Netanyahu non è l’unico interessato a prolungare la guerra

Menachem Klein 

9 aprile 2024 – +972 magazine

Un’ampia coalizione di forze politiche, dall’estrema destra israeliana alla sinistra sionista, ha motivazioni diverse per trasformare la guerra nella nuova normalità.

Per la maggior parte degli israeliani la guerra è diventata una routine. Hanno imparato a conviverci. È scomoda, pensano, ma non c’è altra scelta. 

Ovviamente non tutti condividono questa forma di autocompiacimento: i familiari dei morti, i sopravvissuti, i feriti, gli sfollati e le famiglie di coloro ancora trattenuti in ostaggio a Gaza. E naturalmente i cittadini palestinesi in Israele, molti dei quali hanno perso amici o parenti nella Striscia assediata e che guardano con orrore i loro vicini e colleghi ebrei giustificare il brutale attacco israeliano. Queste vittime della guerra lottano contro la nuova normalità, ma il loro successo è limitato. 

Nelle ultime due settimane le manifestazioni settimanali per la liberazione degli ostaggi rimanenti si sono forse intensificate con un’esplosione di rabbia contro il primo ministro Benjamin Netanyahu per le sue evidenti lungaggini nei negoziati per un cessate il fuoco e per un accordo sullo scambio di ostaggi. Ma queste proteste comunque impallidiscono rispetto alle manifestazioni dell’anno scorso contro la riforma della giustizia del governo di destra, a proteste contro Netanyahu del 2020 e a quelle del 2011 contro l’aumento del costo della vita. Tutto mentre Israele sembra proseguire la sua offensiva a Gaza, incurante della Corte Internazionale di Giustizia o del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e che forse cerca persino di estendere l’escalation alla regione o almeno al fronte nord con Hezbollah a seguito dell’attacco contro l’ambasciata iraniana a Damasco all’inizio del mese.  

Questa nuova normalità che per ora sembra impossibile da interrompere non è saltata fuori dal nulla. Al contrario è stata attivamente prodotta, giorno per giorno, da coloro che hanno un interesse a mantenerla: un’ampia coalizione di individui e gruppi, ognuno con motivi diversi. 

Cominciamo con il ministro della Difesa, Yoav Gallant, e gli alti capi militari. Sanno molto bene che le unità dei riservisti non possono essere mobilitate per sempre e hanno una chiara immagine del danno che l’attentamente coltivata reputazione di Israele sta subendo nell’ambito della comunità internazionale come risultato del modo in cui sta continuando la guerra. Ma capiscono anche che fino a quando durerà non ci sarà una pressione da parte dell’opinione pubblica affinché si assumano la responsabilità dei gravi errori che hanno portato al 7 ottobre. Forse sperano che se riusciranno a collezionare qualche vittoria nella guerra non passeranno alla storia come i peggiori leader che Israele abbia mai avuto. Quindi parlano di una guerra che durerà anni.

È ben documentato che Netanyahu sia motivato da una logica simile. Fino a quando il Paese sarà in guerra resterà alla guida e potrà rimandare o persino annullare il suo annoso processo per corruzione: quindi perché preoccuparsi di porvi fine? 

Per i partner della sua coalizione la nuova normalità è una benedizione. Il Partito Sionista Religioso di estrema destra e Otzma Yehudit (Potere Ebraico), guidati rispettivamente da Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, vedono la guerra come un modo di vivere e un’applicazione dei loro principi politici fondamentali: l’espansione della supremazia ebraica e l’annientamento del nazionalismo palestinese. Al contempo gli ultraortodossi sono sintonizzati sull’euforia dei principi messianici dei partiti di estrema destra grazie alla nozione religiosa dell’ebreo “eletto”. Ma hanno anche un incentivo finanziario per continuare a sostenere la guerra: Smotrich, nella sua qualità di ministro delle Finanze, ha recentemente allocato una parte considerevole del budget governativo ai partiti ultraortodossi per comprarne la lealtà.  

Persino l’amministrazione Biden sta normalizzando la guerra. Biden si rifiuta di spingere per un cessate il fuoco permanente o di premere su Israele per porre fine alla sua operazione nella Striscia. L’astensione americana nella votazione sulla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza per un immediato cessate il fuoco non corrisponde certo a una netta approvazione della proposta, soprattutto quando l’ambasciatore Usa all’ONU ha immediatamente cercato di revocarla. Biden ha ripetutamente espresso preoccupazione per la mancanza di piani israeliani per proteggere i civili palestinesi e gli operatori umanitari, specialmente nell’eventualità di un’invasione di Rafah, e ha insistito con Israele per avere il suo progetto per il “giorno dopo,” ma si rifiuta di dire adesso basta.

Biden ha inoltre creato una divisione dei compiti fra sé stesso e Netanyahu: gli USA alleviano parte delle sofferenze dei civili a Gaza con lanci aerei di aiuti, mentre Israele attacca e continua ad affamarli. Neppure Biden ha presentato la sua proposta per il “giorno dopo,” alludendo invece a un vago processo alla fine del quale, in qualche modo, ci sarà la soluzione a due Stati. Netanyahu si compiace della vaghezza della proposta e ne sottolinea l’impossibilità.

Il centro israeliano e la sinistra sionista guardano imbarazzati da bordo campo. Sono sempre stati esempi del militarismo israeliano, quando non veri leader militari. Perciò sono incapaci di opporsi a questo militarismo, specialmente in tempo di guerra, nonostante il loro allarme per l’occupazione delle forze di sicurezza israeliane da parte di Sionismo religioso [coalizione di estrema destra dei coloni e attualmente al governo, ndt.]. 

Prima della guerra pochi di loro si erano preoccupati della condizione dei palestinesi assediati nella Striscia di Gaza, né avevano almeno auspicato negoziati per un accordo politico con l’Autorità Palestinese (AP). La vasta maggioranza concordava pienamente con la politica di Netanyahu di “gestire il conflitto” e anche loro hanno ignorato la disponibilità di Hamas a muoversi verso un fronte unito con l’AP, come si vede dal loro documento del 2017 “Principi Generali e Politiche” che in effetti riconosceva gli accordi di Oslo come un dato di fatto e l’accordo del 2021 con Mahmoud Abbas, presidente dell’AP, per indire delle elezioni politiche. Dal 7 ottobre quel poco entusiasmo che esisteva nella sinistra e nel centro sionisti per un accordo politico con i palestinesi si è completamente dissolto.

Con lo stile tipico dei governi israeliani di centro-sinistra fra gli anni ’50 e gli anni ‘80, specialmente quello dell’ipocrita Golda Meir, essi si dicono dispiaciuti per le sofferenze palestinesi, “ma di non avere scelta.” Citano appena la brutalità dell’esercito e dei coloni e la pulizia etnica dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme. E naturalmente si oppongono strenuamente alla denuncia presentata all’Aia contro Israele. Il risultato è una versione aggiornata della “gestione del conflitto”, che, nonostante le loro altre differenze, unisce virtualmente tutte le correnti della politica israeliana. 

Cosa potrebbe cambiare questa realtà della guerra come routine, in meglio o in peggio? Vedo tre possibilità che non si escludono a vicenda. 

La prima è un’azione radicale in Libano o un’invasione di Rafah che potrebbe arrivare quale risultato di un’escalation locale incontrollabile o di un errore di calcolo israeliano. La seconda possibilità è una decisione americana di chiedere un cessate il fuoco permanente con una coalizione militare internazionale che rimpiazzerebbe la presenza militare israeliana nella Striscia di Gaza. E la terza opzione è il risveglio del settore commerciale-industriale di Israele, per il quale la guerra non è una routine, ma piuttosto un grave danno al solito tran-tran. Politicamente e socialmente questo settore sta sia a destra che al centro. Ha oliato gli ingranaggi della protesta contro la riforma giudiziaria e, se attivato, potrebbe portare a nuove elezioni e a un successivo cambio nella continuazione della guerra.

Menachem Klein è docente di Scienze Politiche presso l’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 e uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra [incontri informali tra politici palestinesi e israeliani che proposero un progetto di pace, senza alcun risultato pratico, ndt.]. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché gli israeliani si sentono così minacciati da un cessate il fuoco?

Meron Rapoport

29 marzo 2024-+972Magazine

Fermare la guerra di Gaza significa riconoscere che gli obiettivi militari di Israele sono irrealistici – e che Israele non può sottrarsi a un processo politico con i palestinesi.

La decisione americana di non porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza – la prima volta dall’inizio della guerra che avevano consentito l’approvazione di una risoluzione del genere – ha provocato ondate di shock in Israele. Il successivo annullamento da parte di Benjamin Netanyahu di un previsto incontro israeliano con l’amministrazione Biden a Washington non ha fatto altro che aumentare l’impressione che Israele fosse rimasto isolato sulla scena internazionale e che Netanyahu stesse mettendo a repentaglio la risorsa più importante del paese: la sua alleanza con gli Stati Uniti.

Eppure, nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione di queste questioni delicate da parte di Netanyahu, anche i suoi oppositori – sia nel campo “liberal” che nella destra moderata – sono stati unanimi nel respingere il voto delle Nazioni Unite. Yair Lapid, capo del partito di opposizione Yesh Atid, ha affermato che la risoluzione è “pericolosa, ingiusta e Israele non la accetterà”. Il ministro Hili Tropper, stretto alleato del rivale di Netanyahu Benny Gantz – che secondo i sondaggi vincerebbe facilmente se le elezioni si tenessero oggi – ha detto: “La guerra non deve finire”. Questi commenti non differivano molto dalle reazioni rabbiose di leader di estrema destra come Bezalel Smotrich o Itamar Ben Gvir.

Questo rifiuto quasi unanime del cessate il fuoco rispecchia il sostegno trasversale dei partiti per un’invasione della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, anche se Netanyahu non sostiene che l’operazione otterrà la tanto attesa “vittoria totale” da lui promessa.

Ad alcuni l’opposizione al cessate il fuoco potrà sembrare strana. Molti israeliani accettano l’affermazione secondo cui Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali. Le famiglie degli ostaggi israeliani, ad esempio, stanno diventando sempre più critiche nei confronti del “trascinare i piedi” di Netanyahu e amplificano le loro richieste per un “accordo adesso”.

Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliana sempre più persone affermano apertamente che “eliminare Hamas” non è un obiettivo raggiungibile. “Dire che un giorno ci sarà una vittoria completa a Gaza è una completa menzogna”, ha recentemente affermato l’ex portavoce dell’IDF Ronen Manelis. “Israele non può eliminare completamente Hamas in un’operazione che dura solo pochi mesi”.

Quindi, se cresce l’opinione che Netanyahu stia continuando la guerra per interessi personali; se diventa sempre più chiara l’inutilità di continuare la guerra, sia per quanto riguarda il rovesciamento di Hamas che il rilascio degli ostaggi; se diventa evidente che la continuazione della guerra rischia di danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti, come si può spiegare il consenso in Israele sul “pericolo” di un cessate il fuoco?

Questioni di fondo

Una spiegazione è il trauma inflitto dal massacro di Hamas del 7 ottobre. Molti israeliani si dicono che, finché Hamas esiste e gode del sostegno popolare, non c’è alternativa alla guerra. Una seconda spiegazione riguarda l’innegabile talento retorico di Netanyahu, che, nonostante la sua debolezza politica, è riuscito a instillare lo slogan della “vittoria totale” anche tra coloro che non credono a una parola di quello che dice, e tra coloro che capiscono, consciamente o inconsciamente, che questa vittoria non è possibile.

Ma c’è un’altra spiegazione. Fino al 6 ottobre il consenso tra l’opinione pubblica ebraico-israeliana era che la “questione palestinese” non avrebbe dovuto preoccuparli troppo. Il 7 ottobre ha sfatato questo mito. La “questione palestinese” è tornata all’ordine del giorno in tutta la sua sanguinosa rilevanza.

Sono venute alla luce due possibili risposte alla fine di questo status quo: un accordo politico che riconosca realmente la presenza di un altro popolo in questa terra e il suo diritto a una vita di dignità e libertà, o una guerra di sterminio contro il nemico al di là del muro. Il pubblico ebraico, che non ha mai veramente interiorizzato la prima opzione, ha scelto la seconda.

Alla luce di ciò, l’idea stessa di un cessate il fuoco sembra minacciosa. Costringerebbe l’opinione pubblica ebraica a riconoscere che gli obiettivi presentati da Netanyahu e dall’esercito – “rovesciare Hamas” e liberare gli ostaggi attraverso la pressione militare – sono semplicemente irrealistici. L’opinione pubblica dovrebbe ammettere quello che potrebbe essere percepito come un fallimento, addirittura una sconfitta, nei confronti di Hamas. Dopo il trauma e l’umiliazione del 7 ottobre, per molti è difficile digerire una simile sconfitta.

