Alexandra Ocasio-Cortez, Tlaib, Jayapal, McCollum minacciano di condizionare l’aiuto USA a Israele a causa dell’annessione

Michael Arria

29 giugno 2020 – Mondoweiss

Una lettera indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo cita un Relatore Speciale delle Nazioni Unite che ha detto che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi”.

Jewish Insider [sito informativo con un’ottica ebraica, ndtr.] riferisce che quattro deputate del Congresso stanno attualmente facendo circolare una lettera tra i membri della Camera che prenderebbe di mira l’aiuto militare a Israele se il Paese procedesse con il previsto piano di annettere parti della Cisgiordania.

La lettera, indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo, è promossa dalle deputate Alexandra Ocasio-Cortez (Deputata –New York), Pramila Jayapal (Dep.-Washington), Betty McCollum (Dep. -Minnesota) e Rashida Tlaib (Dep.-Michigan). In essa si specifica che il piano israeliano viola il diritto internazionale e si cita il Relatore Speciale dell’ONU sul conflitto, che ha affermato che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.”

Alla fine della lettera le deputate dichiarano che si impegneranno affinché i finanziamenti militari ad Israele vengano condizionati se il Paese procedesse con i suoi piani: “Se il governo israeliano procedesse con la prevista annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.] con l’avallo di questa amministrazione, noi lavoreremo per fare in modo che [l’annessione] non venga riconosciuta e per imporre condizioni sui 3,8 miliardi di dollari del finanziamento militare USA ad Israele, includendo clausole relative ai diritti umani e il blocco dei fondi per forniture all’estero di armamenti israeliani pari o superiori all’ammontare della spesa annua israeliana per finanziare le colonie, come anche le politiche e le prassi che le appoggiano e le consentono.”

Benché la lettera non sia stata ancora pubblicata ufficialmente, l’AIPAC (la principale organizzazione lobbistica filoisraeliana americana, ndtr.) ha già inviato un tweet di condanna.

Il gruppo di esperti sul Medio Oriente dell’amministrazione Trump si è riunito la settimana scorsa e ha detto di essere in procinto di fare un annuncio riguardo all’annessione, ma non ha ancora preso una decisione ufficiale. Ieri Barak Ravid di Axios [sito web americano di informazioni, ndtr.] ha riferito che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si sta rivolgendo ai gruppi evangelici negli USA perché lo appoggino nel fare pressione sull’amministrazione Trump in merito alla questione. “Dirigenti israeliani dicono che Netanyahu pensa che a quattro mesi dalle elezioni USA il presidente Trump sia politicamente debole e che potrebbe perdere contro il probabile candidato democratico alla presidenza Joe Biden”, ha scritto Ravid. “Pensa che, per avere una possibilità di vincere, Trump abbia bisogno che la base degli evangelici vada a votare.

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss per gli USA. I suoi lavori sono comparsi su ‘In These Times’, ‘The Appeal’, ‘Truthout’. É autore di ‘Medium Blue: The politics of MSNBC’

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Senza il via libera USA, Netanyahu rinvia l’annessione ma non rinuncia

Michele Giorgio

1 luglio 2020, Nena News  da Il Manifesto

Oggi avrebbe dovuto essere il giorno previsto dal governo israeliano per l’avvio della cosiddetta estensione di sovranità al 30% della Cisgiordania. Ma in assenza dell’ok definitivo da Washington, scrive la stampa locale, il premier congela il piano. Previste per oggi manifestazioni di protesta nei Territori Occupati, mentre cresce la contrarietà al piano dei democratici statunitensi

Non sarà il primo luglio la data di inizio dell’annessione unilaterale a Israele del 30% della Cisgiordania, ma nei Territori occupati si svolgeranno ugualmente le previste manifestazioni di protesta del «Giorno della rabbia» palestinese.

«Stiamo lavorando (all’annessione) e continueremo a lavorarci nei prossimi giorni», ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu dopo aver incontrato l’ambasciatore Usa Friedman e l’inviato speciale americano Berkowitz. Oggi perciò non accadrà nulla. E sarà così per il resto della settimana, scriveva ieri il Jerusalem Post citando fonti americane.

In più di una occasione Netanyahu aveva indicato il primo giorno di luglio come quello dell’avvio dell’iter legislativo per «l’estensione della sovranità israeliana» su larghe porzioni di Cisgiordania, territorio palestinese che Israele ha occupato nel 1967 al termine della Guerra dei sei giorni. Ora frena ma non rinuncia. Non lo preoccupano più di tanto le critiche dell’Onu e gli ammonimenti dell’Ue. E neppure le esitazioni del suo principale partner di governo Gantz.

Gli occorre però il via libera definitivo degli Usa all’annessione che con ogni probabilità sarà limitata nella sua prima fase – quindi senza la Valle del Giordano – e completata nei prossimi mesi, prima delle presidenziali Usa di novembre quando il suo alleato Trump rischierà di lasciare la Casa Bianca al suo rivale democratico Biden. Il premier israeliano vede crescere nel Partito democratico il dissenso verso le politiche di Israele.

Ieri anche il senatore democratico Sanders, il rappresentante più noto e autorevole della corrente socialista nel suo partito, ha aggiunto il suo nome a una lettera, «Apartheid», contro il piano di Israele di annettere parti della Cisgiordania. Fatta circolare dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, la lettera chiede di bloccare gli aiuti militari statunitensi a Israele se Netanyahu attuerà il piano di annessione che, si legge, creerebbe una realtà di apartheid in Cisgiordania.

Il testo di Ocasio-Cortez è diverso per contenuto e tono da una lettera anti-annessione più moderata diffusa all’inizio di giugno e firmata da oltre 190 deputati democratici della Camera dei rappresentanti, tra i quali persino storici alleati di Israele come Ted Deutch e Steny Hoyer. L’iniziativa non pare destinata a raccogliere un alto numero di firme. Tuttavia, assieme alla lettera diffusa all’inizio del mese scorso, conferma che tra i democratici il dibattito su Israele e palestinesi è più vivo che mai e si sta intensificando. E Joe Biden, pur rappresentando l’establishment tradizionale del partito, non potrà non tenerne conto.




Achille Mbembe: “La lotta contro l’antisemitismo fallirà se la si usa come arma per praticare il razzismo”

Hassina Mechaï – Parigi, Francia

sabato 27 giugno 2020 – Middle East Eye

Il filosofo, storico, politologo e pensatore post-coloniale camerunense è stato bersaglio di una intensa polemica in Germania. La ragione? Gli è stato rimproverato di aver tracciato un parallelo tra l’apartheid in Sud Africa e la situazione dei palestinesi.

La polemica è iniziata con una lettera aperta di Lorenz Deutsch inviata lo scorso maggio al parlamento del Nord Reno -Westfalia, nell’Est [in realtà nell’ovest, ndtr.] della Germania. In essa il portavoce della politica culturale del gruppo parlamentare FDP (partito liberal-democratico) chiedeva di impedire al filosofo Achille Mbembe di pronunciare un discorso durante la Ruhrtriennale, un importante evento culturale estivo (annullato a causa del COVID-19).

La ragione di questa richiesta? Un passaggio dell’opera di Achille Mbembe intitolata “Politiques de l’inimitié” [Politiche dell’inimicizia. Ed. it.: “Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia”, Laterza, 2019], in cui il docente di storia e scienze politiche all’università di Witwatersrand (Johannesburg, Sudafrica), evocando la politica israeliana di colonizzazione, sostiene che essa “ricorda per certi versi” l’apartheid in Sudafrica. Un parallelo che, secondo il parlamentare tedesco, riguarda l’antisemitismo e il diritto di Israele ad esistere.

Middle East Eye: Le si rimprovera di aver fatto un parallelo tra l’apartheid sudafricano e la situazione di fatto nei territori palestinesi occupati…

Achille Mbembe: No, no, no. Non è vero e molti colleghi tedeschi l’hanno chiaramente capito. Ho scritto nero su bianco, a pagina 72 di “Politiques de l’inimitié”, che la situazione nei territori palestinesi ricorda sotto molti aspetti quella che prevaleva in Sudafrica sotto l’apartheid. Subito dopo ho aggiunto che “la metafora dell’apartheid” non è tuttavia sufficiente a rendere conto di un percorso storico tutto sommato diverso. Questa è sempre stata la mia posizione. Ciò detto, che io abbia tracciato un parallelo o abbozzato un confronto, ciò non equivarrebbe affatto all’antisemitismo. Alcuni ricercatori israeliani hanno fatto anche loro questo genere di analogie. Per coloro che se ne interessano, la comparazione è parte integrante dei metodi utilizzati nelle scienze umane e nelle scienze sociali.

Quando viene fatto in modo corretto non implica alcun giudizio di valore e non ha come scopo mettere su una scala gerarchica avvenimenti diversi. Ciò è indispensabile perché ogni situazione umana e ogni avvenimento sono, per definizione, modellati da una doppia storicità, chiusa e aperta. Come metodo, la comparazione intende giustamente chiarire questa doppia dimensione e rendere più facile la comprensione mutua. Anche questo molti tedeschi lo capiscono.

Questo sordido complotto non ha dunque strettamente niente a che vedere con ciò che io ho detto o scritto, o con il mio lavoro in sé. Ancor meno con chi sono o con le cause che difendo. Tutti quelli che mi hanno anche solo minimamente letto o ascoltato sanno che non sono un propagatore di odio e che non nutro alcun pregiudizio nei confronti di nessuno. Tutto quello che ho detto e scritto e le cause per le quali mi sono battuto riguardano i temi dell’incremento dell’umanità, dell’emergere di una coscienza planetaria e del risanamento del mondo e del vivente.

La verità è che un politico locale, Lorenz Deutch, che pare utilizzi l’antisemitismo come un filone della sua carriera politica, mi ha calunniato senza sapere chi fossi realmente e senza aver letto i miei scritti. La calunnia è stata trasmessa senza alcun esame critico né ricerca seria da un burocrate federale, Felix Klein, che dubito conosca qualcosa dei pensieri – mondo che vengono dal Sud [del mondo].

E il burocrate e il politico hanno visto un negro. Si saranno detti che, nel contesto dell’irrigidimento nazionalista che prevale in Germania, un negro e in più antisemita dovesse necessariamente portare loro dei bei vantaggi politici o di carriera.

Mentre dei veri specialisti nei campi più diversi come gli studi ebraici, gli studi sull’Olocausto, specialisti di studi sui genocidi e sul colonialismo comparato hanno fermamente condannato questa volgare strumentalizzazione dell’antisemitismo, quelli che mi perseguitano hanno messo insieme, pezzo per pezzo, degli argomenti falsi le cui basi non hanno smesso di cambiare, alimentando così una controversia infinita.

MEE: Come ha reagito a questa accusa?

AM: All’inizio ho creduto che si trattasse di una bufala. Ma molto presto ho capito che era un sordido complotto in cui l’antisemitismo non era che un falso pretesto destinato a nascondere dei disegni inconfessabili e, ora ce ne sono prove sufficienti, sostanzialmente razzisti.

