Un rapporto rivela che i soldati israeliani commettono sistematicamente violenze sui palestinesi a Hebron

Oren Ziv

9 dicembre 2024 – +972magazine

Frustati con una cintura, colpiti all’inguine, minacciati di stupro: i palestinesi riferiscono uno schema ricorrente di attacchi arbitrari nella città della Cisgiordania quest’anno.

Arresti casuali, violenza e umiliazione da parte di soldati israeliani senza motivo: questa negli ultimi mesi è la vita quotidiana dei palestinesi nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, secondo le testimonianze raccolte dall’organizzazione per i diritti umani B’Tselem e pubblicate la scorsa settimana in un nuovo rapporto.

Mentre la maggior parte della resistenza armata in Cisgiordania è concentrata nelle città settentrionali di Jenin, Tulkarem e Nablus, i soldati israeliani sembrano aver deciso che, dopo il 7 ottobre, tutti i palestinesi siano sostenitori di Hamas, e nessuno innocente.

“Sembra che i palestinesi residenti a Hebron possano in ogni momento essere fatti vittime di violenze brutali, inflitte loro mentre sbrigano le loro faccende quotidiane”, spiega il rapporto. “Queste vittime sono state scelte casualmente, senza alcun rapporto con le loro azioni”.

Nessuno dei 25 palestinesi che hanno rilasciato la propria testimonianza a B’Tselem aveva preso parte ad azioni violente, né si era unito a proteste non-violente. Soltanto due tra di loro erano stati effettivamente arrestati e portati via, in strutture militari, ed entrambi sono stati in seguito rilasciati senza che alcuna accusa venisse formulata. Gli altri 23 sono stati liberati dopo che le violenze sono terminate.

In diversi casi i soldati hanno ispezionato i cellulari dei palestinesi alla ricerca di “prove” del loro sostegno ad Hamas: “Un’immagine ‘sospetta’ o segni di aver seguito aggiornamenti su Gaza … sono stati sufficienti a giustificare il trasferimento a una delle postazioni militari disseminate in tutta Hebron e ore di violenze fisiche e mentali, sotto la minaccia delle armi, ammanettati e bendati” osserva il rapporto.

Con più di 200.000 residenti, Hebron è la città palestinese più popolosa in Cisgiordania nonché l’unica che ospita al suo interno coloni israeliani: circa 900 coloni vivono sotto la protezione di circa 1.000 soldati israeliani.

L’incremento nelle vessazioni e violenze contro i palestinesi a Hebron non è un fenomeno isolato. Dal 7 ottobre in Cisgiordania l’esercito israeliano ha ucciso più di 730 palestinesi, in parte a causa del significativo ricorso alle forze aeree nella zona per la prima volta dalla fine della Seconda Intifada, circa 20 anni fa. Contemporaneamente i coloni israeliani con l’aiuto dell’esercito hanno sottoposto a pulizia etnica più di 50 comunità rurali palestinesi.

I fatti oggetto dell’indagine dei ricercatori di B’Tselem hanno avuto luogo nella zona centrale di Hebron tra maggio e agosto di quest’anno. Quasi tutte le vittime sono giovani uomini. Il gran numero di testimonianze, la presenza di diversi soldati nella maggior parte degli episodi e il fatto che essi abbiano a volte avuto luogo all’interno di strutture militari sono tutti fattori che suggeriscono che gli arresti casuali e la violenza possano essere la politica non ufficiale dell’esercito nella città.

Il soldato ha chiesto se mi piacesse Hamas e poi mi ha colpito ai testicoli’

Hisham Abu Is’ifan, 54 anni, sei figli, residente nel quartiere Wadi Al-Hassin di Hebron, stava andando a svolgere il suo lavoro di impiegato presso il Ministero dell’Istruzione quando è stato fermato e attaccato dai soldati il 12 giugno.

“[Un soldato] si è avvicinato e mi ha spinto, poi mi ha ordinato di dargli la mia carta d’identità e il telefono”, testimonia Abu Is’ifan a B’Tselem. “Prima che potessi dargli il telefono, mi ha afferrato per la nuca e mi ha spinto a terra. La schiena mi faceva molto male e ho urlato… Poiché continuavo a urlare per il dolore, il soldato si è seduto su di me schiacciandomi il petto con le ginocchia fino a quando ho sentito di non poter più respirare per il dolore”.

Yasser Abu Markhiyeh, 52 anni, 4 figli, residente nel quartiere di Tel Rumeida, è stato sottoposto a violenze a un posto di blocco a Hebron il 14 di luglio a causa di ciò che i soldati hanno trovato sul suo cellulare. “Quando l’ho raggiunto, [il soldato] mi ha ordinato di dargli la mia carta d’identità”, racconta. “L’ho fatto, e lui mi ha detto di sbloccare il telefono e darglielo. L’ho sentito parlare con qualcuno via radio e fare il mio nome.

Dopo circa cinque minuti, quattro soldati sono arrivati al posto di blocco”, continua Abu Markhiyeh. “Uno di loro mi ha parlato in arabo e mi ha accusato di aver contattato Al Jazeera e calunniato l’esercito israeliano. Gli ho risposto che tre settimane prima io avevo in effetti riferito ad Al Jazeera di essere stato attaccato dai soldati il 22 di giugno… Allora mi ha legato le mani dietro la schiena con fascette serracavi, stringendole molto. Due soldati mi hanno assalito e hanno cominciato a picchiarmi, anche ai testicoli, per diversi minuti”.

Mahmoud ‘Alaa Ghanem, un diciottenne che vive nella città di Dura, nel distretto di Hebron è stato attaccato dai soldati a Hebron l’8 luglio. Come per Abu Markhiyeh, anche il suo cellulare è stato ispezionato dai soldati. Quando hanno aperto l’account Instagram di Ghanem hanno trovato un meme raffigurante un soldato israeliano intento a salvare bambini il 7 ottobre con la scritta “Photoshop”, una derisione dell’evidente incapacità dell’esercito di contrastare l’attacco di Hamas quel giorno.

“Mi ha chiesto di quell’immagine, e io ho detto che era solo un’immagine”, riferisce Ghanem a B’Tselem. “Ha detto ‘Te lo diamo noi Photoshop’”.

Dopo alcuni minuti, Ghanem è stato messo sul pavimento di una jeep e portato via. “Uno dei soldati mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto la faccia contro il portellone posteriore, tre volte di fila”, dice. “Ho sentito che la mia bocca e il mio naso sanguinavano. Il soldato mi ha chiesto, ‘Ti piace Hamas?’ Ho detto di no e lui mi ha afferrato per il braccio, me l’ha girato attorno al collo e mi ha strangolato… Due soldati hanno cominciato a schiaffeggiarmi e chiedermi di nuovo ‘Ti piace Hamas?’ Ho di nuovo detto di no, e poi uno di loro mi ha colpito con forza ai testicoli. Ho urlato per il dolore, e poi lui mi ha colpito di nuovo nello stesso punto, più forte. Li ho supplicati in nome di Dio di smettere di colpirmi”.

Ci hanno frustati con una cintura su tutto il corpo’

Alcune delle testimonianze descrivono violenze fisiche che vanno al di là dei pestaggi. “Uno dei soldati è venuto da me e ha messo la sua sigaretta sulla mia gamba destra”, riferisce a B’Tselem Muhammad A-Natsheh, ventiduenne di Tel Rumeida che è stato fermato il 14 luglio. “L’ha spenta lentamente, in modo che facesse più male. Uno di loro ha chiesto: ‘Fa male?’ Quando ho detto di sì, mi ha dato un pugno alla nuca, è salito in piedi sulle mie gambe e le ha schiacciate con forza”.

Continua A-Natsheh: “Uno di loro ha preso una sedia da ufficio e l’ha messa sulle mie gambe. Di quando in quando ci si sedeva, cosa molto dolorosa. Hanno continuato a insultarmi per tutto il tempo, uno di loro mi ha anche sputato addosso. É continuato per circa un’ora, poi uno dei soldati mi ha detto in arabo: ‘Ti stupreremo’. Uno di loro mi ha afferrato la testa e un altro soldato cercava di farmi aprire la bocca e spingervi dentro un oggetto di gomma, ce l’ho messa tutta per non aprire la bocca. Ho sentito uno di loro che diceva in ebraico: ‘Filmalo, filmalo’”.

“Poi è arrivato un soldato che parlava arabo”, ricorda. “È venuto da me e mi ha ordinato di alzarmi in piedi, ma non ci riuscivo. Mi ha preso per il collo, mi ha sollevato e mi ha fatto stare in piedi faccia al muro, e poi con le mani ha cominciato a spingermi la testa a destra e a sinistra con violenza, dicendo ‘Se ti vedo di nuovo in questo posto ti violento e ti uccido. Farò lo stesso a chiunque io veda qui’.

Il fenomeno dei soldati che registrano le violenze con i propri telefoni per poi condividerli è stato riferito da diverse testimonianze. “I soldati hanno portato del ghiaccio e me l’hanno messo nelle mutande”, racconta a B’Tselem Qutaybah Abu Ramileh, venticinquenne del quartiere di Al-Salayma, fermato l’8 luglio insieme al fratello Yazan, 22 anni. “Dopo, mio fratello Yazan mi ha detto che hanno fatto lo stesso a lui. Hanno anche versato qualche alcolico sui nostri vestiti. Ho sentito un soldato parlare a una ragazza al telefono. Credo fosse una videochiamata. Ridevano e si prendevano gioco di noi”.

“Uno dei soldati ci ha presi a calci in testa e in faccia mentre malediceva noi e le nostre madri”, ha continuato. “Poi all’improvviso ho sentito provenire dall’alto il suono di una cintura in cuoio, e uno di loro ha cominciato a frustarci con la cintura sulle nostre teste e su tutto il corpo… I soldati hanno calpestato i nostri piedi (nudi). Le frustate con la cintura sono continuate per almeno tre minuti, poi i soldati hanno portato un secchio e me lo hanno messo in testa. Più tardi ho capito che ne avevano messo uno anche a Yazan. Hanno cominciato a giocare con una palla o qualcosa di simile, e la tiravano contro il secchio sulla mia testa. Quando la palla colpiva il secchio faceva male. Era difficile respirare e mi sembrava di soffocare”.

Come in diversi video usciti da Gaza negli ultimi mesi, la violenza sui palestinesi da parte dei soldati a Hebron è spesso accompagnata dall’ingiunzione ai trattenuti di condannare Hamas. Mu’tasem Da’an, giornalista, 46 anni, 8 figli, del quartiere di Wadi A-Nasara, è stato fermato il 28 luglio e gli è stato ordinato di sbloccare il telefono.

“Hanno cercato un po’ e hanno trovato contenuti relativi alla guerra a Gaza”, ha raccontato. “I soldati mi hanno bendato e mi hanno portato a piedi per circa 250 metri alla base militare vicino al cancello meridionale della colonia di Kiryat Arba… Hanno cantato canzoni in ebraico che parlano di vendetta contro Hamas, elogiano Israele e inneggiano all’uccisione di donne e bambini. Ci hanno fatto ripetere le parole e maledire i palestinesi. Capisco l’ebraico molto bene”.

Anche se la maggior parte delle vittime sono uomini, tra coloro che hanno rilasciato a B’Tselem la propria testimonianza ci sono anche alcune donne. ‘Abir Id’es-Jaber, 33 anni, 4 figli, del quartiere di Al-Manshar, è stata attaccata insieme a suo marito il 21 agosto, mentre erano nella loro auto.

“I soldati ci hanno ordinato di andarcene”, ha detto. “Mio marito ha fatto manovra, e i soldati ci stavano ancora circondando. Uno di loro mi ha guardata e mi ha fatto l’occhiolino. Mi ha fatto un sorriso beffardo e poi l’ho visto togliere la sicura a una granata stordente e gettarla tra le mie gambe. Ho spinto via la granata ed è caduta sotto il sedile. Ho gridato ‘Granata! Granata!’ e mi sono riparata dall’altra parte. (Mio marito) si era voltato verso di me quando ho gridato, quindi la granata gli è scoppiata sotto al viso. È svenuto. Grazie a Dio, l’auto si è fermata da sola”.

In risposta alla richiesta di commento da parte di +972, un portavoce dell’esercito israeliano ha dichiarato di non essere a conoscenza di nessuno dei casi riportati eccetto quello riguardante Abu Markhiyeh. “L’esercito tratta i trattenuti in conformità con il diritto internazionale e agisce per investigare e gestire episodi eccezionali che esulano dagli ordini”, recita la dichiarazione. “Nei casi in cui ci sia il sospetto di un reato penale che giustifica l’apertura di un’inchiesta, viene lanciata un’indagine penale militare e alla sua conclusione le risultanze sono sottoposte all’esame della Procura Generale militare”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Il vero motivo per cui un ex capo dell’esercito israeliano denuncia la pulizia etnica a Gaza

Meron Rapoport

5 dicembre 2024 – +972 magazine

Poco preoccupato del dramma dei palestinesi, Moshe Ya’alon teme l’impatto della rivoluzione antidemocratica di Netanyahu sulle istituzioni militari.

Domenica primo dicembre l’emittente israeliana Channel 12 ha trasmesso un’intervista con Moshe “Bogie” Ya’alon, ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano e poi ministro della Difesa. In uno scambio illuminante Ya’alon ha insistito nel definire “pulizia etnica” le azioni di Israele a Gaza, sostenendo che i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia sono totalmente giustificati e ha affermato che lui stesso “da lungo tempo” li avrebbe emessi contro il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir e forse persino contro il primo ministro Benjamin Netanyahu. 

Per l’intervistatore Yaron Abraham ciò è stato totalmente inaspettato: sembrava prendere sul personale che Ya’alon non avesse intenzione di ripetere il solito mantra israeliano secondo cui “le FDI sono l’esercito più morale del mondo.”

Non c’è dubbio che tali affermazioni abbiano un peso particolare arrivando da chi continua a identificarsi come di destra, che una volta ha infangato i membri dell’ong di sinistra Breaking the Silence chiamandoli “traditori” e che, quando era a capo del Direttorato dell’Intelligence militare, ha sostenuto la tesi che si dovesse addossare la colpa della Seconda Intifada al leader dell’OLP Yasser Arafat. Dissentire da Ya’alon sul fatto che Israele stia attuando una pulizia etnica nella Striscia di Gaza, un atto che chiaramente costituisce un crimine di guerra, richiede una combinazione unica di sfrontatezza e audacia.

Di primo acchito uno potrebbe pensare che Ya’alon stia criticando la pulizia etnica perché la considera un’ingiustizia morale, tuttavia il vero motivo dietro le sue affermazioni sembra emergere verso la fine dell’intervista. 

[Israele] non è più definito una democrazia, né il suo sistema giudiziario è indipendente,” ha detto. “Stiamo passando da uno Stato ebraico liberale, democratico, nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza, a una dittatura messianica, razzista, corrotta e malata. Dimostratemi che ho torto.” In altre parole Ya’alon non è preoccupato per i palestinesi, costretti dall’esercito israeliano a lasciare le proprie case in massa, ma per il futuro di Israele quale Stato “ebraico e democratico”.

Tali affermazioni sono particolarmente interessanti perché Ya’alon è stato una delle figure prominenti del movimento di protesta contro l’attacco al sistema giudiziario di Netanyahu in cui il “blocco anti-occupazione” non è riuscito a convincere i leader del movimento che non poteva esserci una vera democrazia finché fosse durata l’occupazione. Quello che Ya’alon sta effettivamente dicendo ora è: senza democrazia ci sarà una pulizia etnica? La sua conclusione quindi è: c’è un legame diretto fra la riforma del sistema giudiziario, lo smantellamento delle istituzioni democratiche dello Stato “ebraico e democratico” che gli è caro e la pulizia etnica e i crimini di guerra che Israele sta commettendo a Gaza?

 

Ciò che rafforza questo collegamento è il fatto che la pulizia etnica che si sta attuando a Gaza va di pari passo con l’intensificarsi da parte del governo di estrema destra della sua crociata contro le libertà civili e le istituzioni dello Stato. Alla fine di novembre la Knesset ha presentato una legge che faciliterà significativamente l’esclusione di candidati e liste dalla corsa in parlamento a causa del “sostegno al terrorismo”; tale legge mira chiaramente ad eliminare dalla Knesset i partiti palestinesi, privando quindi di significato le elezioni stesse e in pratica eliminando per sempre la possibilità che la destra perda. 

Anche i media sono sotto attacco: il governo sta presentando delle leggi per chiudere le emittenti radiotelevisive pubbliche e boicottando il quotidiano Haaretz per “i numerosi articoli che hanno danneggiato la legittimità di Israele nel mondo e il suo diritto all’autodifesa,” nelle parole del ministro delle Comunicazioni Shlomo Karh.

Ironicamente un altro bersaglio importante dell’attacco è proprio il sistema da cui proviene Ya’alon: le alte sfere della difesa. Nel video di nove minuti seguito all’arresto di Eli Feldstein, collaboratore e portavoce di Netanyahu sospettato di una fuga di documenti militari classificati per influenzare l’opinione pubblica israeliana, il primo ministro dipinge l’esercito, lo Shin Bet, la polizia e in misura minore il Mossad, come un altro “fronte” che egli è costretto a superare.

Su Channel 14, la principale rete di propaganda a favore di Netanyahu, varie agenzie di sicurezza sono incolpate non solo dei fallimenti del 7 ottobre, ma sono anche dipinte come responsabili di minare sistematicamente il raggiungimento della “vittoria totale” a Gaza. Questo attacco va oltre la retorica: misure come la “legge Feldstein” che darebbe l’immunità a chi passasse documenti classificati dall’esercito al primo ministro e la legge per trasferire il controllo dell’intelligence dall’esercito all’Ufficio del Primo ministro, entrambe passate in prima lettura alla Knesset, mirano a creare un apparato personale di intelligence per il Primo ministro che aggirerebbe esercito e Shin Bet. 

