Israele non ha attuato nessuna pulizia etnica nel 1948

Nota redazionale: pur non condividendone affatto i contenuti, e non potendo in questa sede entrare nel merito della sua fondatezza dal punto di vista storico (smentita ad esempio dai lavori di Ilan Pappé), abbiamo deciso di proporre questa risposta di Benny Morris all’articolo di Daniel Blatman su Haaretz.

Pensiamo infatti che i lettori di Zeitun possano essere interessati a seguire il dibattito storiografico innescato in Israele dalle dichiarazioni di Netanyahu in merito alla definizione di “pulizia etnica” nel caso di un ritiro dei coloni dai territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est. Va comunque ricordato quanto lo stesso Morris ha dichiarato al quotidiano Haaretz… “Senza la rimozione dei palestinesi, qui non avrebbe potuto nascere uno Stato ebraico… quel che penso è che questo posto sarebbe stato più tranquillo e avrebbe conosciuto meno sofferenza se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben Gurion avesse compiuto una grande espulsione e ripulito l’intero paese – l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano. Potremmo scoprire che questo fu il suo errore fatale. Se avesse portato a termine un’espulsione completa – invece di una parziale – avrebbe potuto stabilizzare lo Stato d’Israele per molte generazioni.”
E riguardo alle responsabilità di Ben Gurion e dei dirigenti sionisti ha affermato: “Dall’aprile del 1948, Ben Gurion trasmette l’idea del trasferimento. Non ci sono ordini espliciti nei suoi scritti, non c’è una precisa linea politica, ma traspare l’idea del trasferimento [di popolazione]. L’idea del trasferimento è nell’aria. L’intera leadership ha capito che questa era l’idea. Il corpo ufficiali capisce cosa gli viene richiesto. Sotto Ben Gurion, viene creato il consenso al trasferimento….Certo, Ben Gurion era un sostenitore del trasferimento. Aveva capito che non avrebbe potuto esistere uno Stato ebraico con una vasta minoranza araba ostile al suo interno. Non avrebbe mai potuto esistere uno Stato simile. Non sarebbe stato in grado di sopravvivere.”

Vedi: http://www.forumpalestina.org/Doc%20forumpalestina/2004/Febbraio04/27-02-0Nakba_ 1948_ Intervista_di_Benny-Morris.htm

di Benny Morris

Haaretz – 10 ottobre 2016

Il professor Daniel Blatman distorce la storia quando afferma che il nuovo stato di Israele, un paese che affrontava eserciti invasori, ha condotto una politica di espulsione delle popolazioni arabe locali.

In fondo al suo articolo della scorsa settimana, “Netanyahu, ecco che cosa è veramente la pulizia etnica”, il professor Daniel Blatman viene definito uno “storico”. In tal caso, Blatman ha tradito la sua professione attribuendomi posizioni che non ho mai sostenuto e distorcendo gli eventi della guerra del 1948.

Anzitutto nel suo articolo Blatman ignora il fatto fondamentale che sono stati i palestinesi a dare inizio alla guerra, quando hanno respinto il piano di compromesso delle Nazioni Unite ed hanno intrapreso azioni ostili in cui 1800 ebrei sono stati uccisi tra il novembre 1947 e la metà di maggio 1948. (In questo, tra l’altro, c’è differenza tra gli ebrei ed i serbi, che hanno iniziato le guerre in Yugoslavia negli anni 1990 ed hanno effettivamente attuato una pulizia etnica in Bosnia ed altrove).

Riguardo alla seconda fase della guerra del 1948, Blatman sostiene che i paesi arabi hanno invaso il futuro stato di Israele per salvare i loro fratelli palestinesi dalla pulizia etnica che gli ebrei avevano iniziato, e che la maggior parte di essi ha attaccato il nuovo stato di Israele a questo scopo. Nel corso di questa presunta pulizia etnica “più di 400.000” arabi – che secondo Blatman costituivano oltre la metà della popolazione araba palestinese – sono stati espulsi dalle loro case e costretti a fuggire dal 14 maggio (1948). (In realtà, all’epoca vi erano da 1,2 a 1,3 milioni di arabi nel paese.)