Sono profondamente convinto che la lotta contro l’antisemitismo e contro i razzismi sia una causa etica universale. In Germania sono molti coloro che capiscono che questa lotta non è monopolio di chi, avendo commesso i crimini peggiori, vogliono ora presentarsi di fronte al mondo come gli ultimi epigoni del pentimento virtuoso.

Molti sanno anche, nel loro intimo, che non potremo affatto portare a termine questa lotta se la si usa come strumento al servizio della politica di potenza degli Stati.

Inoltre la lotta contro l’antisemitismo fallirà se, coscientemente o senza rendersene conto, se ne fa un’arma per praticare apertamente o di nascosto il razzismo, o un volgare strumento per sporadiche cacce alle streghe. Anche se il loro passato e un pesante senso di colpa impediscono loro di dire tutto ciò a voce alta e in questi termini, alcuni in Germania la pensano proprio così.

Non dovendo rispondere direttamente del passato nazista e avendo per giunta subito le atrocità coloniali dei tedeschi, noi altri siamo nella posizione che ci autorizza a dire due o tre cose essenziali che un tedesco qualunque non si permetterebbe forse di dire. La prima è che la lotta contro l’antisemitismo e i razzismi deve essere messa al servizio della verità, della giustizia e della riparazione del nostro mondo comune.

Secondo, è possibile pensare al rapporto tra i ricordi della sofferenza umana non in modo gerarchico, non in termini di rivalità e di concorrenza, non sulla base delle proprie priorità, ma in termini di risonanza mutua, di condivisione e di solidarietà.

La terza è che se si continua a utilizzare l’antisemitismo come uno strumento per soffocare il grido di quanti ancora aspirano alla giustizia, o per ridurre al silenzio coloro contro cui si provano sentimenti di ostilità di carattere razzista, si finirà per rafforzare i veri antisemiti il cui numero non cessa di aumentare in Germania e altrove in Europa.

MEE: Ma siccome ogni situazione è diversa…

AM: Ancora una volta, ho parlato di “richiamo”, e a ragion veduta. Ricordare o evocare qualcosa o una situazione non significa confrontarla ad altre situazioni. Non significa stabilire dei paralleli. Evocare riguarda la rimembranza. Non riguarda neppure la descrizione. Ricordare è chiamare e far apparire alla mente qualcosa o un avvenimento, ma attraverso le immagini o in modo figurato.

Devo peraltro insistere sul fatto che la comparazione è un esercizio riconosciuto e legittimo in tutti i campi della produzione del sapere. Bisogna davvero ricordare che la comparazione non ha come obiettivo classificare e gerarchizzare delle situazioni e degli avvenimenti, o proclamare che hanno le stesse proprietà e sono identiche?

Ogni situazione ha una storicità sua propria, una propria traiettoria, anche se questa non si forgia che nell’intersezione di relazioni complesse con altre situazioni e traiettorie anch’esse particolari. La questione non è dunque sapere se ho tracciato una comparazione o meno tra la situazione nei territori palestinesi e l’apartheid in Sudafrica. D’altronde se l’avessi fatto non avrei nessuna intenzione di scusarmene.

La vera questione è sapere a cosa si debba la paura della comparazione. Bisogna sapere chi ha interesse a fabbricare degli antisemiti immaginari in un Paese in cui il neonazismo ha il vento in poppa, un Paese in cui l’antisemitismo reale non si limita più agli estremisti, ma tende a diventare la foglia di fico per ogni sorta di sordidi compromessi politici.

Infine ricordo che nessuno dei miei due critici è un esperto o uno specialista in qualcuno dei campi del sapere coinvolti. Da un punto di vista strettamente accademico, non hanno alcuna autorità per giudicare i miei lavori. Questa autorità non la riconosco che ai miei pari che, in base alle norme internazionali in vigore, l’hanno esercitata ogni volta che ho pubblicato articoli sulle riviste scientifiche o libri con editori universitari.

Bisogna che si stia perdendo l’essenziale dei nostri punti di riferimento se, in un Paese democratico, è ormai di competenza dei politici e dei burocrati pronunciarsi in merito ai lavori di ordine scientifico o occuparsi in modo intempestivo della programmazione culturale e artistica.

MEE: Come analizza il meccanismo politico, intellettuale, mediatico che a portato a una simile accusa?

AM: A dire la verità, il meccanismo è relativamente noto e alquanto cinico. Bisogna piuttosto insistere sul contesto globale che rende possibile questa sorta di complotto. Dopo tutto quello di cui l’umanità ha fatto esperienza si sarebbe potuto pensare che nel XXI secolo non sarebbe più stato necessario ripetere che tutte le memorie della Terra, quelle degli esseri umani come di tutti i viventi in generale, senza alcuna distinzione, sono indispensabili per la costruzione di un mondo comune.

Purtroppo c’è chi pensa ancora che non tutti i popoli abbiano diritto alla memoria. Ai giorni nostri c’è ancora chi è convinto che ce l’abbiano solo certi popoli, che non tutte le memorie abbiano lo stesso diritto alla narrazione e ad essere riconosciute. Si sa che questo continuum coloniale, dopo l’epoca moderna, è stato ancorato al razzismo. È così non solo in Germania, ma anche altrove.

Inoltre siamo entrati in pieno in un’epoca in cui contano solo i rapporti di forza e di potere. Ci troviamo ormai a pensare che solo i vincitori abbiano ragione.

In molti contesti prevale l’idea secondo cui si può combattere una causa giusta con metodi perversi, come se combattere una causa etica solo con mezzi immorali non finisse sempre per corrompere la causa stessa. Molti trovano normale porre rimedio a un crimine, se necessario, commettendone un altro a spese di qualcun altro o di qualche altra entità. È questo continuum coloniale e razzista che la Germania deve rompere se, contrariamente ad altre zone d’Europa, vuole contribuire utilmente al dialogo interculturale e universale.

Riguardo al resto, e trattandosi del lato sordido del meccanismo, uno dei rischi in cui incorriamo oggi è la cattura e lo sviamento della lotta contro l’antisemitismo per scopi razzisti, nello stesso momento in cui l’antisemitismo e il razzismo hanno il vento in poppa. Il rischio è che ogni volta che gli ex-colonizzati e i popoli che soffrono tentano di raccontare la propria storia nella propria lingua e si sforzano di interpretarla nelle proprie parole, vengono intimiditi o fatti tacere con l’accusa di paragonare le loro catastrofi all’Olocausto o di essere antisemiti. Il rischio di castrazione di tali memorie non è immaginario.

È la ragione per la quale, per limitarmi alla mia esperienza, le funzioni come quella che occupa Felix Klein esigono da chi le ricopre un massimo di rigore morale, di comprovata competenza intellettuale e di un’alta integrità personale.

In particolare il signor Klein non è sicuramente l’ultimo venuto. Ha una storia. Ha vissuto qualche anno nel mio Paese, il Camerun. Sarebbe utile sapere come ha trattato i camerunensi durante il suo soggiorno in Africa. Avrebbe scritto una tesi – poco nota agli specialisti dell’Africa – sul matrimonio tradizionale in Camerun. La si può leggere? Siccome il concetto di “tradizione” ha giocato un ruolo centrale nell’etnologia colonialista, la tesi di Felix Klein è indenne dai cliché razzisti veicolati da questa disciplina?

MEE: Lei ha ricevuto sostegno accademico e intellettuale. Ciò le sembra sufficiente?

AM: Circa 400 accademici, studiosi, ricercatori, scrittori e artisti di più di una quarantina di Paesi hanno condannato questa manovra. In poche settimane circa 800 intellettuali e scrittori africani hanno firmato una petizione e scritto alla cancelliera tedesca (Angela Merkel) per denunciare queste calunnie. Degli studiosi ebrei e israeliani hanno chiesto le dimissioni di Felix Klein.

Questo giudizio dei miei colleghi pesa ben di più delle parole di un politicante e di un burocrate. In Germania anche voci molto importanti si sono fatte sentire. Alcune persone, a volte con cariche pubbliche, hanno rischiato il proprio posto e mi hanno difeso perché sono convinte che, al di là del mio caso personale, siano in gioco alcune questioni fondamentali. Tutto ciò non solo è importante, è più che mai necessario.

MEE: A parte il suo caso specifico, questo sostegno accademico non è la presa di coscienza di una possibile riduzione della libertà d’espressione e della ricerca su soggetti resi “intoccabili”?

AM: In effetti non si tratta solo del mio caso. Ce ne sono stati molti altri. I bersagli, guarda caso, sono per lo più scrittori e intellettuali originari di Paesi ex-colonizzati o artisti che sono all’avanguardia sulle questioni della giustizia razziale, della brutalità della polizia, dell’inclusione delle minoranze, dell’uguale diritto alla memoria o ancora della decolonizzazione e della riparazione. Si cerca in modo evidente di farli tacere. Si è arrivati fino al punto di accusare eminenti colleghi ebrei di antisemitismo.

Non si tratta solo del fatto che sono in gioco la libertà d’espressione, la libertà accademica e la libertà artistica. È anche la libertà di coscienza che è calpestata. Al ritmo a cui vanno le cose, la Germania sta segnalando che d’ora in avanti il dialogo intellettuale, artistico e culturale tra lei e il resto del mondo si farà soltanto con chi non ha mai criticato alcuni Stati o che rinuncia al principio di comparazione che tuttavia è così fondamentale nelle scienze umane e sociali, e nell’esperienza umana in generale?

MEE: Come interpreta lei, che è un lettore del filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, il fatto che questa polemica avvenga in Germania?

AM: Non sono solo un lettore di Walter Benjamin. In realtà sono uno dei pochi intellettuali africani a essersi concentrato con un certo livello di approfondimento su alcune tradizioni del pensiero ebraico.

Durante vari anni ho studiato attentamente testi come quelli (dei filosofi) Hermann Cohen, Franz Rosenzweig, Gershom Scholem, Martin Buber o Emmanuel Levinas. Ciò non fa di me uno specialista del pensiero ebraico. Ma chi mi ha letto attentamente sarà il primo a riconoscere che una parte della mia riflessione si nutre di questa eredità, come di altre eredità del mondo, che faccio dialogare con l’esperienza negra.

La polemica avviene in Germania perché, al di là del suo successo economico, questo Paese attraversa una crisi culturale molto più grave di quanto si voglia riconoscere. Non si può negare che abbia compiuto significativi tentativi di affrontare il suo passato nazista e le sue responsabilità specifiche riguardo all’Olocausto.

Tuttavia, e molti tedeschi sono i primi a dirlo, rimangono altri lati cruciali della sua memoria che si devono affrontare se si vuole davvero arrivare ad essere in sintonia con il mondo. È il caso della memoria del colonialismo e del suo rapporto con le altre catastrofi di questi ultimi due secoli. Del resto questa esortazione non vale solo per la Germania. Riguarda la maggior parte delle potenze europee.