Lo smantellamento dell’establishment della difesa sta diventando una realtà tangibile.

Una guerra sempre più impopolare

Come in tutti i regimi populisti queste azioni sono giustificate quali passi necessari per mettere in pratica il mandato presumibilmente dato a Netanyahu e al suo governo dal “popolo,” mentre i suoi oppositori nell’esercito, nello Shin Bet, fra i pubblici ministeri o nei media sono descritti come un’élite che cerca di mantenere il proprio potere in modo non democratico contro il volere del popolo. Con un’assurda inversione delle parti la minoranza palestinese è descritta come se stesse dalla parte delle élite che sarebbero interessate ai diritti dei palestinesi a spese dei diritti del “popolo ebraico.”

È interessante che i commenti di Ya’alon sulla guerra a Gaza siano sempre più allineati con l’opinione dell’opinione pubblica in Israele, dove i sondaggi indicano che ora il governo rappresenta solo una piccola minoranza. Un sondaggio di Channel 12 pubblicato lo scorso weekend ha rilevato che il 71% del pubblico sostiene un accordo per gli ostaggi e la fine della guerra a Gaza, mentre solo il 15% è a favore della sua continuazione.

La decisione di mandare soldati in una guerra in cui potrebbero perdere la vita, specialmente quando prestano servizio in un esercito di leva, sta al centro del contratto sociale fra un governo e i suoi cittadini: il governo dovrebbe garantire ai cittadini il benessere, proteggere i loro diritti e difenderli; in cambio da loro ci si aspetta che rischino volontariamente le proprie vite per lo Stato. Perciò prima di andare in guerra ci si aspetta che un governo democratico si garantisca un ampio consenso.

Dopo il 7 ottobre c’è stato un consenso schiacciante a favore della guerra a Gaza. Similmente l’azione militare in Libano ha incontrato poca opposizione presso gli israeliani. Ma ora, dopo 14 mesi di guerra, con l’ottenimento di un cessate il fuoco al nord, gli ostaggi che muoiono uno dopo l’altro e i soldati che continuano a perdere la vita nonostante in teoria Hamas sia stato pressoché “eliminato”, i sondaggi mostrano che la maggioranza degli israeliani crede che la guerra a Gaza continui solo per gli interessi di Netanyahu e del suo governo.

Il piano palese della destra messianica è incentrato sul ritorno delle colonie come obiettivo ultimo della guerra. Ciò non fa altro che approfondire il divario, poiché c’è una grossa differenza fra morire in guerra contro Hamas, che ha attuato il massacro del 7 ottobre, e morire in una guerra che mira a ristabilire il blocco di colonie di Gush Katif smantellato dal “disimpegno” del 2005. Il fatto che personaggi come il ministro per gli Alloggi Yitzhak Goldknopf, leader ultraortodosso che non manda i propri figli a combattere nelle guerre di Israele, sventoli mappe di colonie insieme all’attivista per le colonie di estrema destra Daniella Weiss non fa che aggravare la crescente illegittimità della guerra agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica.

Questo crescente “deficit democratico” fra la gente e il governo può spiegare il rinnovato attacco di quest’ultimo alla democrazia e alle istituzioni statali. È come se il governo improvvisamente si rendesse conto che condurre una guerra impopolare sia difficile in una società dove l’esercito conta sulla leva obbligatoria e sui riservisti e così decidesse di smantellare ciò che rimane della democrazia.

E quindi perché non spogliare di ogni significato le elezioni escludendo dall’arena politica la minoranza palestinese? Perché non schiacciare i media e coltivare fedeli emittenti di propaganda come Channel 14 per eliminare totalmente dal dibattito ogni critica della popolazione alla guerra? Come ogni regime totalitario il governo di Netanyahu capisce l’assoluto bisogno di avere il monopolio sulla diffusione dell’informazione.

Tali azioni mirano a concedere a Netanyahu e al suo governo un controllo diretto sugli apparati militari e della sicurezza che fanno parte della stessa dinamica. Ronen Bar, a capo dello Shin Bet, è tenuto d’occhio, come lo sono i leader militari al vertice. Il governo sembra credere che ottenendo il controllo diretto sugli strumenti della forza si possa continuare la guerra a Gaza, attuare la pulizia etnica e i reinsediamenti con il sostegno anche solo del 30% dei cittadini.

Consciamente o no, Ya’alon si è schierato fermamente proprio contro questa decisione: lo smantellamento della democrazia per permettere a Smotrich e Ben Gvir di di ottenere quello che loro chiamano lo “sfoltimento” della popolazione palestinese a Gaza. E si può credere a Ben Gvir quando dice che Netanyahu, che in passato era stato più cauto su tali palesi crimini di guerra, ora sta “mostrando una certa apertura” verso l’idea di incoraggiare i palestinesi a “emigrare volontariamente.” 

Non c’è bisogno di dipingere Ya’alon come il paladino di democrazia e moralità o come un difensore dei diritti dei palestinesi. Infatti possiamo inquadrarlo per le sue recenti dichiarazioni nel contesto della sua leadership militare. Come ha argomentato il sociologo israeliano Lev Grinberg, i militari dipendono da una chiara divisione tra la “democrazia israeliana” entro la Linea Verde e l’occupazione al di là da essa. L’attacco di Netanyahu contro le istituzioni democratiche offusca questo confine e così facendo mina la legittimità dell’esercito a continuare la sua sfacciata e non democratica soppressione dei palestinesi.

Una completa rioccupazione militare di Gaza, la pulizia etnica dei palestinesi e il reinsediamento delle colonie cancellano totalmente questo confine ed ecco perché Ya’alon si oppone a queste manovre. Egli non affronta il collegamento diretto tra la pulizia etnica del 1948 e quella del 2024 e ci sono dubbi che lo farà mai in un futuro immediato. Tuttavia per un ex ministro della difesa ed ex capo di stato maggiore diventare un deciso oppositore non solo della rivoluzione antidemocratica di Netanyahu, ma anche della pulizia etnica dell’esercito a Gaza, è un progresso interessante.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tutta la storia delle ingiustizie del sionismo in un solo villaggio beduino

Orly Noy

20 novembre 2024 – +972 Magazine

In collaborazione con LOCAL CALL

La distruzione di Umm Al-Hiran esemplifica la visione sionista dei palestinesi come transitori; pedine di scacchi movibili in un gioco di ingegneria demografica.

La settimana scorsa lo Stato di Israele ha appeso alla sua cintura lo scalpo di un’altra comunità palestinese portando a termine la demolizione di Umm Al-Hiran. La mattina del 14 novembre centinaia di poliziotti hanno preso d’assalto il villaggio beduino – situato nel deserto del Negev/Naqab nel sud di Israele – accompagnati da ufficiali delle forze speciali ed elicotteri. Gli abitanti, cittadini israeliani che hanno a lungo temuto che ciò accadesse, avevano già distrutto essi stessi la maggior parte delle strutture nel villaggio, per evitare di dover pagare multe salate. Ciò che è rimasto da distruggere alla polizia era la moschea.

E così 25 anni di battaglie legali per salvare il villaggio sono finite e gli abitanti sono rimasti senza casa. Se si vuole capire l’intera storia delle ingiustizie del sionismo contro i palestinesi – con tutte le discriminazioni, il razzismo, le espropriazioni e la violenza radicate in una visione di supremazia ebraica e in una concomitante ossessione per la questione demografica – non c’è bisogno di guardare più in là di Umm Al-Hiran.

Nel discorso ebreo-israeliano la distruzione di una comunità beduina a malapena fa alzare un sopracciglio, non parliamo di meritare titoli di giornali. Dopotutto era un “villaggio non riconosciuto” – un espediente linguistico che Israele utilizza per dipingere i cittadini beduini come invasori nelle loro stesse terre. Il pubblico israeliano percepisce la distruzione sistematica di queste comunità come una mera repressione di trasgressori. Ma gli abitanti di Umm Al-Hiran non solo non erano invasori, ma sono stati trasferiti là dallo Stato stesso.

Prima della nascita di Israele gli abitanti della comunità diventata Umm Al-Hiran vivevano nel nordovest del Negev. Nel 1952 il governo militare di Israele li trasferì con la forza più ad est, per espropriare la loro terra per la costruzione del Kibbutz Shoyal. Quattro anni dopo lo Stato decise di sradicarli nuovamente, spingendoli in una zona appena all’interno della Linea Verde, vicina all’estremità sudoccidentale della Cisgiordania, dove sono rimasti fino alla settimana scorsa.

In tutti questi decenni lo Stato non si è preoccupato di regolarizzare lo status del villaggio. Non ha fornito agli abitanti infrastrutture o servizi basilari come elettricità, acqua, educazione o impianti igienici. Questa è l’indecente immoralità del sionismo: privare gli abitanti palestinesi del Negev delle più elementari condizioni di vita per generazioni, per rimpiazzarli un giorno con una comunità ebraica in nome del “far fiorire il deserto”.

Il Negev costituisce più della metà del territorio dello Stato di Israele e vaste aree di esso sono vuote. Eppure lo Stato insiste nel distruggere villaggi arabi “non riconosciuti” per costruirne di nuovi ebraici. Nel caso di Umm Al-Hiran la nuova comunità originariamente doveva recare la versione ebraicizzata del nome del villaggio che stava rimpiazzando: Hiran. Qualcuno ha pensato di meglio e adesso verrà chiamata Dror – “libertà”.

Ovviamente non è una novità. Israele ha distrutto le comunità palestinesi e ha insediato ebrei al loro posto fin dalla sua fondazione. Solo nel corso della Nakba del 1948 ha spopolato centinaia di città e villaggi palestinesi. Ma la storia di Umm Al- Hiran presenta un altro aspetto dell’atteggiamento di Israele verso i palestinesi, che è essenziale per comprendere il modus operandi del sionismo: la percezione della presenza dei palestinesi come provvisoria.

Questa è una delle più violente espressioni della supremazia ebraica. I palestinesi sono visti come polvere umana che può essere semplicemente spazzata via, o come pedine di scacchi che possono essere spostate da un quadrato all’altro secondo l’eterno progetto di Israele di ingegneria demografica tra il fiume e il mare. E’ un aspetto essenziale della disumanizzazione di coloro sulle cui terre lo Stato ha posto le mire: la convinzione profonda che queste persone non abbiano radici e perciò spostarle da una parte all’altra non possa assolutamente essere considerato una rimozione.

In tal modo è possibile continuare ad ignorare le rivendicazioni degli abitanti dei villaggi della Galilea Iqrit e Bir’em, dopo più di mezzo secolo da quando l’Alta Corte ha sentenziato che deve essere loro permesso ritornare alle loro terre da cui furono espulsi durante la Nakba; è possibile condurre una vasta pulizia etnica in Cisgiordania col pretesto della sicurezza e della legalità; è possibile ordinare a centinaia di migliaia di abitanti di Gaza di evacuare ancora e ancora e ancora, trasformandoli in eterni nomadi come progettato dal sionismo – e, in cima a tutto ciò, considerare questo un atto umanitario.

L’ingegneria demografica del sionismo non si limita ai palestinesi. La storia di Givat Amal, un quartiere mizrahi (ebrei orientali, provenienti da Medio Oriente e Maghreb, ndtr.) di Tel Aviv che è stato sgomberato con la forza e demolito nel 2021, presenta molti parallelismi con la storia di Umm Al-Hiran: anche là lo Stato ha costretto una comunità emarginata a spostarsi in una zona di frontiera, non ha mai regolarizzato il suo status o i diritti alla terra e appena il valore del terreno è aumentato ha espulso gli abitanti per avidità. Intanto i “comitati di ammissione” approvati dallo Stato continuano a sostenere l’apartheid in centinaia di comunità ebree nel Negev e in Galilea, garantendo che le “persone giuste” vivano nei posti giusti.

Ma sono stati i palestinesi ad essere trasformati dal sionismo in un popolo precario con un’identità transitoria. E’ questo l’assunto che sta alla base del piano di scambio di terre sostenuto dieci anni fa da Avigdor Liberman, che contemplerebbe il trasferimento di parecchie comunità palestinesi all’interno di Israele in Cisgiordania insieme all’annessione da parte di Israele di alcuni insediamenti coloniali: oggi i palestinesi possono essere cittadini di Israele, ma domani, muovendo un dito, possono smettere di esserlo. (Liberman, un tempo considerato all’estrema destra della politica israeliana, è recentemente diventato una specie di eroe del centro-sinistra).

Forse ciò su cui poggia questa determinazione sionista di strappare i palestinesi dai loro luoghi è una paura interiorizzata del loro legame profondo con la terra. Forse è l’illusione che se vengono sradicati e scacciati da un posto all’altro un numero sufficiente di volte – vuoi con le marce della morte a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania, o la distruzione e l’espulsione nel Negev – alla fine si arrenderanno e se ne andranno.

Otto anni fa il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid ha scritto un tributo al movimento Hashomer Hachadash, in cui ha detto che “un uomo che pianta un albero non andrà da nessuna parte”. C’è qualcosa di notevole nei modi in cui a volte il subconscio fuoriesce dalla penna, a dispetto della persona che la impugna. Dopotutto lo Stato sa esattamente chi ha piantato gli ulivi che l’esercito bombarda a Gaza e i coloni bruciano in Cisgiordania. Ma anche dopo decenni di distruzioni, espulsioni e carneficine il sionismo rifiuta di accettare che non se ne andranno da nessuna parte.

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa Farsi. E’ capo del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti si occupano delle linee di intersezione e definizione della sua identità come mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive entro un’incessante migrazione, e il costante dialogo tra di esse.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Perché i democratici sono i collaboratori perfetti di Israele nel genocidio

Tariq Kenney-Shawa

29 ottobre 2024 – +972 Magazine

Occultando l’appoggio a Israele con vuoti gesti umanitari ed empatia verso i palestinesi Biden e Harris hanno indebolito la pressione per porre fine alla guerra

Nell’ultimo anno abbiamo assistito al fatto che il presidente Joe Biden ha elevato il “rapporto speciale” tra USA e Israele a nuovi livelli. Da rifornire le scorte di armi di Israele e difenderlo dal dover pagare le conseguenze delle sue azioni a livello internazionale a schierare risorse e personale statunitensi a difesa di Israele, l’amministrazione Biden ha fatto di tutto e di più per garantire che Israele non solo potesse sostenere il suo attacco senza precedenti contro Gaza, ma che non dovesse accollarsi l’intero costo della guerra.

Biden ha iniziato la sua campagna per la rielezione competendo con Donald Trump per il titolo di “miglior amico di Israele”, una corsa grottesca verso il basso che è diventata una tradizione durante il periodo elettorale statunitense. Così quando il presidente alla fine ha deciso di rinunciare, alcuni erano speranzosi che la vicepresidente Kamala Harris ci avrebbe liberati da questa spirale verso il basso. Sono rimasti presto delusi.

I mezzi di comunicazione hanno insistito con entusiasmo sul fatto che Harris sembrava dimostrare “una maggiore comprensione ed empatia verso i palestinesi,” e hanno ipotizzato che questa differenza potrebbe portare in prospettiva a un cambiamento di politica. Ma nei mesi successivi alla sua designazione alla testa della candidatura democratica Harris ha messo in chiaro di essere pronta e desiderosa di continuare con la disastrosa eredità di Biden per i prossimi 4 anni.

E mentre la stragrande maggioranza degli israeliani preferisce Trump a Harris e l’ex-presidente sicuramente rimane il candidato preferito tra i dirigenti più estremisti del Paese, essi potrebbero sbagliarsi. Perché se guardi oltre la posizione di parte, non solo Biden passerà alla storia come il più fedele alleato di Israele, ma la strategia che lui e i suoi sostenitori democratici hanno accolto, mascherando il loro supporto incondizionato a Israele dietro l’apparente preoccupazione per i diritti umani, ha giocato un ruolo cruciale nel consentire a Israele di cavarsela così a lungo nonostante il genocidio.

Biden, un convinto sionista

A dire il vero il “rapporto speciale” dell’America va molto oltre Biden. Ma quando l’appoggio incondizionato a Israele è diventato una minaccia per gli interessi regionali e statunitensi, i presidenti che l’hanno preceduto, da Harry Truman a Dwight D. Eisenhower, da Ronald Regan a George Bush Sr., hanno posto dei limiti reali.

A 81 anni Biden è il presidente più anziano della storia degli USA, con una carriera politica che dura da oltre mezzo secolo e che lui ha costruito con l’aiuto della lobby filo-israeliana. Una volta si è vantato di aver “creato più finanziatori per l’AIPAC [principale organizzazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] negli anni ’70 e inizio ’80… di chiunque altro,” e in cambio il presidente ha ricevuto più finanziamenti dalla lobby di Israele di qualunque altro politico statunitense dal 1990.

Con questo appoggio Biden ha imparato che, mentre la lobby israeliana può portare una carriera politica a livelli mai visti, può altrettanto facilmente distruggerla: persino la più moderata critica alla politica israeliana rischia di scatenare la collera degli influenti apologeti di Israele. I costi politici di qualunque cosa che sia meno di una fedeltà incondizionata a Israele sono particolarmente alti durante il periodo elettorale, e il 2024 non fa eccezione. Biden considera il “rapporto speciale” un pilastro fondamentale delle più generali priorità geostrategiche dell’America. Da agire come un alleato fondamentale durante la Guerra Fredda a fungere da base operativa avanzata per l’espansione della potenza americana, proteggere Israele ha a lungo occupato l’epicentro degli interessi USA in Medio Oriente.

Tuttavia, come egli ama ricordarci, l’appoggio di Biden a Israele è sempre stato guidato soprattutto da una dedizione ideologica al progetto sionista: “Non c’è bisogno di essere ebreo per essere sionista, e io sono un sionista,” Biden ha ripetutamente dichiarato. “Se non ci fosse stato Israele l’America avrebbe dovuto inventarlo.”