Ma c’è una minaccia più profonda. Un cessate il fuoco potrebbe costringere l’opinione pubblica ebraica ad affrontare questioni più basilari. Se lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora ciò che resta è la verità: che l’unico modo per gli ebrei di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi.

Il rifiuto totale del cessate il fuoco e la sua presentazione come una minaccia per Israele dimostrano che siamo lontani dal riconoscimento di questa verità. Ma stranamente potremmo anche essere più vicini di quanto si pensi. Nel 1992, quando gli israeliani furono costretti a scegliere tra una frattura con gli Stati Uniti – a causa del rifiuto dell’allora primo ministro Yitzhak Shamir di accettare lo schema presentato dagli americani per i colloqui con i palestinesi – o la ricucitura della frattura, scelsero la seconda opzione. Yitzhak Rabin fu eletto primo ministro e un anno dopo furono firmati gli accordi di Oslo.

Riuscirà l’attuale spaccatura con l’amministrazione americana a convincere gli ebrei israeliani ad abbandonare l’idea di una guerra perpetua e ad accettare di dare una possibilità ad un accordo politico con i palestinesi? Non è molto chiaro. Ma quello che è certo è che Israele si sta rapidamente avvicinando a un bivio in cui dovrà scegliere: o un cessate il fuoco e la possibilità di dialogo con i palestinesi, o una guerra senza fine e un isolamento internazionale come non ha mai conosciuto. Perché la possibilità di tornare indietro, allo status quo del 6 ottobre, è chiaramente impossibile.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con The Nation e Local Call.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Facoltà dell’Università Ebraica in Scienze della Repressione

Orly Noy

23 marzo 2024 – +972 magazine

La sospensione della docente palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian svuota di ogni significato i valori di pluralismo e uguaglianza proclamati dall’università.

Un’università che promuove diversità e inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza.” Queste sono alcune delle parole usate dall’Università Ebraica di Gerusalemme, una delle migliori istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. Ma l’università non sembra aver avuto alcun problema a gettare dalla finestra tali valori quando la scorsa settimana ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’eminente studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.

La scandalosa decisione, presa senza la corretta procedura, è arrivata subito dopo il podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street in cui aveva esposto le sue opinioni critiche contro il sionismo, l’attacco israeliano contro Gaza e gli opinabili precedenti dello Stato riguardo ad affermazioni su avvenimenti relative alla guerra. Ma la studiosa è sotto osservazione da parte dell’università da mesi (anzi da anni), specialmente dopo che ha firmato una petizione alla fine di ottobre in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio.” Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, deve “trovare un’altra casa accademica allineata con le sue posizioni.”

Indubbiamente la sospensione svuota di ogni significato alcuni corsi “illuminati” che offre. Anzi cosa può insegnare ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato Democratico” un’università che sospende un decano della facoltà senza una discussione? Cosa può insegnare su “libertà, cittadinanza e genere” un’istituzione accademica che si allinea con i sentimenti più estremi e aggressivi? Cosa può insegnare su “Diritti umani, femminismo e cambiamenti sociali” un’istituzione che zittisce e bullizza brutalmente la voce critica di una donna, una docente e un’appartenente a una minoranza perseguitata?

In una dichiarazione in cui parecchi anni fa presentava la sua visione dell’istituzione accademica il preside dell’università, il professor Asher Cohen, che con il rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian, sostiene che l’università ha “guidato un processo di inclusione di popolazioni che compongono la società israeliana. Noi crediamo in un campus diversificato, pluralistico e ugualitario, dove utenti di diverse formazioni possono familiarizzarsi con i valori della coesistenza.” Queste sono parolone da parte di chi sembra incapace di prendere in considerazione voci politiche critiche che differiscono dalle sue.

Nella stessa dichiarazione Cohen si gloria della profonda responsabilità dell’università “per la società israeliana e specialmente per Gerusalemme.” Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove ogni giorno oltre 350.000 palestinesi sono oppressi, le loro case sono demolite e i loro bambini strappati dal letto nel cuore della notte e arrestati arbitrariamente senza che nessuno dei capoccioni nella torre d’avorio di Cohen pronunci una sola parola su di loro.

C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus del Monte Scopus, che affrontano un’occupazione delle loro terre e proprietà da parte dei coloni appoggiati dallo Stato. Ma è particolarmente incredibile che l’Università Ebraica non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione contro il villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. È possibile che nelle sere che Cohen passa nel suo ufficio non riesca a sentire proprio sotto la sua finestra i rumori degli spari della polizia israeliana che da tempo sono la colonna sonora del villaggio?

Se solo il grande peccato (e lo è davvero) dell’Università Ebraica fosse l’inconsapevolezza! La sospensione di Shalhoub-Kevorkian va ad aggiungersi a una lunga lista di persecuzioni politiche e indottrinamento militaristico promossi dall’istituzione nel corso degli anni.

Dopo tutto questa è la stessa università che nel gennaio 2019 ha assecondato una violenta campagna di incitamento condotta da un gruppo di studenti di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che lei aveva redarguito uno studente per essere arrivato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente.” Questa è la stessa università che, nonostante le proteste di studenti e docenti, solo pochi mesi dopo ha scelto di trasformare il campus praticamente in un piccolo campo militare ospitando corsi dell’unità di intelligence dell’esercito israeliano, una delle molte redditizie collaborazioni con l’esercito.

Questa è la stessa università che ha ripetutamente perseguitato e zittito organi studenteschi palestinesi, mentre conferisce crediti accademici a studenti che fanno i volontari per il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla di come Israele abbia sistematicamente distrutto le scuole e le istituzioni di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i colleghi di Gaza assediati, bombardati e affamati, ma i principi dell’accademia stessa.

Spiegando la loro decisione in una lettera alla parlamentare Sharren Haskel, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato Shalhoub-Kevorkian di esprimersi in un modo “vergognoso, antisionista e provocatorio” dall’inizio della guerra, deridendola per aver definito genocidio le politiche di Israele a Gaza. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano un genocidio la catastrofe a Gaza, ma anche la Corte Internazionale di Giustizia, il massimo tribunale al mondo, ha preso seriamente questa pesante accusa e deliberato che non la si può semplicemente ignorare.

È come se Cohen e Sheafer fossero sorpresi non solo di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche antisionista, non sia mai! Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università i suoi dirigenti sarebbero obbligati a informare ogni docente e studente prima che ne varchino i cancelli. Non sbaglieremmo nel dire che, a parte limiti legali, la ragione è che l’Università Ebraica beneficia della presenza dei palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, progressismo e inclusione. Intanto può continuare a perseguitare quei palestinesi a casa, lontano dagli occhi del mondo.

Questa vergognosa iniziativa sta già echeggiando clamorosamente nel mondo accademico e nei media a livello globale, bollando l’Università Ebraica con la vergogna che si merita. Nel frattempo il solo corso appropriato che riesco a trovare nel modulo dell’università è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Macchiavelli, il filosofo della tirannide.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una nuova ondata di avamposti dei coloni sta terrorizzando e cacciando i palestinesi dalle loro terre

Imad Abu Hawash 

8 marzo 2024 – +972 Magazine

I palestinesi in Cisgiordania raccontano di come i coloni israeliani, con il sostegno dei militari, stiano intensificando la loro occupazione delle terre per costruzioni illegali.

Sin dalla fine di dicembre i palestinesi che abitavano nel villaggio di Battir, a ovest di Betlemme nella Cisgiordania occupata, sono stati allontanati da porzioni significative delle loro terre. Semplicemente un gruppo di coloni israeliani un giorno è arrivato nella zona che l’UNESCO ha designato come sito del patrimonio mondiale e fondato un nuovo avamposto con alcune baracche per viverci e tenere il bestiame.

Alcuni coloni e pastori hanno preso il controllo dell’area e iniziato a pascolare le proprie greggi sulle terre del villaggio, impedendo ai palestinesi di raggiungere i pascoli,” ha detto a +972 Magazine Ghassan Alyan, un abitante del villaggio. “Hanno persino fatto volare dei droni fra le nostre greggi per disperderle, minacciando di sparare.” 

Di conseguenza contadini e pastori di Battir hanno completamente perso l’accesso alla terra che era la fonte del loro sostentamento. “È diventato impossibile per i palestinesi raggiungere la zona, i coloni possono sparare contro chiunque vi si trovi. I coloni indossano uniformi militari e si spostano con la protezione dell’esercito,” ha continuato Allyan, osservando che la tendenza dei coloni ad arruolarsi nella riserva dell’esercito nel corso della guerra di Israele contro Gaza ha reso più difficile distinguerli dai soldati.  

La gente del villaggio era solita andare a fare escursioni in questa zona, ma ora nessuno può uscire e godersi la natura,” ha aggiunto Alyan. “I coloni girano in macchina usando le nuove strade sterrate che hanno aperto dopo aver stabilito l’avamposto. Gli abitanti di Battir sono terrorizzati. Nessuno si avvicina a questa zona.” 

Negli ultimi cinque mesi in Cisgiordania ampie estensioni di terra di proprietà palestinese sono state di fatto annesse dai coloni israeliani. In alcune zone come Battir i coloni hanno stabilito degli avamposti completamente nuovi, nove secondo una relazione di Peace Now [organizzazione progressista e pacifista israeliana, ndt.].

Se tutte le colonie israeliane in Cisgiordania sono illegali ai sensi del diritto internazionale, la costruzione di avamposti non autorizzati è tecnicamente illegale persino per la legge israeliana. Ciononostante l’esercito israeliano invariabilmente protegge i coloni e in genere lo Stato permette loro di allacciarsi alla rete elettrica e idraulica, a differenza delle comunità palestinesi sulle cui terre sono costruite. 

E con l’attuale governo israeliano di estrema destra la distinzione è ancora più nebulosa: a dicembre il ministro della Finanze Bezalel Smotrich ha destinato agli avamposti in Cisgiordania circa 19 milioni di euro di fondi statali.  

Nel frattempo, secondo il rapporto di Peace Now, dal 7 ottobre i coloni hanno anche asfaltato o portato avanti la costruzione di almeno 18 nuove strade senza un’autorizzazione governativa preventiva, permettendo l’espansione di colonie e avamposti e isolando nel contempo i palestinesi dalle proprie terre. E in parecchi casi, con la copertura della guerra e la collaborazione attiva o tacita dell’esercito, i coloni hanno semplicemente occupato le terre con la forza, le minacce o i decreti militari. 

Quando la guerra finirà i coloni si saranno allargati drammaticamente’

Il 26 novembre al calare dell’oscurità sul villaggio di Ar-Rihiya, proprio a sud di Hebron, il rumore delle escavatrici riempiva l’aria. “I coloni (dal vicino insediamento di Beit Hagai) hanno cominciato a tracciare una strada sterrata che si estende su centinaia di dunam,” ha detto a +972 Ahmad al-Tubasi, un abitante di Ar-Rihiya. “Abbiamo chiamato varie volte la polizia israeliana e quando è finalmente arrivata gli escavatoristi erano scomparsi. La polizia ha fatto finta di non sapere cosa stesse succedendo.” 

Poche settimane dopo i coloni sono ritornati. Odeh al-Tubasi, un contadino che ara la terra di molti abitanti del villaggio, ha raccontato cosa è successo: “Stavo lavorando alle colture invernali quando, a circa 250 metri di distanza, è apparso un veicolo militare, seguito da un altro bianco da cui sono scesi quattro coloni. Ero attanagliato dalla paura mentre si avvicinavano. Mi sono allontanato velocemente con il mio trattore e sentivo che i coloni urlavano in ebraico, ‘Non ritornare qua, ti è proibito entrare e lavorare. Questa è la nostra terra!’” 

La sequenza di eventi spesso segue questo schema: prima i coloni erigono case mobili su terra palestinese, poi la occupano o costruiscono infrastrutture chiave come strade, di solito senza permessi, e poi, dopo attacchi sostenuti e molestie senza intervento di esercito o polizia, espellono i palestinesi dai terreni. Dagli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, oltre 1.000 palestinesi sono stati forzatamente sfollati in questo modo dai villaggi dell’Area C della Cisgiordania, circa il 60% del territorio sotto il totale controllo di Israele, dove sono situate tutte le colonie e gli avamposti.  

L’anno scorso gli abitanti di Beit Awwa, a ovest di Hebron, si sono trovati nel bel mezzo di questo processo con la costruzione di un nuovo avamposto sulle terre del villaggio. La scorsa estate coloni israeliani dall’avamposto di Havat Negohot, con l’appoggio dell’esercito, hanno cominciato a spianare parecchi dunam di terra e a erigere strutture temporanee a circa 50 metri dalle case dei palestinesi. I coloni hanno bloccato l’unica strada che consente l’accesso a sei case dei palestinesi e ai terreni agricoli, costringendo gli abitanti di quelle case a percorrere strade distanti e sterrate e portare cibo e acqua sulle spalle o a dorso d’asino. 