D’altra parte, se vuole davvero dialogare con le altre Nazioni della terra in una posizione di parità, e quindi liberarsi di ogni pregiudizio e altre questioni non precisate, la Germania deve capire una cosa: riconoscere che si è stati il criminale per antonomasia e pentirsi è una buona cosa, ma ciò non concede all’ex-criminale alcuno status morale particolare.

Ciò sicuramente non autorizza a fare mea culpa percuotendo il petto di qualcun altro, o legiferare universalmente su quello che devono essere, ovunque e sempre, i rapporti tra la memoria e la giustizia. Ciò che, per esempio, vale per la Germania non vale necessariamente per il Sud Africa, per la Francia o la Danimarca.

MEE: Più in generale la Germania, come la Gran Bretagna o la Francia (altri Paesi europei), ha adottato la definizione (e gli esempi) di antisemitismo dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA) che suppone che l’antisemitismo, nelle sue forme moderne, arrivi fino all’antisionismo, persino alla critica della politica dello Stato di Israele. Pensa che questa polemica sia anche la conseguenza di questa definizione estesa?

Am: Non posso che ripetermi. Se si vuole gettare discredito su una lotta contro l’antisemitismo a livello planetario è sufficiente metterla al servizio della politica di potere degli Stati. Peraltro non si vinceranno né l’antisemitismo né il razzismo moltiplicando i capri espiatori, per giunta stranieri.

MEE: Questa “sacralizzazione di Israele” non è in fondo la risposta a un antisemitismo europeo rimosso che si risveglia non solo in Germania, ma ovunque in Europa e negli Stati Uniti?

AM: Nessuno mette in discussione il diritto dello Stato di esistere in quanto forma sociale e politica. Ma lo Stato, almeno in un regime democratico, non è un’entità divina. In democrazia, non esiste uno Stato per diritto divino.

La democrazia consiste proprio nella nostra capacità di rimettere continuamente in discussione i fondamenti stessi delle nostre convinzioni e dei nostri atti, del nostro stare insieme e del nostro agire insieme. Ogni Stato può, per definizione, essere sottoposto a una critica e dovrebbe esserlo, perché in materia di genealogia degli Stati l’Immacolata Concezione non vuol dire un granché.

MEE: In Francia gli studi postcoloniali sono a volte sospettati di negare la specificità del genocidio ebraico sollevando la questione di altri genocidi dovuti agli europei nei Paesi del Sud. Perché questo sospetto?

AM: Di cosa si parla esattamente? Di quali autori si parla in particolare? Chi si cerca di criminalizzare e con quale scopo? È un’epoca di confusione e ignoranza volontarie. È attaccata la stessa capacità di verità. Si inventa ogni sorta di mulini a vento e si gioca a spaventarsi. Perché la paura giustifica quasi tutto, compreso il peggio.

MEE: Più in generale, non è anche l’irruzione del Sud nella “narrazione” del mondo e della storia mondiale che è messa in dubbio?

AM: Se è così, allora prima il Nord si sveglierà, meglio sarà senza dubbio per tutti. Il centro di gravità del mondo si sta spostando. Contrariamente a quello di ieri, il mondo del futuro non si costruirà senza di noi. Né contro di noi. O noi lo costruiremo insieme o non durerà. Chi pensa che lo costruirà da solo si sbaglia di grosso.

L’ultima opera di Achille Mbembe, “Brutalisme” [Brutalismo] è stato pubblicato nel febbraio 2020 dalle edizioni La Découverte.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




È ora di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese

Asa Winstanley

27 giugno 2020 – Middle East Monitor

L’Autorità  Nazionale Palestinese (ANP) tiene sotto controllo i palestinesi in Cisgiordania dal 1993 e, nella Striscia di Gaza, fino al 2007. Sotto il regime israeliano dell’apartheid, l’ANP non ha l’autorità di fare altrettanto con i coloni israeliani che occupano illegalmente la Cisgiordania, tutto al contrario. Anzi, l’ANP li protegge.

Molti, persino nel movimento di solidarietà palestinese, ne fraintendono totalmente la natura.

L’ANP non ha una reale autorità e il nome è fondamentalmente sbagliato. Le forze di occupazione israeliane hanno un potere di veto totale su tutto quello che essa fa. Né appartiene veramente ai palestinesi, né agisce nell’interesse della loro liberazione.

Volendo essere sinceri, l’ANP agisce da sempre come un subappaltatore per l’occupazione israeliana. Non avrebbe potuto essere nient’altro.

Essa è strutturalmente concepita per servire gli interessi di Israele e della sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza. Per quasi 30 anni è stata leale senza riserve nel ricoprire questo ruolo.

Hamas, il movimento islamico di liberazione palestinese, dopo la vittoria nelle elezioni libere ed eque del 2006, aveva tentato per un breve periodo di cambiare l’ANP dall’interno. Questo tentativo è subito fallito a causa di un colpo di stato. La CIA, Israele, la Giordania e altre potenze agirono insieme per eliminare Hamas, confinandolo con successo a Gaza.

Fin dall’inizio tutta la principale funzione dell’ANP è stata quella di reprimere i palestinesi e di sostenere l’occupazione israeliana. In questo modo svolge un utile servizio coloniale per Israele.

L’ANP è il subappaltatore autoctono per l’occupazione israeliana.

La condizione fondamentale delle forze armate dell’ANP, e che spesso non si vuole ammettere, risiede in quello che è eufemisticamente chiamato “coordinamento per la sicurezza”, cioè collaborare con Israele.

Secondo questo accordo, le forze armate dell’ANP arrestano i combattenti della resistenza palestinese e impediscono alla popolazione di fare dimostrazioni contro l’occupazione israeliana, distruggendo la libertà di espressione e altre forme di dissenso contro Israele e il suo subappaltatore, l’ANP.

Anni fa, Mahmoud Abbas, “presidente” a fine mandato dell’ANP, dichiarò in modo scellerato che per lui questa politica di collaborazione [con Israele] era “sacra”. Nessun segnale sarebbe potuto essere più chiaro: questa è l’unica vera funzione dell’ANP.

L’ANP è anche afflitta da corruzione, brutalità e gretta oppressione.

All’inizio del mese c’è stato un esempio particolarmente scioccante. Le forze dell’ANP hanno arrestato il giornalista palestinese Sami Al-Sai per un post su Facebook.

Qual era il suo reato? Forse aveva invocato il rovesciamento armato dell’ANP? Aveva forse incoraggiato le proteste contro di essa? Ne aveva forse svelato la corruzione? No: aveva postato un video totalmente apolitico in cui si vedono dei palestinesi che vendono delle angurie.

Ma, secondo Human Rights Watch, anche una community palestinese di una pagina locale di Facebook di Tulkarem, la città cisgiordana dove il video era stato girato, aveva postato lo stesso video. Gli abitanti del posto avevano pubblicato su quella stessa pagina Facebook delle lamentele relative a presunta corruzione e altri scandali in città, alcune critiche nei confronti di funzionari dell’ANP.

Secondo Human Rights Watch, Al-Sai è in carcere da giovedì.

L’intera faccenda sembra solo un pretesto per arrestare un giornalista e impedirgli di fare il proprio lavoro. Al-Sai è stato arrestato e perseguitato varie volte nel corso degli anni sia dall’ANP che dalle forze di occupazione israeliana.

L’ANP ha una lunga storia di detenzioni e soprusi nei confronti di giornalisti palestinesi i cui articoli non le sono piaciuti.

Nel 2012 ho scritto di parecchi giornalisti palestinesi incarcerati e interrogati dall’ANP in Cisgiordania semplicemente perché stavano svolgendo il proprio compito.

Yousef Al-Shayab ha denunciato un presunto scandalo relativo a un tentativo dell’ANP di controllare dei gruppi di studenti palestinesi in Francia. Anche Tariq Khamis è stato arrestato dopo aver scritto un pezzo su un gruppo di giovani palestinesi che avevano richiesto la fine dei negoziati con Israele.

Se l’ANP avesse fiducia in se stessa permetterebbe ai giornalisti di fare il proprio lavoro,” mi ha detto Khamis. “Ma a causa dei suoi errori e della sua corruzione ha paura di noi.”

A prescindere dalla protezione dei suoi piccoli feudi, la funzione primaria dell’ANP è la protezione di Israele.

È stata strutturata così. È scritto negli accordi di Oslo e nella serie di intese che ne sono seguite.

Intellettuali palestinesi di spicco come Joseph Massad e il compianto Edward Said l’avevano capito immediatamente. Said aveva definito Oslo in modo indimenticabile: “Uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese.” L’opinione di Said, allora controversa, era però obiettivamente corretta e ha resistito alla prova del tempo.

Come spiega Massad: “L’ANP aveva promesso di porre fine alla resistenza anti-coloniale e alla solidarietà internazionale a sostegno del popolo palestinese come parte della sua capitolazione al colonialismo degli occupanti israeliani, in cambio non di una diminuzione, ma di un aumento della colonizzazione israeliana, sommata a privilegi economici per i funzionari dell’ANP e per gli imprenditori palestinesi che sostengono che i loro profitti sono una specie di ‘vittoria’ sugli israeliani, invece che il prezzo per aver rinunciato ai diritti per il proprio popolo.”

L’ANP non può essere “riformata”, perché la sua sottomissione a Israele non è la conseguenza della sua corruzione, ma piuttosto il contrario. Fin dall’inizio è stata creata per servire Israele e ha svolto bene questa sua funzione.

È ora che l’ANP venga sciolta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’UE arricchisce le ricompense per i crimini di Israele

Ali Abunimah

18 giugno 2020 – Electronic Intifada

Dei membri del Parlamento europeo stanno manifestando una forte opposizione contro le ultime iniziative dell’Unione Europea volte ad accrescere il sostegno a Israele anche nel caso esso dovesse portare avanti i piani di annessione di una buona parte della Cisgiordania occupata, una flagrante violazione del diritto internazionale.

Sono, comunque, una minoranza poiché la Commissione, l’esecutivo dell’UE, e la maggioranza dei membri del Parlamento europeo sembrano propensi ad inviare a Israele un messaggio di sostegno incondizionato.

Lunedì la Banca Europea per gli Investimenti ha assegnato a Israele un prestito di 170 milioni di dollari per il finanziamento di un impianto di dissalazione.

E mercoledì il Parlamento europeo ha ratificato, con 437 voti contro 102, un nuovo accordo sul trasporto aereo che garantirà alle compagnie aeree israeliane un accesso ancora più esteso alle destinazioni europee e un ulteriore impulso all’economia israeliana.

Una precedente proposta di rinvio della ratifica è stata sconfitta con 388 voti contro 278.

Alcuni membri dell’UE stanno inoltre per elargire ad Israele delle ricompense.

Ad esempio, la Svezia, che gode dell’immeritato riconoscimento di aver additato le responsabilità di Israele, sta finanziando una nuova iniziativa per incoraggiare gli affari con le “startup” hi-tech di Israele, un settore indissolubilmente legato alla sua industria della guerra informatica e della sorveglianza.

