza.

Intorno a mezzanotte mentre ci trovavamo nella tendopoli un bombardamento ha colpito una delle tende. All’interno c’erano i giornalisti Hassan Islayeh e Ahmed Mansour; Mansour stava svolgendo il turno di notte come redattore di Palestine Today.

In quel momento il giornalista Hilmi al-Faqawi, che lavora nei social media per Palestine Today, stava dormendo. Il suo telefono è stato colpito in pieno da una bomba.

Islayeh è uscito, ma è stato colpito al volto da una scheggia e le dita della mano destra sono state tranciate. Contemporaneamente le schegge hanno colpito Faqawi al torace, allo stomaco e al volto.

Vista la situazione, abbiamo cercato di spegnere il fuoco intenso nella tenda, alimentato anche dal materiale infiammabile di nylon e spugna.

Un altro frammento di scheggia ha colpito la tenda di fronte a noi, appartenente a Russia Today (RT). Ha colpito una bombola di gas. Sebbene la bombola fosse vuota, il gas rimasto al suo interno ha creato un’atmosfera nebbiosa.

A causa della nebbia abbiamo cercato di svegliare gli uomini e di controllare le loro condizioni. Il nostro collega Ehab al-Bourdaineh è stato colpito da una scheggia alla nuca, fuoriuscita lateralmente in corrispondenza dell’occhio destro. Lavora come fotografo per RT.

Era presente anche Yousef al-Khazindar, che spesso dorme dove alloggiano i giornalisti. Altri di loro, tra cui Abdullah al-Attar, sono stati colpiti da schegge alla milza e hanno iniziato a sanguinare copiosamente. Mohammed Fayeq è stato colpito alla mano sinistra.

Gli uomini hanno fatto tutto il possibile per sottrarre Mansour alle fiamme, ma le condizioni erano impossibili. Hanno cercato disperatamente di salvarlo, ma non è stato possibile.

Situazione critica

Ne è seguito il caos, in parte a causa della stanchezza accumulata nel documentare il massacro di Naffar a Khan Younis, dove quel giorno erano state uccise nove persone.

Questo ha lasciato gli uomini confusi, e faticavano a comprendere cosa stesse accadendo. Si sono perfino dimenticati come prestare il primo soccorso e non sapevano cosa fare.

Hanno iniziato a trasportare i feriti all’ospedale Nasser a piedi, dato che era nelle vicinanze.

Una volta arrivati ​​all’ospedale è diventato chiaro chi fosse in condizioni critiche.

Bourdaineh è ancora in terapia intensiva e le sue condizioni rimangono gravi.

Islayeh, un importante giornalista di Gaza, ha riportato gravi ferite. Ha subito l’amputazione della mano destra e presenta ferite da schegge al capo e alla gamba.

Mansour, rimasto ustionato, era inizialmente ricoverato in condizioni critiche nel reparto ustionati. Martedì è morto a causa delle ferite.

Sogni infranti

Lunedì abbiamo celebrato il funerale di Faqawi, che lavorava nei social media per Palestine Today.

Erano passati solo pochi giorni da quando aveva deciso di unirsi a me per documentare i cortei funebri e realizzare interviste.

Era tanto orgoglioso di sé per aver girato un video diventato virale solo il giorno dopo.

“Ho meno esperienza di te, ma diventerò più famoso”, mi ha detto con vanto.

Mi diceva che voleva “lavorare, lavorare e lavorare” e che sognava di farlo per un’agenzia di stampa internazionale.

Mansour, che ho conosciuto il 10 ottobre 2023, tre giorni dopo l’inizio della guerra, aveva una figlia e un figlio, Wissam, che andava a trovare ogni giorno nel quartiere di al-Amal.

Ospitava a casa sua molti dei suoi parenti sfollati.

Durante i primi tre mesi di guerra abbiamo lavorato insieme per lunghe ore, a volte trascorrendo 13 ore al giorno nello stesso posto, e sopportando la fame insieme.

Era gentile, dolce e sempre disponibile.

Era un bell’uomo che si prendeva sempre cura di sé. Si curava sempre la barba e si vestiva in modo ordinato.

Se fosse sopravvissuto, non avrebbe potuto convivere con la gravità delle sue ustioni. È stato straziante vederlo in ospedale.

È duro osservare la bicicletta che usava e la tenda dove alloggiava.

In loro memoria

Sono esausto. È passato più di un anno e mezzo. Non avrei mai immaginato che la mia carriera giornalistica sarebbe stata così.

Ho perso così tanti amici e colleghi, persone che conoscevo da oltre 10 anni.

Ora evito di stare nelle tende dei giornalisti. Evito di fare due chiacchiere con i colleghi intorno a me perché non sopporto il pensiero di perdere un altro amico.

La gente non può nemmeno immaginare cosa stiamo attraversando, bombardamenti e perdite quotidiane.

Non sono d’acciaio. Sono a pezzi dentro.

Lavoro ogni giorno solo per evitare di stare a casa, perché mi distruggerebbe.

Preferirei essere martirizzato sul campo.

Anche se sono ferito non posso smettere di lavorare. Per i miei colleghi e in loro memoria.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




A Gaza quasi ogni plotone dell’IDF [esercito israeliano, n.d.t.] usa uno scudo umano: un sotto-esercito di schiavi palestinesi

Anonimo

30 marzo 2025-Haaretz

I soldati costringono regolarmente palestinesi innocenti a entrare nelle case di Gaza per assicurarsi che non ci siano terroristi o esplosivi. Allora perché la divisione investigativa criminale della polizia militare dell’IDF sta aprendo solo sei indagini sull’uso di scudi umani?