Dopo il 7 ottobre i coloni hanno tracciato una nuova strada ed eretto altre cinque baracche di alluminio, espandendo ulteriormente l’avamposto. Il comune di Beit Awwa, in collaborazione con gli abitanti, ha presentato alla Corte Suprema israeliana una petizione urgente richiedendo la riapertura delle strade. Il 29 gennaio c’è stata un’udienza ma non è stata raggiunta alcuna decisione. 

Secondo Peace Now i coloni, nel tentativo di collegare il nuovo avamposto alla colonia di Negohot, essa stessa costruita su terre appartenenti a Beit Awwa, hanno continuato a lavorare sulla strada mentre era in corso l’azione legale. La nuova strada è stata illegalmente asfaltata senza un vero permesso di progettazione o costruzione, mentre la strada che viene usata dagli abitanti palestinesi resta chiusa.  

Insediare un nuovo avamposto esacerba le nostre sofferenze,” ha detto +972 Yousef al-Swaiti, il sindaco di Beit Awwa. “Quando la guerra sarà finita i coloni si saranno allargati drammaticamente nelle vicinanze del villaggio. Nessuno potrà andarci. Coloni armati potrebbero sparare a qualsiasi abitante del villaggio che tentasse semplicemente di avvicinarsi alla terra confiscata.” 

Attacchi contro gli abitanti del villaggio sono ormai all’ordine del giorno da parte sia di coloni che di soldati. Il 15 novembre Nouh Kharub è stato aggredito da soldati mentre se ne stava seduto con la famiglia sul terreno davanti a casa a Khallet a-Taha, nella periferia orientale di Beit Awwa. 

Uno di loro mi ha picchiato varie volte con un fucile,” ha raccontato. “Sia i soldati che il colono che li aveva accompagnati ci urlavano contro: ‘È vietato ritornare qui,’ e, ‘Vi uccideremo.’ Ci siamo trovati intrappolati in casa, nessuno di noi poteva ritornare a casa nostra mentre i coloni erigevano un nuovo avamposto a 100 metri di distanza.” 

La stessa sorte è toccata a Mohammad Aqtil: la costruzione dell’avamposto ha impedito a lui e alla sua famiglia di accedere alle terre a Khallet a-Taha. “Fuori casa i miei movimenti e quelli dei miei figli sono limitati,” ha spiegato Aqtil. “Non ci è permesso fare niente sulla terra.

Soldati mi dicono in continuazione, ‘Questa è una zona militare, questa casa non è vostra, queste sono terre demaniali.’ Allo stesso tempo i coloni erigono un avamposto con edifici e tende, circondandolo di filo spinato e collegandolo con una strada asfaltata che porta a Negohot. La costruzione è avanzata rapidamente dopo la dichiarazione di guerra.”

È come se volessero vendicarsi’

Talvolta non è necessaria una nuova costruzione per buttar fuori i palestinesi dalle loro terre. Il 2 gennaio il 48enne Yousef Makhamra del villaggio di Khirbet al-Tha’la, in una parte della Cisgiordania meridionale nota come Masafer Yatta, è uscito per arare la sua terra con altri due contadini palestinesi. A causa dell’impennata in anni recenti degli attacchi in questa zona da parte di coloni e soldati israeliani contro i palestinesi al lavoro sulle proprie terre erano accompagnati da attivisti israeliani come “presenza protettiva”, nella speranza di scoraggiare o almeno documentare tali incidenti. Quel giorno è stato tutto inutile. 

Avevamo cominciato a seminare quando è arrivato un veicolo militare,” ha detto Makhamra a +972. Dalla camionetta sono usciti parecchi soldati israeliani e 3 coloni vestiti con pantaloni militari, uno dei quali era Bezalel Dalia che Makhamra sapeva provenire dall’avamposto di Nof Nesher. 

Si sono lanciati contro di noi e mi hanno ammanettato le mani dietro la schiena e lo stesso hanno fatto con Jamil [un altro contadino],” ha continuato. “Alcuni dei coloni hanno impedito agli attivisti israeliani di fare delle riprese mentre Dalia mi prendeva a calci. “Gli ho detto, ‘Vattene via, sono malato,’ ma ha continuato a prendermi a calci. 

Ho avuto molta paura perché i coloni erano con i soldati,” ha continuato Makhamra. “Era come se cercassero vendetta [per il 7 ottobre]. Uno di loro ha detto, ‘Questa è terra per i coloni.’”

Dopo pochi minuti sono arrivati altri attivisti israeliani e i soldati hanno prontamente tolto le manette a Makhamra e Jamil. Uno degli attivisti ha consegnato ai soldati una decisione della Corte che afferma il diritto dei contadini palestinesi a coltivare la terra. Tuttavia l’ufficiale ha insistito che smettessero di lavorare fino a che qualcuno dell’Amministrazione Civile, il corpo dell’esercito responsabile dell’amministrazione dell’occupazione, potesse confermare che i contadini avevano veramente questo diritto. 

I contadini hanno aspettato parecchie ore prima che arrivasse un rappresentante dell’Amministrazione Civile e li autorizzasse a continuare a lavorare. Ma un’ora dopo, un altro colono, Issachar Mann dell’avamposto di Havat Maon, è arrivato con dei soldati che di nuovo hanno chiesto ai contadini palestinesi di interrompere il lavoro fino a una valutazione dell’Amministrazione Civile, nonostante fosse appena arrivato un rappresentante ad autorizzare i lavori. 

Questa volta non è arrivato nessun altro e dopo altre quattro ore i soldati hanno emesso un ordine militare di abbandonare la zona. Da allora i contadini palestinesi di Khirbet al-Tha’la che, come Makhamra, lavorano terre vicine alle colonie e agli avamposti non sono più stati in grado di raggiungerle. 

Il primo marzo il comandante della divisione cisgiordana dell’esercito israeliano ha emesso un ulteriore ordine militare dichiarando che le terre di Khirbet al-Tha’la vicino alle colonie e agli avamposti sono una zona militare chiusa. L’esercito ha rifiutato di confermare a +972 se l’ordine resta in vigore.

E se i miei bambini fossero stati in casa?’

Raed Yassin e la sua famiglia vivono alla periferia del villaggio di Burqa, a nord ovest di Nablus. La loro casa è situata ad appena 50 metri da un avamposto che in anni recenti è diventato un simbolo del potere dei coloni: Homesh.

All’inizio un insediamento autorizzato dal governo alla fine degli anni ’70 su terre appartenenti agli abitanti di Burqa, è stato uno dei quattro insediamenti nella Cisgiordania settentrionale che Israele aveva abbandonato in concomitanza con il “disimpegno” da Gaza nel 2005. Ma presto i coloni cominciarono a ritornare illegalmente alla colonia smantellata, ricostruendo una yeshiva (scuola religiosa) tutte le volte che le autorità la demolivano.

La loro persistenza ha dato frutti alla fine del 2022 con l’insediamento del governo israeliano di estrema destra che, come uno dei suoi primi ordini del giorno, ha abrogato la Legge del Disimpegno, permettendo quindi ai coloni di entrare legalmente nei territori che erano stati abbandonati. Lo scorso maggio i coloni hanno cominciato lavori di costruzione per espandere la yeshiva, sempre in violazione della legge ma con l’appoggio del ministero della Difesa. Dal 7 ottobre quella costruzione, e gli attacchi contro i palestinesi di Burqa, hanno visto un’impennata. 

L’aggressione più recente è avvenuta il 9 gennaio. “Ero nel mio campo e mia moglie e i bambini erano fuori casa in visita a parenti,” ha raccontato Yassin. “Nel corso della giornata ho ricevuto una chiamata da uno degli abitanti della zona perché i coloni stavano attaccando la nostra casa. Ci sono ritornato di corsa ma quando sono arrivato si erano già ritirati. 

Dalle immagini delle nostre cineprese di sorveglianza ho visto 15 coloni mascherati tagliare la recinzione intorno alla casa, danneggiare i dintorni, rompere i tubi della fogna, sradicare alberi e cercare di togliere le protezioni di finestre e porte,” ha continuato. “Era spaventoso: e se i miei bambini fossero stati a casa?” 

Dall’inizio della guerra Yassin e la sua famiglia sono stati costretti a dormire varie notti a casa di parenti che vivono nel villaggio, ma più all’interno, lontano da Homesh. “Le notti che passiamo a casa io sto sempre sveglio,” ha detto. “Potrebbero venire i coloni e incendiarla.” 

Coloni con uniformi militari controllano tutto’

Anche i palestinesi del villaggio di Qaryut, situato tra Nablus e Ramallah, sono stati privati dell’accesso a una porzione ancora maggiore delle loro terre in conseguenza della violenza dei coloni. 

Qaryut si estende su un’area di circa 20.000 dunam (circa 2000 ettari), la maggior parte classificata come Area C e piantata a olivi. Tuttavia negli ultimi 50 anni il villaggio è stato gradualmente circondato da colonie israeliane: Eli, costruita nel 1984, Shvut Rachel, del 1995 e Shilo del 1979. Collettivamente queste colonie, così come parecchi altri insediamenti recentemente costruiti, hanno confiscato più di 14.000 dunam (1400 ettari) delle terre del villaggio.

Dal 7 ottobre la situazione è ulteriormente peggiorata. “Alla maggior parte della popolazione del villaggio, oltre 3.000 persone, è stato impedito di raccogliere le olive,” si è lamentato Ghassan al-Saher, un abitante del villaggio. “Sia i coloni che l’esercito hanno impedito l’accesso ai terreni, bloccando la strada con del terriccio. I coloni hanno occupato i campi e tagliato numerosi alberi.” 

Secondo al-Saher i coloni hanno deliberatamente distrutto infrastrutture palestinesi nel villaggio. Hanno attaccato una struttura agricola costruita con il sostegno della Croce Rossa Internazionale di cui avevano beneficiato 10 famiglie palestinesi, danneggiando serre, serbatoi dell’acqua e tagliando le tubature dell’acqua. Hanno anche occupato la sorgente di Qaryut, vitale per il villaggio. “L’hanno trasformata in un parco per loro,” ha detto al-Saher. “Chiunque si avvicini alla sorgente rischia di essere ucciso.”

Un altro abitante, Bashar al-Qaryuti, ha aggiunto: “Quando è cominciata la guerra abbiamo perso tutte le terre del villaggio classificate come Area C. La vita nel villaggio si è paralizzata: non possiamo raggiungere le nostre terre nelle vicinanze. Hanno attaccato il villaggio e aperto il fuoco. Molti giovani del villaggio non dormono la notte per paura di un attacco dei coloni. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Coloni israeliani entrano a Gaza per fondare un avamposto ‘simbolico’

Oren Ziv

1 marzo 2024 – +972 Magazine

Decine di coloni e attivisti di destra hanno assaltato il valico di Erez e costruito due strutture di legno senza che soldati e polizia intervenissero.

Ieri pomeriggio oltre 100 israeliani hanno assaltato il valico di Erez nel nord di Gaza nel più significativo tentativo di ristabilire colonie ebraiche nella Striscia dall’inizio della guerra. Un gruppetto è riuscito a penetrare a Gaza per parecchie centinaia di metri prima di essere intercettato da soldati israeliani, mentre circa altri 20 sono entrati nell’area fra i due muri che costituiscono la barriera che cinge la Striscia. Là hanno stabilito un “avamposto” nello stile che si vede comunemente in Cisgiordania, costruendo per parecchie ore senza interventi da parte di esercito o polizia. 

Dai primi momenti della guerra è stato chiaro che i politici israeliani di destra e i leader dei coloni hanno percepito l’opportunità di cambiare radicalmente lo status quo in Israele-Palestina. Per mesi ci sono state richieste sempre più pressanti, non ultima a gennaio in un’importante conferenza a Gerusalemme in cui alti funzionari hanno presentato i loro piani per rioccupare Gaza, spesso mentre si chiedeva contestualmente di espellere dalla Striscia i suoi 2.3 milioni di abitanti palestinesi. In parallelo attivisti di destra, quasi tutti giovani, hanno cominciato regolarmente a dimostrare contro l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia nei pressi della recinzione di Gaza. Tuttavia l’azione di ieri ha marcato un nuovo picco nelle loro attività. 