L’ECCP, una coalizione europea di organizzazioni a favore dei diritti dei palestinesi, condanna le misure dell’UE.

Fatin Al Tamimi, presidente della campagna di solidarietà Irlanda-Palestina e membro dell’ECCP, ha detto che i membri del Parlamento europeo “hanno avuto l’opportunità di difendere la giustizia a favore del popolo palestinese e mostrare all’apartheid israeliana che verranno messe in luce le sue responsabilità per le violazioni del diritto internazionale.

Purtroppo, scegliendo di continuare gli affari con Israele come sempre, anche di fronte ad un piano di annessione ampiamente condannato, gli eurodeputati hanno dimostrato ancora una volta quanto l’UE non sia disposta ad agire in difesa dei diritti umani e dello stato di diritto”.

“Che si vergognino”

L’UE ha manifestato una forte opposizione al piano israeliano di annettere i territori palestinesi occupati, anche attraverso un’ammonizione, a febbraio, secondo cui l’’accaparramento dei territori”, se Israele lo portasse a termine, non potrebbe rimanere impunito”.

Tuttavia, sottoposta alle pressioni della lobby israeliana, l’UE ha fatto marcia indietro rispetto all’ammonizione ed è tornata alle sue solite vuote espressioni di “preoccupazione”.

Ma l’UE, in sostanza, non sta facendo nulla per fermare Israele. Sta alacremente premiando e incentivando i suoi crimini.

Manu Pineda, un parlamentare di sinistra spagnolo e presidente della delegazione per le relazioni con la Palestina del Parlamento europeo, ha presentato alla Commissione una domanda sul finanziamento dell’UE dell’impianto di dissalazione israeliano.

Ha definito l’iniziativa “inspiegabile” alla luce delle recenti azioni di Israele contro i palestinesi.

L’irlandese Clare Daly ha dichiarato che i suoi colleghi europarlamentari che hanno scelto col voto di “normalizzare i crimini israeliani” attraverso la ratifica dell’accordo sul trasporto aereo “hanno toccato il fondo”.

“Si vergognino”, ha aggiunto.

Appena un’ora dopo la ratifica del trattato sul trasporto aereo, gli eurodeputati hanno tenuto un dibattito sull’annessione a cui ha partecipato Josep Borrell, responsabile della politica estera dell’UE.

“Quegli stessi gruppi politici che abbiamo sentito esprimere preoccupazione per l’annessione avevano poco prima reso possibile l’annessione votando a favore dell’accordo UE-Israele sull’aviazione”, ha affermato la coordinatrice dell’ECCP Aneta Jerska.

“Questo è a tutti gli effetti il colmo dell’ipocrisia dell’UE.”

Borrell ha ribadito al parlamento che l’annessione “costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

Ha avvertito che “Dal punto di vista dell’Unione Europea, l’annessione avrebbe inevitabilmente conseguenze significative per le strette relazioni di cui attualmente godiamo con Israele”

Nell’ascoltare queste parole i funzionari israeliani si faranno quattro risate mentre si recano alla Banca Europea per gli investimenti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il piano di annessione israeliano pregiudicherà la normalizzazione arabo-israeliana?

Yousef Alhelou

17 giugno 2020 – Middle East Monitor

La posizione adottata dagli Stati Arabi sul piano israeliano di annettere dal prossimo mese aree della Cisgiordania occupata, compresa la Valle del Giordano, può essere scomposta in linea di massima in tre orientamenti: i Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrain, Qatar, Marocco ed Egitto offrono un esplicito sostegno all’ “accordo del secolo” degli Stati Uniti, che comprende l’annessione e lo scambio di territori; alcuni Paesi, come Palestina, Giordania, Algeria, Iraq e Tunisia respingono totalmente il piano; e altri hanno delle riserve e non hanno espresso un parere in un senso o nell’altro.

L’annessione implica il controllo della terra e il trasferimento degli attuali abitanti. In Palestina, si tratta di una continuazione della pulizia etnica israeliana dei territori iniziata nel 1948 che non sarebbe nemmeno all’ordine del giorno senza il sostegno degli Stati Uniti. L’attuale amministrazione di Washington guidata dal presidente Donald Trump ha già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa e ha affermato che gli insediamenti israeliani costruiti sulla terra palestinese “non necessariamente” sarebbero illegali. Ha anche bloccato tutti gli aiuti statunitensi ai palestinesi.

Tuttavia, con una mossa insolita, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef Al-Otaiba, ha scritto un commento su Yedioth Ahronoth, il più diffuso quotidiano in lingua ebraica d’ Israele. “Annessione o Normalizzazione” si rivolge principalmente all’ala destra israeliana e invia un velato avvertimento ai funzionari e all’opinione pubblica in generale. Ha anche twittato un video in inglese per enfatizzare il suo messaggio. Al-Otaiba ha messo in guardia contro la prospettiva dell’annessione e ha menzionato le sue probabili conseguenze. L’ambasciatore desidera proteggere la normalizzazione formale dei legami con Israele, legami diplomatici, economici, culturali e sulla sicurezza.

Mentre i critici affermano che il suo messaggio è più un consiglio amichevole che un avvertimento formale, altri credono che Al-Otaiba stia cercando di salvare la faccia dopo che gli Emirati Arabi Uniti si sono viste respinte due diverse spedizioni di aiuti medici per i palestinesi perché non si sarebbero coordinati in anticipo con l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti ospitano anche l’ex funzionario di Fatah Mohammed Dahlan, espulso dal movimento da Mahmoud Abbas. Tuttavia, gli Emirati Arabi Uniti rimangono un grande sostenitore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) che fornisce i beni di prima necessità a milioni di rifugiati palestinesi.

È chiaro che qualsiasi instabilità che facesse seguito all’annessione potrebbe ravvivare nella coscienza araba lo spirito della lotta armata in tutta la regione. Se esplodesse, in aperta solidarietà con i palestinesi oppressi, la rabbia popolare, potrebbe anche danneggiare i rapporti diplomatici in fase di sviluppo, mettendo a repentaglio la piena e pubblica normalizzazione dei legami tra gli Stati arabi e Israele.

L’Iran e i suoi alleati nello Yemen, nel Libano meridionale e a Gaza non possono essere ignorati, poiché Teheran è il nemico comune di Israele e di alcuni Stati musulmani sunniti. Qualsiasi destabilizzazione dello status quo in Cisgiordania o Gerusalemme potrebbe incoraggiare la mobilitazione di gruppi filo-iraniani e attacchi contro obiettivi nel Golfo. La Turchia, nel frattempo, potrebbe sostituire il sostegno arabo alla legittima causa palestinese e fornire sostegno finanziario a coloro che vivono sotto l’occupazione militare di Israele. Inoltre, le industrie petrolifere e del turismo potrebbero soffrirne se, ad esempio, gli Houthi filo iraniani cercassero di vendicarsi contro la coalizione araba guidata dai sauditi che combattono nello Yemen e sostengono i palestinesi e i loro diritti. Hamas e altri gruppi di resistenza palestinese hanno anche avvertito delle gravi conseguenze se l’annessione dovesse procedere. Tutte le opzioni, a quanto pare, sono sul tavolo.

Quando a gennaio Trump ha annunciato i dettagli del suo “piano di pace”, gli ambasciatori degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrain e dell’Oman si trovavano alla Casa Bianca in piedi accanto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu . Trump li ha ringraziati per il loro supporto. Nessun funzionario palestinese era presente. L'”accordo” è stato una pugnalata alle spalle; un piano pro-Israele; un matrimonio forzato della “sposa” israeliana con un “sposo” palestinese riluttante. Gli stati arabi intenzionati a normalizzare i legami con Israele hanno bisogno di pace e coesistenza tra palestinesi e israeliani, per porre fine alla loro imbarazzante diplomazia sotto copertura e consentire loro di avere un rapporto economico aperto con lo Stato occupante.

Sorprendentemente, gli unici due Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele – Egitto e Giordania, rispettivamente nel 1979 e nel 1994 – non hanno partecipato alla cerimonia della Casa Bianca. Entrambi hanno intense relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese e condividono più o meno la stessa visione su come porre fine al conflitto Israele-Palestina: piena normalizzazione in cambio della fine dell’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme, e un ritorno ai confini del 1967. Questa è la base dell’iniziativa di pace araba approvata dalla Lega araba nel 2002 al suo vertice di Beirut.

Gli accordi di Oslo firmati nel 1993 dovevano portare alla costituzione di uno Stato palestinese entro cinque anni. Quasi tre decenni dopo centinaia di migliaia di coloni ebrei vivono in enormi blocchi di insediamenti costruiti da Israele nonostante gli Accordi. Ancora altri territori palestinesi sono stati rubati per costruire il muro dell’apartheid lungo 708 chilometri che si snoda lungo il confine della Cisgiordania [in prevalenza il muro si trova nel territorio cisgiordano, n.d.tr.]; ci sono più di 600 posti di blocco militari fissi e mobili; e le comunità palestinesi sono state isolate, creando bantustan separati. Inoltre, le case e gli altri edifici palestinesi vengono regolarmente demoliti dagli israeliani e i palestinesi nativi di Gerusalemme si vedono revocare i loro permessi di residenza mentre la giudaizzazione della Città Santa continua. Sotto i governi consecutivi di estrema destra di Netanyahu, la più estremista della storia di Israele, Israele ha fatto fuori la cosiddetta “soluzione a due Stati”.

La Giordania ha respinto il piano di annessione perché la valle del Giordano occupata si estende lungo il confine del Regno Hascemita [la dinastia hashemita, fondata nel 1916, dominò prima nel igiāz (regione comprendente La Mecca e Medina) in Arabia, poi in Iraq e Transgiordania, e infine nel Regno hashemita di Giordania, n.d.tr.] L’area costituisce circa il 30% della Cisgiordania, con una popolazione di circa 65.000 palestinesi e 11.000 coloni illegali. In realtà, Israele ha quasi il controllo totale di quello che è già di fatto un territorio annesso.

Tutto ciò suggerisce che l’avvertimento di Al-Otaiba potrebbe essere ascoltato, perché Netanyahu non vorrà perdere alleati nel mondo arabo, non ultimi nuovi amici come il Sudan, nel caso che la situazione si dovesse deteriorare nei territori palestinesi occupati. Il leader israeliano è il più consapevole di tutti del fatto che il presidente dell’ANP Abbas ha annunciato il mese scorso che sta ponendo fine a tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti, inclusa la cooperazione in materia di sicurezza con le forze di occupazione.

È vero che la causa palestinese è diventata un grattacapo per alcuni regimi arabi, in particolare nel Golfo, ma per altri è ancora la “questione centrale” che unisce tutti gli arabi e i musulmani. Senza una giusta soluzione in Palestina, non ci sarà mai stabilità in Medio Oriente. Sebbene l’ANP sotto Abbas sia accusata di aver aperto per prima le porte alla normalizzazione, i palestinesi insistono sul fatto che i legami con Israele non devono procedere a spese del popolo palestinese che ha lottato per decenni per la libertà e l’autodeterminazione .