A Gaza i soldati israeliani usano scudi umani almeno sei volte al giorno.

Ho prestato servizio a Gaza per nove mesi e mi sono imbattuto per la prima volta in queste procedure, chiamate “protocollo zanzara”, nel dicembre 2023. Erano passati solo due mesi dall’inizio dell’offensiva di terra, molto prima che ci fosse carenza di cani dell’unità cinofila dell’IDF, Oketz, che venivano usati per questo scopo. Questa divenne la folle scusa non ufficiale per questa dissennata procedura non ufficiale. Allora non mi rendevo conto di quanto sarebbe diventato onnipresente l’uso di scudi umani, che chiamavamo “shawish” [dal nome di una famiglia allargata araba che ha servito nella polizia del mandato britannico e possiede alcuni negozi nella Gerusalemme vecchia, n.d.t.].

Oggi quasi ogni plotone ha uno “shawish” e nessuna forza di fanteria entra in una casa prima che uno “shawish” la “liberi”. Ciò significa che ci sono quattro “shawish” in una compagnia, dodici in un battaglione e almeno 36 in una brigata. Gestiamo un sotto-esercito di schiavi. La procedura è semplice. Palestinesi innocenti sono costretti a entrare nelle case di Gaza e a “sgomberarle”, per assicurarsi che non ci siano terroristi o esplosivi.

Di recente ho visto che la Divisione investigativa criminale della polizia militare dell’IDF [la MPCID, n.d.t.] ha aperto sei indagini sull’uso di civili palestinesi come scudi umani e sono rimasto a bocca aperta. Ho già visto insabbiamenti in passato, ma qui si raggiunge un nuovo livello di infamità. Se la MPCID volesse fare seriamente il suo lavoro dovrebbe aprire ben più di mille indagini. Ma tutto ciò che la MPCID vuole è che possiamo dire a noi stessi e al mondo che stiamo indagando su noi stessi, quindi hanno trovato sei capri espiatori e stanno addossando loro la colpa.

Ero presente a una riunione in cui uno dei comandanti di brigata ha presentato il concetto di “zanzara” al comandante di divisione come un “necessario risultato operativo per portare a termine la missione”. Era tutto ritenuto così normale che ho pensato di avere delle allucinazioni.

Già nell’agosto del 2024, quando questa storia è scoppiata su Haaretz e nelle testimonianze raccolte da Breaking the Silence [ONG israeliana di veterani dell’esercito, che raccontano le esperienze nei territori occupati, ndtr.], una fonte di alto livello ha affermato che sia il Capo di Stato Maggiore delle IDF uscente sia il Capo del Comando Meridionale uscente erano a conoscenza della procedura. Non so cosa sia peggio: che non sappiano cosa sta succedendo nell’esercito che comandano, o che lo sanno e continuano a farlo nonostante tutto.

Sono passati più di sette mesi da quando è stata pubblicata quella storia e i soldati hanno continuato a trattenere i palestinesi e a costringerli a entrare nelle case e nei tunnel prima di loro. Mentre il Capo di Stato Maggiore e il Capo del Comando Meridionale continuavano a non dire e fare nulla al riguardo, il protocollo è diventato ancora più diffuso e normalizzato.

Il personale di grado più alto sul campo è a conoscenza dell’uso di scudi umani da più di un anno e nessuno ha cercato di fermarlo. Al contrario, è stato definito come una necessità operativa.

È importante notare che possiamo entrare nelle case senza usare scudi umani. Lo abbiamo fatto per mesi, secondo una corretta procedura di ingresso che includeva l’invio di un robot, un drone o un cane. Questa procedura ha dato i suoi frutti, ma ha richiesto tempo e il comando voleva risultati qui e ora.

In altre parole, abbiamo costretto i palestinesi a fungere da scudi umani non perché fosse più sicuro per le truppe dell’IDF, ma perché era più veloce. Ecco perché abbiamo messo a rischio la vita di palestinesi che non erano colpevoli di altro che essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.

La faccenda non è andata avanti senza incontrare resistenza. Soldati e ufficiali hanno resistito. Io ho resistito. Ma è quello che succede quando al comando superiore non importa e ai politici ancora meno. È quello che succede quando sei veloce a premere il grilletto e operativamente sei completamente esausto. È quello che succede quando sei in una guerra senza fine che non riesce a riportare gli ostaggi vivi mese dopo mese. Perdi il giudizio morale. Un amico ufficiale dell’esercito mi ha raccontato di un incidente che hanno vissuto: hanno incontrato un terrorista in una casa che era già stata sgomberata da uno “shawish”. Lo “shawish” era un uomo anziano e quando si è reso conto di aver sbagliato, si è spaventato così tanto che si è sporcato addosso. Non so cosa gli sia successo. Avevo paura di chiedere.

Questo caso dimostra che le giustificazioni che ci hanno dato, ovvero che la procedura sia per motivi di “sicurezza”, non erano vere. Queste persone non sono combattenti professionisti; non sanno come perquisire una casa. I soldati non si fidano di loro perché non sono lì di loro spontanea volontà. A volte, gli “shawish” vengono mandati nelle case solo per darvi fuoco o farle saltare in aria. Non ha nulla a che fare con la sicurezza. Tremo al pensiero di cosa questo faccia alla psiche di chiunque debba entrare in una casa, terrorizzato, al posto di soldati armati. Tremo anche al pensiero di cosa questo faccia a noi israeliani.