Il numero reale di coloro che sono fuggiti e sono stati costretti a fuggire era verosimilmente più basso, ma, cosa ancor più importante, gli stati arabi hanno attaccato lo stato di Israele soprattutto per nuocergli, se non per distruggerlo. Il fatto è che i loro leaders hanno minacciato l’invasione anche prima che fosse approvata la risoluzione dell’ONU il 29 novembre 1947 e prima che anche un solo arabo fosse stato cacciato dalla sua casa. Ed hanno continuato a minacciare un’invasione nei mesi seguenti, fino a maggio 1948.

Non è stata la tragedia palestinese a motivare i paesi arabi durante l’invasione. La verità è che la fuga e l’espulsione degli arabi dalle loro case prima della nascita dello stato di Israele, soprattutto da inizio aprile fino al 14 maggio 1948 [data della proclamazione dello Stato di Israele, ndt.] (è a tale proposito che sono stati sempre citati la presa di Jaffa, Tiberiade e Haifa ed il massacro di Deir Yassin) hanno alimentato l’estremismo tra le popolazioni arabe che circondavano il futuro Israele e sono state una delle ragioni per cui i leaders arabi hanno deciso di procedere all’invasione alla vigilia del 15 maggio.

Ma fattori più importanti hanno influenzato i leaders arabi nella loro decisione: per esempio, re Abdullah di Giordania voleva espandere i confini del proprio paese, il re egiziano intendeva negare a quello giordano ulteriori conquiste territoriali ed i leaders di Siria, Iraq ed Egitto temevano la reazione interna se non avessero effettuato l’invasione. La preoccupazione per il benessere degli arabi nel territorio, non ancora stato, di Israele non era il principale motivo dell’invasione araba.

Attaccare il neonato stato ebraico

Secondo Blatman, io ho sostenuto che “più di sei mesi prima che iniziasse l’invasione araba” i leaders dell’Yishuv, la comunità ebraica nella Terra di Israele, aspiravano ad espandere i confini del paese oltre quelli stabiliti dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU, “e ridurre al minimo il numero” degli arabi che sarebbero rimasti nello stato ebraico.

Questo non ha senso, è una distorsione delle mie parole e della storia. Ovviamente i leaders, nei primi anni di vita di un paese, hanno interesse ad espanderne il territorio, ma c’è una grande differenza tra aspirazioni personali e politiche.

In termini politici, i leaders dell’Yishuv aspiravano ad ingrandire l’area dello stato che stava per nascere solo a partire da marzo-aprile 1948, non fin da novembre 1947. E questo è successo solo dopo quattro mesi di conflitto arabo contro l’Yishuv, che stava impostando una difesa strategica. Ed è successo solo dopo che i leaders arabi dichiararono apertamente, mattina, giorno e notte, che intendevano attaccare lo stato ebraico quando se ne fossero andati i britannici.

Riguardo al fatto di ridurre al minimo il numero di arabi, in nessun momento della guerra del 1948 fu presa una decisione da parte della leadership dell’Yishuv o dello stato di “espellere gli arabi” – né nell’ambito dell’Agenzia Ebraica né del governo di Israele; e neanche all’interno dello stato maggiore dell’Haganah [principale milizia sionista prima della creazione dell’esercito israeliano, ndt] o dell’esercito israeliano. E nessun partito importante nell’Yishuv, neppure i revisionisti [gruppi sionisti della destra nazionalista, ndt.], ha inserito tale politica nel suo programma.

E’ vero che negli anni ’30 ed all’inizio degli anni ’40 David Ben Gurion e Chaim Weizman hanno sostenuto il trasferimento di arabi dall’area del futuro stato ebraico. Ma in seguito hanno appoggiato la decisione dell’ONU, il cui piano prevedeva che più di 400.000 palestinesi rimanessero dove erano [cioè nel territorio dello Stato di Israele, ndt.].

E’ vero altresì che a partire da una certa fase della guerra Ben Gurion ha lasciato intendere ai suoi ufficiali che era preferibile che rimanessero nel nuovo paese meno arabi possibile, ma non diede mai loro l’ordine di “espellere gli arabi”. (Nel luglio 1948 si è espresso addirittura contro l’espulsione degli arabi di Nazareth, mentre ha ordinato a malincuore l’espulsione di quelli di Lod e Ramle.)