Israele ha investito molto nella normalizzazione dei legami con gli Stati del Golfo. Sono stati fatti molti incontri reciproci segreti e sono state utilizzate molte applicazioni di social media per colmare le lacune culturali e politiche esistenti, nell’incoraggiare gli arabi del Golfo a rivoltarsi contro i palestinesi demonizzandoli come ostacolo alla pace con Israele.

Al momento, tuttavia, tutto ciò che conta per Netanyahu è la luce verde di Trump. È stato in grado di mettere insieme un governo di “unità” che condivide il potere e rimanere al potere significa tutto per lui. L’annessione faceva parte della sua campagna elettorale ed è tempo di adempiere al suo impegno. Le posizioni palestinesi e arabe non gli interessano molto, ma è un politico esperto e scaltro, che prenderà in considerazione i pro e i contro con attenzione.

Il velato avvertimento del capo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Al-Otaiba, sarà sufficiente per fermare o ritardare il piano di annessione? O Israele andrà avanti a prescindere e quindi pregiudicherà la normalizzazione con gli Stati arabi che temono disordini popolari nei loro paesi? Solo il tempo lo dirà, ma ci sono rischi per tutti i soggetti coinvolti, in particolare per i palestinesi, indipendentemente dal modo in cui si guardi la cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Mentre lo Stato ebraico si lancia in un baratro, la temibile lobby dell’AIPAC non fa assolutamente niente

PHILIP WEISS e JAMES NORTH

17 giugno 2020 – Mondoweiss

Di tutti i drammi che stanno avvenendo nel contesto del piano del governo israeliano di annettere grandi aree della Cisgiordania a partire da luglio, è passato in buona misura sotto silenzio un prodigio politico: l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato Americano per le Questioni Pubbliche di Israele] (AIPAC), la temibile lobby israeliana a Washington, non ha avuto niente da dire e di conseguenza con il suo silenzio potrebbe avere preannunciato il suo stesso declino.

Ciò in quanto l’iniziativa israeliana è senza dubbio una grande minaccia per il futuro dello “Stato ebraico”, sicuramente la maggiore crisi che Israele abbia affrontato almeno negli ultimi 10 anni, e ciononostante l’organizzazione, il cui unico scopo è garantire il futuro di Israele, è stata assolutamente silenziosa. Il sito tweet dell’AIPAC è pieno di pubblicità del genere camera di commercio (“L’innovazione israeliana ci rende più sicuri e più sani”), e neppure una parola sull’annessione.

Ma se ci si mette in contatto con singoli importanti sionisti negli Stati Uniti, progressisti o conservatori, sono tutti contrari all’annessione. Persone come Jeremy Burton, Dennis Ross, Robert Satloff, Martin Indyk, Jeremy Ben-Ami, Jeffrey Goldberg, persino Daniel Pipes. Essi si rendono conto della minaccia rappresentata dall’annessione per il futuro dello Stato ebraico. La minaccia è molteplice e ovvia: l’annessione isolerà Israele nel mondo e farà sì che gli europei impongano sanzioni contro Israele; l’annessione minaccia il trattato di pace con la Giordania; l’annessione minerà così tanto il movimento palestinese da rendere possibile una terza Intifada, tanto che persino i sionisti laburisti prevedono una “rivolta” come risposta naturale di un popolo messo all’angolo; l’annessione frammenterà e inizierà a dissolvere il sostegno del partito Democratico a Israele; l’annessione renderà l’apartheid ufficiale e innegabile, persino agli occhi di molti ebrei americani che hanno resistito a rendersene conto per anni; l’annessione darà forza alla campagna per il boicottaggio.

L’unica obiezione a questa sfilza di argomenti è l’illusione messianica: dio (o i britannici) hanno promesso la terra agli ebrei, perciò, di cosa vi preoccupate? Se sei una persona seria che crede nella necessità di uno Stato ebraico, questo è davvero un periodo veramente pericoloso. Un governo israeliano con un limitato appoggio dell’opinione pubblica sta per lanciare una nuova era che potrebbe produrre anni e anni di isolamento e di violenza in Israele. Persino uno dei beniamini dell’AIPAC, che fa parte del movimento dei coloni, è contrario!

Ancora una volta la domanda è: dov’è l’AIPAC? È la maggiore organizzazione filoisraeliana, che in una notte può avere 76 firme del Senato su un tovagliolo e riunire ogni anno in un centro congressi di Washington 20.000 sostenitori di Israele. È talmente famoso che chiunque lo conosce anche solo dalle sue iniziali. E oggi tutta questa potenza di fuoco è silenziosa. Durante una vera e propria crisi per lo Stato ebraico, l’AIPAC non ha niente da dire.

Ci sono un paio di spiegazioni plausibili per questo silenzio. Primo, l’AIPAC, per sua stessa politica, non ha mai criticato il governo israeliano. Va bene, ma cosa succede se questo governo sta per spingere lo Stato ebraico in un baratro? L’AIPAC è talmente condizionato da un ragionamento tattico da non poter vedere una reale minaccia quando si presenta? Forse.

Ma in questo caso la lobby ha dimostrato di aver esaurito la sua utilità per Israele ed è una vittima della sua stessa irresponsabilità. Per decenni ha affermato che non avrebbe mai criticato Israele mentre colonizzava la terra di un altro popolo ed ora, quando Israele è sul punto di fare un enorme passo in quella direzione, non si può smentire.

O forse l’AIPAC pensa di non poter criticare un presidente USA, di non poter danneggiare il suo accesso alla carica più alta del Paese. Trump è assolutamente pronto all’annessione. Pensa che ciò possa fargli avere i milioni di Sheldon Adelson [miliardario americano che finanzia Trump, Israele e le colonie, ndtr.] e forse la Florida in novembre, e l’AIPAC non può essere minimamente critico con un presidente o potrebbe perdere la possibilità di avervi accesso.

Ma di nuovo: il portabandiera della lobby israeliana ha sacrificato la sua stessa missione a una tattica burocratica. Ha costruito una potenza mostruosa e malefica a Washington per appoggiare Israele ed ora, in un momento di crisi, non dice niente.

Il fallimento dell’AIPAC ha chiaramente rafforzato altre organizzazioni sioniste. J Street [associazione di sionisti progressisti contrari all’occupazione, ndtr.] sta conducendo la lotta contro l’annessione insieme ad “Americans for Peace Now [Americani per la pace adesso, organizzazione sionista statunitense a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.]. La graduale conquista della lobby israeliana da parte di J Street che abbiamo visto più o meno nell’ultimo anno sembra ormai inevitabile, data l’abdicazione dell’AIPAC. Di fatto l’unico commentatore ad evidenziarlo è il nuovo presidente di APN, Hadar Suskind, che ha scritto su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] che le principali organizzazioni della lobby israeliana hanno consentito a Israele di sacrificare il suo futuro “sull’altare dell’etno-nazionalismo”.

Con una disperata richiesta di aiuto, Suskind ha scritto che è a rischio nientemeno che lo Stato ebraico: “Quando questo futuro sarà minacciato, noi ci esprimeremo a voce alta, denunceremo apertamente e lotteremo per una prospettiva che rifletta l’opinione sia dei fondatori di Israele che della grande maggioranza degli ebrei americani. Chiediamo a tutti i nostri colleghi di unirsi a noi per proteggere un Israele ebraico e democratico opponendoci chiaramente e fortemente all’annessione. Non aspettate che sia troppo tardi.”

Qualunque cosa si pensi del progetto sionista – e noi siamo contrari – da una prospettiva politica, l’abdicazione dell’AIPAC è sia mistificatoria che patetica, e potrebbe portare a una caotica lotta generazionale all’interno della lobby israeliana in cui i giovani ebrei di IfNotNow [SeNonOra, organizzazione di ebrei statunitensi contraria alle politiche israeliane, ndtr.] e Open Hillel [Hillel Aperto, associazione universitaria ebraica con posizioni critiche, ndtr.] stanno improvvisamente contendendo la leadership all’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, storica organizzazione ebraica statunitense filosionista, ndtr.].

Come in un atto di spontanea autodistruzione politica, il silenzio dell’AIPAC è un prodigio, proprio come in primo luogo l’accumulazione di potere della lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La pandemia da coronavirus e il fallimento della strategia di disimpegno dell’ANP

Ihab Maharmeh

16 giugno 2020 – Al Jazeera

È tempo che l’Autorità Nazionale Palestinese adotti una strategia radicalmente nuova

Lo scorso anno, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito il suo impegno ad annettere parti della Cisgiordania occupata e l’amministrazione USA ha insistito sull’unilaterale “accordo del secolo”, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è arrabattata per mettere insieme una nuova strategia politica.

Nell’aprile 2019 il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh, nominato da poco, ha annunciato che il governo avrebbe proceduto con un “disimpegno economico” dall’occupazione. Durante l’estate alcuni politici palestinesi hanno continuato a parlare di questa nuova strategia e in settembre l’ANP finalmente ha preso l’iniziativa, dichiarando che avrebbe posto fine alle importazioni dirette di bovini da Israele.

Nei mesi successivi i tentativi del governo dell’ANP di mettere in atto questa strategia ha dato come risultato una piccola guerra commerciale con Israele, terminata repentinamente in marzo quando le autorità palestinesi hanno dovuto affrontare la prospettiva di una grave epidemia del nuovo coronavirus.

La pandemia è subito diventata la prova decisiva della nuova strategia, sgretolatasi quando l’ANP si è cimentata nel controllo della diffusione della malattia e nella gestione dell’economia palestinese già in difficoltà. Dato che le ultime dichiarazioni del presidente palestinese Mahmoud Abbas riguardo alla fine degli accordi e del coordinamento per la sicurezza con Israele dimostrano ancora una volta di essere una vuota minaccia, è tempo che la dirigenza palestinese cambi radicalmente la sua strategia.

La “strategia del disimpegno”

Per anni l’idea di un “disimpegno economico” da Israele è circolata nei circoli politici palestinesi. Nel passato ci sono stati anche tentativi di imporre vari boicottaggi sui prodotti israeliani che non hanno avuto alcun successo.

Quando gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, riconoscendo le rivendicazioni israeliane sulla città, e inquietanti particolari dell’“accordo del secolo” dell’amministrazione Trump sono stati resi noti, è ricomparsa l’idea di un disimpegno palestinese.

Quando nell’aprile 2019 è entrato in carica, Shtayyeh ne ha fatto una priorità del suo nuovo governo. Il primo ministro palestinese ha parlato di rafforzare l’indipendenza economica palestinese promuovendo la produzione locale, le esportazioni e le importazioni dirette dall’estero e incoraggiando i palestinesi che lavorano in Israele a cercare piuttosto lavoro nei territori palestinesi.

Ha anche affermato che il suo governo avrebbe perseguito una strategia di “sviluppo a grappolo”, stimolando alcuni settori economici nelle diverse regioni: agricoltura a Jenin, industria a Nablus, turismo a Betlemme e fornitura di servizi medici nella Gerusalemme est occupata.