Ogni madre che manda il figlio a combattere capisce che il figlio potrebbe ritrovarsi ad afferrare un palestinese dell’età di suo padre, o del fratello minore e costringerlo violentemente a correre davanti a lui, disarmato, in una casa o in un tunnel potenzialmente pieno di trappole esplosive? Non solo non siamo riusciti a proteggere le nostre truppe, ma abbiamo corrotto le loro anime e non c’è modo di sapere cosa questo farà a noi, come società, quando torneranno a casa dalla guerra.

Ecco perché l’inchiesta MPCID è così esasperante. Prima, i soldati sono costretti a usare i palestinesi come scudi umani, poi gli ufficiali usano soldati di grado inferiore come propri scudi umani, mentre noi stiamo ancora cercando disperatamente di riavere indietro gli ostaggi che sono trattenuti, in parte, per servire da scudi umani per Hamas.

Era ovvio che era solo questione di tempo prima che questa storia esplodesse, ma è troppo grande perché la MPCID possa gestirla. Solo una Commissione d’inchiesta statale indipendente potrebbe arrivare in fondo a questa storia.

Fino ad allora abbiamo tutte le ragioni per preoccuparci delle corti internazionali all’Aia perché questa procedura è un crimine, un crimine che persino l’esercito ora ammette. Accade quotidianamente ed è molto più comune di quanto venga detto al pubblico.

Questo articolo è stato scritto da un anonimo ufficiale superiore di una brigata di effettivi.

 

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il massacro dei soccorritori: 14 operatori umanitari trovati morti e sepolti con le mani legate

Tareq S. Hajjaj

31 marzo 2025 – Mondoweiss

Una squadra di operatori della Difesa Civile e della Mezzaluna Rossa palestinese a Gaza è scomparsa dopo essersi recata a Rafah per una missione di salvataggio. Una settimana dopo i corpi di 14 soccorritori sono stati trovati morti e sepolti nella sabbia dall’esercito israeliano.

All’ospedale Nasser di Khan Younis Taghreed al-Attar siede accanto al corpo del marito, ritrovato venerdì scorso a Rafah. Anwar al-Attar era partito la settimana prima per Rafah con altri soccorritori, ma nessuno è tornato.

Sua moglie racconta che quando hanno perso i contatti con suo marito le persone le hanno detto che era stato imprigionato dall’esercito israeliano. Ma afferma che lui le è apparso in sogno e lo ha visto in paradiso circondato da fiumi e frutteti. Non poteva credere che si trovasse in un carcere.

“Non ha mai perso un momento di lavoro da quando è iniziata la guerra. È stato ferito tre volte e tutti gli chiedevano di smettere di lavorare e di riposarsi”, racconta Taghreed in una testimonianza video a Mondoweiss. “Ma lui diceva sempre che doveva essere un modello per i suoi colleghi e che non avrebbe mai smesso di lavorare e servire la sua gente. Ha rischiato la vita penetrando tra le macerie e tirando fuori i martiri. Sono orgogliosa di lui e spero che i nostri figli saranno come lui”.

Ricorda che lui le parlava sempre dei pericoli che correva, a volte dicendole che i droni quadricotteri li inseguivano sempre e a volte sparavano. Lei gli chiedeva se aveva paura e lui le rispondeva che Dio era con lui.

“Anwar lascia tre figlie, la più piccola delle quali ha quattro anni”, dice la moglie.

La scorsa settimana Al-Attar era stato inviato con i suoi colleghi della Protezione Civile in una missione per salvare una squadra di paramedici della Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS) scomparsa, ma l’unico risultato è stato il blocco delle comunicazioni anche con lui e la squadra di soccorso.

Il corpo di Anwar è stato trovato qualche giorno dopo sepolto sotto la sabbia. Questo è stato il primo segno evidente che l’esercito israeliano aveva preso di mira la Difesa Civile e gli equipaggi della PRCS a Rafah, ha detto un portavoce della Difesa civile a Mondoweiss.

Pochi giorni dopo aver trovato il corpo di al-Attar le squadre della Protezione Civile che hanno scavato nella zona dopo aver ottenuto il permesso dall’esercito israeliano hanno trovato 14 cadaveri.

In una dichiarazione del 30 marzo il Ministero della Salute di Gaza ha affermato che i corpi appartenevano a 8 paramedici del PRCS, 5 membri della Difesa Civile e una persona la cui identità rimane sconosciuta.

Si specificava che gli equipaggi erano stati “giustiziati” e “alcuni sono stati trovati con le mani legate”.

Il Ministero ha aggiunto che i corpi dei componenti delle squadre di soccorso mostravano i segni di un’azione deliberatamente mirata. “Alcuni di loro sono stati colpiti alla testa e al torace e sono stati sepolti in buche profonde per evitare che venissero trovati”, ha affermato il Ministero.

Al funerale di al-Attar la scorsa settimana i membri della Difesa Civile che hanno salutato il loro collega caduto con le lacrime agli occhi hanno raccontato a Mondoweiss tramite una testimonianza video la dedizione di al-Attar al suo lavoro. “Ha svolto un lavoro umanitario durante la guerra e la sua missione era quella di recuperare i feriti e i martiri dalle macerie”, ha affermato Abdul Rahman Ashour, uno dei membri della Difesa Civile che ha riportato il corpo di al-Attar da Rafah.