Biden è diventato maggiorenne durante l’ascesa di Israele, assorbendo una sfilza di miti a senso unico che giustificarono la fondazione dello Stato ad ogni costo. Al tavolo da pranzo di famiglia il padre di Biden, Joseph R. Biden Sr., parlava a suo figlio degli orrori della II Guerra Mondiale, insistendo sul fatto che l’unico modo per impedire un secondo Olocausto era soprattutto proteggere Israele.

Per Biden e la sua generazione Israele è stato una affascinante storia di redenzione in cui i palestinesi erano totalmente assenti. È per questo che nella visione di Biden gli israeliani uccisi il 7 ottobre sono stati “assassinati”, “massacrati” e “non solo uccisi, ma trucidati.” Ma quando descrive la strage di palestinesi Biden assume un tono diverso: “Non ho idea se i palestinesi stanno dicendo la verità su quante persone sono state uccise. Sono sicuro che siano stati uccisi innocenti, ed è il prezzo di intraprendere una guerra.”

Si metta a confronto la profonda ammirazione di Biden per Israele con il suo evidente disprezzo per i palestinesi e gli arabi ed ecco un’immagine chiara della visione del mondo che informa il modo in cui prende le sue decisioni politiche.

Utilizzare l’umanitarismo come arma

Ma, al di là del personale impegno e dei pregiudizi di Biden, lui, Harris e i dirigenti democratici personificano una più ampia strategia liberale: l’ipocrita accoglimento delle leggi umanitarie internazionali e l’imposizione selettiva del cosiddetto ordine mondiale “basato sulle norme”.

Durante l’anno scorso abbiamo visto Biden e Harris utilizzare come arma questi affascinanti aspetti del liberalismo facendo leva su di essi per distrarre dal fatto che in realtà loro stessi stavano aiutando Israele a commettere un genocidio. Così facendo hanno effettivamente evitato una resistenza maggiore a queste politiche in patria e anche i tentativi internazionali per intervenire.

Un utile esempio delle conseguenze di ciò è l’ormai infame “molo umanitario” che l’amministrazione Biden ha promosso come soluzione per fare in modo che gli aiuti umanitari superassero il blocco israeliano. Il molo è stato un disastro tecnico, crollato nei marosi dopo aver fallito nel consegnare aiuti e costato ai contribuenti USA oltre 230 milioni di dollari. Ma quello che è riuscito a fare è stato distrarre temporaneamente l’attenzione dal rifiuto dell’amministrazione Biden di utilizzare la propria notevole influenza per imporre a Israele di smettere di limitare l’aiuto umanitario a Gaza. Così facendo ha concesso a Israele più tempo per affamare la Striscia.

Da parte sua la copertura dei principali media si è concentrata più sull’innocua retorica e presunta “frustrazione” di Biden con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che sull’appoggio della sua amministrazione allo sforzo bellico israeliano. In questo modo ha creato l’impressione che un [qualsiasi] cambiamento nella strategia israeliana sarebbe comunque consistito solo in un ulteriore netto rifiuto, ignorando l’evidente realtà della complicità USA.

Sebbene Harris potrebbe non nutrire lo stesso zelo sionista di Biden, ha ripetutamente promesso che continuerà con il lascito genocida di Biden. Quando non ha evitato le domande su perché i tentativi “incessanti” della sua amministrazione di garantire un cessate il fuoco siano finora falliti e come il suo approccio sarà differente da quello di Biden, Harris ha ripetuto il suo “impegno per la difesa di Israele e la sua possibilità di difendersi.”

Ciò potrebbe suonare come un vago slogan, privo di definizione politica. Ma l’intento è quanto più esplicito possibile: Harris continuerà a utilizzare il potere statunitense per proteggere Israele dall’ essere chiamato a rispondere del perseguimento della “difesa di Israele” e continuerà a far arrivare armi per garantire che Israele possa “difendersi”. La retorica empatica di Harris, che non si allontana molto da quella di Biden, sarà altrettanto vuota ed estraniante.

Un “male minore”?

Molti di quelli che si oppongono all’attuale appoggio incondizionato dell’attuale amministrazione a Israele hanno sostenuto che, con Trump come alternativa, Biden e Harris rappresentano comunque il “male minore”. Ma questo modo di ragionare ignora sia le conseguenze di questa retorica vuota e ingannevole sull’opposizione in patria e all’estero, sia il fatto che questa riproposta politica dell’amministrazione di Biden e Harris, anche molto prima del 7 ottobre, rispecchia da vicino quella del suo predecessore.

Fin dal primo giorno l’amministrazione Biden ha confermato le iniziative più controverse di Trump, lasciando l’ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, non riaprendo la rappresentanza dell’OLP a Washington e cercando disperatamente accordi di normalizzazione tra Israele e i suoi vicini arabi che cancellino del tutto i palestinesi. Mentre Biden ha ripreso i finanziamenti all’UNRWA, la sua amministrazione li ha di nuovo rapidamente tagliati sotto la pressione di una campagna israeliana di calunnie.

L’unica differenza politica riconoscibile è stata la campagna di sanzioni largamente inefficace di Biden che ha preso di mira coloni israeliani che continuano ad attaccare i palestinesi in tutta la Cisgiordania. Nel contempo l’amministrazione Biden ha dato a Israele più assistenza finanziaria e militare di ogni precedente governo.

Al momento la principale differenza riguarda il discorso. Ma quando Trump dice che lascerebbe che Israele “finisca il lavoro” a Gaza almeno è onesto, rendendo impossibile ignorare la complicità degli USA. Il razzismo esplicito e scioccante di Trump, che per esempio usa “palestinese” come un insulto, crea un bersaglio chiaro. Invece Biden e Harris occultano il loro appoggio a Israele dietro un linguaggio di umanitarismo, cullando elettori e attivisti nella condiscendenza mentre consentono comunque a Israele di “finire il lavoro”.

Non ci sono dubbi che migliaia di palestinesi sarebbero morti comunque indipendentemente da chi avesse occupato la presidenza americana lo scorso anno. Ma, data la nota imprevedibilità di Trump, è difficile, se non inutile, sapere esattamente che caratteristiche avrebbe avuto il ruolo degli USA nel genocidio.

Anche un’amministrazione Trump “America first” [prima l’America] avrebbe speso più in aiuti militari a Israele di qualunque altra amministrazione o piuttosto si sarebbe concentrata su altre priorità di politica internazionale, come accentuare la competizione con la Cina? Dato che Trump non condivide l’impegno ideologico personale di Biden verso Israele, avrebbe consentito a Israele di estendere la sua guerra in tutta la regione se ciò avesse significato affossare le speranze dell’allargamento degli Accordi di Abramo per includere una normalizzazione tra l’Arabia Saudita e Israele?

Cosa ancora più importante, se Trump fosse stato presidente, gli attori nazionali e internazionali sarebbero stati spronati ad opporsi al genocidio israeliano e alla complicità statunitense con maggiore vigore attraverso appelli per l’embargo alle armi, sanzioni o disinvestimenti? Il movimento contrario al genocidio negli USA sarebbe stato così ampiamente calunniato o si sarebbe esteso per includere un’ampia coalizione di liberal e progressisti, uniti nell’opposizione all’estremismo di Trump?

È indubbio che la lealtà del Partito Democratico ha silenziato l’opposizione contro la complicità dell’amministrazione Biden nel genocidio. E si potrebbe sostenere che la comunità internazionale non ha sentito l’urgenza di controbilanciare l’indifferenza di Washington nei confronti delle leggi internazionali allo stesso modo in cui lo avrebbe fatto se le avesse violate Trump.

Tra l’estremismo esplicito e l’empatia performativa

Dopo più di un anno di genocidio mandato in onda in tutto il pianeta con raccapricciante dettaglio, ci dobbiamo chiedere cosa avrebbe ottenuto un più esteso, più politicamente variegato movimento contrario al genocidio sia negli USA che all’estero, motivato da interessi condivisi per destituire Trump. Perché tutto quello che l’amministrazione di Biden e Harris ha fatto è stato perpetrare lo stesso genocidio sotto un’apparenza di legittimità, diffondendo pressioni con frasi fatte sulla pace mentre accentuava la complicità statunitense.

Questo non è un appello per votare (o scoraggiare dal votare) qualcuno. I democratici non “impareranno la lezione” perdendo gli elettori contrari al genocidio; invece li incolperanno della vittoria di Trump e mineranno nei prossimi anni i tentativi di costruire un movimento più ampio ed efficace. Né dovremmo sottovalutare le conseguenze del fatto che Trump incoraggi Israele a “finire il lavoro” a Gaza, in Libano e in Iran, anche se ciò rappresenterebbe semplicemente una versione accelerata di quello che Israele sta già facendo con il tacito appoggio di Biden. Trump ha anche messo in chiaro che farà tutto quello che può per potenziare i tentativi bipartisan di reprimere tutte le organizzazioni filopalestinesi.

Ma dobbiamo riconoscere che c’è un pericolo non solo nell’esplicito estremismo, ma anche nell’empatia performativa che preserva attivamente lo status quo. Perché la verità è che non c’è un “male minore”. E mentre noi discutiamo di questo e siamo ossessionati dalle differenze tra amministrazioni che condividono gli stessi obiettivi genocidi ma utilizzano strategie diverse, la montagna di corpi palestinesi e libanesi non fa che crescere.

Tariq Kenney-Shawa è uno studioso di politica statunitense di Al-Shabaka, il gruppo di studio e rete politica palestinese. Ha conseguito un master in Affari Internazionali presso la Columbia University e un diploma di laurea in Scienze Politiche e Studi sul Medio Oriente all’università Rutgers. Le ricerche di Tariq sono concentrate su argomenti che vanno dal ruolo della narrazione nel perpetuare e resistere all’occupazione alle analisi sulle strategie palestinesi per la liberazione. Il suo lavoro è comparso tra gli altri su Foreign Policy, +972 Magazine, Newlines Magazine e the New Politics Journal.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il “patto del silenzio” tra gli israeliani e i loro media

Edo Konrad

16 ottobre 2024 +972 Magazine 

I media israeliani, da tempo ossequienti, hanno badato l’anno scorso a infondere nel pubblico un senso di giustizia per la guerra su Gaza. Invertire questo indottrinamento, afferma l’osservatore mediatico Oren Persico, potrebbe richiedere decenni.

A metà della nostra conversazione Oren Persico fa una confessione sorprendente. Il veterano giornalista israeliano, il cui lavoro negli ultimi due decenni è stato per la maggior parte di monitorare i media del suo paese, non guarda i notiziari israeliani più popolari. “Non ci riesco proprio”, mi dice Persico, che dal 2006 lavora come redattore per il sito israeliano di controllo monitoraggio dei media The Seventh Eye. “È deprimente e irritante: è propaganda, sono pieni di bugie. È in sostanza un’immagine speculare della società in cui vivo, ed è difficile per me gestire la discordanza tra la mia visione del mondo e ciò che mi circonda. Devo mantenere la sanità mentale”. Invece di guardare le tv Persico si tiene aggiornato scorrendo i siti di notizie, i social media e guardando clip selezionate che le persone gli inviano.

Ma neanche spegnere la TV può fermare la dissonanza e la disperazione che prova Persico, ulteriormente aumentate dopo i massacri guidati da Hamas il 7 ottobre e il successivo assalto che dura ormai da un anno dell’esercito israeliano sulla Striscia di Gaza. Quando è iniziata la guerra i media israeliani si sono trovati in una fase critica, gestendo il trauma di una nazione scossa da una violenza senza precedenti che si è rapidamente ripiegata in una percezione profondamente radicata di vittimismo storico. Le emittenti hanno risposto a questo trauma nazionale, nota Persico, scivolando ulteriormente nelle grinfie della propaganda sancita dallo Stato. Mentre i giorni di brutale violenza si trasformavano in settimane e mesi, i media israeliani sono tornati agli schemi familiari: radunarsi attorno alla bandiera, amplificare le narrazioni dello Stato ed emarginare qualsiasi copertura critica della brutalità di Israele a Gaza, per non parlare del mostrare immagini o raccontare storie di sofferenza umana tra i palestinesi nella Striscia.

Il percorso verso questa situazione è stato spianato molto tempo fa. Il panorama mediatico israeliano, che Persico afferma essere sempre stato asservito all’establishment politico e militare, nell’ultimo decennio è stato sottoposto a una pressione incessante da parte di Benjamin Netanyahu; il primo ministro israeliano ha cercato di trasformarlo in uno strumento per esercitare il potere e, in ultima analisi, garantire la propria sopravvivenza politica. I media commerciali, più interessati a mantenere gli spettatori che a sfidare il potere, sono caduti preda della strategia di Netanyahu: coercizione, autocensura e pressione economica. Negli ultimi anni si è assistito anche alla rapida ascesa di Now 14 (generalmente noto come Canale 14), la versione israeliana di Fox News, che si è apertamente allineata a Netanyahu e ora sta sfidando il dominio di lunga data di Canale 12. Offre agli spettatori non solo notizie ma anche dibattiti anti-palestinesi spesso palesemente genocidari, elaborati come intrattenimento.

L’abile uso da parte di Netanyahu di canali di propaganda come Channel 14, così come dei social media, lo ha aiutato a plasmare un seguito devoto che lo difende e lo rafforza contro le pressioni nazionali e internazionali. In un’intervista con +972, che è stata abbreviata e rivista per chiarezza, Persico riflette sul ruolo storico dei media nella negazione delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, sul loro fallimento nel mettere in discussione l’establishment politico e sulla quasi totale mancanza di solidarietà per i giornalisti palestinesi sotto i bombardamenti a Gaza.

Parlami del panorama dell’informazione in Israele nel periodo precedente il 7 ottobre.

Il 6 ottobre i media israeliani, pubblici o privati, in televisione, alla radio o su internet, erano indeboliti e assediati a seguito di oltre un decennio di persistente lotta del primo ministro Benjamin Netanyahu per controllarli. Mentre alcuni organi di stampa erano semplicemente diventati uno strumento della guerra di propaganda di Netanyahu, altri si sono gradualmente sottomessi alle sue pressioni, sostenendo gli alleati del primo ministro e i suoi argomenti nelle loro trasmissioni.

[Solo pochi mesi prima del 7 ottobre] il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi aveva annunciato un disegno di legge per riformare il panorama dei media, basato sul desiderio di chiudere la Public Broadcasting Corporation di Israele [conosciuta familiarmente come KAN] e di “prendersi cura” [cioè stabilire il controllo] del settore dei media privati. Tutto ciò è stato fatto con gli slogan di “apertura del mercato” e “rimozione delle barriere”, slogan che in realtà significano aprire la strada agli organi di stampa che servono gli interessi di Netanyahu e nel contempo limitare gli organi di stampa che lo criticavano.

Quali misure hanno adottato negli ultimi decenni Netanyahu e i suoi consecutivi governi per reprimere la stampa?

Dal 1999 [quando perse le elezioni dopo il suo primo mandato da primo ministro] Netanyahu ha etichettato i media come suoi rivali e ha gradualmente consolidato la sua base in una lotta populista contro di essi. Ciò è particolarmente vero dal 2017, quando sono esplosi i suoi numerosi scandali legali, tutti direttamente correlati a tentativi di controllare i media.

Nell’ultimo decennio Netanyahu ha cercato di chiudere Channel 10; ha cercato di minare la supremazia di Yedioth Ahronoth nella stampa israeliana; ha presumibilmente promesso a un magnate dei media cambiamenti normativi vantaggiosi in cambio di una copertura positiva di sé e della sua famiglia e ha meticolosamente piazzato suoi sostenitori in ogni singolo possibile canale israeliano, da Channel 12 e Israeli Army Radio a i24 e KAN.

E tuttavia non possiamo dare tutta la colpa al primo ministro. Netanyahu sta operando in un paese in cui la maggior parte dei canali di informazione sono di proprietà privata e dove il pubblico si sta spostando a destra. Quei canali privati non vogliono perdere spettatori e lettori. Non possono vendere pubblicità se non hanno un pubblico, e non possono mantenere il loro pubblico se mostrano cose che lo indispongono.

Nessuna discussione sui media israeliani odierni sarebbe completa senza parlare di Canale 14, che ha raggiunto una posizione eccellente sulla scena e potrebbe anche superare Canale 12 in termini di predominio.

Channel 14 è nato da Jewish Heritage Channel, una piccola e quasi fallita stazione dedicata a programmi di contenuto religioso che non aveva la licenza per la trasmissione di notizie. Ma gradualmente Netanyahu e i suoi alleati hanno iniziato a erodere quelle normative: alla fine gli è stata concessa una licenza per trasmettere notizie ed è diventato il gruppo di propaganda a tutti gli effetti che conosciamo oggi.

Anche se è ora il secondo canale più popolare in Israele, riceve ancora benefici come se fosse il piccolo gruppo che era all’inizio. Oggi è di proprietà del figlio di un oligarca che ha stretti legami con Netanyahu e che presumibilmente ha legami con Vladimir Putin e altri loschi figuri.

All’inizio del 2023, con l’esordio della revisione giudiziaria, molti organi di informazione si sono ricordati del loro scopo e ruolo: trattare in modo critico i nodi di potere del Paese, sia delle élite economiche che della classe dirigente. Channel 14, d’altra parte, ha continuato a essere in totale sintonia con il governo.

Gli spettatori di Channel 14 formano anche una sorta di comunità. I sondaggi mostrano costantemente che, a differenza di Canale 11, Canale 12 e Canale 13, i cui spettatori vagano tra le stazioni, gli spettatori del Canale 14 sono fedeli alla rete [e non cercano notizie o analisi su altri canali].

Significa che se Netanyahu si svegliasse una mattina e decidesse di prendere una certa posizione, Channel 14 trasmetterebbe quel messaggio ai suoi telespettatori?