Verso le 14 gli attivisti hanno cominciato a riunirsi in una stazione ferroviaria a Sderot, città nel sud di Israele vicino a Gaza. In quel punto di incontro iniziale per quella che era ufficialmente una “protesta” per rendere onore a Harel Sharvit, un colono ucciso mentre prestava servizio a Gaza, l’atmosfera era calma, persino sonnolenta. Un’auto della polizia è passata nei pressi senza reagire a quanto stava avvenendo. Da qui gli attivisti si sono mossi in auto private verso il checkpoint di Erez, l’unico valico civile fra Israele e la Striscia di Gaza, classificato dall’esercito israeliano come “zona militare chiusa” da quando è stata brevemente occupata dai palestinesi nel corso dell’attacco guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre. 

Arrivati vicino al posto di blocco gli attivisti sono usciti dalle loro auto e hanno iniziato una manifestazione. A questo punto hanno incontrato un altro convoglio di veicoli pieni di “giovani delle colline”, giovani coloni violenti che regolarmente stabiliscono nuovi avamposti in Cisgiordania e attaccano i palestinesi per costringerli a lasciare le loro terre. Almeno due di loro erano armati di fucili come quelli usati dall’esercito, e hanno portato materiali da costruzione per erigere un avamposto. 

A un certo punto alcuni di loro hanno cominciato a correre verso il posto di blocco e sono riusciti ad attraversarlo non ostacolati dai pochi soldati presenti incapaci di fermarli. Nello spazio fra i due muri che circondano la Striscia circa una ventina di loro ha cominciato a erigere due strutture usando i materiali che avevano portato: assi e pali di legno e lamiere di ferro per i tetti. Nel frattempo un gruppetto di giovani coloni è penetrata di corsa ancora più dentro Gaza, sempre senza che i soldati glielo impedissero.

Le radio dei soldati hanno ricevuto il messaggio che un certo numero di persone era entrato a Gaza e sono stati mandati jeep militari e persino due carri armati per cercarli. Circa mezz’ora dopo una jeep militare ha riportato i giovani sul lato israeliano del valico senza arrestarli. Sono usciti dalla jeep fra gli applausi degli altri attivisti, unendosi al gruppo più grande che cantava “È nostra.”

Per parecchie ore chi era arrivato nello spazio fra i due muri ha continuato senza impedimenti a costruire l’avamposto che hanno chiamato New Nisanit, come una delle colonie di Gaza abbandonate come parte del “disimpegno” del 2005. Come in Cisgiordania i soldati sono rimasti nei pressi a offrire protezione invece di cercare di fermarli.

Questo è il nostro Paese’

Amiel Pozen e David Remer, entrambi diciottenni, sono due dei coloni che sono riusciti a penetrare per circa 500 metri entro Gaza. Dopo essere stati prelevati e riportati al posto di blocco dall’esercito israeliano hanno parlato con +972

Non avevamo paura di entrare (a Gaza), il Santo è con noi e le Forze di difesa israeliane erano lì per aiutarci,” ha detto Remer. “Noi siamo venuti qua (perché) vogliamo tornare a casa. Io vivo in una comunità di deportati da Gush Katif (blocco di insediamenti ebraici a Gaza sfollato nel 2005) e abbiamo voluto ritornarci. Dopo tutto quello che è successo non c’è dubbio che dobbiamo ritornarci. 

La sensazione è molto bella, come tornare a casa,” ha continuato Remer. “È nostra. Il Santo, che Egli sia benedetto, ha detto che è nostra. Se non ci saremo noi sappiamo cosa ci sarà.”

Pozen ha aggiunto: “Siamo venuti in rappresentanza dell’intera popolazione, del popolo ebraico. Noi vogliamo ritornare in tutta la Terra di Israele, in tutte le parti della nostra Terra Santa. Non ci sono ‘due stati per due popoli’, è sbagliato. Il popolo di Israele appartiene alla Terra di Israele.”

Riguardo alla possibilità di persuadere il governo a sostenere il reinsediamento a Gaza Pozen ha affermato: “Vorrei che il governo capisse (ciò che) la maggioranza delle persone ha già capito: noi siamo qui. È nostra. Non ci sono ostacoli politici o internazionali. Non dobbiamo tenere nessun altro in considerazione. È una questione interna. Dobbiamo andare a Gaza, distruggere tutti i terroristi là e costruirvi noi.”

Un altro dei coloni fermati dall’esercito dopo essere penetrato in profondità dentro Gaza ha mostrato ai suoi amici sul cellulare la foto di una pianta di fragole in un orto palestinese dicendo: “Guardate com’è bello il Paese.”

Nel corso della serata i giovani coloni hanno continuato ad aggirare l’esercito e a correre verso l’avamposto. Molti l’hanno fatto strisciando in un buco nella recinzione probabilmente creato durante gli eventi del 7 ottobre, finché i soldati non hanno portato un bulldozer per chiuderlo con del terriccio.

Molti dei giovani erano delle stesse organizzazioni che hanno passato parecchie delle scorse settimane cercando, spesso senza successo, di impedire agli aiuti umanitari di raggiungere Gaza. Ai loro occhi c’è un legame fra il trattenimento degli aiuti per i palestinesi e la rifondazione di colonie ebraiche a Gaza: entrambi sono visti come un mezzo per ottenere una “vittoria” decisiva.

Mechi Fendel, un’attivista di destra di Sderot, ha detto a +972: “Siamo venuti qui ad affermare che il giorno dopo la fine della guerra dobbiamo insediarci ed espandere le città ebraiche su tutta la Striscia di Gaza. Perché se non lo facessimo diventerà come un nido di vespe. Non si può lasciare un vuoto. Non c’è motivo per volere che si ripeta. Io vivo a un chilometro dalla Striscia di Gaza. Non posso avere dei terroristi come vicini e il 7 ottobre ci hanno fatto vedere di cosa sono veramente capaci.”

Per quanto riguarda la costruzione di un avamposto vicino alla recinzione ha spiegato: “Far vedere che abbiamo costruito due case è un atto simbolico. Sono venuti con queste grosse assi di legno e in pratica hanno costruito due strutture qui nella Striscia di Gaza. Naturalmente è simbolico perché non ci passeranno la notte. Ma il punto è: qui è dove dobbiamo stare. Questo è il nostro Paese. Non possiamo lasciare disabitata un’intera striscia di terra.”

E cosa succederebbe ai palestinesi di Gaza se si stabilissero delle colonie ebraiche? “Se sono disposti ad accettare la giurisdizione israeliana, a lasciarci entrare e controllare il loro sistema educativo e aiutarli finanziariamente, allora, se sono pacifici, lasciamoli stare,” ha sostenuto Fendel. “Fino ad ora non ho mai trovato un palestinese che sia pacifico. Come ho scritto, i lavoratori palestinesi (che lavorano in Israele) per decine di anni sono diventati terroristi in un secondo.

Penso che il governo quando vedrà che noi siamo con loro, che il popolo lo vuole, sarà d’accordo,” ha continuato. “Perché neanche il governo vuol vedere nascere un nido di vespe. Penso che se noi abbiamo le persone e la volontà e facciamo vedere di essere là, siamo coraggiosi e vogliamo farlo, il governo ci aiuterà.”

Prima gli assalti dei soldati, adesso dei coloni’

Le dinamiche hanno ricordato le tipiche scene in Cisgiordania, con i coloni a cui viene data la libertà di azione mentre i soldati restano a guardare nonostante siano in una zona militare chiusa e alcuni di loro entrino persino in una zona di combattimento. Si sono visti alcuni dei soldati abbracciare gli attivisti. Un soldato ha detto a +972 che loro li sostengono e che il problema sono “i media che vogliono azione per filmare i soldati che picchiano ebrei.”

Anche se i soldati hanno l’autorità di sottoporre a fermo dei cittadini israeliani, e lo hanno fatto con giornalisti e altri civili che negli ultimi mesi si sono avvicinati alla recinzione, invariabilmente evitano di trattenere coloni che infrangono la legge in Cisgiordania, e è successo anche ieri. Uno degli attivisti, che ha detto a +972 di essere un soldato non in servizio che portava la sua arma militare su abiti civili, ha riferito di aver lasciato prima l’area perché i soldati l’hanno avvisato che l’avrebbero “buttato fuori dall’esercito.”

 I soldati parlano con calma con gli attivisti, fra cui il ben noto Baruch Marzel, un kahanista [seguace del defunto rabbino estremista Meir Kahane ndt.] arrivato in un momento successivo. “Sono come i soldati che hanno fatto irruzione [a Gaza], adesso sono loro (i giovani coloni) a fare irruzione,” dice Marzel a uno dei soldati. 

Più tardi, mentre se ne stavano andando, Marzel ha detto a +972 che l’azione gli ha ricordato “la prima colonia a Sebastia”, un villaggio vicino a Nablus, in Cisgiordania, dove circa 50 anni fa un gruppo di coloni del movimento Gush Emunim (Blocco dei Fedeli) [movimento dei coloni nazional-religiosi sorto nel 1974, ndt.] tentò di stabilire una colonia ebraica sfidando i tentativi del governo di cacciarli fino a quando non cedette. Egli aggiunge che il problema principale per lui non è insediarsi a Gaza, ma deportare i palestinesi in “tutti i Paesi che li sostengono.” 

Un funzionario della sicurezza presente sulla scena ha espresso a +972 il suo disappunto su come gli attivisti siano riusciti ad attraversare con tale facilità il posto di blocco. “Se sono riusciti a entrare a Gaza ciò significa che anche (i palestinesi) possono entrare dalla direzione opposta,” ha detto. 

Funzionari di polizia arrivati sul posto si sono comportati con la stessa indifferenza dei soldati. Sembrava non avessero fretta di intervenire e all’inizio hanno arrestato solo uno dei manifestanti. Dopo il tramonto, verso le 19, alcuni attivisti hanno cominciato ad andarsene e in seguito il resto è poi stato disperso dalla polizia. La scorsa notte un totale di nove persone è stato arrestato e portato a una stazione di polizia.

La scorsa notte, in risposta alle domande di +972, un portavoce della polizia ha dichiarato: “Le forze della polizia israeliana sono state chiamate nel pomeriggio vicino al valico di Erez in seguito all’arrivo di manifestanti e alla penetrazione di un gruppetto nella Striscia di Gaza attraverso la recinzione, violando l’ordine di un generale. Alla luce di un pericolo reale per le vite dei manifestanti le forze di polizia sono state costrette ad agire nel territorio della Striscia di Gaza dove alcuni di loro li hanno affrontati e si sono rifiutati di andarsene, non lasciando alla polizia altra scelta che arrestarne nove per aver violato l’ordine di un generale e non aver (obbedito) a un ufficiale di polizia.

I manifestanti sono stati portati a una stazione di polizia per essere interrogati, dopo di che si deciderà chi di loro verrà deferito domani alla Corte di Appello per discutere la loro causa.” Oggi la polizia non ha risposto a un’altra richiesta di informazioni circa quali degli arrestati siano stati accusati, ma sembra che siano stati tutti rilasciati la scorsa notte.

Oren Ziv è una fotogiornalista e reporter di Local Call e fra i fondatori del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli spudorati raid israeliani su Jenin alimentano una più accanita resistenza palestinese

Mariam Barghouti

27 febbraio 2024 +972 Magazine

Dal 7 ottobre le continue incursioni israeliane nel campo profughi di Jenin hanno ucciso quasi 100 palestinesi, tra cui molti civili. Ma mentre aumenta la repressione i figli della Seconda Intifada stanno imbracciando le armi

Nelle prime ore del 23 febbraio le forze armate israeliane hanno bombardato un veicolo nel campo profughi di Jenin, uccidendo tre residenti palestinesi del campo. L’obiettivo dell’attacco operato con i droni era il 27enne Yasser Mustafa Hanoun, comandante sul campo della Brigata Jenin – ufficialmente il braccio armato della Jihad islamica palestinese (PIJ), ma che negli ultimi anni ha operato come gruppo ombrello per una varietà di giovani palestinesi che vanno dal PIJ a Hamas, Fatah e persino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra e laico. Hanoun è stato ucciso sul colpo, in un attentato che ha ucciso anche Saeed Jaradat, 17 anni, e Majdi Nabhan, 20 anni, ferendo altri 15.

Negli ultimi mesi e in concomitanza con il continuo bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, la Cisgiordania ha subito un forte aumento delle violente incursioni da parte delle forze israeliane. Se il 2023 è stato in Cisgiordania l’anno più mortale in circa due decenni con più di 500 vittime, almeno un quinto proveniva dalla sola Jenin.

Con la stessa tendenza dal 7 ottobre soldati e coloni israeliani hanno ucciso nel territorio 410 palestinesi, di cui 93 solo a Jenin. L’anno scorso la città ha dovuto spianare un appezzamento di terreno appena fuori dal campo profughi per farne un nuovo cimitero, poiché il cimitero comune era diventato troppo pieno e troppo in fretta.