“Il giubbotto e l’elmetto di Anwar, che lo identificano come un operatore della Protezione Civile, sono stati perforati da oltre 20 fori di proiettile”, ha dichiarato Ashour a Mondoweiss. “È stato colpito alla testa, al torace e nella parte inferiore del corpo. È stato brutalmente assassinato”.

Ashour dice che l’ambulanza del PRCS inviata a Rafah per rispondere alle chiamate di soccorso ha preso fuoco dopo essere stata colpita dall’esercito israeliano. È stato allora che al-Attar e la sua squadra sono stati inviati a bordo di un’autopompa e un’altra ambulanza.

“Gli equipaggi dell’ambulanza e dell’auto dei pompieri sono stati presi di mira subito”, ha aggiunto Ashour, dicendo che al-Attar e i suoi colleghi sono stati “giustiziati sul campo”.

Come si è svolto il massacro dei primi soccorritori

Nella scorsa settimana l’esercito israeliano ha fatto irruzione in varie zone della Striscia di Gaza, tra cui il quartiere Tal al-Sultan a Rafah, in particolare in un’area della parte occidentale comunemente nota come “al-Baraksat”. Durante i primi giorni dell’irruzione gli abitanti hanno condiviso storie orribili di esecuzioni di massa, giovani uomini raggruppati dentro dei fossati e fucilati a bruciapelo e bambini uccisi davanti alle loro madri.

Diversi sopravvissuti che sono riusciti a lasciare la zona hanno ripetuto questi racconti a Mondoweiss, ma al momento il giornale non è stato in grado di verificarli dato che a nessun soccorritore è stato permesso di raggiungere la zona a causa del rigido blocco imposto dall’esercito israeliano. Da allora sono emerse sempre più testimonianze di sopravvissuti e soccorritori provenienti dalla zona.

Marwan al-Hams, direttore degli ospedali da campo a Gaza, ha detto a Mondoweiss nel corso di una testimonianza video di aver ricevuto segnalazioni del ritrovamento a Rafah di “molti corpi e resti umani”. “È quanto rimane di un gruppo di martiri”, ha detto. “Le persone hanno cercato di recuperarli ma non ci sono riuscite. Li hanno semplicemente coperti di sabbia per evitare che venissero mangiati dai cani randagi”.

È stato in questo contesto che la scorsa settimana i civili intrappolati a Tal al-Sultan hanno inviato chiamate di soccorso al PRCS e alla Difesa civile nell’area di Rafah. Sono stati inviati due veicoli, seguiti, dopo la loro scomparsa, dagli altri due guidati da Anwar al-Attar.

Il destino di tutti gli equipaggi è rimasto sconosciuto per oltre una settimana. Durante questo periodo il PRCS e la Difesa Civile hanno tentato di ottenere il permesso di coordinamento dall’esercito israeliano per entrare a Rafah e cercare i loro colleghi scomparsi.

Mahmoud Basal, portavoce della Difesa Civile nella Striscia di Gaza, racconta che non appena la squadra di Attar è arrivata a Rafah, l’esercito israeliano ha chiuso gli ingressi e le uscite della località, assediando di fatto i primi soccorritori. È stato allora che le comunicazioni sono andate perse, dice Basal.

“Abbiamo chiesto alle organizzazioni internazionali e alla comunità internazionale di aiutarci a trovare un accordo con l’occupazione per ottenere l’accesso all’area, così da poter conoscere la sorte delle nostre squadre”, racconta Basal a Mondoweiss. “Per diversi giorni abbiamo tentato di coordinarci, ma l’occupazione ha categoricamente rifiutato”.

Dopo numerose richieste il 27 marzo la Difesa civile, la Mezzaluna Rossa e l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) hanno ottenuto il coordinamento dall’occupazione.

“Siamo entrati a Rafah dopo molte difficoltà, solo per rimanere sconvolti  dall’entità del massacro che vi si era verificato”, racconta Basal. “Le forze di occupazione hanno aperto il fuoco pesante sui veicoli della Mezzaluna Rossa e della Difesa civile. I bulldozer israeliani hanno persino posizionato barriere di sabbia sull’area [dove erano stati sepolti], alterandone completamente le caratteristiche”.

“Tutte le evidenze sulla scena mostrano che le forze di occupazione israeliane hanno giustiziato gli equipaggi medici”, continua Basal, aggiungendo che durante le ricerche del 27 marzo i team hanno identificato il corpo di Anwar al-Attar. “Abbiamo cercato di localizzare gli altri, ma è calato il buio e ci ha impedito di completare la ricerca”.

Tre giorni dopo le squadre della Difesa Civile hanno trovato il resto degli equipaggi dispersi: 14 persone sepolte, alcune con le mani legate e con segni di colpi di arma da fuoco alla testa e al torace.

Basal sottolinea che le squadre della Difesa Civile e della Mezzaluna Rossa godono dell’immunità internazionale e sono protette dal diritto umanitario internazionale.

“Ma sfortunatamente l’occupazione ha una marcata familiarità con gli eccidi. Stiamo parlando di 105 martiri della Difesa Civile, tutti con l’immunità, ma l’occupazione li ha uccisi”, afferma Basal. “Questo dimostra che l’occupazione non ha linee rosse e non rispetta il diritto internazionale o umanitario”.