La logica del trasferimento che prevalse nel paese a cominciare dall’aprile 1948 non si è mai trasformata in una scelta politica ufficiale – il che spiega perché ci sono stati ufficiali che espulsero gli arabi ed altri che non lo fecero. Né gli uni né gli altri sono stati redarguiti o puniti.

Alla fine, nel 1948 circa 160.000 arabi sono rimasti nel territorio israeliano – un quinto della popolazione. Nel corso dei decenni questo numero è aumentato fino a 1,6 milioni. (In questo mese i loro leaders hanno deciso di non partecipare al funerale di Shimon Peres, che cercò di promuovere un accordo basato sulla soluzione di due stati.)

Nessuna politica di espulsione totale

Se Blatman legge i miei libri, può apprendere che già il 24 marzo 1948 Israel Galili, vice di Ben Gurion nel futuro Ministero della Difesa e capo dell’Haganah, ordinò a tutte le brigate dell’Haganah di non deportare gli arabi dal territorio destinato allo stato ebraico. Le cose cambiarono all’inizio di aprile a causa delle instabili condizioni dell’Yishuv e dell’imminente invasione araba. Ma non vi fu una politica di espulsione totale – in qualche luogo espulsero la popolazione, in altri no, e per la maggior parte gli arabi semplicemente scapparono.

E’ vero che a metà del 1948 il nuovo stato di Israele adottò una politica di divieto del ritorno dei rifugiati – gli stessi rifugiati che mesi e settimane prima avevano cercato di distruggere il nascituro stato. Ma io continuo a ritenere tale politica logica e giusta.

Non accetto la definizione di “pulizia etnica” per ciò che fecero gli ebrei nel futuro stato di Israele nel 1948. (Se prendiamo in considerazione Lod e Ramle, forse possiamo parlare di parziale pulizia etnica). E sicuramente non vi fu una pulizia etnica che fu “una delle più riuscite del XX secolo”, come l’ha definita Blatman. Al contrario.

Alla fine, 160.000 arabi sono rimasti sul territorio israeliano e non tutti quelli che hanno cercato di tornare dai paesi arabi dopo il 1948 sono stati espulsi, come sostiene Blatman. Molti lo sono stati, e a molti che in qualche modo sono ritornati è stato consentito di restare e sono diventati cittadini dello stato ebraico.

Detto per inciso, i paesi arabi hanno attuato una pulizia etnica e scacciato tutti gli ebrei fino all’ultimo dai territori che hanno conquistato nel 1948 – per esempio, i giordani a Gush Etzion e nella città vecchia di Gerusalemme ed i siriani a Masada, Sha’ar Hagolan e Mishmar Hayarden. Gli ebrei, d’altra parte, hanno lasciato rimanere gli arabi ad Haifa e Jaffa e nei villaggi lungo le strade principali del paese – l’autostrada Gerusalemme-Tel Aviv e Tel Aviv-Haifa – un fatto che non corrisponde all’affermazione secondo cui si è trattato di una pulizia etnica “riuscita”.

Riguardo all’attuale preoccupazione su questa questione, è assurdo, per dirla in termini blandi, sostenere che cacciare le comunità ebraiche dalla Cisgiordania sia una “pulizia etnica”, ma c’è una logica nella presenza di ebrei in zone arabe, così come che arabi vivano nello stato ebraico. Nella situazione attuale, l’impresa di colonizzazione in Giudea e Samaria [come i sionisti israeliani definiscono la Cisgiordania occupata, ndt.] costituisce un ostacolo ad una possibile pace tra noi ed i palestinesi. Io mi sono sempre opposto a questa impresa, perché una divisione in due stati per due popoli è la soluzione giusta e logica.

Purtroppo Benjamin Netanyahu ha ragione quando dice che il principale ostacolo alla pace è la mancanza di volontà degli arabi da entrambe le parti della Linea Verde di accettare un compromesso basato su due stati per due popoli, ed il loro rifiuto della legittimazione dell’impresa sionista e dello stato di Israele.