Il campo profughi di Jenin è un microcosmo degli attacchi israeliani ai palestinesi che osano resistere alle sue politiche di esproprio e sfollamento. Mentre l’esercito israeliano sta pianificando un’operazione di “controinsurrezione” a lungo termine a Gaza come fase successiva alla guerra, Jenin getta luce su ciò che potrebbe esserci in serbo.

Il punto sono i palestinesi, non i palestinesi che resistono

Le incursioni dell’esercito israeliano a Jenin e nel suo campo profughi si sono susseguite quasi ininterrottamente dal 7 ottobre. L’invasione di gran lunga più vasta si è verificata tra il 12 e il 15 dicembre, quando i soldati israeliani hanno assediato l’intero campo per 60 ore: il raid più lungo e violento del suo genere da quando il campo fu quasi distrutto durante l’“Operazione Scudo Difensivo” nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada.

Dopo aver portato a termine l’offensiva, il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato di aver arrestato 14 persone ricercate e “eliminato 10 terroristi” nel campo. Ma secondo testimoni oculari e residenti, almeno 12 palestinesi sono stati uccisi – 10 dei quali erano civili e non combattenti, compreso un bambino – mentre almeno altri 42 sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco, gas lacrimogeni e droni d’attacco israeliani.

Non esiste qualcosa come ‘questo è un combattente e questo no’ ”, ha detto a +972 Sami, un uomo sulla trentina che ha scelto di usare uno pseudonimo per paura di misure punitive da parte dell’esercito israeliano, in merito all’incursione che ha avuto luogo la sera del 13 dicembre. “Siamo tutti un bersaglio”, ha aggiunto, mentre le jeep militari pattugliavano le strade appena fuori dal campo profughi.

Alcune ore dopo il ritiro dell’esercito, la mattina del 15 dicembre, Umm Imad Ghrayeb, 72 anni, camminava per le strade fangose e in rovina del campo per la prima volta da tre giorni. Non sapeva da dove cominciare a raccontare le ore di orrore che aveva dovuto sopportare.

Eravamo solo noi anziani e mio marito non riusciva nemmeno ad alzarsi”, ha raccontato Ghrayeb a +972. “[L’esercito] ha sfondato la porta di casa nostra, anche se l’avevamo lasciata aperta per dimostrare che non abbiamo nulla da nascondere”.

Come è successo a molte altre famiglie, i soldati hanno chiuso Ghrayeb e suo marito in una stanza mentre l’esercito ha trasformato la casa in una base militare. Nel frattempo, intorno alle case continuavano spari e bombardamenti. “Tutto quello che potevamo sentire erano colpi forti, uno dopo l’altro”, ha ricordato Ghrayeb.

L’attacco di dicembre non è stata una semplice operazione di ricerca e arresto, e nemmeno un’operazione contro i combattenti della resistenza come affermato dall’esercito israeliano. Secondo quanto riferito, almeno 1.000 palestinesi – tutti uomini e ragazzi, per lo più giovani, comprese persone con malattie croniche – sarebbero stati arrestati nel corso delle 60 ore di invasione. La maggior parte è stata infine rilasciata, ma non prima di essere portata al campo militare di Salem a nord-ovest di Jenin o sottoposta a brutali interrogatori sul campo.

Quelli sottoposti a quest’ultima pratica venivano spesso bendati, spogliati e lasciati in faticose posizioni da seduti spesso all’aperto al freddo e alla pioggia. Alcuni detenuti hanno riferito che mentre erano detenuti i soldati li hanno coperti con la bandiera israeliana; i video hanno successivamente confermato queste testimonianze.

Da una casa del campo i soldati hanno pubblicato video sui loro account TikTok e sui social media in cui si mostravano fumare allegri il narghilè in un soggiorno con uomini palestinesi bendati costretti a star seduti sul pavimento.

Più che voler descrivere gli abusi subiti, gli abitanti del campo continuano a porsi la stessa domanda: “Perché?” Tenendo i palmi uniti e riuscendo comunque a mantenere un sorriso, Ghrayeb ha ricordato con voce tremante: “Tutto quello che abbiamo fatto è stato pregare: ‘Oh caro Dio, aiutaci’. Cos’altro potevamo fare?”

Se ce ne andiamo, chi resta?”

Mentre i residenti del campo di Jenin stavano subendo una campagna del terrore, i combattenti della resistenza palestinese hanno affrontato i soldati israeliani all’esterno del campo. Si sono radunati anche giovani disarmati provenienti da zone vicine, alcuni lanciando pietre, altri facendo la guardia e altri ancora imprecando ad alta voce contro i soldati.

Quando ho chiesto ad alcuni giovani palestinesi perché fossero in strada durante l’incursione pur sapendo che non avrebbero potuto entrare nel campo assediato, molti hanno risposto con un sentimento collettivo: “Almeno ci stiamo provando” e “Forse potremmo attirare l’attenzione dei soldati su di noi, per contribuire a mitigare la forza della violenza sul campo”.

Con i combattenti della resistenza armata non più all’interno del campo la popolazione dei rifugiati è rimasta senza protezione e alla mercé dei soldati israeliani. L’esercito ha assediato la zona, bloccato la circolazione delle merci e tagliato la fornitura di elettricità e acqua. “Non è consentito l’ingresso dei beni di prima necessità per esseri umani”, ha detto a +972 Eli, che ha scelto anche lui di usare uno pseudonimo, mentre osservava da lontano le jeep militari.

Guarda il campo”, diceva Sami mentre la sera del 13 dicembre si faceva più fredda, con i militari che si avvicinavano a un gruppo di giovani riuniti vicino a una clinica adiacente al campo. “Nessuno può entrare. Nessuna ambulanza. Niente latte per i neonati. Nemmeno il pane”, diceva.

Oltre a ciò, i soldati israeliani, compresi i cecchini, hanno ostacolato l’ingresso nel campo dei giornalisti e delle ambulanze nel campo. Ogni tentativo di avvicinarsi al campo veniva accolto dagli israeliani con violenta ostilità, incluso il lancio di proiettili veri direttamente contro il personale medico e i giornalisti.

Nel frattempo all’interno del campo le forze israeliane hanno danneggiato gravemente numerosi edifici imperversando di strada in strada. Nash’at Samara, insieme alla moglie e ai figli, si trovava a casa di suo fratello fuori dal campo quando è iniziata l’incursione; ha potuto rientrare nel suo quartiere solo dopo il ritiro dell’esercito. Non è tornato a una casa, ma alle rovine di una casa: era stata fatta saltare in aria, le piastrelle della cucina erano staccate dai muri e gli averi della famiglia erano stati saccheggiati.

“Perché hanno distrutto la nostra casa?” chiedeva a +972 mentre camminava tra le macerie della sua cucina. Guardando il cibo sul pavimento, diceva con una voce addolorata: “La resistenza si combatteva nelle strade, o fuori, non nelle case, e certamente non nel frigorifero”.

Il punto era umiliarci”, ha detto dell’invasione Walid Abu el-Fahed, 45 anni, il giorno che le forze israeliane si sono ritirate, percorrendo la scia di distruzione che avevano lasciato nel campo.

Più che umiliazione, tuttavia, queste pratiche servono a cacciare i palestinesi. Per l’esercito israeliano, le invasioni e le operazioni militari nelle case civili, negli ospedali o nelle scuole, oltre alle demolizioni di case e ai pogrom dei coloni, sono diventate una pratica sempre più comune che contribuisce all’espropriazione deliberata e allo sfollamento dei palestinesi.

Nell’arco di 116 giorni, tra ottobre 2023 e gennaio di quest’anno, Israele ha sfollato in Cisgiordania 2792 palestinesi. Si tratta di un aumento del 775% delle persone rimaste senza casa rispetto al numero dei palestinesi sfollati in tutti i primi nove mesi del 2023. Inoltre, come a Gaza, la maggioranza dei palestinesi uccisi in Cisgiordania non sono combattenti della resistenza ma civili, di cui quasi un terzo sono bambini e minori.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, molte famiglie scelgono ancora di rimanere nelle proprie case. “Restiamo perché dobbiamo restare nella nostra patria”, spiega Abu el-Fahed guidando per le strade demolite dai bulldozer del campo profughi di Jenin mentre i suoi figli giocano sul sedile posteriore dell’auto. “Se io me ne vado con i miei figli, e lei se ne va con i suoi figli, e lui se ne va con i suoi figli”, comincia a chiedere Abu el-Fahed, “allora chi rimane?”

Nascita della resistenza

Sono nato con l’occupazione e i soldati, e morirò con l’occupazione e i soldati”, ha detto Eli mentre l’invasione e l’assedio continuavano per la terza notte. “Sparare, uccidere, sangue: questa è la vita dell’intera popolazione palestinese”, ha continuato depresso.

L’ultima volta che Israele ha condotto un’operazione così massiccia, tuttavia, è stato al culmine della Seconda Intifada, nel 2002. I danni di quell’incursione – parte dell’“Operazione Scudo Difensivo”, durante la quale le forze israeliane hanno invaso diverse città palestinesi in Cisgiordania nel corso di un mese –, la distruzione delle infrastrutture e delle istituzioni palestinesi ammonta secondo la Banca Mondiale ad una cifra stimata in più di 330 milioni di euro.

Oltre alle perdite materiali, l’incursione ha creato una generazione di palestinesi traumatizzati che non solo sono stati profondamente scossi dagli eventi di quell’anno, ma da allora hanno dovuto crescere con ulteriori violenze militari israeliane. All’epoca, le associazioni per i diritti umani avevano avvertito dell’impatto negativo che l’invasione del 2002 avrebbe avuto su quei bambini.

Più di due decenni dopo l’esercito israeliano continua ancora a effettuare raid regolari e intensi nelle città palestinesi della Cisgiordania. Anche la costruzione di colonie è in aumento, e con esse il tasso e la gravità degli attacchi ai palestinesi dei coloni che continuano a godere di un’impunità quasi totale ai sensi del sistema giudiziario israeliano. Gli arresti arbitrari e le umiliazioni dei palestinesi ai posti di blocco militari israeliani restano la norma, e gli omicidi extragiudiziali sono diventati il modus operandi degli ultimi anni.

Per i palestinesi in Cisgiordania l’intensificarsi degli attacchi israeliani è avvenuto soprattutto all’indomani dell’“Intifada dell’Unità” del maggio 2021, durante la quale i palestinesi tra il fiume e il mare si sono ribellati contro il governo israeliano e le forze di occupazione. Successivamente Israele ha lanciato l’“Operazione Break the Wave” (Spezzare l’onda), una serie di operazioni militari in tutta la Cisgiordania che hanno visto l’uso di forza letale contro i civili e missioni di assassinio extragiudiziale, illegali secondo il diritto internazionale.

Non sorprende, quindi, che la determinazione dei giovani palestinesi a prendere parte agli scontri militari con l’esercito israeliano non abbia fatto che crescere. Dopo l’Intifada dell’Unità un gran numero di palestinesi ha preso a impegnarsi nella resistenza armata, spesso unendosi a battaglioni locali non allineati con i tradizionali partiti politici palestinesi.

Ricordatevi, i ragazzi del 2002 ora sono la resistenza”, ha detto a +972 Abu el-Fahed, residente a Jenin, alcune ore dopo il ritiro dei militari dell’incursione di dicembre. Ricorda ancora la brutalità e la paura di quelle settimane. “[Israele] ha cercato di spostarci nel 2002”, dice. “Ci hanno distrutto la casa sopra la testa, ci hanno detenuti in massa e ci hanno ucciso”.

Questa inevitabile realtà non è né segreta né nuova per i palestinesi in generale, e per quelli di Jenin in particolare. “Ciò che distruggono lo ricostruiremo e i nostri figli saranno dei leader”, ha detto Abu el-Fahed.

Tuttavia, per poter crescere leader i bambini devono rimanere in vita. Israele ha portato avanti l’operazione di dicembre con il pretesto di prendere di mira sospetti combattenti palestinesi, usando gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele come scusa per giustificare l’incursione letale, ma almeno un quinto delle persone uccise a Jenin sono bambini e minorenni.

“Veniamo uccisi comunque”

Continuando la tendenza, il 30 gennaio le forze israeliane sotto copertura hanno effettuato un omicidio mirato nell’ospedale Ibn Sina di Jenin. Poco dopo l’alba, i soldati della famigerata unità Duvdevan – travestiti da personale medico e pazienti palestinesi – sono entrati nell’ospedale, hanno estratto le armi davanti al vero personale e ai pazienti e hanno marciato verso il terzo piano dell’ospedale.