Una dichiarazione dell’esercito israeliano all’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] ha affermato che “pochi minuti” dopo che i soldati “hanno eliminato diversi terroristi di Hamas” aprendo il fuoco sui loro veicoli, “altri automezzi sono avanzati in modo sospetto verso le truppe”. La dichiarazione ha aggiunto che l’esercito ha sparato “verso i veicoli sospetti, eliminando diversi terroristi di Hamas e della Jihad islamica”.

L’esercito ha ammesso che un’indagine appena avviata ha rivelato che “alcuni” dei veicoli erano ambulanze e camion dei pompieri, aggiungendo che l’esercito condanna l’uso di tali veicoli da parte di “organizzazioni terroristiche” per “scopi terroristici”.

Mahmoud Basal smentisce queste accuse, affermando che l’occupazione ha voluto coprire il crimine sostenendo che si trattava di combattenti di Hamas e della Jihad islamica. Afferma che la Difesa Civile ritiene l’occupazione israeliana pienamente responsabile per l’uccisione degli equipaggi, la violazione del diritto umanitario internazionale e il massacro di personale medico e soccorritori, identificabili per i loro giubbotti arancioni.

“[L’uso di] questo giubbotto è coordinato con l’occupazione israeliana”, afferma Basal. “L’operazione di ingresso [delle squadre di soccorso a Rafah] era chiara, ma l’occupazione ha commesso il massacro e ora vuole liberarsi dal peso dell’onta”.

“Quello che è successo ai nostri equipaggi è un massacro a tutti gli effetti e un crimine per il quale l’occupazione deve essere ritenuta responsabile dal mondo libero e dalle organizzazioni umanitarie”, aggiunge Basal. “Ciò ha gravi ripercussioni e il mondo deve rendersi conto che quanto è successo a Gaza costituisce una flagrante violazione del diritto umanitario internazionale”.

Tareq S. Hajjaj è il corrispondente da Gaza di Mondoweiss e membro dell’Unione Scrittori Palestinesi. Ha studiato letteratura inglese all’università Al-Azhar di Gaza. Ha iniziato la sua carriera di giornalista nel 2015 lavorando come scrittore esordiente e traduttore per il giornale locale, Donia al-Watan. E’ stato corrispondente per Elbadi, Middle East Eye e Al Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Da bambine sognavamo il nostro futuro. Poi un proiettile israeliano si è preso quello di Malak

Lujayn

23 marzo 2025 – Al Jazeera

La mia migliore amica arrossiva facilmente, amava il nostro quartiere di Gaza e sperava di diventare un’infermiera per assistere i bambini malati.

Malak era come una sorella per me.

Avevamo nove anni quando ci siamo incontrate alla scuola femminile Hamama nel quartiere di Sheikh Radwan di Gaza City. Era il 2019 e la famiglia di Malak si era appena trasferita in un appartamento a tre edifici di distanza dal mio. Quando lei è arrivata a scuola io mi sono presentata e da quel giorno in poi siamo andate e tornate da scuola insieme ogni giorno.

Allora Sheikh Radwan ci sembrava tutto il nostro mondo. C’erano begli edifici e negozi dove compravamo dolci. Le famiglie si conoscevano tra loro, i bambini giocavano insieme. Conoscevamo tutti i nostri vicini e chiamavamo gli adulti zie e zii.

All’inizio pensavo che Malak arrossisse facilmente perché era nuova nella scuola. Ma col passare del tempo ho capito che questo faceva parte del suo modo di essere. Malak era timida e tranquilla, gentile e affettuosa. Il suo nome significa “angelo”. Le si confaceva.

Si prendeva cura dei nostri compagni di classe e quando uno di loro era turbato Malak lo consolava. Spesso l’ho vista aiutare altri bambini con i compiti a casa.

Ero più vicina a Malak che alle altre ragazze della scuola perché ci piacevano le stesse cose: la matematica, la fisica e la musica. Io ho una passione per la fisica, mentre lei era molto brava in matematica. Entrambe suonavamo il piano. Io ero specializzata in musica classica, mentre lei amava la musica tradizionale palestinese.

A volte suonavamo in modo stonato. Ricordo che una volta abbiamo scherzato sul fatto che avrebbe dovuto seguire il suo sogno di diventare infermiera piuttosto che una musicista professionista. Lei ha riso e si è detta d’accordo con me. Spesso ci facevamo ridere a vicenda.

Ma dietro al sorriso di Malak c’era tristezza, come se stesse portando un peso, un dispiacere che teneva per sé.

Perché questa tristezza, Malak?’

Un giorno di settembre del 2023 eravamo sedute nel cortile della scuola come facevamo spesso negli intervalli tra le lezioni, parlando dei nostri sogni per il futuro. Avevamo appena finito una prova di matematica. La giornata a scuola non era finita, ma ho visto che Malak voleva andare a casa. Tratteneva le lacrime. “Perché sei triste, Malak?”, le ho chiesto.

Lei ha guardato il cielo e poi me e ha risposto: “Mio fratello Khaled è nato con un difetto cardiaco congenito. Ha solo un anno più di me ed è molto malato.”

Ero stata a casa di Malak molte volte e sapevo che suo fratello era debole e spesso malato. Ma non sapevo quanto fosse grave la sua malattia.