La strategia si basava sul fatto che l’ANP continuasse a ricevere gli introiti fiscali che, secondo il protocollo di Parigi del 1994, vengono raccolti per suo conto dalle autorità israeliane. Tuttavia negli ultimi 25 anni Israele ha regolarmente trattenuto parte delle risorse fiscali del governo palestinese con vari pretesti, compreso, più di recente, che l’ANP sta pagando sussidi alle famiglie di prigionieri politici palestinesi che gli israeliani considerano “terroristi”.

Trattenere questi fondi è solo una delle molte tattiche coercitive a disposizione del governo israeliano per contrastare qualunque politica palestinese ritenga minacci i suoi interessi economico-politici. E quello che è successo dopo il bando palestinese sull’importazione di bestiame l’ha illustrato alla perfezione.

Nel gennaio 2020 il governo israeliano ha emanato un bando sull’importazione di prodotti agricoli palestinesi. All’inizio di febbraio l’ANP ha vietato l’importazione di alcuni prodotti israeliani, a cui gli israeliani hanno risposto impedendo a quelli palestinesi di attraversare il territorio israeliano per l’esportazione in Giordania.

Due settimane dopo, quando si è profilata un’epidemia di COVID-19 che minacciava la già disastrata economia palestinese, l’ANP ha ceduto ed ha tolto il bando sui prodotti israeliani. La dirigenza palestinese ha affermato di aver raggiunto un accordo con gli israeliani per l’importazione di bestiame direttamente dal mercato internazionale attraverso Israele.

L’annuncio è stato fatto solo un giorno prima che Israele dichiarasse ufficialmente di aver registrato il primo caso di COVID-19. La diffusione del virus nei territori palestinesi occupati era solo questione di tempo. Il 5 marzo l’ANP ha annunciato il suo primo test positivo al COVID-19 ed ha decretato lo stato d’emergenza di un mese.

La pandemia di coronavirus non ha solo accelerato la fine dei tentativi palestinesi di mettere in pratica il “disimpegno economico”, ma ha anche dimostrato proprio quanto impotente sia l’ANP nel prendere una qualunque decisione importante riguardo al popolo palestinese, persino quando si tratti di salute pubblica.

Il fallimento dell’ANP nel combattere il COVID-19

Dall’inizio di marzo l’ANP ha cercato di mettere in atto una serie di misure per arginare la diffusione del nuovo coronavirus. Fin da subito è risultato chiaro che il contagio si sarebbe esteso da Israele ai lavoratori palestinesi che lavorano nelle città israeliane e nelle colonie illegali. Ciò è stato confermato in seguito dalle statistiche: in aprile il 79% dei casi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza era dovuto a lavoratori in Israele o a loro familiari.

Così, il 17 marzo Shtayyeh ha annunciato che gli spostamenti tra il territorio israeliano e quello palestinese sarebbero stati interrotti e che, se volevano continuare a lavorare, i lavoratori avrebbero avuto tre giorni per trovarsi una sistemazione in territorio israeliano.

Dopo una settimana, e dopo che molti lavoratori malati sono stati maltrattati dalle autorità israeliane, Shtayyeh ha chiesto ai palestinesi di lasciare il proprio lavoro in Israele e di rimanere a casa, in quanto correvano il serio rischio di contrarre il virus. Ciò ha minacciato l’economia israeliana, soprattutto nel settore dell’edilizia, per cui il governo israeliano ha agito rapidamente ed ha iniziato a concedere permessi ai palestinesi perché rimanessero in territorio israeliano.

L’ANP voleva che le autorità israeliane iniziassero a fare controlli medici sui lavoratori palestinesi, ma gli è stato rifiutato. Quindi il movimento dei palestinesi dentro e fuori Israele è continuato, vanificando gli sforzi del governo palestinese di frenare la diffusione del virus.

L’ANP ha anche cercato di combattere la diffusione del virus nelle aree B e C della Cisgiordania occupata, che sono sotto diretto controllo della sicurezza israeliana. Shtayyeh ha chiesto alle comunità locali di formare commissioni d’emergenza e di impegnarsi nell’erogazione di servizi sanitari e di sicurezza in quelle zone.

Ma le forze di occupazione israeliane hanno sistematicamente minato questi tentativi. Hanno attaccato le barriere palestinesi predisposte dalle comunità locali agli ingressi dei loro villaggi per controllare il passaggio dei lavoratori palestinesi di ritorno a casa da Israele.

Le autorità di occupazione hanno anche sabotato i tentativi di funzionari palestinesi che cercavano di mettere in atto misure preventive nelle cittadine e nei quartieri palestinesi all’interno dei confini amministrativi della Gerusalemme est occupata.

Il 3 aprile le autorità di occupazione hanno arrestato il ministro degli Affari di Gerusalemme, Fadi al-Hadami, per attività “illegali”. Due giorni dopo hanno arrestato anche Adnan Ghaith, il governatore di Gerusalemme dell’ANP. Entrambi erano impegnati nella lotta contro l’epidemia.

Inoltre Israele ha negato al governo palestinese il permesso di operare a Gerusalemme e di testare i palestinesi al virus.

É tempo di una nuova strategia

Il 19 maggio, in risposta al piano israeliano per annettere parti della Cisgiordania in luglio e al tacito consenso degli USA a questo proposito, Abbas ha dichiarato “nullo” ogni accordo con Israele e gli USA. Ciò è avvenuto circa un anno dopo che aveva annunciato la sospensione di ogni accordo con Israele.

Il presidente ha affermato che quest’ultima dichiarazione mette fine alla cooperazione per la sicurezza con le forze israeliane e trasferisce ogni responsabilità per i territori palestinesi occupati al governo israeliano. Ma l’annuncio era scarso di dettagli e finora non sembra aver dato come risultato alcun mutamento significativo nei rapporti con Israele.

Di fatto alcuni politici palestinesi hanno inviato messaggi per rassicurare Israele che i servizi di sicurezza palestinesi continueranno il proprio lavoro nel bloccare ogni forma di resistenza contro Israele in Cisgiordania. Sembra che questa sarà l’ennesima delle decine di dichiarazioni dell’ANP sull’interruzione del coordinamento per la sicurezza con Israele che non hanno comportato nessuna seria azione.

É davvero incomprensibile perché l’ANP continui ad insistere nell’utilizzare lo stesso strumentario di misure inefficaci che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, non ha bloccato la costante colonizzazione israeliana della terra palestinese né lo sfruttamento delle risorse palestinesi. Con l’imminente annessione di fino al 30% della Cisgiordania in luglio, è ormai il momento per l’ANP di abbandonare questi triti tatticismi.

La dirigenza palestinese deve smettere di parlare di uno Stato palestinese sui confini del 1967 e ammettere che la Palestina storica è governata da un sistema di apartheid. Ciò aprirebbe la strada all’estensione della resistenza contro il colonialismo e l’oppressione israeliani per tutti i palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina.

Nella Palestina storica definire Israele una potenza che pratica l’apartheid consentirebbe a tutti i palestinesi (quelli che vivono in Cisgiordania, a Gaza e nelle terre occupate nel 1948) di intraprendere una resistenza decentralizzata contro l’apartheid utilizzando ogni possibile strategia e strumento. Anche la dirigenza palestinese ne farebbe parte.

Fuori dalla Palestina riconoscere l’apartheid aiuterebbe i palestinesi della diaspora a convincere la comunità internazionale ad accettare la lotta dei palestinesi in quanto lotta contro l’apartheid e il razzismo.

In questo modo i palestinesi passeranno dal sogno irraggiungibile dei due Stati alla realtà della resistenza contro l’apartheid e ciò aiuterà ad attirare il supporto di chiunque nel mondo creda nella giustizia, nell’uguaglianza e nella libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ihab Maharmeh è un ricercatore presso il Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi Politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa sarebbe l’identità israeliana senza il sionismo?

di Yuli Novak  11 giugno 2020

+972 Magazine

Gli afrikaner bianchi nel Sudafrica del dopo-apartheid hanno dovuto crearsi un’identità nazionale che non fosse basata sull’asservimento di altri esseri umani. È un problema che, prima o poi, anche gli ebrei israeliani dovranno affrontare.

Il fatto è che noi siamo malati, molto malati” scrisse Jean-Paul Sartre ai francesi nel 1957 commentando la cecità della sua società verso le proprie responsabilità nei confronti del dominio coloniale in Algeria. Il fatto è che anche noi siamo malati. Molto malati. E ammettere la propria malattia è, secondo me, la fase più difficile.

Essendo cresciuti in Israele, dove c’è un sistema politico che proclama esclusivamente l’idea sionista, noi crediamo orgogliosamente in una chiara distinzione fra il “nostro” sionismo, come è stato applicato entro la Linea Verde, e il progetto dei coloni al di là dei confini antecedenti al 1967 [cioè nei territori palestinesi occupati, ndtr.]. Ma, per quanto sia difficile ammetterlo, questa logica è artificiale e ci sta accecando.

Negli ultimi anni ho passato molto tempo in Sudafrica. Mi sono particolarmente interessato a un gruppo che costituisce meno del 10% popolazione: gli afrikaner bianchi, i discendenti degli europei arrivati nella parte meridionale del continente africano tra il XVI e il XVII secolo. All’inizio del Ventesimo secolo, quando il colonialismo inglese in questa regione stava concludendosi, gli afrikaner ottennero il controllo politico sulle terre. Nel 1948 instaurarono l’apartheid, un sistema politico durato 50 anni prima della sua abolizione nel 1994.

Negli anni dell’apartheid solo pochissimi afrikaner riuscirono a riconoscere la propria malattia (oggi ammessa da quasi tutti quegli afrikaner che desiderano relegarla a una cosa del passato). Quei pochissimi si trovavano davanti a un’impasse scoraggiante poiché si rendevano conto che qualcosa nella narrazione della propria formazione proprio non quadrava, che la logica del dominio dei bianchi sui neri, nonostante tutte le giustificazioni che venivano offerte, non poteva essere valida.

Riconoscerlo significava dover fare i conti con i presupposti più essenziali del proprio ambiente sociale, familiare e professionale. Sovvertire la giustificazione dell’apartheid voleva dire voltare le spalle a famiglia, nazione e Stato. Erano considerati, correttamente, come dei traditori. Ma non avevano mai tradito la madrepatria, solo il suo regime.

La loro impasse era soprattutto interiore: non avevano una narrazione per immaginare se stessi alternativa a quella del regime. Il Movimento della Consapevolezza nera che si stava sviluppando in quel periodo in Sudafrica offriva una solida struttura all’identità della lotta contro l’apartheid che però non si rivolgeva a loro in quanto bianchi. Dato che il regime si equiparava al nazionalismo afrikaner, ne conseguiva che essere contro l’apartheid voleva dire essere anti-afrikaner. Quindi essere un afrikaner contro l’apartheid voleva dire andare contro se stessi. Un afrikaner me l’ha spiegato: “Dovevamo chiederci: cosa significa essere chi siamo, afrikaner, senza l’apartheid? Scoprimmo che non avevamo una risposta.” Questa è l’essenza della malattia.