Come l’intero apparato mediatico che Netanyahu ha costruito, che viene spesso soprannominato la “macchina del veleno” e che fa uso sia di media convenzionali che dei social, Channel 14 è uno strumento di propaganda. È concepito come un divertimento: offre intrattenimento alle masse.

Sembra molto simile a ciò che Donald Trump e Fox News fanno negli Stati Uniti. Com’è la cosa su Channel 14?

Gli israeliani sono impegnati da oltre un anno in una guerra sanguinosa e il messaggio che ottengono da Channel 14 è la sensazione che stiamo vincendo, che la vita è bella. Il canale enfatizza i successi militari di Israele minimizzandone i fallimenti e calunnia altri canali di notizie per aver seminato panico e disfattismo.

Ad esempio, dopo l’attacco di domenica con un drone a una base militare dell’IDF che ha ucciso quattro soldati e ne ha feriti decine di altri, i siti dei media israeliani hanno mantenuto la notizia come titolo principale per tutta la notte e nella mattinata. Non è stato così per Channel 14, che l’ha tenuta come notizia principale sul suo sito web per mezz’ora, dopodiché l’ha sostituita con un sondaggio che dimostrava come la maggior parte degli israeliani sostenga un attacco all’Iran.

Channel 14 prende di mira anche i “nemici comuni” (altri organi di stampa, l’élite dell’esercito e il procuratore generale) accusandoli di collusione contro il governo e incolpandoli della situazione attuale di Israele. È zeppo di incitamento, propaganda e teorie cospirative che fanno appello al desiderio di vendetta del pubblico dopo il 7 ottobre. I commentatori che appaiono a “The Patriots”, il talk show di punta del canale condotto da Yinon Magal, invocano regolarmente il genocidio e lo sterminio [dei palestinesi]. Molti spettatori sono contenti di vedere questo, conferma ciò che già sentono.

Sembra che la popolarità di Channel 14 sia nata dal nulla. Come è successo?

Dal momento in cui i media tradizionali in Israele si sono ribellati alla riforma giudiziaria, gli ascolti di Channel 14 hanno iniziato a crescere rapidamente. Il secondo aumento degli ascolti si è verificato subito dopo il 7 ottobre. Entrambi questi aumenti rappresentano la capacità del canale di conformare il suo pubblico come comunità. Dopo due o tre settimane in cui è comparsa una sorta di “unità nazionale” a seguito agli attacchi di Hamas, i media israeliani sono rapidamente tornati alle loro precedenti posizioni pro o anti-Netanyahu. Subito dopo l’attacco ci sono state diverse voci su Channel 14 che hanno incolpato il primo ministro per quanto accaduto il 7 ottobre, ma anche loro hanno rapidamente ripiegato sulla linea del partito. La continua crescita e popolarità di Channel 14 dopo il 7 ottobre è, a mio avviso, lo sviluppo più significativo che c’è stato nei media israeliani dopo il massacro.

Ma le dimostrazioni di retorica estremista e guerrafondaia non sono certo limitate a Channel 14. Le abbiamo viste praticamente su ogni singolo canale di informazione generalista dopo il 7 ottobre, indipendentemente dal fatto che fossero o meno critici nei confronti di Netanyahu.

Hai ragione: l’intero pubblico israeliano ha virato bruscamente a destra e, per la prima volta nella sua storia, Channel 12 [il canale privato più visto in Israele, ndt.] sta subendo una forte concorrenza da parte di Channel 14. Ha commesso il classico errore di cercare di essere gradito a tutti, compresi i fascisti che guardano Channel 14, e quindi fornisce spazio anche a persone come Yehuda Schlesinger [che ha chiesto di rendere ufficiale la politica dello stupro dei detenuti palestinesi nel centro di detenzione di Sde Teiman]. Bisogna ricordare che i giornalisti in Israele fanno parte della società israeliana. Conoscono persone che sono state uccise o rapite il 7 ottobre. Conoscono soldati a Gaza.

Certo, ma hanno anche la responsabilità di denunciare al pubblico cosa sta succedendo, e non solo agli israeliani. Altrimenti non adempiono al loro compito.

È vero, ma mi sembra anche che il loro comportamento, per cui tralasciano la loro integrità giornalistica per creare una sorta di unità con il pubblico, sia una risposta naturale e umana a seguito di un evento così traumatico. Non penso che sia una cosa buona, penso che sia un errore. Ma non credo ci si possa aspettare da loro qualcosa di diverso.

Non è che gliela fai troppo facile?

I giornalisti israeliani ritengono sia loro dovere patriottico concentrarsi sulla nostra condizione di vittime, ignorare le vittime dall’altra parte e risollevare il morale nazionale, in particolare quello dei soldati israeliani. Credo che una cosa patriottica da fare sarebbe fornire informazioni affidabili al pubblico in modo che possa formarsi una reale visione globale di ciò che sta accadendo intorno a loro. Altrimenti la società israeliana, o qualsiasi altra società, avrà una comprensione distorta della realtà, basata su ignoranza, menzogne e negazione. Questo porta a società deboli che possono disgregarsi molto facilmente. Dire la verità avrebbe l’effetto esattamente opposto, ma qui i giornalisti non ci credono.

I media israeliani mostrano al pubblico cosa sta facendo l’esercito ai palestinesi a Gaza?

No.

Riportano le violazioni israeliane dei diritti umani in Cisgiordania?

No.

Denunciano le ripetute bugie del portavoce dell’IDF?

No.

Capisco il tuo punto di vista sulle prime settimane in cui i giornalisti erano profondamente traumatizzati, ma siamo a un anno dal 7 ottobre e i giornalisti stanno ancora, per la maggior parte, abdicando alle loro responsabilità quando si tratta di affrontare le questioni fondamentali. Hanno semplicemente smesso di occuparsene?

L’intera società israeliana ha molti anni di esperienza nell’ignorare i nostri crimini contro i palestinesi – che si tratti della Nakba, che è un argomento completamente tabù, o dell’occupazione militare in corso su milioni di persone. I media e gli spettatori sono coinvolti in una sorta di patto del silenzio: il pubblico non vuole sapere, quindi i media non ne parlano. Questi meccanismi psicologici erano già così radicati che quando è successo il 7 ottobre sono rientrati in azione e sono solo diventati più forti. Ciò a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno è il risultato di un processo decennale di educazione sia dei giornalisti che degli spettatori sul fatto che ci sono cose di cui semplicemente non parliamo e che non mostriamo nei notiziari. La maggior parte dei giornalisti che lavora in quelle emittenti popolari sa cosa sta succedendo, ma non vuole scontentare i propri spettatori per paura di perdere ascolti. Potrebbero volerci decenni per invertire questo tipo di indottrinamento.

Fanno finta che queste cose non esistano?

I media tradizionali capiscono che le violazioni dei diritti umani non sono qualcosa da celebrare, quindi semplicemente le ignorano. Non vediamo titoli sul Ministero della Salute di Gaza che denuncia che 40.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza. Non vediamo storie umane di palestinesi sotto i bombardamenti israeliani. Non sentiamo parlare delle malattie che stanno devastando la Striscia. Personalmente quello che ho sentito dai giornalisti è che “adesso semplicemente non è il momento di parlare di questi problemi.”

Ogni volta che si accende una di queste televisioni si rivivono costantemente gli orrori del 7 ottobre, sia attraverso le storie dei sopravvissuti che attraverso nuovi reportage investigativi. Che tipo di effetto ha questo sul pubblico israeliano?

Il 7 ottobre è stato l’evento che ha riportato gli ebrei israeliani nella posizione della vittima storica. Le immagini dei kibbutz e delle città israeliane invasi e dei massacri da parte degli uomini armati di Hamas ci ricordano le immagini storiche dell’Olocausto. Non è uno scherzo: siamo una società profondamente post-traumatica che deve ancora superare l’Olocausto, e quel giorno è stata la prima volta in cui lo Stato che avrebbe dovuto impedire che si verificassero nuovi olocausti non è riuscito a farlo. E pure la propaganda che abbiamo visto nell’ultimo anno nei notiziari non fa che rafforzare e giustificare la violenza di Stato contro i palestinesi. Fornisce la logica per fare tutto il necessario per annientare coloro che vengono ritratti come un “male assoluto”. In definitiva, infonde negli israeliani un senso di rettitudine, che è necessario durante una lunga guerra senza una chiara data di fine.

Quanto è grande l’influenza che i media israeliani hanno realmente sul pubblico, soprattutto quando così tante persone hanno accesso ad altre forme di informazione sui social media?

Se in passato il ruolo dei media era quello di mediare e organizzare la realtà [per lo spettatore], il ruolo centrale dei media israeliani oggi è quello di segnare sia i confini della legittimità rispetto al discorso pubblico, sia di individuare chi è autorizzato a partecipare a quel discorso. Se si guarda Channel 2, ad esempio, si vedrà che quando si tratta di questioni militari sono ex militari, per lo più uomini, a partecipare ai dibattiti.

È anche difficile evitare un’altra dimensione del ruolo dei media: fornire una piattaforma e spesso porgere il braccio agli sforzi dell’hasbara israeliana [attività di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele, ndt.] con influencer come Yoseph Haddad [arabo-israeliano forte sostenitore delle politiche israeliane, ndt.] che appaiono regolarmente nei vari programmi di informazione.

Definitivamente. L’hasbara è molto in auge e i media, sia privati che pubblici, la offrono al pubblico perché è ciò che il pubblico vuole. Si è arrivati ​​al punto che nella prima metà del 2024 più di 1/3 di tutte le apparizioni di “esperti arabi” nei media israeliani è stato di Yoseph Haddad. Va bene che lo invitino, ma non rappresenta in alcun modo la maggioranza dei cittadini palestinesi di Israele.

Israele si vanta spesso di avere una stampa libera estremamente critica nei confronti del governo. È vero?

In ogni evento [storico] importante, i media israeliani sono sempre stati fedeli all’establishment politico e militare del Paese, che si trattasse di una guerra, di un piano di pace o di un programma economico. Fino alla revisione giudiziaria erano in accordo con praticamente ogni mossa politica importante del governo. Sono molto critici nei confronti di Netanyahu perché è un bugiardo corrotto che chiaramente antepone i suoi interessi privati ​​a quelli dello Stato. Ma non sono critici nei confronti dell’esercito o dello Stato stesso. Vale la pena ricordare che nel 2002 ci fu un’enorme onda di indignazione pubblica quando Israele assassinò il leader di Hamas [Salah Mustafa Muhammad Shehade] e uccise 14 membri della sua famiglia, tra cui 11 bambini. Ma un’occupazione continua che non riceve quasi nessuna copertura mediatica porta anche a un’erosione sia dell’indignazione pubblica che degli standard giornalistici. Oggi, l’esercito non ha problemi a uccidere 14 persone se ciò significa eliminare un membro di basso rango di Hamas, e i media, a parte giornali come Haaretz, lo assecondano.

Cosa avrebbero potuto invece fare i media nella loro copertura mediatica dopo il 7 ottobre? Che differenza avrebbero potuto fare?

Per prima cosa durante quei primi giorni dopo l’attacco i media hanno fatto un lavoro eccezionale in un momento in cui il resto delle istituzioni israeliane semplicemente non funzionava. I media hanno portato immagini al pubblico, [hanno aiutato ad] assistere i rifugiati del sud e coloro che sono sopravvissuti al massacro, fornendo letteralmente la logistica alle persone perché lo Stato semplicemente non stava funzionando. Nessuno sta costringendo il pubblico israeliano a non sapere cosa succede a Gaza e in Cisgiordania. Chi vuole saperlo può rivolgersi al New York Times o a The Guardian. Immaginate di prendere Haaretz o +972 e trasformarli in un canale di notizie mainstream: cambierebbe qualcosa? Forse un po’, ma qui stiamo parlando di annullare generazioni di indottrinamento.

Nell’ultimo mese abbiamo assistito a una sorta di euforia pubblica dopo gli attacchi ai cercapersone e l’assassinio del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, e di seguito abbiamo visto Amit Segal e Ben Caspit di Channel 12 mescersi bicchieri e brindare alla sua morte in TV. Questa euforia si è estesa all’invasione israeliana del Libano meridionale e all’assalto al nord di Gaza come parte di quello che è noto come il “Piano dei generali” per liquidare efficacemente l’area. Cosa pensi di questa apparente atmosfera di festa negli studi dei notiziari?

I successi israeliani in Libano sono stati accolti con grande clamore e celebrazione. Nei giorni successivi a queste “vittorie” c’è stata pochissima discussione sui media sul significato geopolitico del fatto, al di là del danno arrecato da Israele a Hezbollah che gli esperti hanno affermato potrebbe portare alla sua dichiarazione di sconfitta. Nessuno si è alzato e ha dato una valutazione realistica del fatto che stiamo entrando in una fase in cui vedremo [un aumento di] razzi e droni in tutto il nord.

La cosa ricorda quanto accaduto subito dopo l’attacco di Hamas, quando i media hanno affermato che l’operazione sarebbe durata solo alcune settimane o qualche mese. [Hanno ignorato completamente il fatto che] nel 2014 l’IDF stimava che la rioccupazione della Striscia avrebbe potuto richiedere cinque anni e avrebbe causato la morte di decine di migliaia di palestinesi e israeliani. Nel 2014 Netanyahu avrebbe fatto trapelare questa valutazione a Channel 2 proprio perché era consapevole dei costi altissimi e non voleva rioccupare militarmente Gaza. Perché i media non ricordano al pubblico quelle valutazioni? Perché Udi Segal, il giornalista di Channel 2 che per primo aveva riferito quella valutazione non ne parla oggi? Sono sicuro che ci siano considerazioni simili riguardo a Hezbollah, ma quando l’esercito israeliano ha iniziato la sua invasione i media hanno affermato che sarebbe durata solo poche settimane. Questo ci riporta alla prima guerra del Libano, quando i media avevano fatto affermazioni molto simili sulla durata dell’operazione [l’esercito israeliano sarebbe rimasto nel Libano meridionale per quasi due decenni].

Secondo il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi Israele ha ucciso 168 giornalisti palestinesi a Gaza dall’ottobre scorso. Quanta solidarietà c’è tra i giornalisti israeliani e le loro controparti palestinesi a Gaza, o con i giornalisti di Al Jazeera a cui è stato vietato di lavorare in Israele e i cui uffici a Ramallah sono stati perquisiti e chiusi dalle forze israeliane a settembre?

Zero. Verso la fine dell’anno scorso stavo aiutando Reporter Senza Frontiere a organizzare una petizione di solidarietà dei giornalisti israeliani per i loro colleghi palestinesi. Dissi loro che nessuno, a parte alcune persone della sinistra radicale, avrebbe firmato quel tipo di dichiarazione, e invece mi sono offerto di provare a far firmare ai giornalisti israeliani una petizione che chiedeva ai media di mostrare di più ciò che stava accadendo a Gaza, perché pensavo che saremmo stati in grado di farla firmare a più giornalisti tradizionali. Semplicemente non è successo. Pochissime persone hanno voluto firmare. Ciò che i giornalisti israeliani non capiscono è che quando il governo approva la “Legge Al Jazeera”, in definitiva si tratta di qualcosa di molto più grande che semplicemente prendere di mira un canale. L’attuale legge riguarda il bando di agenzie di stampa che “mettono a repentaglio la sicurezza nazionale”, ma vogliono anche dare al ministro israeliano delle Comunicazioni il diritto di impedire a qualsiasi rete di informazione straniera che potrebbe “danneggiare il morale nazionale” di operare in Israele. Ciò che il pubblico israeliano non capisce è che i prossimi in lista sono BBC Arabic, Sky News Arabic e CNN. Dopodiché arriveranno ad Haaretz, Canale 12 e Canale 13.

Pensi che accadrà?

Stiamo andando verso un regime autocratico stile Orbán, con tutto ciò che ne consegue: nei tribunali, nel mondo accademico e nei media. Certo che è possibile. Sembrava irrealistico 10 anni fa, poi è sembrato più realistico cinque anni fa quando sono esplosi gli scandali legali di Netanyahu relativi ai media. Poi è diventato ancora più verosimile con la revisione giudiziaria, e oggi ancora di più. Non ci siamo ancora, ma siamo sicuramente sulla buona strada.

Edo Konrad è ex caporedattore di +972 Magazine.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Questa è la prima guerra dell’apartheid di Israele?

Oren Yiftachel 

15 ottobre 2024 – +972 magazine

Tutt’altro che privo di una strategia politica, Israele sta combattendo per rafforzare il progetto suprematista che ha costruito per decenni tra il fiume e il mare.

Durante lo scorso anno molti hanno sostenuto che il disastro del 7 ottobre – il più grande massacro di civili israeliani nella storia del Paese – è stato un segnale del fatto che lo status quo di occupazione permanente è crollato. Sotto il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu Israele ha portato avanti una politica di “gestione del conflitto” a lungo termine per rafforzare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi mentre conteneva la frammentata resistenza palestinese. Ciò implicava finanziare un Hamas “dissuaso”, che vari leader israeliani consideravano come “una risorsa”.

È vero che in seguito al 7 ottobre alcuni aspetti di questa strategia sono falliti, soprattutto l’illusione che il progetto nazionale palestinese potesse essere schiacciato, o che Hamas ed Hezbollah potessero essere tenuti a bada in assenza di un qualunque accordo politico. Anche il concetto secondo cui la colonizzazione ebraica potesse garantire la sicurezza lungo i confini e le frontiere di Israele, un mito sionista di lunga data, è stato distrutto: oltre al profondo trauma e al dolore sofferti da decine di comunità frontaliere ebraiche, circa 130.000 israeliani provenienti da più di 60 luoghi all’interno della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] sono sfollati, e molti di loro lo sono tuttora.