Quando mi ha detto che lui poteva morire le ho messo una mano sulla spalla. “Chi lo sa, Malak?”, ho detto. “Magari noi lasceremo questo mondo prima di lui. La morte non tiene conto dell’età o delle malattie.”

Non avrei mai immaginato che le mie fugaci parole sarebbero presto diventate una brutale realtà.

Quel giorno nel cortile della scuola abbiamo chiacchierato per ore. Malak ha parlato dell’idea di diventare infermiera e di tornare a Ramla [ora in Israele, ndt.], la sua zona di origine, da cui la sua famiglia era stata sfollata durante la Nakba [pulizia etnica operata dai sionisti nel 1947-49, ndt.]. Mi ha detto che voleva occuparsi dei malati, soprattutto bambini. Ho pensato che sarebbe stata un’infermiera perfetta per via della sua natura gentile.

Quando è iniziata la guerra ognuna di noi si è rifugiata nella sua famiglia e abbiamo perso i contatti. Io sono stata sfollata con la mia famiglia più di 12 volte. Siamo stati costretti a lasciare la nostra casa a Gaza City e siamo fuggiti in altri luoghi per due volte nella stessa città. E poi a Khan Younis, Deir el-Balah nel campo profughi di Bureij, ad al-Mawasi ed ora a Rafah, da cui sto scrivendo.

Durante questi spostamenti ho cercato di contattare Malak, ma non ci sono mai riuscita. Sia il suo telefono che quello di sua madre erano irraggiungibili.

La nostra scuola è stata trasformata in un rifugio per sfollati, prima di essere distrutta da attacchi aerei israeliani il 3 agosto 2024. Anche dopo questa terribile notizia non sono riuscita a sentire Malak.

Ritrovarci

Dopo più di un anno senza riuscire a contattare la mia amica, una mattina del gennaio 2025, mentre ero nel nostro rifugio a Rafah, ho ricevuto una telefonata da un numero sconosciuto. Ero contentissima quando ho sentito la voce di Malak: era felice ed eccitata di parlarmi, ma l’ho sentita sfinita.

Le ho chiesto come stessero lei e la sua famiglia e di suo fratello Khaled, ricordando che lui aveva bisogno di medicine. Mi ha detto che vivevano in una tenda nella zona di al-Mawasi a Rafah, a pochi chilometri da dove era rifugiata la mia famiglia.

Malak aveva voglia di parlare. Mi ha raccontato che la sua famiglia era stata più volte sfollata in varie zone di Gaza. La nostra conversazione è anche tornata ai bei giorni a Sheikh Radwan – alle nostre case, alla nostra scuola e a tutto ciò che facevamo prima della guerra.

Prima di finire la telefonata ho promesso di andarla a trovare e portarla insieme alla sua famiglia nel nostro rifugio. Pensavo che sarebbe stato più sicuro per loro stare nel nostro stesso rifugio dato che il nostro edificio è di pietra, mentre Malak viveva in una tenda.

Due giorni dopo, l’8 gennaio, ho programmato con mia madre di andare da Malak. L’ho chiamata per confermare. Ha risposto la sorellina di Malak, Farah, in lacrime. “Malak se ne è andata”, ha singhiozzato. È stata uccisa all’alba da un proiettile mentre dormiva nella nostra tenda.”

Non potevo ascoltare. O forse non volevo credere a ciò che Farah stava dicendo. Mi si è stretto il cuore oltre ogni dire. Ho riattaccato, soffocata dalle lacrime. Mi sono rivolta a mia madre: “Malak se ne è andata”.

Insieme, nella morte

Il giorno dopo mia madre ed io siamo andate in visita dalla famiglia di Malak per porgere le nostre condoglianze. Abbiamo trovato la loro tenda fatta a pezzi dai buchi dei proiettili. Ma non c’era nessuno. I loro vicini, anch’essi nelle tende, ci hanno detto che Khaled era morto quella mattina. La sua malattia era peggiorata senza accesso alle medicine e il lutto per la morte di sua sorella aveva spezzato il suo spirito. La famiglia era andata a seppellirlo.

Ho ripensato alle mie parole durante la conversazione nel cortile della nostra scuola. Non avrei mai immaginato che Malak potesse morire e che Khaled l’avrebbe seguita dopo così poco tempo. Sono stati sepolti uno accanto all’altra. Anche nella morte Khaled non si sarebbe separato da lei.

Chi ha sparato quella pallottola mortale a Malak? Perché l’hanno uccisa? Era un pericolo per i soldati mentre dormiva? Avevano paura dei suoi sogni di tornare a Ramla?

Addio, mia cara amica. Non ti dimenticherò mai. Pianterò un ulivo in tuo onore e porterò quelli che restano della tua famiglia a stare da noi e mi prenderò cura di loro come avresti fatto tu.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Sono stato uno scudo umano”: cosa hanno fatto i soldati israeliani a un padre di Gaza

Maram Humaid

16 Mar 2025 – Aljazeera

Yousef al-Masri ha trascorso diversi terribili giorni costretto a ispezionare stanze per soldati israeliani pesantemente armati.

Gaza City – Il 19 ottobre centinaia di palestinesi sfollati nella scuola Hamad di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, hanno sentito ciò di cui tutti nell’enclave palestinese hanno terrore.