Cosa significa essere ebreo-israeliano senza il sionismo?” Una domanda che non mi sono mai posto.

Il regime sionista (il sionismo come è stato praticato, non la sua versione ideologica o filosofica del come “sarebbe potuto essere”) non ha mai fatto molto per la democrazia. Già nei suoi primi anni il regime israeliano si adoperò per mantenere una maggioranza ebraica, con la Legge sulla proprietà degli assenti e la Legge del ritorno, e per applicare un sistema duale tramite l’apparato militare imposto sulle zone arabe nel nuovo Stato di Israele. Nel 1967 al nostro progetto nazionale si è aggiunta una sfida nuova, ma vecchia: insediarsi e controllare territori oltre la Linea verde riconosciuta internazionalmente. Alla sinistra sionista ebraica venne dato un nuovo problema con cui fare i conti: “l’occupazione dei territori” che, anche se in linea con l’originaria logica di insediamento alla base del sionismo (“il nostro diritto alla terra”), era molto più sgradevole agli occhi degli ebrei su posizioni di sinistra e a quelli del resto del mondo.

La nostra malattia non è cominciata nel 1967. Per quelli che non vogliono mettere in dubbio la narrazione che la sovranità sulla terra debba essere esclusivamente ebraica, narrazione con cui si fa iniziare “una storia diversa” nel 1967, è un modo conveniente per non guardare in faccia il male. Noi possiamo dire a noi stessi che curare i sintomi dell’occupazione, se solo fosse possibile, avrebbe spianato la strada per continuare il progetto sionista “senza macchia”.

In anni recenti gli eventi sul terreno ci hanno impedito di continuare a raccontare a noi stessi questa storia. Quasi tutti i partiti politici che rappresentano gli ebrei israeliani riconfermano ai cittadini palestinesi la loro esclusione da una collaborazione autenticamente egalitaria al governo di Israele. Mentre si sta rapidamente avvicinando l’annessione de jure di vaste parti della Cisgiordania sostenuta da buona parte dell’opinione pubblica ebraica, sta diventando sempre più difficile distinguere fra “Israele” e l’“occupazione.”

Un buon punto di partenza potrebbe essere la domanda esasperante che ci viene spesso posta dalla destra: “Che differenza c’è fra Ramat Aviv (il quartiere di Tel Aviv costruito sulle rovine del villaggio di Sheikh Muwannis) e Kiryat Arba (l’insediamento in Cisgiordania vicino a Hebron)?” È una domanda che anche noi dovremmo avere il coraggio di farci, non per sfida, ma con coraggio, umiltà e sincerità. Perché, appunto, qual è la differenza quando si guarda attraverso la lente delle giustificazioni nazionali e storiche fra l’applicare il sionismo a Giaffa o a Lydda [due città con una nutrita minoranza di palestinesi, ndtr.] e imporre lo stesso regime su Betlemme o Nablus?

Il malessere che proviamo quando affrontiamo questioni simili è un sintomo su cui vale la pena di riflettere, dato che ci porta più vicino alla nostra vera malattia: noi non abbiamo un’identità nazionale o di gruppo che non coinvolga né dipenda dal soggiogare i palestinesi alla supremazia ebraica. Temo che non l’avremo mai.

La sinistra ebraico-israeliana non ha mai prodotto una narrazione alternativa a quella del regime. Quando sono stati fatti dei tentativi, sono rimasti ai margini e non sono mai stati adottati su larga scala come base per una lotta di liberazione più ampia (e da questo regime dobbiamo liberarci anche noi ebrei israeliani, non solo i palestinesi).

Presentare idee simili oggi in Israele può essere considerato tradimento, eppure è fondamentale analizzarle a fondo e sinceramente se vogliamo far nascere una nuova politica e una nuova identità nostra, nel cui nome combattere. Questa nuova identità politica ebraica dovrà riconoscere gli errori del passato senza farsene dominare. E ci libererà non solo da un’identità definita da paure e minacce, vere e immaginarie, ma anche dalla certezza, repressa e difficile da esprimere a parole, che anche noi siamo malati, molto malati.

Quest’articolo è stato originalmente pubblicato in ebraico su Haaretz.

Yuli Novak è un’attivista israeliana, nata e cresciuta in Israele; fra il 2012 e il 2017 è stata direttrice di ‘Breaking the Silence’  [‘Rompere il silenzio’ un’organizzazione di soldati ed ex soldati israeliani che si oppone all’occupazione, ndtr.].

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I punti in comune tra Minneapolis e Gerusalemme sono maggiori di quanto sembri

Jonathan Cook

11 giugno 2020 – Middle East Eye

In un mondo in cui le risorse sono in esaurimento e le economie in contrazione gli Stati si preparano a future rivolte da parte delle classi inferiori in aumento

È difficile ignorare i sorprendenti parallelismi tra le recenti scene di brutalità della polizia nelle città degli Stati Uniti e decenni di violenza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i palestinesi.

Alla fine del mese scorso un video diventato virale di un agente di polizia di Minneapolis, Derek Chauvin, che uccide un uomo di colore, George Floyd, premendo con un ginocchio sul suo collo per quasi nove minuti, ha scatenato due settimane di proteste di massa in tutti gli Stati Uniti e altrove.

Le immagini sono l’ultima inquietante testimonianza visiva di una formazione culturale della polizia degli Stati Uniti per cui essa sembra trattare gli afro americani come un nemico – e rinnova il ricordo di come troppo raramente venga punito il comportamento criminale dei poliziotti.

Il linciaggio di Floyd da parte di Chauvin mentre altri tre agenti osservavano o partecipavano ricorda scene inquietanti e familiari nei territori occupati. I video di soldati israeliani, polizia e coloni armati che picchiano, sparano e esercitano abusi su uomini, donne e bambini palestinesi sono stati a lungo un punto fermo dei social media.

La disumanizzazione che ha permesso l’omicidio di Floyd è stata regolarmente messa in evidenza nei territori palestinesi occupati. All’inizio del 2018 i cecchini israeliani hanno iniziato a utilizzare i palestinesi, compresi minorenni, infermieri, giornalisti e disabili come poco più che bersagli dei poligoni di tiro durante le proteste settimanali presso la barriera perimetrale che circonda Gaza tenendoveli rinchiusi.

Diffusa impunità

E proprio come negli Stati Uniti, l’uso della violenza da parte della polizia e dei soldati israeliani contro i palestinesi raramente porta a procedimenti giudiziari, per non parlare di condanne.

Pochi giorni dopo l’omicidio di Floyd, un uomo palestinese affetto da autismo, Iyad Hallaq, che secondo la sua famiglia aveva un’età mentale di sei anni, è stato colpito con sette colpi dalla polizia a Gerusalemme. Nessuno degli agenti è stato arrestato.

Di fronte all’imbarazzante attenzione internazionale in seguito all’omicidio di Floyd, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione inconsueta nei casi di uccisione di un palestinese da parte dei servizi di sicurezza. Ha definito l’omicidio di Hallaq “una tragedia” e ha promesso un’indagine.

I due omicidi, a distanza di pochi giorni, hanno rivelato il motivo per cui gli slogan “Black Lives Matter” e “Palestinian Lives Matter” siano intimamente legati, sia nelle proteste che nei post sui social media.

Ci sono differenze tra i due casi, ovviamente. Oggi i neri americani hanno la cittadinanza, la maggior parte di loro può votare (se riescono a raggiungere un seggio elettorale), le leggi non sono più esplicitamente razziste e hanno accesso agli stessi tribunali – se non sempre alla stessa giustizia – della popolazione bianca.

Non è questa la situazione per la maggior parte dei palestinesi sotto il dominio israeliano. Vivono sotto l’occupazione di un esercito straniero, ordinanze militari arbitrarie governano le loro vite e hanno un accesso molto limitato a qualsiasi tipo di concreto ricorso per adire a vie legali.

E c’è un’altra ovvia differenza. L’omicidio di Floyd ha scosso molti americani bianchi tanto da indurli a partecipare alle proteste. L’omicidio di Hallaq, al contrario, è stato ignorato dalla stragrande maggioranza degli israeliani e apparentemente accettato ancora una volta come prezzo da pagare per il mantenimento dell’occupazione.

Trattati come un nemico

Tuttavia, vale la pena mettere in evidenza i confronti tra le culture razziste delle due polizie. Entrambe scaturiscono da una visione del mondo costruita da società colonialiste, fondate sull’ espropriazione, la segregazione e lo sfruttamento.

Israele vede ancora in gran parte i palestinesi come un nemico che deve essere espulso o costretto a sottomettersi. Nel contempo i neri americani convivono coll’eredità di una cultura bianca razzista che fino a non molto tempo fa giustificava la schiavitù e l’apartheid.

Da tempo palestinesi e afroamericani sono stati depredati della loro dignità; troppo spesso le loro vite sono considerate di scarso valore.

Purtroppo la maggior parte degli ebrei israeliani nega ostinatamente l’ideologia razzista che sta alla base delle loro principali istituzioni, compresi i servizi di sicurezza. In pochi protestano in solidarietà con i palestinesi e quelli che lo fanno sono ampiamente visti dal resto dell’opinione pubblica israeliana come traditori.

Molti americani bianchi, d’altra parte, sono rimasti scioccati nel vedere quanto velocemente le forze di polizia statunitensi, di fronte a proteste diffuse, hanno fatto ricorso a metodi violenti di controllo della folla di un genere fin troppo familiare ai palestinesi.

Tali metodi comprendono la dichiarazione di coprifuoco e la chiusura di zone delle principali città; il dispiegamento di squadre di cecchini contro i civili; l’uso di squadre antisommossa con indosso uniformi o passamontagna senza contrassegno; arresti e aggressioni fisiche di giornalisti chiaramente identificabili; l’uso indiscriminato di gas lacrimogeni e proiettili di acciaio rivestiti di gomma per ferire i manifestanti e terrorizzarli per le strade.

E non finisce qui.

Il presidente Donald Trump ha descritto i manifestanti come “terroristi”, facendo eco al modo in cui gli israeliani definiscono tutte le proteste palestinesi, e ha minacciato di inviare l’esercito americano, il che riproporrebbe con ancora maggiore precisione la situazione affrontata dai palestinesi.

Come i palestinesi, la comunità nera degli Stati Uniti – e ora i manifestanti – hanno registrato esempi degli abusi sui loro telefoni e pubblicato i video sui social media per evidenziare le menzogne delle dichiarazioni della polizia e dei resoconti dei media su ciò che è accaduto.

Testato su palestinesi

Nessuno di questi parallelismi dovrebbe sorprenderci. Per anni le forze di polizia statunitensi, insieme a molte altre in tutto il mondo, hanno fatto la fila alla porta di Israele per imparare dalla sua esperienza decennale nella repressione della resistenza palestinese.