Altri esperti hanno sostenuto che la guerra israeliana a Gaza, e ora in Libano, è priva di una strategia politica “per il giorno dopo”, ed è combattuta solo a favore della sopravvivenza politica di Netanyahu. Ma, diversamente dall’opinione popolare, un’analisi realistica dell’anno trascorso mostra che in questa guerra Israele continua a promuovere un obiettivo strategico inequivocabile: conservare e rafforzare il regime di supremazia ebraica sui palestinesi dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. In questo senso gli ultimi 12 mesi possono essere meglio compresi come la “prima guerra dell’apartheid” di Israele.

Mentre le precedenti otto guerre hanno tentato di creare un nuovo ordine geopolitico o sono state limitate a zone specifiche, l’attuale intende rafforzare il progetto politico suprematista che Israele ha costruito su tutto il territorio e che l’attacco del 7 ottobre ha sostanzialmente sfidato. Di conseguenza c’è anche un netto rifiuto di esplorare ogni via di riconciliazione o persino un cessate il fuoco con i palestinesi.

L’ordine suprematista di Israele, che una volta era definito “strisciante” e più di recente “apartheid profondo”, è storicamente ben radicato. È stato mascherato negli ultimi decenni dal cosiddetto processo di pace, promesse di una “occupazione temporanea” e affermazioni secondo cui Israele non aveva “partner” con cui negoziare. Ma negli ultimi anni la realtà del progetto di apartheid è diventata sempre più evidente, soprattutto sotto il governo di Netanyahu.

Oggi Israele non fa alcun tentativo di nascondere le sue intenzioni suprematiste. La legge dello Stato-Nazione del 2018 ha dichiarato che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unicamente del popolo ebraico” e che “lo Stato vede lo sviluppo della colonizzazione ebraica come un valore nazionale.” Facendo un passo ulteriore, il manifesto dell’attuale governo israeliano (noto come i suoi “principi guida) nel 2022 ha affermato con orgoglio che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile a ogni area della Terra di Israele”, che, nel lessico ebraico, include Gaza e la Cisgiordania, e si impegna a “promuovere e sviluppare colonie in ogni parte della Terra di Israele”.

Lo scorso luglio la Knesseth ha votato con una maggioranza schiacciante il rifiuto della creazione di uno Stato palestinese. E quando Netanyahu parla all’ONU, come ha fatto due settimane fa, le cartine che mostra descrivono chiaramente questo progetto: uno Stato ebraico tra il fiume e il mare, con i palestinesi destinati ad esistere ai margini invisibili della sovranità ebraica come abitanti di seconda o terza classe.

Ironicamente e tragicamente gli attacchi terroristici di Hamas e dei suoi alleati negli ultimi tre decenni, così come la loro retorica di negazione dell’esistenza di Israele e che propugna un futuro Stato islamico dal fiume al mare, sono stati invocati come pretesto per l’occupazione e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele. I massacri del 7 ottobre possono quindi essere criticati non solo come criminali e profondamente immorali, ma anche come una “ribellione boomerang”, che torna indietro per consentire una violenza brutale contro il popolo palestinese e danneggia gravemente la loro giusta lotta per la decolonizzazione e l’autodeterminazione. L’offensiva di Hezbollah nel nord ha aggiunto altra benzina al fuoco della ribellione boomerang, che a sua volta brucia chi l’ha perpetrata.

Reprimere i palestinesi, cementare la supremazia ebraica

Per oltre 75 anni Israele ha violentemente dominato, espulso ed occupato i palestinesi. Ma questa storia di oppressione impallidisce in confronto con le distruzioni operate contro i gazawi nell’ultimo anno, quello che molti esperti hanno definito un genocidio.

In seguito al “disimpegno” israeliano e a 17 anni di assedio soffocante contro l’enclave controllata da Hamas, agli occhi degli israeliani Gaza è diventata simbolo di una visione distorta della sovranità palestinese. Pertanto, molto più che combattere miliziani o cercare vendetta per il 7 ottobre, i massicci bombardamenti, la pulizia etnica e l’eliminazione della grande maggioranza delle infrastrutture civili della Striscia, compresi ospedali, moschee, industrie, scuole e università, da parte di Israele sono un attacco diretto alla possibilità della decolonizzazione e autodeterminazione dei palestinesi.

Nell’anno trascorso, immersi nella nebbia di questo massacro contro Gaza, anche l’occupazione coloniale della Cisgiordania ha accelerato. Israele ha introdotto nuove misure di annessione amministrativa; la violenza dei coloni si è ulteriormente intensificata con l’appoggio dell’esercito; sono stati fondati decine di nuovi avamposti, contribuendo all’espulsione delle comunità palestinesi; città palestinesi sono state sottoposte a chiusure che ne hanno soffocato l’economia; la repressione violenta della resistenza armata da parte dell’esercito israeliano ha raggiunto livelli che non si vedevano dalla Seconda Intifada, soprattutto nei campi profughi di Jenin, Nablus e Tulkarem. La già tenue distinzione tra aree A, B e C è stata completamente cancellata: l’esercito israeliano agisce liberamente in tutto il territorio.

Nel contempo Israele ha accentuato l’oppressione dei palestinesi all’interno della Linea Verde e la loro condizione di cittadini di seconda classe. Ha intensificato le pesanti restrizioni sulla loro attività politica attraverso maggiori controlli, arresti, licenziamenti, sospensioni e vessazioni. I dirigenti arabi sono etichettati come “sostenitori del terrorismo” e le autorità stanno attuando un’ondata senza precedenti di demolizioni di case, soprattutto nel Negev/Naqab, dove nel 2023 il numero di demolizioni (che hanno raggiunto la cifra record di 3.283) è stata superiore al numero totale per gli ebrei in tutto lo Stato. Allo stesso tempo la polizia ha rinunciato del tutto ad affrontare il grave problema del crimine organizzato nelle comunità arabe. Quindi possiamo notare una strategia comune in tutti i territori controllati da Israele per reprimere i palestinesi e cementare la supremazia ebraica.

La crescente offensiva in Libano — che è stata lanciata per respingere i dodici mesi di aggressioni di Hezbollah contro il nord di Israele, ma ora sta diventando un attacco massiccio contro tutto il Libano — e lo scambio di colpi con l’Iran sembrano annunciare una fase nuova e a livello regionale della guerra. Ciò è chiaramente legato all’agenda geopolitica dell’impero americano, ma serve anche a distrarre l’attenzione dalla crescente oppressione dei palestinesi.

Un altro fronte della guerra dell’apartheid viene condotto contro gli ebrei israeliani che lottano per la pace e la democrazia. I continui tentativi del governo Netanyahu di indebolire la (già ridotta) indipendenza del potere giudiziario consentirà ulteriori violazioni dei diritti umani aumentando il potere dell’esecutivo, attualmente composto dalla coalizione più a destra che Israele abbia mai conosciuto. Stiamo già vedendo gli effetti della caduta di Israele in un governo autoritario. il Paese è invaso dalle armi grazie alla decisione del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir di distribuire decine di migliaia di fucili, soprattutto a sostenitori del suprematismo ebraico che vivono nelle colonie della Cisgiordania o nelle aree di confine. Il ministro delle Finanze e governatore di fatto della Cisgiordania Bezalel Smotrich, lui stesso un colono irriducibile, ha destinato grandi somme di fondi pubblici per progetti di colonizzazione. E il governo ha di fatto messo a tacere ogni critica contro la guerra criminale di Israele scatenando gravi violenze poliziesche contro manifestanti antigovernativi e contro la guerra, incitando contro istituzioni accademiche, intellettuali e artisti e diffondendo discorsi tossici e accusatori contro i “traditori” di sinistra.

Una dimensione particolarmente rivoltante della guerra dell’apartheid è l’abbandono da parte del governo degli ostaggi rapiti da Hamas, il cui potenziale ritorno minaccia il governo mettendo in evidenza il fiasco del 7 ottobre. Nel contempo la loro presenza nei tunnel di Hamas impedisce al governo di continuare la sua criminale, e largamente inefficace, “pressione militare” a Gaza, che minaccia ogni possibilità che gli ostaggi ritornino vivi. Quindi, sfruttando la sofferenza e lo shock delle famiglie degli ostaggi, il governo consente che noi ci troviamo di fronte a un continuo stato di emergenza che preclude l’apertura di un’inchiesta ufficiale sulle negligenze che hanno portato ai massacri del 7 ottobre.

Un nuovo orizzonte politico

Guardando al futuro vale la pena di ricordare che l’apartheid non è solo un abisso morale e un crimine contro l’umanità, è anche un regime instabile, caratterizzato da continue violenze che non risparmiano nessuno e danni estesi per l’economia e l’ambiente.

Nonostante il considerevole appoggio che riceve tra gli ebrei in Israele e all’estero, e dai governi occidentali che scandalosamente ne garantiscono l’impunità, il regime israeliano è lungi dall’essere vittorioso nella sua prima guerra dell’apartheid. Le forze che gli si oppongono stanno crescendo non solo tra i palestinesi e nei Paesi arabi vicini, ma anche tra gli ebrei della diaspora e la più vasta opinione pubblica sia nel Nord che nel Sud globali. L’Israele dell’apartheid ha già perso la battaglia etica, ma perdere le alleanze internazionali, i rapporti commerciali, le prospettive economiche e i legami culturali e accademici potrebbe obbligare il governo a porre fine alla guerra per la supremazia ebraica.

Eppure questo non è un risultato inevitabile. Richiede una significativa mobilitazione globale per imporre le leggi internazionali, così come un’alleanza tra ebrei e palestinesi che sfidi e rompa l’ordine dell’apartheid di separazione, segregazione e discriminazione legalizzate. La lotta necessaria è civile e non violenta: lotte simili contro i regimi di apartheid in tutto il mondo come in Irlanda del Nord, nel Sud degli Stati Uniti, in Kosovo o in Sudafrica hanno avuto successo quando hanno abbandonato la violenza che prendeva di mira i civili e si sono concentrate su campagne civiche, politiche, legali ed etiche.

La lotta richiede anche un orizzonte politico che risponda ai continui fallimenti della divisione della terra tra il fiume e il mare. Il movimento per la pace “Una Terra per Tutti: due Stati una Patria”, un’iniziativa unitaria tra israeliani e palestinesi, ha articolato tale visione basata sull’uguaglianza individuale e collettiva. Questo modello confederale di due Stati, con libertà di movimento, istituzioni comuni e una capitale condivisa, può offrire un’uscita dal crescente apartheid e contribuire a disegnare un orizzonte verso un futuro di riconciliazione e pace. Solo l’adozione di tali prospettive può garantire che la prima guerra dell’apartheid sia anche l’ultima.

Il professor Oren Yiftachel è un ricercatore di geografia politica e giuridica e attivista per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nelle prigioni israeliane le malattie della pelle sono un metodo di punizione

Vera Sajrawi

25 settembre 2024 – +972 Magazine

Le autorità carcerarie consentono il diffondersi della scabbia limitando l’approvvigionamento idrico dei detenuti palestinesi e privandoli di vestiti puliti e cure mediche.

Pallido e denutrito, con una barba incolta e una protesi oculare, il suo corpo emaciato testimonia la negligenza e le torture subite all’interno di una prigione israeliana. “State lontani”, urla alla folla impaziente che lo circonda dopo il suo rilascio. “Non so che malattia ho, ho un’eruzione cutanea e non posso rischiare di stringere le mani”. Ma i suoi genitori, sopraffatti dall’emozione, si fanno avanti per abbracciarlo. Lui si ritrae impaurito, ribadendo che non dovrebbe essere toccato.

Mo’ath Amarnih, un fotoreporter palestinese della Cisgiordania occupata, è stato rilasciato dalla prigione di Ktzi’ot a luglio. Anche in precedenza aveva avuto a che fare con la violenza dello Stato israeliano: nel 2019, mentre riprendeva le proteste contro gli insediamenti coloniali, un soldato israeliano gli ha sparato in faccia, facendogli perdere l’occhio sinistro. Ma nulla avrebbe potuto fargli immaginare questi nove mesi di detenzione amministrativa, reclusione senza accusa o processo, durante i quali è stato tenuto in condizioni terribili, sottoposto ad abusi e privato di cure mediche nonostante soffrisse di diabete.

Amarnih è uno delle centinaia di prigionieri palestinesi recentemente rilasciati dalle prigioni israeliane i cui corpi smagriti sono stati deturpati dalla scabbia, un’infestazione parassitaria causata da acari, che provoca forte prurito ed eruzioni cutanee che spesso peggiorano di notte e sono esacerbate dal caldo estivo. L’epidemia è stata segnalata in più prigioni, tra cui Ktzi’ot, Nafha e Ramon nel Naqab/Negev, Ofer in Cisgiordania e Megiddo, Shatta e Gilboa nel nord. Israele non ha fornito dati sul numero di prigionieri infetti.

Secondo i dati dell’Israel Prison Service (IPS) nell’ultimo anno la popolazione carceraria totale è aumentata in modo significativo: da 16.353 il 6 ottobre 2023, a oltre 21.000 a giugno di quest’anno. Circa la metà di loro, approssimativamente 9.900 al momento in cui scriviamo, sono definiti “prigionieri di sicurezza”, di cui oltre 3.300 sono trattenuti in detenzione amministrativa.

In seguito a questo forte incremento della popolazione carceraria le condizioni all’interno delle carceri israeliane sono peggiorate drasticamente. Per 11 mesi i detenuti, sottoposti a torture e sevizie che hanno causato la morte di almeno 18 di loro, sono stati costretti ad indossare sempre lo stesso capo di abbigliamento, gli è stato impedito di acquistare shampoo o sapone e limitato l’accesso alle docce, e sono stati completamente privati ​​di un servizio di lavanderia. Inoltre, la sospensione delle visite dei familiari ha eliminato la possibilità di ricevere vestiti puliti, lenzuola e asciugamani dall’esterno.

Il 16 luglio una coalizione di cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani ha presentato una petizione all’Alta Corte Israeliana, chiedendo un intervento urgente da parte dell’IPS e del Ministero della Salute per affrontare l’allarmante epidemia di scabbia che affligge i prigionieri palestinesi, principalmente quelli nelle unità di sicurezza. Ai detenuti, afferma la petizione, viene spesso negata l’assistenza medica e in prigione le visite mediche sono diventate sempre più rare.

Come osserva il dermatologo dr. Ahsan Daka nella petizione, la scabbia può essere curata efficacemente, ma contenere l’epidemia richiede condizioni di vita igieniche. L’inosservanza da parte dell’IPS suggerisce che la diffusione della malattia tra i prigionieri è diventata, di fatto, parte della loro punizione.

“Sono uscito dall’inferno”

A maggio 2023 Mohammed Al-Bazz, 38 anni, di Nablus, è stato arrestato e posto in detenzione amministrativa nella prigione di Ktzi’ot nel Naqab, senza che gli venisse spiegato il motivo. In precedenza aveva trascorso più di 16 anni nelle carceri israeliane a partire dall’età di 17 anni, ma quelle esperienze impallidiscono in confronto a ciò che sarebbe accaduto dopo il 7 ottobre.

Poco dopo l’assalto guidato da Hamas al sud di Israele la Knesset ha approvato una legge che consente al Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir di dichiarare lo stato di emergenza nelle carceri israeliane. Quando è entrato in carica all’inizio dell’anno scorso aveva già fin da subito iniziato ad assumere una posizione più dura nei confronti dei palestinesi incarcerati. Per di più, forte delle nuove misure di emergenza in tempo di guerra, si è rapidamente dato da fare per sovraffollare le strutture dell’IPS e ridurre ulteriormente i diritti dei detenuti palestinesi.

Al-Bazz, rilasciato a maggio di quest’anno, ha ricevuto poche notizie dal mondo esterno. La prima cosa che l’IPS ha fatto dopo il 7 ottobre è stata rimuovere radio e televisori, staccare completamente l’energia elettrica e limitare a una sola ora la fornitura di acqua a tutti i prigionieri. “Immaginate 15 prigionieri in una cella che riceve acqua per una sola ora tramite un rubinetto e un water, costretti ad usarla per tutte le loro necessità”, ha detto a +972.

Come tutti i prigionieri, gli era proibito lasciare la sua cella; non era più concessa loro la solita ora d’aria. Le lavanderie sono state chiuse e trasformate in celle aggiuntive e le visite dei familiari sono state vietate, impedendo ai detenuti di ricevere nuovi vestiti dall’esterno.

“Il sole e l’aria non hanno toccato la mia pelle per otto mesi”, dice Al-Bazz. “Ho dormito sullo stesso materasso senza lenzuola o cuscino, ho fatto la doccia con acqua fredda senza shampoo o asciugamano e ho dovuto rimettere i vestiti sporchi sul corpo bagnato in inverno e in estate. Ciò dimostra un intento sistematico di diffondere la malattia tra i prigionieri attraverso una carenza di igiene”.

Secondo Naji Abbas, direttore del dipartimento prigionieri e detenuti della ONG, il primo caso di scabbia è stato segnalato a Physicians for Human Rights – Israel [Medici per i Diritti Umani – Israele] (PHRI) a metà febbraio. Quel prigioniero, Mohammed Shukair, era stato arrestato in modo violento a maggio e gli era stata consegnata una maglietta in dotazione al carcere che, come ha riferito a PHRI, era già sporca. I sintomi della malattia hanno iniziato presto a comparire sulla sua pelle ed è stato portato alla clinica della prigione, dove gli è stata fatta la diagnosi.

PHRI ha chiesto ai servizi carcerari di fornirgli dei farmaci e gli è stata data una pomata per i sintomi. Ma l’ambiente non è stato disinfettato e i suoi compagni di cella non sono stati trattati, quindi non ha funzionato. “La pomata da sola non è sufficiente, perché gli acari che causano la malattia vivono sulle superfici fino a 36 ore e la persona può essere reinfettata”, spiega Abbas.