“All’alba abbiamo sentito i carri armati [israeliani] circondare la scuola, e i droni sopra di noi hanno iniziato a ordinare a tutti di uscire”, ricorda Amal al-Masri, 30 anni, che quando sono arrivati i carri armati aveva partorito la sua figlia più piccola così di recente da non averle ancora dato un nome.

La gente era già tesa in seguito a bombardamenti ed esplosioni nel corso della notte: gli adulti erano troppo spaventati per dormire, i bambini piangevano per la paura e la confusione.

“Gli edifici intorno a noi venivano bombardati”, dice Amal, che viveva in un’aula scolastica al piano terra con suo marito Yousef, 36 anni, i loro cinque bambini piccoli Tala, Honda, Assad e Omar, tutti di età compresa tra i 4 e gli 11 anni, e il padre di Yousef, Jamil, 62 anni.

Amal stava cullando la neonata mentre Yousef teneva in braccio due dei loro figli più piccoli. Insieme, gli adulti si erano messi a pregare.

Ora era l’alba e una voce maschile registrata che parlava in arabo risuonava attraverso gli altoparlanti di un quadricottero che sorvolava la scuola ordinando a tutti di uscire con i documenti di identità e le mani alzate.

Il quadricottero ha sparato contro gli edifici e ha sganciato bombe sonore, mandando le persone nel panico mentre correvano a raccogliere tutto quello che potevano. Alcune fuggivano a mani vuote.

Yousef, Amal e i bambini sono stati tra i primi a raggiungere il cortile della scuola: Yousef e i quattro bambini tenevano in alto i documenti d’identità e le mani, mentre Amal aveva in braccio il piccolo.

Nel caos Yousef ha perso di vista suo padre.

“I quadricotteri hanno dato degli ordini: ‘Uomini al cancello della scuola, donne e bambini nel cortile’,” ricorda Amal.

La fossa

“Al cancello della scuola c’erano dei soldati con dei carri armati alle spalle mentre altri circondavano il posto”, dice Yousef.

Lui e altri maschi di età superiore ai 14 anni, tra cui alcuni conosciuti provenienti dalle scuole vicine, hanno ricevuto l’ordine dai soldati israeliani di radunarsi al cancello principale in gruppi, mettersi in fila e avvicinarsi a un passaggio per l’ispezione con una telecamera, noto come “al-Halaba” [termine arabo che significa “l’arena” o “il ring”, si riferisce a una modalità di controllo ndt.] 

Tutti erano costretti ad avvicinarsi a un tavolo con sopra una telecamera, uno alla volta”, spiega Yousef, che ritiene che la telecamera utilizzasse la tecnologia di riconoscimento facciale.

Racconta che dopo essere stati registrati dalla telecamera sono stati mandati in una fossa scavata dai bulldozer israeliani.

Nelle ore successive alcuni di loro sono stati rilasciati, altri sono stati mandati in un’altra fossa, mentre altri ancora sono stati sottoposti ad interrogatorio.

Quanto a Yousef, è rimasto per tutto il giorno inginocchiato con le mani dietro la schiena insieme a circa altri 100 uomini in una fossa vicino alla scuola.

“I soldati sparavano, lanciavano bombe sonore, picchiavano alcuni uomini, ne torturavano altri”, afferma. Per tutto il tempo ha temuto per la sua famiglia.

“Ero profondamente preoccupato per mia moglie e i miei figli. Non sapevo nulla di loro”, racconta Yousef. “Mia moglie aveva partorito una settimana prima e non sarebbe stata in grado di camminare con i bambini. Senza nessuno ad aiutarli, avevo paura di quello che sarebbe potuto accadere loro”.

Quando è scesa la sera nella fossa erano rimasti solo circa sette uomini.

Yousef era affamato, stanco e preoccupato, poi un soldato lo ha indicato. “Ha scelto a caso me e altri due uomini; non capivamo perché“, riferisce ad Al Jazeera.

“I soldati ci hanno portato in un appartamento all’interno di un edificio vicino”, dice, aggiungendo di ritenere che si trovassero nelle vicinanze della rotonda Sheikh Zayed.

Agli uomini era proibito parlare tra loro, ma Yousef li aveva riconosciuti: un 58enne e un ventenne rifugiati in scuole vicino a Hamad. Per tutto il tempo, dice, il rumore degli attacchi e dei bombardamenti risuonava intorno a loro.

“Un soldato ci ha detto che li avremmo aiutati in alcune missioni e che dopo saremmo stati rilasciati, ma avevo paura che ci avrebbero uccisi da un momento all’altro”, racconta Yousef.

Usato come scudo”

Ad un certo punto della notte Yousef e i suoi compagni di prigionia, esausti, si sono appisolati, per poi essere svegliati di soprassalto dai soldati e spinti fuori dall’appartamento, in strada.

Si è presto reso conto che i soldati camminavano dietro di lui utilizzandolo come scudo.

“La consapevolezza di essere usato come scudo umano è stata terribile”.

Raggiunta una scuola che era stata svuotata dai soldati israeliani, gli è stato ordinato di aprire le porte e di entrare in ogni classe per controllare se ci fossero combattenti nascosti.

I soldati, armati pesantemente, sarebbero entrati solo dopo il suo “via libera”.

La giornata è continuata in questo modo, con l’impiego di Yousef per “ispezionareuna stanza dopo l’altra, dopodiché i soldati davano fuoco agli edifici.