In un mondo caratterizzato dall’esaurimento delle risorse e dalla contrazione a lungo termine dell’economia globale, Israele ha capitalizzato la necessità tra gli Stati occidentali di prepararsi a future rivolte interne da parte di classi inferiori in aumento.

Potendo fare tranquillamente esperimenti nei territori palestinesi occupati, Israele è stato a lungo in grado di sviluppare e testare sul campo sui palestinesi oppressi nuovi metodi di sorveglianza e subordinazione. Essendo le più cospicue classi inferiori degli Stati Uniti, le comunità nere urbane hanno sempre avuto molte più probabilità di trovarsi in prima linea quando le forze di polizia statunitensi hanno adottato nelle loro pratiche un approccio più militarizzato.

Alla fine questi cambiamenti si sono manifestati in modo evidente durante le proteste scoppiate a Ferguson, nel Missouri, nel 2014 dopo che un uomo di colore, Michael Brown, è stato ucciso dalla polizia. Vestita in tenuta antisommossa e sostenuta da camionette blindate, la polizia locale sembrava entrare in una zona di guerra piuttosto che trovarsi lì per “servire e proteggere” [motto di molte polizie locali negli USA, ndtr.].

Addestrati in Israele

È stato allora che le organizzazioni per i diritti umani e altri hanno iniziato a mettere in evidenza in che misura le forze di polizia statunitensi venivano influenzate dai metodi israeliani per assoggettare i palestinesi. Molte forze erano state addestrate in Israele o coinvolte in programmi di scambio.

Soprattutto la famigerata polizia di frontiera paramilitare israeliana [il MAGAV, che non segue la regolare struttura di comando della polizia militare ma risponde direttamente all’agenzia per la sicurezza israeliana, ndtr.] è diventata un modello per altri Paesi. È stata la polizia di frontiera a sparare a morte su Hallaq a Gerusalemme poco dopo che Floyd è stato ucciso a Minneapolis.

La polizia di frontiera svolge la duplice funzione di una forza di polizia e di un esercito, operando contro i palestinesi nei territori occupati e all’interno di Israele, dove esiste una folta minoranza palestinese con diritti di cittadinanza molto ridotti. 

La premessa istituzionale della polizia di frontiera è che tutti i palestinesi, compresi quelli che sono formalmente cittadini israeliani, dovrebbero essere trattati come nemici. È il nucleo della cultura razzista della polizia israeliana, identificata 17 anni fa dal Rapporto Or [frutto del lavoro di una commissione istituita dal governo israeliano nel 2000 durante la seconda Intifada, ndtr.], l’unica analisi seria del Paese riguardo le sue forze di polizia.

La polizia di frontiera sembra sempre più il modello che le forze di polizia statunitensi stanno emulando in città con le vaste comunità di neri.

Molte decine di agenti di polizia di Minneapolis sono stati addestrati da esperti israeliani in tecniche di “antiterrorismo” e di “contenimento” durante un seminario a Chicago nel 2012.

Il soffocamento da parte di Derek Chauvin, con l’utilizzo del ginocchio per fare pressione sul collo di Floyd, è una procedura di “immobilizzazione” molto nota ai palestinesi. In modo inquietante, quando ha ucciso Floyd Chauvin stava addestrando due agenti alle prime armi trasmettendo le competenze istituzionali del dipartimento alla nuova generazione di agenti.

Monopolio della violenza

Queste somiglianze avrebbero dovuto essere previste. Gli Stati inevitabilmente prendono in prestito e imparano gli uni dagli altri sulle questioni più importanti per loro, come reprimere il dissenso interno. Il compito di uno Stato è garantirsi il mantenimento del monopolio della violenza all’interno del proprio territorio.

È la ragione per cui diversi anni fa nel suo libro War Against the People [Guerra contro il popolo, Edizioni Epoké, 2017, ndtr.] lo studioso israeliano Jeff Halper ammoniva che Israele è stato fondamentale nello sviluppo di quella che egli chiamava l’industria della “pacificazione globale”. I solidi muri tra i militari e la polizia si erano sgretolati, creando quelli che lui definiva “poliziotti guerrieri”.

Il pericolo, secondo Halper, è che a lungo termine, man mano che la polizia diventerà più militarizzata, è probabile che verremo tutti trattati come i palestinesi. Ecco perché è necessario mettere in evidenza un ulteriore legame tra la strategia degli Stati Uniti nei confronti della comunità nera e quella di Israele nei confronti dei palestinesi.

I due Paesi non stanno solo condividendo tattiche e metodi di polizia contro le proteste una volta scoppiate. Hanno anche sviluppato congiuntamente strategie a lungo termine nella speranza di smantellare la capacità delle comunità nere e palestinesi sotto la loro oppressione di organizzarsi in modo efficace e sviluppare la solidarietà con altri gruppi.

Perdita di direzione storica

Se un insegnamento è chiaro, è quello che l’oppressione può essere meglio contrastata attraverso la resistenza organizzata da un movimento di massa con richieste chiare e una visione coerente di un futuro migliore.

In passato dipendeva da leader carismatici con un’ideologia pienamente sviluppata e ben articolata in grado di ispirare e mobilitare i sostenitori. Si basava anche su reti di solidarietà tra gruppi oppressi di tutto il mondo che condividevano la loro conoscenza ed esperienza.

Una volta i palestinesi erano guidati da figure che avevano il sostegno e il rispetto nazionali, da Yasser Arafat a George Habash e allo sceicco Ahmed Yassin. La lotta che essi conducevano era in grado di galvanizzare i sostenitori di tutto il mondo.

Questi leader non erano necessariamente uniti. Ci furono discussioni sul fatto che il colonialismo di insediamento israeliano sarebbe stato minacciato meglio attraverso la lotta secolare o la forza religiosa, trovando alleati all’interno della Nazione degli oppressori o sconfiggendola usando i suoi metodi violenti.

Questi dibattiti e disaccordi hanno formato ampi strati della comunità palestinese, hanno chiarito la posta in gioco per loro e fornito il senso di una direzione e uno scopo nella storia. E questi leader sono diventati punti di riferimento per la solidarietà internazionale e la passione rivoluzionaria.

Ciò è scomparso da tempo. Israele ha perseguito una politica implacabile di incarcerazioni e assassinii di leader palestinesi. Nel caso di Arafat, è stato confinato dai carri armati israeliani in un complesso a Ramallah prima di essere avvelenato a morte in circostanze fortemente sospette. Da allora, la società palestinese si è trovata orfana, alla deriva, divisa e disorganizzata.

Anche la solidarietà internazionale è stata ampiamente messa a tacere. I popoli degli Stati arabi, già impegnati nelle proprie lotte, appaiono sempre più stanchi della causa palestinese, scissa e apparentemente senza speranza. E, come segnale del nostro tempo, la solidarietà occidentale oggi si impegna principalmente in un movimento di boicottaggio che ha dovuto condurre la sua lotta sul campo di battaglia dei consumi e delle finanze, più favorevole al nemico.

Dallo scontro alla consolazione rassegnata

La comunità afroamericana negli Stati Uniti ha subito processi paralleli, anche se è più difficile accusare i servizi di sicurezza statunitensi in modo così diretto per la perdita, decenni fa, di una leadership nazionale nera. Martin Luther King, Malcolm X e il movimento Black Panther furono perseguitati dai servizi di sicurezza statunitensi. Sono stati incarcerati o abbattuti da assassini, nonostante i loro approcci molto diversi alla lotta per i diritti civili.

Oggi nessuno va in giro a fare discorsi illuminanti e a mobilitare larghi strati di popolazione, americani bianchi o neri, per agire sul palcoscenico nazionale.

Privata di una forte leadership nazionale, a volte la comunità nera organizzata è sembrata essersi ritirata nello spazio più sicuro ma più limitato delle chiese, almeno fino alle ultime proteste. Una politica della consolazione rassegnata sembrava aver sostituito la politica dello scontro.

L’identità al centro

Questi cambiamenti non possono essere attribuiti unicamente alla perdita di leader nazionali. Negli ultimi decenni anche il contesto politico globale è stato trasformato. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica 30 anni fa gli Stati Uniti non solo sono diventati l’unica superpotenza al mondo, ma hanno schiacciato lo spazio fisico e ideologico in cui potrebbe prosperare l’opposizione politica.

L’analisi di classe e le ideologie rivoluzionarie – una politica di giustizia – sono state deviate dai loro percorsi e poste sempre più ai margini del mondo accademico.

Invece gli attivisti politici occidentali sono stati incoraggiati a dedicare le loro energie non all’antimperialismo e alla lotta di classe, ma ad una molto più angusta politica identitaria. L’attivismo politico è diventato una competizione tra gruppi sociali per attirare attenzione e privilegi.

Come per l’attivismo solidaristico palestinese, la politica dell’identità negli Stati Uniti ha condotto le sue battaglie sul terreno di una società ossessionata dal consumo. Gli hashtag e le segnalazioni virtuali sui social media sono spesso apparsi come sostitutivi della protesta sociale e dell’attivismo.

Un momento di transizione

La domanda posta dalle attuali proteste statunitensi è se questo tipo di politica timida, individualista e mirata ad acquisire vantaggi non stia iniziando a sembrare inadeguata. I manifestanti statunitensi sono ancora in gran parte privi di leader, la loro lotta rischia di essere atomizzata, le loro richieste sottaciute e in gran parte confuse – è più chiaro ciò che i manifestanti non vogliono rispetto a ciò che vogliono.

Ciò riflette un attuale stato d’animo per cui le sfide che tutti noi affrontiamo, dalla crisi economica permanente e dalla nuova minaccia di pandemie all’incombente catastrofe climatica, sembrano troppo grandi, troppo gravi per dar loro un significato. Sembra che siamo intrappolati in un momento di transizione, destinato [a precorrere] una nuova era, buona o cattiva, che non possiamo ancora definire chiaramente.

Ad agosto, ci si aspetta che milioni di persone si dirigano a Washington in una marcia che ricordi quella guidata da Martin Luther King nel 1963. Il pesante fardello di questo momento storico dovrebbe essere portato sulle anziane spalle del reverendo Al Sharpton [religioso, attivista e politico statunitense, ndtr.].

Quel simbolismo può essere appropriato. Sono trascorsi più di 50 anni da quando gli Stati occidentali sono stati per l’ultima volta coinvolti dal fervore rivoluzionario. Ma la fame di cambiamento, che raggiunse il suo apice nel 1968, per la fine dell’imperialismo, della guerra infinita e della dilagante disuguaglianza, non è mai stata saziata.

Le comunità oppresse in tutto il mondo hanno ancora fame di un mondo più giusto. In Palestina e altrove, coloro che soffrono per la brutalità, la miseria, lo sfruttamento e l’indignazione hanno ancora bisogno di un paladino. Guardano a Minneapolis e alla lotta che ne è scaturita come ad un seme di speranza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica

Jonathan Cook

Jonathan Cook, giornalista britannico che opera a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)