Lì le forze sotto copertura hanno assassinato extragiudizialmente Basel al-Ghazzawi, un combattente di 18 anni della Brigata Jenin che stava ricevendo cure per le ferite riportate in un precedente attacco a Jenin dell’esercito israeliano. Da un anno e mezzo Israele cercava di assassinarlo.

Sono stati uccisi anche altri due uomini che erano in visita ad al-Ghazzawi: suo fratello Mohammed al-Ghazzawi, di 23 anni, uno dei cofondatori della Brigata Jenin, e il loro amico Mohammad Jalamnah, 27 anni, che è un combattente senior della Brigata. Secondo giornalisti locali sul posto, l’unità israeliana sotto copertura ha ucciso i tre uomini con pistole silenziate.

Nonostante gli uomini fossero combattenti attivi nella Brigata Jenin, il loro assassinio all’ospedale Ibn Sina non solo è illegale perché si tratta di un omicidio extragiudiziale, ma viola anche la Convenzione di Ginevra. Ancora più allarmante, questo attacco segnala un’escalation degli spudorati crimini di Israele in Cisgiordania.

Nell’ottobre 2022 ho intervistato un protagonista combattente della resistenza palestinese, Nidal Khazem, chiedendogli perché avesse scelto di imbracciare le armi nonostante il rischio che ciò rappresenta per la sua vita. Khazem ha detto con molta calma: “[L’esercito israeliano] viene qui, uccide i nostri amici e la nostra famiglia, abusa e umilia le donne e ci nega l’accesso [al culto] ad Al-Aqsa”. Questo sentimento è condiviso dalla maggior parte dei combattenti della resistenza che ho intervistato negli ultimi due anni in Cisgiordania, e tutti ripetevano la stessa opinione: “Verremo uccisi comunque”.

Khazem è stato ucciso diversi mesi dopo, nel marzo 2023, in un assassinio extragiudiziale compiuto da forze israeliane sotto copertura appartenenti a Duvdevan. Anche Yousef Shriem, un altro combattente della resistenza e amico intimo di Khazem, è stato ucciso. Anche un terzo ragazzo di 13 anni è stato ucciso mentre attraversava Jenin in bicicletta durante l’operazione.

Nel luglio 2023, appena tre mesi dopo l’uccisione di Khazem e Shreim, Israele ha effettuato un’altra incursione distruttiva nel campo di Jenin utilizzando droni, un elicottero armato e artiglieria pesante a terra. Nel corso di due giorni l’esercito israeliano ha provato, senza riuscirci, a mantenere il pieno controllo del campo profughi, finendo sotto il fuoco dei combattenti della resistenza con una frazione delle loro capacità e risorse militari. Durante i raid letali contro campi profughi palestinesi, paesi, città e villaggi, l’esercito israeliano ha ucciso più civili che militanti palestinesi. Israele non solo non è stato in grado di fermare la crescita dei gruppi di resistenza armata nel campo profughi di Jenin, ma ha provocato l’ascesa di una maggiore resistenza armata in diversi distretti tra cui Tulkarem, Nablus, Ramallah, Hebron, Tubas e Gerico.

L’unica difesa che sembrano avere i palestinesi sono i gruppi di resistenza armata, nonostante le loro piccole dimensioni e la mancanza di armi. Nel tentativo di sradicarli, Israele sta aprendo la strada alla creazione di una comunità palestinese completamente indifesa – composta da anziani, minori e malati – che resta un bersaglio facile per uno degli eserciti più avanzati del mondo. Incapace di limitare la resistenza o di prendere di mira efficacemente i combattenti, tuttavia, l’esercito israeliano si è ridotto a tentativi di omicidio extragiudiziale nei momenti in cui i combattenti sono più vulnerabili e non impegnati in battaglia.

Quello che hanno fatto nel campo è una replica di Gaza: dall’umiliazione degli uomini spogliati nudi all’attacco alla moschea e alla distruzione di case”, ha riassunto Abu El-Fahed, indicando gli edifici grigi che un tempo erano case del campo.

L’obiettivo è uno: liberare la Palestina”

A differenza di Gaza, tuttavia, i gruppi armati palestinesi in Cisgiordania non dispongono di un unico organismo organizzato per lo scontro armato. Sono invece gruppi di uomini della comunità, vicini di casa, parenti e amici d’infanzia che si ritrovano ad affrontare non solo un esercito potente, ma anche un esercito che opera con politiche discriminatorie che producono persecuzioni e apartheid.

Cosa pensi che significhi essere [affiliato a] Hamas o Jihad islamica palestinese?” chiede un combattente di Hamas sulla trentina, che chiameremo “A”, seduto a metà ottobre in un piccolo soggiorno nel campo profughi di Jenin. E dice: “Significa poter acquistare un’arma”, mentre un altro combattente accanto a lui annuisce in segno di approvazione.

L’altro uomo, “B”, all’inizio dell’anno scorso aveva disertato dalle forze di sicurezza palestinesi dell’Autorità Palestinese – di cui era ufficiale. Sebbene i due appartengano a fazioni politiche rivali, uno di Fatah e l’altro di Hamas, sono insieme in un unico battaglione sotto l’egida della Brigata Jenin.

“Per la Jihad islamica palestinese non è una questione di potere o denaro”, ha detto a +972 un terzo combattente “C”, che ha appena 20 anni ed è il più giovane del gruppo, seduto accanto ai due uomini. “L’obiettivo è uno: liberare la Palestina per poter vivere liberamente. Ecco perché combatto con [la Jihad], ma non per loro.

Tutti gli uomini hanno sottolineato che, si tratti di Hamas, Fatah, PIJ o qualsiasi altra fazione, alla fine fanno tutti parte della stessa comunità che cerca di difendersi dai continui e intensi attacchi alla loro vita da parte delle autorità, dell’esercito e dei coloni israeliani.

Capisci che per noi sono queste le vie di confronto”, spiega A. “Siamo persone umili, dobbiamo racimolare i soldi per permetterci un’arma con cui reagire”.

Per i combattenti della resistenza palestinese a Jenin e altrove in Cisgiordania, l’affiliazione politica come procedura per tracciare linee di divisione è cosa del passato. Non si tratta più del quadro Hamas contro Israele o di attacchi di lupi solitari, ma di una comunità riunita sotto l’ombrello dell’opposizione all’occupazione israeliana che ha raggiunto l’apice delle sue pratiche violente nel genocidio in corso dei palestinesi.

Anche se la linea politica è diversa da quella di Gaza, alla fine Israele tratta i palestinesi ovunque allo stesso modo. “Siamo una serie di bersagli per [il Ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar] Ben Gvir e [il primo ministro Benjamin] Netanyahu”, ha spiegato “D”, un combattente sulla quarantina che teneva d’occhio le due jeep israeliane nelle vicinanze, pronte a caricare il centro città in qualsiasi momento.

L’esercito israeliano sta fallendo a Gaza ed è venuto a ottenere risultati a Jenin”, ha continuato. “È così che i media israeliani possono mostrare alla gente che stanno raggiungendo gli obiettivi”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La distruzione dei tesori delle molte culture di Gaza

Ibtisam Mahdi 

17 febbraio 2024 +972 Magazine

La guerra di Israele ha ridotto in rovine il ricco patrimonio di migliaia di anni a Gaza, e gli esperti palestinesi denunciano la distruzione come genocidio culturale

Dall’inizio dei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza gli innumerevoli tesori del patrimonio culturale palestinese sono stati danneggiati o distrutti. Come gran parte del resto dell’enclave assediata, questi inestimabili e amati monumenti della storia del nostro popolo – siti archeologici, strutture religiose millenarie e musei con antiche collezioni – ora giacciono in rovina.

Il patrimonio culturale è una componente essenziale dell’identità di una nazione e ha un enorme significato simbolico, riconosciuto e protetto da innumerevoli convenzioni, trattati e organismi internazionali. Eppure il martellamento di Gaza da parte di Israele, giunto ormai al quinto mese, mostra uno spietato disprezzo per queste testimonianze della millenaria storia culturale di Gaza – a tal punto che potrebbe consistere in un genocidio culturale.

I ricercatori stanno cercando disperatamente di catalogare questi siti e di accertare il loro stato attuale, ma non riescono a tenere il passo con il ritmo della carneficina. E mentre la perdita di vite umane è la più grande tragedia di qualsiasi guerra, la distruzione da parte di Israele del patrimonio culturale materiale di Gaza raggiunge più o meno lo stesso obiettivo: la cancellazione del popolo palestinese. In effetti, molti degli intervistati in questo articolo ritengono che sia proprio questo il motivo per cui questi siti vengono presi di mira.

Tesori nazionali

Hamdan Taha è un rinomato studioso, archeologo ed ex direttore generale del Dipartimento palestinese delle Antichità di Gaza. Dopo essere riuscito a lasciare la Striscia, in un’intervista a +972 Magazine ha sottolineato il profondo ruolo storico e di civiltà svolto dalla Palestina in generale, e da Gaza in particolare, nonostante le piccole dimensioni geografiche.

Gaza è stata testimone di mescolanze culturali in cui le civiltà si sono intrecciate, dando origine a un patrimonio culturale ricco e diversificato”, ha spiegato. Taha ha sottolineato in particolare il porto di Gaza, che per secoli è stato un importante snodo commerciale attraverso il Mediterraneo e fulcro del suo multiculturalismo.

Il patrimonio culturale riflette la nostra identità nazionale”, ha continuato. “È la testimonianza delle epoche storiche e delle civiltà che hanno attraversato la nostra Patria. È tesoro nazionale”.

Secondo Taha, l’importanza nazionale di questi siti e il loro potenziale nel portare turismo e rilanciare l’economia di Gaza “ha portato Israele a distruggere intenzionalmente edifici storici e archeologici, con l’obiettivo di cancellare il legame tra il popolo di Gaza, la sua terra e la sua storia.” Israele, ha aggiunto Taha, “vuole scollegare il popolo di Gaza dalla storia del territorio, cercando allo stesso tempo di creare una propria narrativa di legame con il luogo”.

Durante la guerra su Gaza del 2014, Taha e altri archeologi formarono un comitato per valutare ufficialmente i danni causati dagli attacchi israeliani. Hanno lavorato per restaurare e catalogare tutte le antichità di Gaza, in parte per prepararsi a futuri bombardamenti. Eppure la portata della guerra attuale ha sopraffatto i loro sforzi.

Dato il continuo bombardamento della Striscia dal 7 ottobre è stato incredibilmente difficile per Taha e altri esperti valutare l’entità del danno, nonostante i migliori sforzi degli studiosi palestinesi e stranieri che stanno monitorando la situazione da remoto.

“La maggior parte delle informazioni che otteniamo provengono da giornalisti e persone che catturano immagini casualmente e fugacemente, ha spiegato. “E facciamo affidamento sulle informazioni fornite dai residenti che vivono nelle vicinanze delle aree prese di mira e sulle notizie dell’ultima ora”. Da questi resoconti sembra che i bombardamenti israeliani abbiano lasciato poco dietro di sé.

Per gli esperti è difficile documentare mentre vengono presi di mira”

Uno dei fotoreporter che documentano questo disastro è Ismail al-Ghoul, che attualmente risiede a Gaza City e lavora per Al Jazeera. Ha fotografato le rovine della chiesa bizantina antica di 1.600 anni nel distretto di Jabalia e l’hammam al-Sammara, un “bagno turco” secolare nel quartiere di Zeitoun.

L’ultimo hammam storico rimasto nella Striscia di Gaza, con una storia che dura da quasi mille anni, ora giace in totale rovina”, ha lamentato. “La maggior parte delle persone a Gaza frequentavano questo hammam e vi vivevano un’esperienza bellissima e indimenticabile. Anche i visitatori di Gaza cercavano di sperimentare le sue famose proprietà curative e terapeutiche”.

Al-Ghoul ha anche fotografato le rovine del Qasr al-Basha (Palazzo del Pascià) del XIII secolo, che si distingueva per la notevole conservazione dei dettagli architettonici. Più del 90% del palazzo è stato distrutto dai bombardamenti israeliani e dalle successive demolizioni, lasciandone in piedi solo una piccola parte. 

Nonostante la dedizione di fotoreporter come al-Ghoul, la guerra ha reso impossibile documentare l’intera portata dei danni. “È difficile per gli esperti tenere il conto mentre si trovano essi stessi in una condizione di sfollamento, presi di mira e costretti a spostarsi continuamente da un luogo all’altro”, ha spiegato Taha. “Abbiamo perso più di 10 esperti di antichità, tra cui quattro archeologi”.

Tra gli altri siti del patrimonio che si conferma abbiano subito gravi danni c’è la Grande Moschea Omari, la più grande e antica del nord di Gaza, con una storia che, secondo alcuni resoconti, risale a 2.500 anni fa. L’intera struttura è stata distrutta, tranne il solo minareto. La moschea incarnava la ricca e diversificata storia della Striscia: originariamente un antico tempio pagano, fu successivamente trasformato in chiesa bizantina e infine convertita in moschea durante le conquiste islamiche.