Il professor Benny Morris, storico, è autore di “La nascita della questione dei rifugiati palestinesi rivisitata.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Netanyahu, ecco che cosa è veramente la pulizia etnica

di Daniel Blatman,

Haaretz – 3 ottobre 2016

    1. La pretesa di Benjamin Netanyahu che il trasferimento dei coloni dalla Cisgiordania sarebbe “pulizia etnica” è assolutamente insensata. Se vuole sapere che cosa sia la pulizia etnica, deve tornare al 1948, non al 2005.

L’ultimo colpo da maestro del “nuovo storico” Benjamin Netanyahu continua a raccogliere seguaci.

Il primo ministro ha recentemente dichiarato che l’evacuazione degli insediamenti coloniali nei territori occupati – che sono caratterizzati da segregazione razziale e risultano illegali rispetto a qualunque standard giuridico internazionale – si configurerebbe come pulizia etnica.

L’ultimo della sua lista di accoliti è Moshe Arens [politico del partito di destra Likud, ndt.], che ha scritto: “ La pulizia etnica è la rimozione forzata di gruppi etnici o religiosi da un determinato territorio allo scopo di renderlo omogeneo dal punto di vista etnico o religioso” (“Pulizia etnica degli ebrei da Gaza e altrove”, Haaretz, 19 settembre). Conclude quindi che ogni volta che gli ebrei sono stati evacuati dalle loro case contro la loro volontà – a cominciare dai residenti di Gush Etzion nel 1948 fino ai coloni della Striscia di Gaza nel 2005 – è stata perpetrata una pulizia etnica e le vittime sono stati gli ebrei. Questa è un’assurdità che non trova il minimo riscontro nelle definizioni giuridiche riconosciute.

Il concetto di pulizia etnica è recente, è entrato nel linguaggio pubblico e giuridico nel 1992 durante la guerra in Bosnia. I serbi bosniaci attaccarono i musulmani in Bosnia, con l’obbiettivo di espellerli dal territorio in cui vi era una popolazione mista verso zone a maggioranza omogenea di musulmani bosniaci.

Gli stessi serbi utilizzarono il termine per la prima volta nel 1981, quando i serbi del Kosovo furono attaccati dai musulmani albanesi. Nel lessico internazionale degli anni ’90 il termine veniva identificato con la guerra nella ex Yugoslavia, quando i soldati di gruppi etnici attaccavano altre minoranze (serbi, croati, albanesi, kosovari, musulmani bosniaci) allo scopo di cacciarli con la forza verso differenti zone dove vivevano membri della stessa minoranza: i croati in Croazia, i serbi in Serbia, i kosovari albanesi in Albania, ecc.

A partire da allora, il termine è stato sottoposto ad esame critico da parte di esperti legali e ricercatori, poiché esso viene spesso usato come un eufemismo in casi che in realtà dovrebbero essere catalogati come genocidio.

Il fenomeno della pulizia etnica non è di semplice definizione. Da un lato, è diverso dall’esercitare pressioni per l’emigrazione e il trasferimento di popolazione; d’altro lato, è anche diverso dal genocidio. C’è ampio consenso nel campo della ricerca sul fatto che la pulizia etnica sia una forma di migrazione forzata – che può diventare violenta e spietata – di una popolazione indesiderata da un determinato territorio a causa di odio razziale, etnico, religioso, politico, strategico o ideologico.

E’ esattamente ciò che è successo nel 1948. Lo storico israeliano Benny Morris ha valutato che la maggior parte degli arabi del paese, oltre 400.000, furono incoraggiati ad andarsene o espulsi durante la prima fase della guerra – anche prima dell’attacco degli eserciti delle nazioni arabe. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’aggressione araba ad Israele in realtà iniziò perché Israele aveva adottato una politica di pulizia etnica. Ciò in quanto era difficile trovare una spiegazione alla massiccia evacuazione militare di quasi 500.000 residenti palestinesi ed alla giustificazione della loro espulsione col fatto che le aree in cui vivevano erano da ritenersi appartenenti allo stato ebraico in base al Piano di Ripartizione delle Nazioni Unite.

Morris sostiene che oltre sei mesi prima che iniziasse l’invasione araba la leadership ebraica tentò di espandere il territorio destinato all’insediamento dello stato ebraico e di ridurre al minimo il numero di arabi che avrebbero vissuto sulle sue terre. In altri termini, circa mezzo milione di palestinesi furono scacciati con la forza dal territorio in cui vivevano, in quanto erano una popolazione indesiderata, da un punto di vista etnico, razziale, religioso, di prospettiva strategica, o da tutti quanti questi punti di vista.