Al-Bazz ha anche riferito a +972 che quando un prigioniero mostrava sintomi di scabbia l’IPS non lo spostava dalla cella né prendeva altre misure per impedire la diffusione della malattia tra i suoi compagni. “Hanno persino spostato dei prigionieri infetti in celle dove c’erano prigionieri sani e hanno fatto sì che si infettassero tutti”, dice.

“È la peggiore malattia, non ne ho mai viste di simili”, continua Al-Bazz, con la voce rotta dal dolore. “Comincia con piccoli brufoli sulla pelle che si diffondono su tutto il corpo e si sviluppa un prurito insopportabile. Sanguinavo su tutto il corpo per il continuo grattarmi. Se chiedi di andare alla clinica della prigione, ti spruzzano gas lacrimogeni [come punizione] o ti portano fuori per picchiarti di fronte a tutte le celle”.

Al-Bazz riferisce a +972 che durante tutto l’anno trascorso a Ktzi’ot non ha ricevuto alcun trattamento per la scabbia; in effetti, i prigionieri di sicurezza hanno riferito che non c’è accesso alle cliniche o ai medici della prigione per nessun problema di salute. “Con il pretesto della guerra in corso, l’autorità [della prigione] priva persino i malati di cancro di trattamenti essenziali per mesi”, afferma.

Come Amarnih, una volta uscito di prigione Al-Bazz era quasi irriconoscibile: da ottobre a maggio aveva perso 60 chilogrammi di peso. Dopo essere stato rilasciato ha subito cercato un’assistenza medica, ma essendo ancora affetto dalla malattia ha contagiato involontariamente la moglie e i figli gemelli.

Anche se la scabbia sta lentamente scomparendo dal suo corpo, le torture subite da Al-Bazz a Ktzi’ot avranno un impatto psicologico duraturo. Un fatto significativo, in una fredda notte del 22 ottobre, offre un quadro dell’orrore: Al-Bazz racconta che prima le guardie hanno spogliato i prigionieri, immobilizzandoli con manette ai polsi e i lacci ai piedi, poi una di loro gli ha urinato addosso.

“La maggior parte delle persone si vergogna a raccontare nei dettagli cosa abbiamo passato”, dice. “Molti prigionieri sono stati violentati con vari oggetti; le guardie donne guardavano, ridevano e si divertivano con i nostri corpi nudi. Provavano piacere nel torturarci e umiliarci. Mi ha ricordato Abu Ghraib, o anche peggio. Ci picchiavano continuamente tutto il giorno, a turno dalle 9 alle 23. Non riesco a credere a quello che ci hanno fatto. Rimarrà per sempre scolpito nella mia memoria. Sono uscito dall’inferno.”

Un portavoce dell’IPS contattato da +972 per un commento ha negato la cancellazione delle visite esterne e non ha rilasciato dichiarazioni sull’attuale diffusione della scabbia nelle prigioni.

Nel frattempo, Al-Bazz sta ancora facendo i conti con l’entità della disumanizzazione che ha dovuto affrontare durante il suo periodo a Ktzi’ot. “I prigionieri sono esseri umani”, dice. “Non sono sovrumani che possono sopportare qualsiasi cosa; sono semplicemente costretti sopportare gli abusi perché non hanno altra scelta.

“Siamo rinchiusi per una causa giusta e stiamo lottando per la nostra libertà”, continua. “Ma in fin dei conti sono di carne e ossa, con dignità ed emozioni: un essere umano che si stanca e prova dolore quando viene picchiato e si dispera quando è malato”.

Vera Sajrawi è una giornalista palestinese, ex redattrice di +972 Magazine, che vive a Haifa.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un piano per liquidare la Striscia di Gaza settentrionale sta guadagnando terreno

Meron Rapoport

17 settembre 2024, +972Magazine

Ministri, generali e accademici israeliani chiedono a gran voce una nuova fase decisiva della guerra, ed ecco come potrebbe risultare l’operazione Fame e Sterminio.

La data potrebbe essere ottobre, novembre o dicembre 2024, o forse inizio 2025. L’esercito israeliano ha appena lanciato una nuova operazione in tutto il nord di Gaza, la chiameremo “Operazione Ordine e Pulizia”. L’esercito ordina l’evacuazione temporanea di tutti i residenti palestinesi a nord del corridoio Netzarim “per la loro sicurezza personale”, spiegando che “l’esercito sta per intraprendere azioni importanti a Gaza City nei prossimi giorni e vuole evitare di danneggiare i civili”. L’ordine è simile a quello che l’esercito ha emesso il 13 ottobre 2023 agli oltre 1 milione di palestinesi che vivevano a Gaza City e nei suoi dintorni in quel momento. Ma è chiaro a tutti come questa volta Israele stia pianificando qualcosa di completamente diverso.

Sebbene il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant siano reticenti sui veri obiettivi dell’operazione, il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, così come altri ministri dell’estrema destra, li dichiarano apertamente. In proposito citano un programma che il Forum dei Comandanti e Combattenti Riservisti, guidato dal Maggiore Generale di Riserva Giora Eiland, ha proposto solo poche settimane fa: ordinare a tutti i residenti della parte settentrionale di Gaza di andarsene entro una settimana per poi imporre un assedio completo all’area inclusa la chiusura di tutte le forniture di acqua, cibo e carburante, fino a quando coloro che rimangono non si arrendano o muoiano di fame.

Negli ultimi mesi altri importanti israeliani hanno chiesto all’esercito di effettuare uno sterminio di massa nel nord di Gaza. “Rimuovete l’intera popolazione civile dal nord e chiunque vi rimanga sarà legalmente condannato come terrorista e sottoposto a un procedimento di fame o sterminio”, ha proposto il prof. Uzi Rabi, ricercatore senior presso l’Università di Tel Aviv in un’intervista radiofonica del 15 settembre. E ad agosto, secondo un rapporto di Ynet, i ministri del governo avevano già iniziato a fare pressione su Netanyahu affinché “ripulisse” il nord di Gaza dai suoi abitanti.

Un’altra proposta è stata stilata a luglio da diversi accademici israeliani, intitolata “Da un regime omicida a una società moderata: la trasformazione e la ricostruzione di Gaza dopo Hamas”. Secondo questo piano, che è stato sottoposto ai decisori israeliani, la “sconfitta totale” di Hamas è una precondizione per avviare un processqo di “deradicalizzazione” dei palestinesi a Gaza. “È importante che anche l’opinione pubblica palestinese abbia una profonda percezione della sconfitta di Hamas”, sostengono gli autori, aggiungendo: “Un ‘primo intervento’ può iniziare nelle aree ripulite da Hamas”. Uno degli autori della proposta, il dott. Harel Chorev, ricercatore senior presso il Moshe Dayan Center dove lavora anche Rabi, ha espresso pieno sostegno al piano del gen. Eiland.

Ma torniamo al nostro scenario: inizia l'”Operazione Ordine e Pulizia” e, nonostante gli ordini di evacuazione dell’esercito, circa 300.000 palestinesi rimangono tra le rovine di Gaza City e dintorni, rifiutandosi di andarsene. Forse rimangono perché hanno visto cosa è successo ai loro vicini che se ne sono andati all’inizio della guerra, credendo che si trattasse di un’evacuazione temporanea e che ancora oggi vagano per le strade di Gaza meridionale senza un posto sicuro in cui ripararsi. Forse perché temono Hamas, che invita i residenti a rifiutare gli ordini di evacuazione di Israele. O forse perché sentono di non avere più nulla da perdere. In tutti i casi l’esercito impone un blocco completo di una settimana a tutti coloro che rimangono nella Gaza settentrionale. I combattenti di Hamas (il documento Eiland stima che ne siano rimasti 5.000 nel nord ma nessuno conosce effettivamente il loro numero reale) si rifiutano di arrendersi. Sulla televisione internazionale e sui social media le persone in tutto il mondo guardano Gaza City che viene decimata dalla fame di massa. “Preferiamo morire che andarcene”, dicono i residenti ai giornalisti.

Alla TV israeliana i commentatori non sono convinti che una mossa del genere sia decisiva per vincere la guerra. Ma concordano sul fatto che una “campagna di fame e sterminio” sia preferibile al fatto che l’esercito continui a tergiversare a Gaza. Alcune voci degli studi televisivi mettono in guardia dal potenziale danno alle pubbliche relazioni di Israele, ma nonostante ciò il piano ottiene il sostegno della maggioranza del pubblico ebraico-israeliano. I cittadini palestinesi di Israele, che intensificano le proteste contro il genocidio, vengono arrestati anche solo per averne parlato online, e la polizia reprime con la forza le dimostrazioni della sinistra radicale. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken esprime preoccupazione, afferma che Washington è impegnata per l’integrità territoriale di Gaza e la soluzione dei due Stati, e avverte che questa ultima campagna potrebbe sabotare i negoziati per un accordo sugli ostaggi, ma Netanyahu è irremovibile. Sotto pressione della destra, che vede nell’espulsione dei residenti di Gaza City l’opportunità di radere al suolo completamente l’area e costruire colonie sulle rovine, l’esercito inizia la fase di “sterminio” delineata da Rabi.

Poiché l’esercito ha affermato che i civili possono lasciare la parte settentrionale di Gaza, anche se i soldati sparano e uccidono casualmente i civili palestinesi che cercano di evacuare, chiunque rimanga in città viene trattato come un terrorista. Tale strategia è in linea con quanto il tenente colonnello A., comandante dello squadrone di droni dell’aeronautica militare israeliana, ha detto a Ynet ad agosto sull’operazione per salvare gli ostaggi nel campo di Nuseirat: “Chiunque non sia fuggito, anche se disarmato, per quanto ci riguarda era un terrorista. Tutti quelli che abbiamo ucciso dovevano essere uccisi”. La città di Gaza è completamente distrutta e tra le rovine giacciono i corpi di migliaia o forse decine di migliaia di palestinesi. Nessuno conosce il numero esatto, perché l’area rimane una “zona militare chiusa”. L’Operazione Ordine e Pulizia è coronata da successo. L’esercito, come proposto dal piano Eiland, si prepara a replicare operazioni simili a Khan Younis e Deir al-Balah. In coordinamento con i comandanti sul campo, apparentemente senza l’approvazione dello Stato Maggiore, il rinato movimento per la ri-colonizzazione di Gaza – che è rimasto in attesa per mesi – inizia a stabilire le prime nuove comunità nelle aree che sono state “ripulite” dai palestinesi.

Uno scenario probabile ma non ineluttabile

Non è certo che questo scenario si materializzi. Può essere intralciato a vari snodi: l’esercito potrebbe far intendere che non è interessato alla piena occupazione della Striscia di Gaza, né a ripristinarvi un governo militare. L’esercito è consapevole che un’operazione su larga scala potrebbe portare all’esecuzione degli ostaggi rimasti, come è successo a Rafah, e non vuole essere responsabile del loro omicidio. Così come teme che un’operazione su larga scala a Gaza potrebbe innescare una risposta più forte da parte di Hezbollah, e quindi a una guerra intensa su due fronti o forse più.

Nonostante tutta l’indulgenza dimostrata dall’amministrazione statunitense per le azioni genocide di Israele a Gaza, che hanno fatto morire di fame e annientato decine di migliaia di palestinesi, questa fase ulteriore potrebbe essere troppo anche per il presidente autoproclamatosi “sionista” Joe Biden e per la candidata alla presidenza Kamala Harris, che parla di “sofferenza palestinese”. Potrebbe essere la mossa che costringerà la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) a dichiarare che Israele sta commettendo un genocidio e ad accelerare l’emissione di mandati di arresto da parte della Corte Penale Internazionale (ICC), non solo per Netanyahu e Gallant. I paesi europei, che finora sono stati esitanti a sanzionare Israele, potrebbero andare fino in fondo. Netanyahu potrebbe concludere che il prezzo internazionale di un’operazione del genere sia troppo alto, al diavolo i desideri dei suoi alleati di destra.

Anche la società israeliana potrebbe rappresentare un ostacolo all’attuazione del piano. Come appare evidente dalle dimostrazioni di massa delle ultime settimane, gran parte del pubblico ebraico-israeliano ha perso fiducia nelle promesse del governo di “vittoria totale” a Gaza o nell’idea che “solo la pressione militare libererà gli ostaggi”. Guidati dalle famiglie degli ostaggi, che si sono radicalizzate dopo la recente esecuzione da parte di Hamas dei sei ostaggi in un tunnel a Rafah, centinaia di migliaia di israeliani, a quanto pare, vogliono non solo vedere gli ostaggi tornare a casa ma anche lasciarsi la guerra alle spalle. Il piano Rabi-Eiland, che certamente prolungherà la guerra a Gaza e probabilmente farà fallire la liberazione degli ostaggi rimasti, potrebbe essere respinto da centinaia di migliaia di dimostranti proprio per queste ragioni.

Tuttavia bisogna anche ammettere che lo scenario che ho delineato non è inverosimile. Dal 7 ottobre la società israeliana ha subito un processo accelerato di disumanizzazione nei confronti dei palestinesi, ed è difficile pensare che l’esercito rifiuti in massa di portare avanti una simile campagna di sterminio, soprattutto se presentata in fasi: prima costringendo la maggior parte dei residenti ad andarsene, poi imponendo un assedio e solo allora l’eliminazione di coloro che rimangono. Non è semplicemente una questione di vendetta per le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre. All’interno della logica distorta che regola la politica israeliana nei confronti dei palestinesi, l’unico modo per ripristinare la “deterrenza” dopo l’umiliazione militare del 7 ottobre è quello di schiacciare completamente la collettività palestinese, comprese le sue città e istituzioni.

Per qualcuno può essere facile liquidare le proposte israeliane di “finire il lavoro” nella parte settentrionale di Gaza come una magniloquenza genocida difficile da realizzare. Ma il piano è stato concepito da Eiland, Rabi e altre persone influenti, non solo quelle del circolo “messianico” di Ben Gvir e Smotrich. E indipendentemente da ciò che accadrà nei prossimi mesi, il fatto stesso che esplicite proposte di far morire di fame e sterminare centinaia di migliaia di persone siano in discussione dimostra esattamente dove si trova oggi la società israeliana.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La guerra di Gaza è una catastrofe ambientale

Nathalie Rozanes

5 settembre 2024 – +972 Magazine

Rifiuti tossici, malattie trasmesse dall’acqua, vaste emissioni di biossido di carbonio: la dott.ssa Mariam Abd El Hay descrive gli innumerevoli danni dell’ attacco di Israele agli ecosistemi della regione.

“Sempre più gravi carenze di acqua ed elettricità. Inondazioni catastrofiche in aree densamente urbanizzate. Insicurezza alimentare esacerbata da improvvisi aumenti delle temperature, riduzione complessiva delle precipitazioni e l’impatto a lungo termine di sostanze chimiche tossiche”.

Questo è ciò che i climatologi Khalil Abu Yahia, Natasha Westheimer e Mor Gilboa avevano previsto più di due anni fa in un loro articolo su +972 Magazine riguardo al futuro a breve termine di Gaza. Il bombardamento incessante della Striscia da parte di Israele negli ultimi 11 mesi ha causato conseguenze umanitarie indicibili, ma avrà anche effetti drammatici e duraturi sull’ambiente naturale di Gaza, già in pericolo, e certamente su quello dell’intera regione.

È quasi impossibile pensare alla crisi climatica in mezzo a così tanta morte e distruzione”, ha scritto Westheimer lo scorso novembre, dopo che Abu Yahia è stato ucciso in un attacco aereo israeliano. Ma la realtà è che questultimo mese Gaza è sprofondata ancora di più in una crisi umanitaria e i suoi due milioni di residenti sono più esposti che mai agli impatti del cambiamento climatico”.

A giugno il Center for Applied Environmental Diplomacy [Centro per la diplomazia ambientale applicata] presso l’Arava Institute for Environmental Studies ha pubblicato un nuovo ampio rapporto sull’impatto ambientale dell’attuale attacco di Israele a Gaza. Il rapporto comprende una miriade di danni ambientali legati alla guerra, dalla grande quantità di polvere tossica rilasciata dai bombardamenti sugli edifici al crollo della gestione dei rifiuti, dalla distruzione degli impianti di trattamento delle acque alla proliferazione di malattie trasmesse dall’acqua.

Sebbene siano i palestinesi di Gaza ad affrontare la minaccia più grave, il rapporto chiarisce che l’intero territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo fa parte di un unico ecosistema, in cui salute e ambiente sono interconnessi in un fragile equilibrio. Ciò è risultato particolarmente evidente con la recente scoperta del poliovirus nelle acque reflue di Gaza. L’esercito israeliano ha iniziato a somministrare dosi di richiamo contro la poliomielite ai soldati israeliani prima di accettare finalmente una campagna di vaccinazione per i bambini palestinesi presenti nel territorio di età inferiore ai 10 anni; Israele si è mostrato anche improvvisamente interessato a ricostruire l’infrastruttura per il trattamento delle acque reflue che aveva distrutto.

Il rapporto evidenzia anche il legame tra conflitto armato e riscaldamento globale. Il 21 luglio il pianeta ha vissuto il giorno più caldo mai registrato; in Medio Oriente le temperature stanno aumentando in media a una velocità doppia rispetto al resto del mondo.

Per comprendere meglio l’impatto ambientale della guerra +972 ha parlato con la dott.ssa Mariam Abd El Hay, ricercatrice in dinamiche sociali e impatti ambientali dei conflitti e cittadina palestinese di Israele della città di Tira. Abd El Hay è l’autrice del nuovo rapporto cui hanno contribuito anche Elaine Donderer e il dott. David Lehrer, direttore del centro. L’intervista è stata rivista per motivi di lunghezza e chiarezza.

Qual è la situazione ambientale a Gaza in questo momento?