Anche la moschea Sayyed Hashim di Gaza City è stata gravemente danneggiata. Situata nella città vecchia, la moschea ospitava la tomba di Hashim ibn Abd Manaf, il nonno del profeta Maometto, così strettamente identificato con la città che nella letteratura palestinese viene spesso definita “la Gaza di Hashim”. Anche la Chiesa di San Porfirio, localmente chiamata “Chiesa greco-ortodossa” – che, costruita nel 425 d.C., era una delle chiese più antiche del mondo – è stata danneggiata e uno degli edifici nel comprensorio della chiesa è stato completamente distrutto. 

Taha ha sottolineato che i danni non sono limitati esclusivamente al nord della Striscia. Il Museo di Rafah, nel sud di Gaza, l’unico museo della zona, è stato completamente distrutto. Il Museo Al Qarara vicino a Khan Younis, che aveva una collezione di circa 3.000 manufatti risalenti ai Cananei, la civiltà dell’età del bronzo che visse a Gaza e in gran parte del Levante nel II secolo a.C., è stato gravemente danneggiato. Anche il santuario di Al-Khader nella città della zona centrale Deir al-Balah, che riveste un significato speciale in quanto primo e più antico monastero cristiano costruito in Palestina, è stato danneggiato nel bombardamento di un’area vicina.

In tutta la Striscia, Israele ha danneggiato e distrutto siti storici secolari come sono quelli affiliati all’Islam e al Cristianesimo. Tutto è un obiettivo.

Tutta la storia di Gaza è sull’orlo del collasso”

Haneen Al-Amassi, ricercatrice archeologica e direttrice esecutiva della fondazione Eyes on Heritage varata lo scorso anno, vede la distruzione dei siti archeologici come parte di una più ampia campagna contro l’esistenza dei palestinesi.

I siti archeologici sono prove fisiche e tangibili che attestano il diritto dei palestinesi alla terra di Palestina e la loro esistenza storica su di essa, dall’età della pietra ai giorni nostri”, ha detto a +972. “La distruzione di questi siti nella Striscia di Gaza in modo così brutale e sistematico è un tentativo disperato da parte dell’esercito di occupazione di cancellare le prove del diritto del popolo palestinese alla propria terra”.

Al-Amassi ha elencato numerose perdite significative. L’antico porto di Gaza, noto anche come porto di Anthedon o Al-Balakhiya, che risale all’800 a.C., è stato distrutto. Anche Dar al-Saqqa (casa Al-Saqqa) nel quartiere Shuja’iya, nella parte orientale di Gaza City, costruita nel 1661 e considerata il primo forum economico in Palestina, è stata gravemente danneggiata.

La distruzione di questi monumenti e siti archeologici, ha sottolineato Al-Amassi, rappresenta una perdita significativa per il popolo palestinese, che sarà difficile, se non impossibile, compensare. “È impossibile restaurare questi monumenti di fronte ai continui bombardamenti”, ha detto. “E con il vergognoso silenzio degli attori internazionali, ci saranno solo altri bombardamenti sui siti archeologici di Gaza. Tutta la sua storia e sacralità sono sull’orlo del collasso”.

Anche quando non sono l’obiettivo principale dei bombardamenti israeliani, i siti archeologici vengono comunque gravemente danneggiati. Al-Amassi piange il Museo Khoudary, noto anche come Mat’haf al-Funduq (Museum Hotel) nel nord di Gaza, che ospitava migliaia di pezzi archeologici unici, alcuni risalenti ai periodi cananeo e greco; il museo è stato notevolmente danneggiato dal bombardamento dell’adiacente moschea Khalid ibn al-Walid.

Allo stesso modo, il Khan di Amir Younis al-Nawruzi, un forte storico costruito nel 1387 nel centro della città meridionale di Khan Younis, è stato danneggiato quando è stato bombardato il vicino edificio del comune. Anche il Monastero di Sant’Ilarione a Tell Umm el-Amr vicino a Deir al-Balah, che risale a più di 1600 anni fa, e la Casa Al-Ghussein di Gaza City, un edificio storico risalente al tardo periodo ottomano, sono stati entrambi danneggiati quando sono state bombardate delle zone nelle vicinanze.

L’Euro-Med Human Rights Monitor, con sede a Ginevra, ha accusato Israele di “prendere di mira chiaramente e intenzionalmente tutte le strutture storiche della Striscia di Gaza”. Il Ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza ha affermato lo stesso in un comunicato stampa di fine dicembre: “L’occupazione sta deliberatamente commettendo un massacro contro i siti storici e archeologici della città vecchia di Gaza, assassinando la storia e le tracce delle civiltà che sono passate attraverso la Striscia di Gaza per migliaia di anni.”

Tale distruzione, mirata o meno, costituisce una violazione della Convenzione dell’Aja del 1954, che mira a proteggere il patrimonio culturale sia in tempo di pace che in guerra. Al-Amassi spera che l’Autorità Palestinese includa queste violazioni nella sua petizione alla Corte Penale Internazionale.

Una decisa accelerazione di pratiche consolidate

Come hanno sottolineato numerosi ricercatori, la distruzione in corso a Gaza è in linea con la lunga storia delle pratiche di cancellazione e appropriazione israeliane. Eyad Salim, storico e ricercatore archeologo di Gerusalemme, ha elencato diversi siti del patrimonio che sono stati distrutti dalle forze israeliane dopo la Nakba del 1948.

Nei villaggi palestinesi distrutti nel 1948, le moschee, i santuari islamici e i siti del patrimonio culturale furono chiusi, distrutti o convertiti in sinagoghe”, ha detto. “Si tratta di una lunga e ampia questione .”

Altri esempi includono la distruzione dei quartieri Sharaf e Mughrabi insieme a molte tombe di musulmani giusti nella Città Vecchia di Gerusalemme all’indomani della guerra del 1967 al fine di creare una piazza di fronte al Muro del Pianto. Salim sottolinea che vari enti statali israeliani – l’esercito, l’Autorità per le Antichità e l’Amministrazione Civile – hanno tutti avuto un ruolo in questa distruzione e appropriazione.

Per attuare il piano di costruire il suo ‘Stato ebraico’, Israele deve confrontarsi con sfide identitarie, geografiche e demografiche”, ha continuato. “Quindi attribuisce a sé le città, i villaggi, i punti di riferimento urbani, la moda, il cibo, l’artigianato e le industrie tradizionali [palestinesi] promuovendoli nei forum internazionali e utilizzandoli come parte del suo progetto giudaizzante”.

Gran parte di questa obliterazione avviene in modo subdolo, semplicemente rendendo difficile la sopravvivenza delle istituzioni del patrimonio culturale palestinese. Ciò è particolarmente evidente a Gerusalemme, ha spiegato Salim, dove il Comune applica tasse irragionevolmente elevate, sorveglia le istituzioni culturali, richiede arbitrariamente informazioni, blocca i finanziamenti, minaccia chiusure e vieta qualsiasi segnale di sostegno ufficiale del governo palestinese ad istituzioni in Gerusalemme.

Ciò a cui stiamo assistendo attualmente a Gaza, tuttavia, è una forte accelerazione nella cancellazione del patrimonio palestinese da parte di Israele. E la rapida distruzione di così tanti siti preziosi durante le prime settimane di guerra ha innestato rapidamente una grande preoccupazione per gli archeologi e i ricercatori di tutto il mondo arabo.

L’11 e il 12 novembre l’Egitto ha ospitato la XXVI Conferenza Internazionale della Lega degli Archeologi Arabi, incentrata sulla solidarietà con il popolo di Gaza.

A rappresentare la Palestina c’era Husam Abu Nasr, uno storico di Gaza che stava accompagnando sua madre in Egitto per cure mediche quando è scoppiata la guerra. Abu Nasr ha presentato un rapporto sui musei della Striscia che fino a quel momento erano stati danneggiati dalla guerra, e la Lega ha istituito un fondo per sostenere la ricostruzione e il restauro di tutti i siti e le istituzioni del patrimonio, così come di tutte le istituzioni educative che sono state distrutte a Gaza. Ha anche promesso di fornire consulenza sugli sforzi di ripristino quando la guerra finirà.

Prendendo di mira edifici e siti storici, archeologi, accademici e i ricercatori, Israele cerca di cancellare l’identità palestinese e in particolare l’identità di Gaza, per renderla priva di storia e civiltà”, ha detto Abu Nasr a +972. “Israele vuole cancellare la nostra memoria nazionale, promuovere la distorsione dei fatti e combattere la narrativa palestinese”. Ciò, ha sottolineato, costituisce una violazione del diritto internazionale e umanitario.

Dando una prospettiva alla distruzione del patrimonio di Gaza da parte di Israele, Taha ha sottolineato che “le vite umane sono la cosa più importante, e nulla viene prima di esse. Ma allo stesso tempo preservare e proteggere il patrimonio e la cultura è parte integrante della protezione delle persone e della loro anima.

Non solo i palestinesi di Gaza, ma l’umanità intera subirà una grande perdita se Israele continuerà a distruggere il patrimonio culturale della Striscia di Gaza senza affrontarne le conseguenze”.

In una dichiarazione a +972, il portavoce dell’IDF ha affermato: “L’IDF evita il più possibile i danni alle antichità e ai siti storici. Come documentato e presentato dall’IDF durante la guerra, l’assimilazione e l’utilizzo di Hamas dell’ambiente civile avviene su vasta scala ed è senza precedenti.

“Hamas utilizza sistematicamente edifici pubblici che servono a scopi civili, compresi edifici governativi, istituzioni educative, istituzioni mediche, edifici religiosi e siti del patrimonio”, continua la dichiarazione. “Nell’ambito della distruzione delle capacità militari di Hamas, esiste, tra le altre cose, la necessità operativa di distruggere o attaccare le strutture in cui l’organizzazione terroristica colloca un’infrastruttura di combattimento. Ciò include le strutture che Hamas ha regolarmente riconvertito per combattere. L’IDF è impegnata nel rispetto del diritto internazionale e agisce in base ad esso e ai valori dell’IDF”.

Ibtisam Mahdi è una giornalista freelance di Gaza specializzata in reportage su questioni sociali, in particolare riguardanti donne e bambini. Lavora anche con organizzazioni femministe a Gaza per reportage e comunicazioni.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Alcune fonti rivelano che Israele sta monitorando i dati statunitensi sugli attacchi dei coloni per contrastare le sanzioni

Yuval Abraham

14 febbraio 2024 – +972

Fonti di intelligence affermano che Israele cerca di contrastare le informazioni inviate privatamente agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese poiché teme provvedimenti contro i coloni violenti in Cisgiordania.

+972 Magazine e Local Call hanno appreso che negli ultimi mesi Israele ha monitorato le informazioni fornite agli Stati Uniti dall’Autorità Palestinese riguardo alla violenza dei coloni nella Cisgiordania occupata.

Fonti dell’intelligence israeliana hanno detto ad entrambe le testate di aver monitorato le informazioni passate attraverso canali privati dall’Autorità Palestinese all’Ufficio del Coordinatore della Sicurezza degli Stati Uniti per Israele e l’Autorità Palestinese (USSC) di Gerusalemme al fine di “capire cosa sanno gli Stati Uniti della violenza dei coloni”. L’intenzione, hanno spiegato, non è quella di agire contro gli autori dei reati ma di evitare che le informazioni raccolte “si trasformino in sanzioni”.

I funzionari statunitensi, che hanno confermato che funzionari dell’Autorità Palestinese hanno inviato una grande quantità di informazioni all’USSC sugli episodi di violenza dei coloni, hanno detto a +972 e Local Call che queste informazioni hanno contribuito in parte alla decisione del presidente Joe Biden all’inizio di questo mese di imporre sanzioni contro quattro coloni noti per aver attaccato palestinesi e attivisti israeliani di sinistra. I funzionari hanno aggiunto che le informazioni hanno portato negli ultimi mesi all’inclusione di decine di altri coloni in una “lista nera” che vieta loro l’ingresso negli Stati Uniti.

L’USSC è stato istituito nel 2005 ed è responsabile delle relazioni tra gli Stati Uniti e le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, nonché del coordinamento della sicurezza tra Israele e l’Autorità Palestinese. Dal novembre 2021 l’ufficio è diretto dal tenente generale Michael R. Fenzel che, secondo le fonti, sta lavorando attivamente per prevenire la violenza dei coloni, con la consapevolezza che essa mina la stabilità regionale e indebolisce lo status dell’Autorità Palestinese agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.