Per tutto il tempo Yousef ha temuto che un quadrirotore gli sparasse o che un cecchino israeliano lo scambiasse per una minaccia e ucciso.

Una volta completate le perquisizioni della giornata è stato riportato all’appartamento con gli altri due uomini e gli è stato dato il secondo pasto della giornata, un pezzo di pane e un po’ d’acqua, proprio come la mattina.

Il quarto giorno Yousef e l’uomo di 58 anni hanno ricevuto l’ordine di recarsi in una scuola vicina e all’ospedale Kamal Adwan per consegnare alle persone lì rifugiate volantini con l’obbligo di evacuazione.

Gli è stata data un’ora di tempo con l’avvertimento che un quadricottero sarebbe volato sopra la loro testa. Mentre consegnavano i volantini alle persone, i quadricotteri intimavano l’evacuazione tramite altoparlanti.

La fuga

Yousef ha deciso che quel giorno avrebbe provato a scappare nascondendosi nel cortile dell’ospedale.

“Avevo paura di tornare indietro”, spiega. “Volevo scappare e scoprire se la mia famiglia era al sicuro, perché avevo sentito i soldati ordinare alle donne e ai bambini di dirigersi a sud, verso Khan Younis”.

Ha deciso di mettersi in fila insieme agli uomini costretti a evacuare, aspettando con ansia mentre il tempo scorreva. I soldati avevano detto loro che sarebbero dovuti stare via solo per un’ora, e ne erano passate parecchie.

La fila di uomini avanzava. “Pregavo che non mi riconoscessero”, dice Yousef.

Poi un soldato seduto in cima a un carro armato gli ha sparato alla gamba sinistra.

“Sono caduto a terra. Gli uomini intorno hanno cercato di aiutarmi ma i soldati hanno urlato loro di lasciarmi”, ricorda Yousef.

“Mi sono aggrappato a uno degli uomini, poi un soldato mi ha detto, rimproverandomi: ‘Dai, alzati, appoggiati a quest’uomo e dirigiti verso via Salah al-Din'”.

Nonostante il dolore mentre se ne andava zoppicando, Yousef non riusciva a credere che il soldato non lo avesse ucciso. “Mi aspettavo di essere ammazzato da un momento all’altro”, afferma.

Un po’ più avanti è stato portato da un’ambulanza palestinese all’ospedale arabo al-Ahli per le cure.

Il ricongiungimento

Amal, che aveva portato i bambini alla New Gaza School di al-Nasr, nella parte occidentale di Gaza City, un giorno ha saputo che Yousef si trovava all’ospedale di al-Ahli.

Si è precipitata lì, rincuorata dopo aver sofferto per giorni a causa di racconti contrastanti, poiché alcune persone dicevano di averlo visto prigioniero, mentre altre di averlo visto altrove.

Era appena arrivata ad al-Nasr, racconta ad Al Jazeera al telefono.

Dice che il giorno in cui la famiglia è stata divisa le donne e i bambini sono stati tenuti nel cortile della scuola per ore.

“I miei figli erano terrorizzati. Molti bambini piangevano. Alcuni chiedevano cibo e acqua. Le madri imploravano i soldati di darglieli ma loro ci urlavano contro e si rifiutavano”.

Nel pomeriggio i soldati israeliani hanno spostato le donne e i bambini verso un posto di blocco munito di una telecamera.

“Ci hanno detto di uscire cinque alla volta”, dice Amal, raccontando come la figlia undicenne Tala sia stata trattenuta e si sia riunita al gruppo dopo di lei.

“Ha iniziato a piangere e a chiamare, ‘Mamma, per favore non lasciarmi’,” racconta Amal con la voce tremante.

Alla fine è stato detto loro di camminare verso sud lungo via Salah al-Din.

“I carri armati che circondavano la scuola erano imponenti. Ho pensato tra me e me: ‘Dio! È arrivata un’intera brigata di carri armati per questi civili indifesi.’

“Il mio corpo era esausto: avevo partorito solo una settimana prima e riuscivo a malapena a portare in braccio la mia bambina, figuriamoci i pochi oggetti che avevamo“.

Mentre i carri armati rombavano intorno a loro sollevavano ondate di polvere e sabbia. “Con tutta quella polvere ho inciampato e la mia bambina è caduta a terra dalle mie braccia”, ricorda Amal, raccontando di come abbia urlato e di come i bambini più grandi abbiano pianto quando la piccola è caduta.

Alla fine ha lasciato tutte le sue cose sulla strada; era troppo stanca per continuare a trasportarle. Doveva condurre i suoi figli in un posto sicuro.

“Mio figlio di quattro anni non smetteva di piangere: ‘Sono stanco, non ce la faccio’. Non avevamo cibo né acqua, niente”.

All’inizio della serata ha raggiunto la New Gaza School con altri sfollati dal nord.

Amal, Yousef e i loro figli sono ora insieme in un’aula della scuola.

Yousef ha trascorso due giorni in ospedale e dopo 13 punti di sutura cammina con cautela zoppicando.

Il padre di Yousef, Jamil, è scomparso dal giorno in cui i soldati sono arrivati ​​alla Hamad School. Ha sentito da alcune persone che sarebbe stato fatto prigioniero, ma lui non lo sa.

La loro neonata, che non aveva ancora un nome quando sono stati costretti a lasciare la parte settentrionale di Gaza, è stata chiamata Sumoud, “fermezza”, un simbolo del loro rifiuto di andarsene.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)