La situazione è estremamente allarmante. Prima del 7 ottobre l’ambiente di Gaza era già in condizioni di grande precarietà. Anni di campagne israeliane di bombardamenti, restrizioni alle importazioni israeliane ed egiziane e una governance disfunzionale avevano portato a carenze croniche di energia elettrica e ritardato la costruzione di strutture essenziali. L’accesso di Gaza all’acqua pulita era criticamente basso, caratterizzato dalla dipendenza da tre condotte israeliane, e il 97% dell’acqua potabile era contaminata e non sicura. Le infrastrutture per il trattamento dei rifiuti e dell’acqua erano già compromesse, il che determinava una combustione incontrollata dei rifiuti nelle discariche, un inquinamento dell’aria e del suolo e la contaminazione delle falde acquifere dovuta al percolato.

Ma durante la guerra il degrado ambientale a Gaza è peggiorato esponenzialmente: mentre i bombardamenti di Israele distruggevano le infrastrutture, una quantità incontrollata di polvere tossica è stata rilasciata nell’aria e la gestione delle acque reflue è completamente crollata a causa della carenza di carburante.

Ad aprile la distruzione di edifici in tutta la Striscia di Gaza aveva prodotto circa 37 milioni di tonnellate di detriti. Quando gli edifici vengono danneggiati o crollano rilasciano nell’ambiente nuvole di fumo, polvere tossica e gas nocivi.

Le esplosioni frantumano i materiali da costruzione in minuscoli pezzi, che rilasciano nell’ambiente particelle tossiche poi assorbite dagli esseri umani. Anche se la massima esposizione a queste tossine avviene al momento dell’esplosione, le microparticelle di polvere e cenere tossica vengono disperse dal vento e impregnano le persone a piedi e i veicoli in movimento. Inoltre l’esercito israeliano ha utilizzato il fosforo bianco, un’arma incendiaria altamente tossica. Di conseguenza, mentre i cittadini di Gaza affrontano i rischi più gravi per la salute, palestinesi, israeliani e tutti gli altri esseri viventi nella regione continueranno a soffrirne le conseguenze per gli anni a venire.

A Gaza l’amianto, che è altamente cancerogeno sotto forma di polvere, è comunemente utilizzato nell’edilizia, con ulteriore incremento del rischio di cancro per inalazione. Era già stato trovato nella polvere tossica in seguito al bombardamento israeliano della Striscia nel 2021.

A causa della guerra in corso è impossibile convalidare sul campo le nostre risultanze, ma possiamo stimare il tipo e la quantità di sostanze chimiche rilasciate nell’ambiente di Gaza da estesi bombardamenti utilizzando la nostra conoscenza sui materiali da costruzione locali, sui dati storici relativi ad aree di conflitto e su incidenti passati, come gli attacchi dell’11 settembre a New York. Oltre due decenni dopo le persone sono ancora alle prese con problemi di salute correlati ai detriti e alla polvere, tra cui malattie delle vie aerodigestive e tumori.

Quali sono le preoccupazioni ambientali e sanitarie associate al crollo dell’infrastruttura per il trattamento dei rifiuti di Gaza?

Decine di migliaia di tonnellate di rifiuti residenziali si sono accumulate nelle strade e nelle discariche informali, a causa della carenza di carburante necessario per far funzionare i macchinari per il trattamento dei rifiuti. Ciò può portare all’inquinamento del suolo e delle falde acquifere, nonché contribuire a un’eccessiva fioritura di alghe lungo la costa, mettendo in pericolo la vita marina e i bagnanti.

Una gestione inadeguata dei rifiuti sta anche attirando animali, come i ratti, che possono trasmettere malattie agli esseri umani. Inoltre le alte temperature e l’umidità estive della nostra regione creano le condizioni perfette per lo sviluppo e la riproduzione dei batteri.

Con il crollo del sistema sanitario di Gaza i palestinesi non hanno potuto ricevere cure adeguate sin dallo scoppio della guerra. È un miracolo che non stiamo ancora assistendo a epidemie ancora peggiori a Gaza e in tutta Israele-Palestina, ma è inevitabile che accada.

Sappiamo quanti rifiuti tossici sono stati prodotti?

Si stima che la guerra in corso abbia già prodotto almeno 900.000 tonnellate di rifiuti tossici. Questi inquinanti, che includono materiali radioattivi e cancerogeni, metalli pesanti, pesticidi e altre sostanze chimiche, emessi sia attraverso l’uso di munizioni militari sia in seguito alla distruzione di edifici, persistono nell’ambiente, rappresentando una minaccia per tutte le forme di vita, compresi animali e vegetazione. Contaminano il suolo, l’aria e le fonti d’acqua, mettendo a repentaglio gli ecosistemi.

Un ecosistema particolarmente minacciato dal deflusso di rifiuti tossici è Wadi Gaza, una riserva naturale all’interno della Striscia. Ricca di biodiversità, questa distesa di terra larga nove chilometri corre verso ovest dalla recinzione di confine fino al mare. È un’estensione del torrente Besor, che scorre da Hebron in Cisgiordania attraverso Be’er Sheva in Israele fino al Mar Mediterraneo. Gli uccelli acquatici locali e gli uccelli migratori che viaggiano attraverso i continenti utilizzano le zone umide costiere di quest’area come habitat.

Può dirci di più sullo stato del trattamento delle acque a Gaza?

La situazione era già estremamente critica dato che Israele controlla da tempo l’approvvigionamento idrico di Gaza, ma è stata gravemente peggiorata dalla guerra. Tra le infrastrutture ora danneggiate o distrutte ci sono pozzi di acqua potabile, reti idriche come pompe e bacini, strutture igienico-sanitarie, reti fognarie, impianti di desalinizzazione, infrastrutture per le acque piovane, scarichi fognari marini e impianti di trattamento delle acque reflue. Inoltre a metà novembre la mancanza di carburante ha reso inevitabile la chiusura di tutti e cinque gli impianti di trattamento delle acque reflue di Gaza e la maggior parte delle sue 65 stazioni di pompaggio, come riportato da Oxfam.

Prima della guerra 13.000 metri cubi di liquami grezzi fluivano nel mare da Gaza ogni giorno. Ma ora, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) stima che questa cifra sia salita vertiginosamente fino a 130.000 metri cubi al giorno. E a causa della distruzione degli impianti di trattamento delle acque reflue le persone sono costrette a consumare acqua salmastra e contaminata e a usarla per cucinare, lavare e per l’igiene personale.

Le conseguenze per la salute derivanti dal consumo di acqua contaminata sono disastrose, soprattutto per i bambini, che costituiscono il 47% della popolazione di Gaza. Aumenta significativamente il rischio di colera, tifo, poliomielite e altre malattie correlate all’acqua. Già a novembre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che le malattie infettive associate alla scarsità e alla contaminazione dell’acqua potrebbero alla fine uccidere a Gaza più persone della stessa violenza militare.

Inoltre, ricercatori e medici hanno recentemente sollevato il problema dell’emergere e il diffondersi di batteri resistenti al trattamento antibiotico in base al fenomeno della resistenza agli antibiotici (AMR). L’acqua contaminata può anche facilitare il contatto tra batteri e metalli pesanti rilasciati dagli esplosivi, che sono un fattore che contribuisce all’AMR.

Come si diffondono queste malattie trasmesse dall’acqua?

I batteri che causano queste malattie possono vivere in corsi d’acqua salmastra e acque costiere e, una volta trasmessi agli esseri umani, si diffondono attraverso il consumo di acqua o cibo contaminati dalle feci di una persona infetta.

Le acque reflue permeano le strade e i corsi d’acqua e si infiltrano nel terreno, contaminando il cibo e attraversando la recinzione tra Israele e Gaza attraverso Wadi Gaza, il Mar Mediterraneo e la falda acquifera, una fonte d’acqua sotterranea che si estende dalla penisola del Sinai in Egitto alla costa israeliana lungo il Mediterraneo orientale. La falda acquifera è permeabile, poco profonda e senza confini, con acque sotterranee che scorrono dall’entroterra al Mar Mediterraneo.

Inoltre il flusso delle acque costiere riveste un’importanza cruciale: a causa delle correnti mediterranee le acque reflue che raggiungono la costa di Gaza scorrono verso sud e possono infettare le persone lungo la costa egiziana.

Può chiarire la correlazione tra la guerra e le emissioni di gas serra?

Semplicemente il nostro pianeta non può sostenere un conflitto armato. L’uso delle armi in sé e la detonazione di esplosivi rilasciano nell’atmosfera grandi quantità di gas serra, il principale motore del cambiamento climatico, e di particolato. Si stima che il 5,5 percento delle emissioni di gas serra del mondo sia il risultato di attività militari.

Solo nella giornata del 7 ottobre l’attacco di Hamas ha emesso circa 646 tonnellate di anidride carbonica. Poi, solo nei primi due mesi di guerra, il bombardamento aereo e l’invasione terrestre di Gaza da parte di Israele hanno emesso circa 281.000 tonnellate di CO2.

Questo volume di emissioni causato dall’esercito israeliano in quei primi due mesi equivale alla combustione di circa 150.000 tonnellate di carbone. Ho fatto un rapido calcolo in modo che possiamo visualizzare qualcosa di concreto: bruciare quella quantità di carbone rappresenta circa 24.772 anni di consumo di elettricità da parte di una famiglia.

Inoltre, secondo l’Autorità per la Natura e i Parchi di Israele, gli attacchi di Hezbollah dall’altra parte del confine libanese (dal 7 ottobre oltre 7.500 razzi, missili e droni) hanno causato la combustione di 8.700 ettari nel nord di Israele a causa degli oltre 700 incendi boschivi. Si tratta di un’area 12 volte più grande di quella interessata dagli incendi degli anni precedenti, in una regione che già ogni estate brucia con sempre maggiore frequenza.

Queste foreste e terreni agricoli ospitano animali e piante rare e assorbono circa sette tonnellate di anidride carbonica per ettaro all’anno, più o meno l’equivalente delle emissioni medie di un’auto e mezza in un anno. Quindi abbiamo già perso una capacità di assorbimento equivalente alle emissioni medie annuali di 5.800 auto.

Secondo il programma Land and Natural Resources dell’Università di Balamand gli attacchi israeliani nel Libano meridionale hanno bruciato circa 4.000 ettari, il che significa una perdita di capacità di assorbimento addizionale equivalente alle emissioni di circa 2.600 auto. Per fare un paragone, nei due anni precedenti, l’area totale bruciata dagli incendi in Libano è stata di 500-600 ettari. Con la minaccia di un’ulteriore escalation al confine tra Israele e Libano, questo potrebbe essere solo l’inizio.

Nel caso delle auto il modo in cui vengono prodotte le emissioni appare chiaro. Come fa l’esercito a produrre emissioni così elevate?

Le fonti di queste emissioni includono la produzione e la detonazione di esplosivi, artiglieria, razzi, nonché operazioni aeree, manovre di carri armati e consumo di carburante per veicoli. Solo dal 7 ottobre alla fine di dicembre, e ora siamo a otto mesi di bombardamenti, le forze israeliane hanno sganciato sulla Striscia di Gaza oltre 89.000 tonnellate di esplosivi. Inoltre, durante quei primi tre mesi sono stati effettuati 254.650 voli militari.

Come ha sostenuto Amitav Gosh, “nell’era del riscaldamento globale, nulla è davvero lontano”. Come si faranno sentire gli effetti del cambiamento climatico e del riscaldamento globale in Israele-Palestina e nell’area più vasta?

Nei prossimi 50 anni si prevede che temperature più elevate combinate con livelli più alti di umidità renderanno invivibili vaste aree del globo, tra cui parti del Medio Oriente, che si sta riscaldando due volte più velocemente della media globale. Il Ministero dell’Ambiente israeliano ha previsto un aumento di 4 gradi delle temperature medie entro la fine del secolo.

Coloro che sono sfollati e cercano rifugio da qualche parte a Gaza sono ora più impreparati che mai ad affrontare temperature più elevate in estate e inondazioni in inverno. Ma anche in Israele gli effetti del cambiamento climatico si fanno già in qualche modo sentire. Ad esempio, quest’estate il virus del Nilo occidentale [simile al virus della febbre gialla, ndt.] ha già ucciso in Israele almeno 440 persone. Il virus, che si diffonde in tutto il mondo tramite uccelli migratori e viene trasmesso agli esseri umani dalle zanzare, e può essere mortale per gli anziani e gli immunodepressi, è una conseguenza diretta del rialzo delle temperature e dell’umidità della scorsa primavera.

Quali sono le possibili conseguenze ambientali dello sforzo necessario per la ricostruzione di Gaza?

Si stima che durante la prevista costruzione postbellica necessaria per riparare a Gaza 100.000 edifici danneggiati saranno prodotti altri 30 milioni di tonnellate di gas serra. Il settore edile in tutto il mondo è responsabile di circa l’11% delle emissioni globali di anidride carbonica e comprende attività come la produzione di cemento e acciaio, il trasporto di materiali, il funzionamento di macchinari e la demolizione di edifici.

L’iniziativa Jumpstarting Hope in Gaza, una coalizione di ONG ed enti del settore privato guidata da Damour for Community Development a Gaza e supportata dall’Arava Institute, ha pubblicato un piano per la fornitura localizzata di energia e materiali sostenibili per ridurre al minimo il ricorso aggiuntivo ad apporti esterni. Un’idea, ad esempio, è quella di ricavare mattoni dalle macerie esistenti. Ma tutto questo, ovviamente, richiede un cessate il fuoco duraturo.

Nathalie Rozanes è un’attrice, scrittrice e performer originaria di Bruxelles, attualmente residente a Jaffa-Tel Aviv.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Questa guerra è anche dell’America”: perché gli Stati Uniti non fermano l’attacco israeliano a Gaza

Meron Rapoport

2 settembre 2024 +972Mag

In seguito ai massacri di Hamas del 7 ottobre il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è recato in Israele per una visita di solidarietà. Ma pochi giorni prima del suo arrivo, mentre lo sforzo bellico si intensificava, aveva lanciato un brusco avvertimento: “Ho chiarito agli israeliani che ritengo sia un grosso errore per loro pensare di occupare Gaza e mantenere il controllo su Gaza”, ha detto ai giornalisti.

Da allora Biden ha ribadito che Israele deve prevenire una crisi umanitaria ed evitare di nuocere ai civili, esortando i suoi leader a non ripetere gli errori commessi dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan. Se Israele avesse invaso la città meridionale di Rafah, aveva minacciato Biden a marzo, Washington avrebbe smesso di fornire armi offensive.

Israele ha ignorato tutti gli avvertimenti: ha occupato Gaza, ha invaso Rafah, ha provocato una devastazione incommensurabile e ha sabotato ogni accordo di cessate il fuoco insistendo che le sue forze armate sarebbero rimaste nella Striscia. E invece di imporre qualche sanzione, gli Stati Uniti hanno dislocato due volte le proprie forze armate nella regione per “metterci una pezza” dopo che il loro alleato aveva compiuto omicidi ad alto livello a Damasco, Beirut e Teheran.

Ma gli Stati Uniti non sono in grado o semplicemente non sono disposti a imporre le proprie richieste a Israele? Questa guerra dimostra forse che Israele è un peso piuttosto che una risorsa strategica, come molti a Washington sostengono da tempo? E data la crescente opposizione all’interno del Partito Democratico al sostegno incondizionato a Israele e il risentimento tra gli elettori democratici in vista delle elezioni di novembre, perché l’amministrazione Biden non ha cambiato rotta?

La risposta a queste domande è molto semplice, dice Daniel Levy, presidente del Progetto USA/Medio Oriente: Washington non ferma Israele perché questa è anche una sua guerra.

Ex consigliere della squadra negoziale israeliana durante il processo di pace di Oslo, e ora largamente riconosciuto come acuto critico di Israele, Levy ha parlato con +972 e Local Call [versione israeliana di +972, ndt.] della necessità di moderare le aspettative sui cambiamenti che si stanno verificando nella politica americana e nella società nei confronti di Israele. Invece di aspettare che Washington cambi le sue politiche, ha sottolineato, sia i palestinesi che la sinistra israeliana dovrebbero riconoscere le diverse realtà geopolitiche che li circondano e abbandonare la fantasia che l’America possa risolvere i loro problemi.

Questa conversazione è stata rivista per motivi di lunghezza e chiarezza.

Non ricordo nella politica americana che la questione palestinese abbia mai occupato una National Convention dei democratici, o che sia stata una questione così controversa com’è adesso. Israele ha sempre avuto un sostegno bipartisan: non c’è mai stato alcun dibattito. Mi sbaglio?

Hai completamente ragione. Dunque per me la domanda è: com’è che abbiamo avuto 10 mesi di guerra orribile? Con tutto ciò che sappiamo su Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir, e con tutto ciò che sappiamo sull’opinione pubblica americana e sugli elettori democratici, come può essere che il Partito Democratico sia totalmente riluttante a imprimere un cambiamento significativo nella narrativa pubblica o nella politica di impunità? Permette letteralmente a Israele di farla franca qualsiasi cosa faccia.

Facciamo un passo indietro. Cosa è cambiato nell’opinione pubblica americana nei confronti di Israele-Palestina negli ultimi 10 mesi?

Ciò che è accaduto è l’accelerazione di una tendenza esistente da molto tempo [il declino del sostegno americano a Israele]. Una delle cose principali [che guidano questa tendenza] sono i cambiamenti [politici] in Israele, e negli Stati Uniti gli americani stanno unendo i puntini e vedono ora Israele-Palestina come una questione di giustizia razziale e intersezionalità [sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, ndt.]

Avevamo un’espressione [per gli americani liberali ancora filo-israeliani]: “PEP” – Progressisti tranne che con la Palestina. Ma ora, dal lato progressista, si paga un prezzo se la propria politica su Palestina e Israele è decisamente fuori sincronia con il resto di quella politica.

Quindi ora è PEP – Progressista, soprattutto con la Palestina?