Le centinaia di comunità in cui viveva la popolazione araba vennero rase al suolo o cedute ad insediamenti ebraici alla fine della guerra. Le proprietà arabe del valore di decine di milioni di sterline palestinesi (valuta della Palestina durante il mandato britannico, di valore pari alla sterlina inglese, ndtr.) furono rubate e confiscate. Chi tentava di ritornare fu espulso con la forza o ucciso. La pulizia etnica applicata in Palestina nel 1948 fu una delle più riuscite del XX secolo.

Il metodo di pulizia etnica nei confronti dei palestinesi vale anche per la popolazione ebrea che viveva negli insediamenti di Gush Etzion. Ma occorre ricordare che vi erano là solo quattro comunità e poche centinaia di ebrei. Ci sono altre differenze fondamentali tra la pulizia etnica adottata contro i palestinesi e quella adottata a Gush Etzion e Gush Katif, differenze che coloro che approvano l’interpretazione di Netanyahu ignorano.

Nel 1992 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite insediò una commissione di esperti il cui compito era proporre una definizione condivisa di pulizia etnica e fornire al sistema giuridico internazionale degli strumenti per definire il crimine e punire i responsabili.

In una nota, la commissione descrisse la pulizia etnica come “intesa ad ottenere la distruzione fisica di un gruppo, interamente o in parte” . E, in seguito, come l’evacuazione di popolazione da un’area ad un’altra in “circostanze tali da condurre alla morte dell’intera popolazione evacuata, o di parte di essa – se, per esempio, le persone fossero trascinate fuori dalle loro case e costrette a percorrere lunghe distanze in un paese in cui sono esposte alla fame, alla sete, al caldo, al freddo e alle epidemie. “

Lo scopo di questa formulazione era analizzare i punti in cui pulizia etnica e genocidio coincidono, e in quali condizioni la pulizia etnica si trasforma nel crimine di genocidio. Ma se consideriamo ciò che la commissione di esperti ha stabilito, possiamo vedere che sostenere che l’evacuazione degli ebrei dalle comunità individuate dal governo sia pulizia etnica è totalmente privo di senso.

Anzitutto perché sappiamo bene che un paese non può attuare una pulizia etnica su una popolazione che appartiene allo stesso gruppo etnico. Può perpetrare un genocidio (come fecero i Kmer rossi in Cambogia), ma l’evacuazione di una popolazione di uno specifico gruppo etnico e il suo re- insediamento all’interno di una popolazione dello stesso gruppo non configura pulizia etnica. E’ ciò che il governo ha deciso di fare riguardo agli sfollati da Gush Katif nel 2005 e a quelli dell’insediamento di Yamit nel Sinai nel 1982.

In secondo luogo, non c’è nulla di più lontano dalla verità che descrivere le persone sfollate da Yamit o dalla regione di Gaza nei termini di una miserabile popolazione sradicata dalle proprie case e lasciata alla fame, alla sete ed esposta a rischio per la propria esistenza.

Israele si impegnò a prendersi cura delle famiglie sfollate e stanziò a tal fine somme enormi. Se i coloni saranno evacuati in futuro dai territori occupati, il governo garantirà loro nuovamente una rete di sicurezza, che gli consentirà di ricominciare adeguatamente la loro vita in Israele.

Sono i palestinesi quelli che, a partire dalla pulizia etnica di cui sono state vittime nel 1948 fino ad oggi, sono rimasti esposti alla fame, alla deprivazione, alla violenza e ad ulteriori espulsioni dalle proprie case. E sono quelli che vivono in povertà nell’enorme ghetto di Gaza e nei campi profughi della Cisgiordania. Tutte le interpretazioni surrettizie di Netanyahu e dei suoi sostenitori non potranno nascondere nulla di tutto ciò.

L’autore è uno storico dell’Olocausto e capo dell’Istituto per il popolo ebraico contemporaneo all’Università ebraica di Gerusalemme.

Traduzione di Cristiana Cavagna