Non lo direi. Ma la cosa interagisce con i cambiamenti in Israele. Il più evidente è una leadership israeliana che non tenta nemmeno di mascherare la propria natura di apartheid o il proprio razzismo. In secondo luogo non c’è nessun parlamentare della sinistra sionista in Israele che possa rivolgersi non certo ai progressisti, ma anche al più rilevante “centro-sinistra” moderato con una certa credibilità, visto che le loro posizioni sono così spaventose, così poco progressiste, persino illiberali.

In questa equazione bisogna inserire anche il rafforzamento dell’alleanza tra la destra israeliana e quella americana, che ha iniziato a far sì che i democratici si chiedessero: “A che gioco giochiamo?”. Israele è una causa globale di destra, ma lo è soprattutto in America e in Israele; la quasi totalità del campo sionista ha abbracciato questo [fatto], anche quelli che dicono che si dovrebbe essere più bipartisan.

L’altra cosa [che ha scosso l’opinione pubblica] è il tempo: l’occupazione sembra essere eterna ed è evidente che Oslo è diventato un meccanismo per la bantustanizzazione.

Quanto ha influito il 7 ottobre e quello che vi ha fatto seguito?

C’è stata la contrapposizione tra un’amministrazione che [quando si è trattato dell’invasione russa dell’Ucraina] ha affermato di essere “sostenitrice del diritto internazionale e dell’ordine internazionale basato sulle regole” – e poi ha totalmente messo da parte e scartato tutto ciò [dopo il 7 ottobre], con un presidente del tutto incapace ad accordare umanità ai palestinesi di fronte a una realtà tanto orrenda.

L’amministrazione Biden sta facendo esattamente il contrario di ciò che ha a lungo sostenuto sull’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e questo ovviamente genera una controreazione. Tutte queste cose ribollivano sotto la superficie in attesa di emergere.

Nel suo discorso alla Convention democratica, Kamala Harris ha sottolineato il diritto di Israele a difendersi, ma ha anche parlato della sofferenza dei palestinesi a Gaza, promettendo di lavorare affinché “il popolo palestinese possa realizzare il proprio diritto alla dignità, alla sicurezza, alla libertà e all’autodeterminazione”. Il pubblico ha applaudito quella frase più di ogni altra dell’intero discorso.

Ho visto due analisi del discorso: per il sito di notizie israeliano Ynet, Nadav Eyal ha scritto che Israele ha ottenuto esattamente ciò che voleva da Harris; il sito di notizie progressista americano Vox, nel frattempo, ha scritto che Harris ha presentato un approccio al conflitto diverso da quello di Biden, più favorevole ai palestinesi. Come vedi il suo discorso?

Penso che abbia ottenuto ciò che voleva: che entrambi i generi del giornalismo potessero esprimersi e che potessero appoggiarlo sia l’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, potente gruppo di lobbying filo-israeliana, ndt.] che J Street [gruppo statunitense progressista di promozione dell’azione americana per porre fine al conflitto arabo-israeliano, ndt.] Ma se guardiamo al movimento per i diritti dei palestinesi o al Movimento Uncommitted [campagna di protesta affinché Joe Biden e Kamala Harris raggiungano un cessate il fuoco nella guerra Israele-Hamas e impongano un embargo sulle armi a Israele, ndt.] non sono affatto presi in considerazione. Il modo in cui la Convention ha trattato la questione dice tutto quello che serve sapere sui modi in cui le cose non stanno cambiando – per esempio, [il fatto che non ci fosse] nessun portavoce o punto di vista palestinese sul palco.

Harris può ben parlare delle cose brutte che sono accadute ai palestinesi, ma dalle sue parole non si capisce chi le ha causate: un disastro naturale? un terremoto? Quando Hamas fa qualcosa di brutto viene denunciato e svergognato; ma quando accadono cose brutte ai palestinesi, non si ammette mai che sono causate da Israele.

Le sfumature e le differenze tra Biden e Harris esistono, e contano, ma dobbiamo comunque approfondire. L’aspettativa che gli Stati Uniti risolveranno la questione è totalmente fuori luogo. Questo è un fallimento di almeno una parte del campo progressista israeliano che guarda all’America per salvare Israele da se stesso: è totlmente irrealistico, roba da paese delle fate. Questa è anche la guerra dell’America. Israele non avrebbe potuto farcela senza tutte le armi che l’America gli ha fornito. A meno che la politica americana e proprio la coscienza del suo interesse nazionale non cambino, non c’è motivo di pensare che qualcosa cambierà in modo significativo.

Questa può anche essere una guerra dell’America, ed è vero che nessuno del movimento Uncommitted ha parlato, ma la Palestina era ed è ancora oggi la questione più controversa nel Partito Democratico. Come vedi questi cambiamenti?

Sicuramente non sto dicendo che qui non ci sia storia. Ci sono segnali molto positivi e importanti che costruiranno qualcosa, non scompariranno. Ma non credo che siamo vicini a un punto di svolta.

Quando interpretiamo erroneamente la profondità e il ritmo del cambiamento in America si tratta di un autogol in due sensi. In primo luogo, gli stessi americani hanno l’impressione che basti che [i politici] mandino questi piccoli indizi – che Harris rappresenti uno spostamento in questo senso di tre gradi rispetto a Biden –per aver fatto abbastanza, e che questo abbia effettivamente un effetto concreto.

In secondo luogo, quando si monta questa aspettativa irrealistica, si aiuta [a rafforzare in Israele] la narrativa di “Bibi il Mago” – che in qualche modo, sebbene gli americani stessero davvero per punire Israele, questo non è accaduto. Non succede in primo luogo perché non sarebbe mai successo. Ma nella narrativa israeliana si tratta di un’altra vittoria per Netanyahu: il mago lo ha impedito.

Torniamo ai cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti nei confronti di Israele. Si poteva parlare di questi temi nel Partito Democratico 20 anni fa?

No, ma dove eravamo 20 anni fa? Importanti organizzazioni per i diritti umani, comprese quelle israeliane, hanno ora espresso accuse di apartheid [per quanto riguarda Israele], insieme a molti Stati e [probabilmente] alla stessa Corte internazionale di giustizia. Ma è ancora proibito parlarne negli ambienti politici democratici – del fatto che è verosimilmente in corso un genocidio, e che è chiaro che Israele sta commettento crimini e azioni illegali. Israele ha in gran parte perso sul piano della narrazione, ma non bisogna sottovalutare quante cose possono ancora essere controllate dal peso schiacciante del denaro e delle forze filo-israeliane.

Quindi Israele ha perso la causa ma si salva col denaro?

Soldi, narrazioni sull’antisemitismo (un impegno concertato che ha avuto molto successo) e il fatto che l’establishment ebraico americano sia rimasto totalmente accanto a Israele. Non una delle principali organizzazioni di retaggio ebraico dissente. L’Anti-Defamation League [ONG internazionale ebraica con sede negli USA, sostenitrice della politica israeliana, ndt.] è molto efficace nell’usare l’antisemitismo come un’arma e strumentalizzarlo e criminalizzare la libertà di espressione palestinese.

Ciò include J Street?

J Street esprime una critica abbastanza morbida. È diventato progressivamente più importante all’interno del Partito Democratico, ma sempre meno incisivo e significativo. JStreet può contare sulla carta su più membri [del Congresso], ma il contenuto della sua critica è sostanzialmente ininfluente.

Non chiedono sanzioni o aiuti condizionati?

Debolmente. Non si tratta solo di Israele; nelle elezioni primarie il Partito Democratico ha consentito quelle che vengono chiamate “campagne di spesa indipendente”. Le primarie più costose nella storia del Congresso si sono svolte in questo ciclo per cacciare Jamaal Bowman e anche Cori Bush [potenti lobby ebraiche spesero rispettivamente 15 e 8,5 milioni per sconfiggerli alle primarie, ndt.] In fin dei conti, quelle primarie sono state decise dai soldi, che hanno un’enorme influenza; altri politici dicono: “Mi piacerebbe stare dalla loro parte, ma non voglio perdere il mio posto per questo problema.” L’establishment democratico non ha difeso Bowman o Bush, anche se l’hanno pagata col calo di entusiasmo e mobilitazione della base elettorale.

Così, mentre il movimento per i diritti dei palestinesi ha costruito un movimento di forza popolare, le forze filo-israeliane hanno raddoppiato il potere finanziario. Il Partito Democratico avrebbe potuto dire che non avrebbe consentito campagne di spesa indipendente perché sono una parodia e una vergogna per la democrazia, ma non l’ha fatto – e quindi l’ha consentito alle forze filo-israeliane.

Quello che sto dicendo è che questo è un movimento importante e crescerà, ma se lo stimi troppo ne ricavi un’analisi politica sbagliata.

Se dovessi valutare il peso di ciascuno dei molti elementi che impediscono il cambiamento nei confronti di Israele-Palestina, quale diresti sia il fattore più importante?

Vorrei tentare la seguente analogia: il controllo delle armi è diventato una questione [popolare] per gran parte dell’elettorato americano, molto più che per la Palestina. Sì, ci sono i diritti del Secondo Emendamento [di detenere e portare armi, ndt.] e una cultura intorno [al possesso di armi], ma ciò che tiene in pugno il controllo delle armi in termini di cambiamenti legislativi e politici è il potere finanziario della lobby delle armi. Senza soldi in politica le cose sarebbero diverse.

È anche importante sottolineare che è un mondo diverso. Negli anni ’90 vivevamo in un mondo unipolare: era il momento americano, post-Unione Sovietica, pre-11 settembre, pre-Cina. Oggi vediamo ancora il mondo attraverso l’America, ma una strategia intelligente partirebbe dal fatto che l’America è nemica, non amica della pace in Medio Oriente.

Una diversa geopolitica ci aiuta a riconoscere questa circostanza. I paesi del Sud del mondo, guidati dal Sud Africa, hanno sostenuto la mossa per l’accusa di genocidio alla Corte Internazionale. I paesi del Sud del mondo hanno guidato il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia riguardo a tutta l’occupazione, con deposizioni da parte di Indonesia, Namibia, Malesia e alcuni stati arabi [tra gli altri].

Non sto suggerendo che ci sia un’egemonia mondiale migliore in attesa di sostituire l’America. Ogni Stato è amico dei propri interessi, non necessariamente di una vaga nozione di pace. Ma viviamo in un mondo in cui l’America non può più far valere comunque i propri interessi. E quindi la domanda cruciale, soprattutto per i palestinesi, è: perché continuare a guardare esclusivamente all’America come leader? È un errore terribile da parte dei palestinesi, ed è un errore nel quale anche gli israeliani dovrebbero evitare di cadere.

Pensando a Israele, ci dovrà essere una combinazione di cambiamento dall’interno e pressioni dall’esterno. Forse dovremmo pensare la stessa cosa per l’America: è necessario spingere per un cambiamento dall’interno, ma ci devono essere anche dei costi dall’esterno se l’America continua su questa strada. L’America può farla franca perché non sta pagando molto, ma penso che la dinamica stia cambiando.

Dopo che Blinken ha fallito clamorosamente nella sua ultima visita in Israele e ha elogiato Netanyahu invece di fare pressioni su di lui, perfino l’establishment della sicurezza israeliano ha iniziato a rendersi conto che la salvezza non verrà dagli Stati Uniti, definendoli una condanna a morte per la possibilità di raggiungere un accordo, liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra. Quindi anche in Israele stiamo assistendo a questo cambiamento.

Penso che Blinken abbia ricevuto un incarico dal suo capo che non consentiva alcun progresso, ma lui lo ha portato a un livello inedito di stupidità e dilettantismo. Sarebbe utile se la gente [in Israele] smettesse di aspettarsi che gli Stati Uniti risolvano tutti i loro problemi, allora effettivamente si potrebbe avere una vera opposizione.

Ma al momento non c’è niente. Liberman [leader di un partito conservatore ed ex Ministro della Difesa, ndt.] continua a salire nei sondaggi dicendo che dovremmo far morire di fame Gaza. Gantz dice che avremmo dovuto combattere una guerra più ampia con Hezbollah molto tempo fa. Lapid va in giro per il mondo dicendo che ogni protesta palestinese è antisemita e che il BDS è il più antisemita.

Quando è stato chiaro che Netanyahu aveva nuovamente rifiutato la richiesta americana di ritirare le truppe dal corridoio Philadelphi, ho visto un momento su Al Jazeera in cui il conduttore chiedeva al suo intervistato: “Come è possibile che Israele dica no al paese più forte del mondo e ne esca illeso?” Che impatto pensi che il rifiuto di Israele avrà sullo status degli Stati Uniti nella regione?

La scuola pragmatica del pensiero americano sulla sicurezza nazionale considera questo un disastro per gli interessi americani e profondamente dannoso per la reputazione dell’America – e che l’America possa essere coinvolta dal suo alleato in un’azione militare molto più estesa. Ciò ha generato un’altra ondata di rabbia globale contro l’America, perché questa è anche una guerra dell’America.

Israele deve anche chiedersi se ha interesse a contribuire all’indebolimento dell’America. Il fatto che Israele sia in grado di mostrare agli Stati Uniti chi è che comanda influisce concretamente sul modo in cui l’America viene percepita a livello globale. La narrazione di Bibi secondo cui “Ci difenderemo da soli, non abbiamo bisogno di nessuno” si è rivelata la più grande stronzata. Come può essere nell’interesse di Israele indebolire l’America proprio quando ne ha più bisogno? Ma in un momento in cui Israele appare militarmente più debole e la capacità dell’Asse della Resistenza è cresciuta, Israele sta minando l’America e allo stesso tempo ci fa più affidamento.

Non ho l’impressione che [i decisori israeliani stiano] discutendo di questo a porte chiuse. Forse lo fanno, ma sono sorpreso che non si palesi un’analisi strategica più chiara.

Penso che ci sia un riconoscimento tra i vertici israeliani che le cose non stanno andando nella giusta direzione, ma non hanno il coraggio o la capacità di cambiarle. Ma gli Stati Uniti non vedono questo processo? Non sono tutti stupidi. E perché Washington ha bisogno di Israele?

Sono sicuro che ci sia un analista israeliano da qualche parte al Pentagono che ha scritto un articolo proprio su quanto Israele sia in pericolo a causa di ciò che sta facendo. Pensiamo che questo riesca a risalire tutta la catena di comando? Ne dubito.

Ma sul pericolo per gli interessi degli Stati Uniti, penso che sia una di quelle cose per cui l’America dice: sì, ce lo dicono da secoli ma non succede. L’America pensa ancora di poter ammortizzare il costo che sta pagando.

Poi c’è il problema di come Israele interpreta il mondo e la regione, e quale sia l’alternativa da offrire a Netanyahu. L’opposizione sembra suggerire di poter fare causa comune con l’America e gli Stati arabi [alleati] contro l’Asse della Resistenza, ma per farlo devono dare qualcosa, anche molto poco, ai palestinesi.

Anche se è vero che la maggior parte degli Stati arabi non sono sostenitori dell’Iran, non vogliono una guerra. L’Arabia Saudita e l’Iran hanno raggiunto un’intesa sotto l’ombrello diplomatico cinese. L’Arabia Saudita vuole per lo meno evitare rischi con l’Iran. Gli Emirati Arabi Uniti hanno relazioni economiche molto forti con l’Iran. L’Iran è ora molto più legato alla cooperazione con Cina e Russia, come si vede nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. L’Iran si sta ora unendo ai BRICS. La geopolitica è davvero cambiata, quindi dobbiamo pensare a come raggiungere una riduzione globale della tensione, e l’Iran dovrà parteciparvi.

Questo è il vero cambiamento: le dinamiche geopolitiche nella regione e l’indebolimento degli Stati Uniti.

Sì, esattamente.

E pensi che abbia già avuto un effetto?

Penso di sì. L’Iran ha meno bisogno dell’Occidente, poiché l’asse alternativo sta diventando sempre più forte. Le élite arabe sono piuttosto radicate nel loro orientamento e lusso occidentale, ma le realtà dell’economia globale – le catene globali di approvvigionamento e le materie prime, l’iniziativa [cinese] Belt and Road – sono realtà strutturali e tangibili, e significano che il centro di gravità si sta spostando.

Poco prima del 7 ottobre, a margine della riunione del G20 a Delhi, c’è stato l’annuncio della creazione di un corridoio India-Medio Oriente-Europa, compresa Israele, come concorrente della Belt and Road Initiative. Non ne verrà fuori nulla. La Belt and Road Initiative è reale; questo IMEC, un treno da Delhi a Tel Aviv, è un bel sogno.

Se oggi dovessi progettare un nuovo sforzo per la pace, farei di tutto per rompere il monopolio americano. Ciò significa che i palestinesi devono fondamentalmente spostare i loro pensieri da un presunto primato statunitense o occidentale e devono usare la geopolitica a proprio vantaggio.

Concordo ed è mia convinzione che l’elemento più significativo del sostegno statunitense a Israele non consista nelle armi che invia, ma nella copertura politica che fornisce: un veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro le risoluzioni anti-israeliane, comprese quelle che possono arrivare dalla Corte Internazionale di Giustizia. Delle pressioni sull’America possono influenzare proprio questo.

Sono d’accordo con te. E c’è un’altra cosa: forse da parte americana c’è molto cinismo in alcune parti del ragionamento. Considerano Israele militarmente potente e in grado di fare una parte di ciò di cui l’America ha bisogno per prevenire un egemone regionale ostile [l’Iran] – quindi, sotto questo aspetto, pensano che Israele sia eccezionale. E se gli israeliani si autodistruggono, Washington troverà un’altra soluzione.

Questo è il problema. Guarda l’America con l’Ucraina: sono felici di combattere la Russia fino all’ultimo ucraino. Perciò l’America non agisce così per profondo amore, ma perché Israele è utile: combatti Hamas e Hezbollah, e se per te le cose finiscono in modo disastroso, troveremo un altro modo di constrastarli.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)