Vogliamo sapere cosa sanno gli americani”, ha detto una fonte israeliana a +972 e Local Call. “L’obiettivo è sapere cosa ci può succedere quando Fenzel arriverà e chiederà ragione di questi casi. Non si tratterebbe di inseguire i coloni e arrestarli: ecco perché molte persone qui si sono sentite a disagio. La preoccupazione per ciò che sanno gli americani deriva dal [comprendere] che intendono fare qualcosa con queste informazioni”, ha continuato la fonte. “Qui tutti conoscono il nome di Fenzel. Gli americani chiedono conto a Israele e gli israeliani si sentono in imbarazzo. Il fatto che ci venga chiesto di cercare informazioni indica che Israele non ha buone risposte”.

Secondo un’altra fonte israeliana che ha parlato con +972 e Local Call, i ranghi politico-diplomatici in Israele vedono la crescente preoccupazione internazionale per la violenza dei coloni come “pressione politica”, e stanno quindi cercando di dimostrare che la portata del fenomeno non è così ampia come sostengono gli americani. Ecco perché, ha detto la fonte, “stiamo lavorando per contribuire a confutare queste accuse o evitare che si trasformino in sanzioni. Il ceto politico è preoccupato che vengano adottate tutte le tipologie di azioni internazionali che costringeranno Israele ad affrontare questo problema”.

Probabili ulteriori sanzioni

+972 e Local Call hanno ottenuto copie dei materiali che i funzionari dell’Autorità Palestinese avevano raccolto e inviato all’USSC. Questi materiali, che non sono disponibili al pubblico e sono stati trasmessi attraverso canali privati, includono rapporti con una breve descrizione di centinaia di incidenti violenti avvenuti in Cisgiordania dopo il 7 ottobre.

Queste informazioni sono utili agli Stati Uniti perché fanno luce sulla portata del fenomeno della violenza dei coloni. A differenza delle informazioni raccolte dall’ONU, ad esempio, che si concentrano principalmente sui casi in cui le persone vengono uccise o ferite o in cui si verificano danni alle proprietà, l’Autorità Palestinese documenta sistematicamente anche casi di minacce ed espulsioni dai pascoli.

In totale i funzionari dell’AP hanno fornito all’USSC i dettagli di centinaia di episodi di violenza da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre. Questi includono espulsioni da piccoli villaggi e frazioni palestinesi, attacchi incendiari, sparatorie che hanno ucciso otto palestinesi, circa 100 casi in cui i coloni hanno aperto il fuoco contro i palestinesi o le loro case e centinaia di attacchi contro pastori palestinesi, comprese minacce e atti vandalici.

La maggior parte degli incidenti si sono verificati nell’Area C che costituisce due terzi della Cisgiordania ed è sotto il pieno controllo militare e civile israeliano, dove almeno 16 comunità palestinesi sono state allontanate dall’inizio della guerra dalla violenza dei coloni.

L’USSC non si basa esclusivamente sulle informazioni trasmesse dall’Autorità Palestinese, ma piuttosto raccoglie testimonianze delle violenze da parte dei coloni da varie fonti, tra cui l’ONU, e poi condivide questi casi con le agenzie di sicurezza israeliane per chiedere loro di adottare misure per fermare la violenza. Secondo i funzionari statunitensi la decisione di Biden di imporre sanzioni è il risultato della mancanza di un’efficace azione israeliana in merito.

Una fonte con conoscenza diretta del processo all’origine delle recenti sanzioni statunitensi ha detto a +972 e Local Call che è probabile un altro annuncio di sanzioni economiche da parte della Casa Bianca, che potrebbe includere anche coloni israeliani di alto livello e alti funzionari pubblici con un passato di violenza contro i palestinesi. Secondo la fonte anche la “lista nera” dei coloni soggetti a divieto di viaggio potrebbe ampliarsi e il numero finale potrebbe raggiungere “centinaia di coloni”.

Secondo un’altra fonte, un alto funzionario statunitense, le sanzioni economiche imposte contro quattro coloni dall’ordine esecutivo di Biden del 1febbraio sono state formulate dopo un’indagine approfondita che includeva la raccolta di informazioni da varie fonti e non si basava esclusivamente sull’USSC. Il fascicolo su ciascuno di questi coloni, ha detto la fonte, contiene prove inequivocabili del coinvolgimento nelle violenze che confermano le accuse contro di loro.

Nel suo ordine esecutivo Biden ha scritto che “la situazione in Cisgiordania, in particolare gli alti livelli di violenza estremista dei coloni, lo sfollamento forzato di persone e villaggi e la distruzione di proprietà ha raggiunto livelli intollerabili e costituisce una seria minaccia alla pace, alla sicurezza e stabilità della Cisgiordania e di Gaza, di Israele e della più ampia regione del Medio Oriente”. La dichiarazione includeva anche dettagli sui reati commessi dai quattro coloni: David Chai Hasdai, Einan Tanjil, Shalom Zicherman e Yinon Levi.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in risposta a queste sanzioni ha affermato che “Israele agisce ovunque contro i trasgressori, non c’è quindi bisogno di misure eccezionali per questi eventi”. Ma secondo un’indagine condotta dal gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, il 97% dei 1.664 fascicoli della polizia israeliana aperti tra il 2005 e il 2023 riguardanti la violenza dei coloni sono stati chiusi senza condannare alcun colono. Nell’81% circa dei casi i fascicoli sono stati chiusi perché la polizia non ha identificato prove o colpevoli.

Nel dicembre dello scorso anno il segretario di Stato Antony Blinken dichiarò che gli Stati Uniti avevano iniziato a inserire nella lista nera i “coloni estremisti” a cui sarebbe stato vietato l’ingresso nel paese. Questo annuncio aveva innescato una reazione a catena, con diversi Stati europei che avevano seguito l’esempio e, secondo quanto riferito, l’Unione Europea sta valutando la possibilità di imporre proprie sanzioni per impedire ai “coloni estremisti” di entrare nel territorio dell’UE. All’inizio di questa settimana, il Regno Unito ha annunciato le proprie sanzioni contro quattro coloni (solo uno dei quali tra i quattro presi di mira dall’ordine di Biden), e la Francia ha imposto un divieto di viaggio a 28 coloni di cui non ha dato i nomi.

+972 e Local Call hanno contattato il portavoce dell’ambasciata americana per un commento, il quale ha risposto: “Secondo la nostra politica non commentiamo questioni di intelligence e vi rimandiamo al governo di Israele”. L’ufficio del primo ministro israeliano ha rifiutato di commentare.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come Israele ha fatto di un insegnante un traditore

Oren Ziv

9 febbraio 2024 – +972 Magazine

I post sui social media relativi al 7 ottobre lo hanno fatto licenziare, arrestare e gettare in prigione. Ora, Meir Baruchin deve lottare per tornare in una scuola che vuole che se ne vada.

Immaginate la scena: un giorno un insegnante di scuola superiore di 62 anni entra nel cortile della scuola e viene accolto da una protesta premeditata da parte degli studenti che si rifiutano di frequentare la sua lezione. “Figlio di puttana!” uno studente gli urla contro. “Buffone!” grida un altro. “Puttana!” strilla un terzo, mentre altri studenti sputano per terra davanti a lui.

Questa è stata l’accoglienza che Meir Baruchin ha ricevuto il 19 gennaio, il giorno in cui è stato reintegrato nella scuola superiore Yitzhak Shamir della città di Petah Tivkah, nella zona centrale di Israele, dopo essere stato licenziato, arrestato e incarcerato per quattro giorni in condizioni di isolamento in una prigione di massima sicurezza. Il suo reato? Due post su Facebook l8 ottobre – il giorno dopo che i miliziani guidati da Hamas avevano massacrato oltre 1.100 persone nel sud di Israele e dopo che Israele aveva iniziato il bombardamento della Striscia di Gaza – in cui condivideva una foto di bambini palestinesi uccisi in un attacco aereo israeliano e implorava di fermare questa follia” e metteva in guardia contro il crescente spargimento di sangue in Cisgiordania.

In unudienza tenutasi 10 giorni dopo presso il Comune di Petah Tikvah, che assume tutti gli insegnanti delle scuole pubbliche della città, Baruchin è stato accusato di condannare i soldati delle IDF [l’esercito israeliano, ndt.], stigmatizzare lo Stato di Israele e sostenere atti terroristici” e licenziato dal suo incarico. Alla ricerca di ulteriori punizioni il Comune ha anche presentato alla polizia una denuncia riguardo alla condotta di Baruchin, che è stato arrestato meno di un mese dopo con laccusa di manifesta intenzione di tradire il Paese”.

Alla fine Baruchin è stato rilasciato su cauzione e il 15 gennaio il tribunale regionale del lavoro di Tel Aviv ha stabilito che era stato licenziato ingiustamente. Il Comune ha presentato ricorso contro la sentenza del tribunale e il procedimento legale è ancora in corso nonostante l’avvenuta reintegrazione il mese passato. E anche se per la preside della scuola, Rachel Barel, sarebbe stato necessario un intervento giuridicamente praticabile per impedire il suo ritorno”, nel frattempo la scuola ha concordato che Baruchin riceverà il suo stipendio insegnando a distanza, registrando le lezioni di educazione civica per gli studenti del 12° anno [in Israele l’ultimo anno delle superiori, ndt.] che si preparano per gli esami di maturità.

Mentre dallinizio della guerra i cittadini palestinesi di Israele hanno dovuto affrontare una persecuzione dilagante, il caso di Baruchin dimostra come, anche se in numero molto minore, anche gli ebrei israeliani di sinistra stanno cadendo vittime della repressione di Stato sulla libertà di espressione. In seguito alla rivolta suscitata dal suo breve ritorno a scuola +972 ha incontrato l’insegnante di storia e educazione civica nella sua casa di Gerusalemme per conoscere la sua esperienza degli ultimi mesi. L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

E’ rimasto sorpreso nel ritrovarsi in questa situazione, licenziato e persino arrestato per un post sui social media?

Insegno educazione civica e storia, due materie fortemente politiche. Le dimensioni politiche sono inevitabili, quindi non sono rimasto sorpreso da questa repressione. Non sono il primo ad essere arrestato senza motivi fondati – e se fossi stato palestinese sarebbe andata peggio – e sfortunatamente non credo che sarò lultimo.

Conosco centinaia di insegnanti che hanno paura di parlare apertamente, paura di perdere i propri mezzi di sostentamento. Il mio licenziamento è stato chiaramente un messaggio intenzionale. Lobiettivo è mettere a tacere chiunque sollevi delle critiche minacciandone i mezzi di sussistenza, denunciandolo pubblicamente, infamandolo nei principali media e mandandolo in prigione.

Un ministro del governo ha suggerito di sganciare una bomba atomica su Gaza. Un altro ha chiesto che Huwara [città palestinese in Cisgiordania] venga cancellata. Durante lindagine ho chiesto a chi mi interrogava se avessero convocato tutte le persone che avevano cantato o scritto sui muri Morte agli arabi” o che avevano chiesto che i villaggi palestinesi fossero dati alle fiamme. Che dire di Itzik Zarka [un importante attivista del Likud] che si è detto orgoglioso del fatto che 6 milioni di ebrei ashkenaziti siano stati inceneriti [nell’Olocausto]? Lo avete arrestato? Interrogato? È abbastanza evidente che ci troviamo di fronte ad unapplicazione selettiva delle leggi.

Non si tratta semplicemente di costruire una realtà. È anche una manipolazione deliberata delle coscienze. Attraverso il controllo del sistema educativo, dellesercito e dei media si acquisisce un potere enorme e si può manipolare la popolazione nel modo desiderato. Chi non si adegua è un traditore, un anti-israeliano, un nemico che va trattato come si tratta un nemico.

La sensazione è che come società oscilliamo costantemente tra nevrosi e psicosi. Siamo in uno stato di disintegrazione, incapaci di accogliere coloro che sono diversi da noi. Sono visti come nemici, creano un senso di minaccia. E quando si è minacciati si reagisce violentemente.

Alla base dell’indagine ci sono due post su Facebook scritti l’8 ottobre. Cosa ha detto in quei post?

In uno di essi ho condiviso limmagine dei cadaveri di cinque bambini palestinesi, della famiglia Abu Daqqah, avvolti in lenzuoli bianchi. Di solito non invio queste foto, ma ero così scioccato che volevo che gli israeliani vedessero cosa veniva fatto a loro nome. La maggioranza degli israeliani non se ne interessa. Ho visto che questa foto è stata pubblicata anche su siti web di destra con faccine che ridono ed emoji di applausi e commenti del tipo: “Molti altri così“.

Nel secondo post ho scritto che anche in Cisgiordania si stava verificando un massacro. Quel giorno erano stati uccisi circa cinque palestinesi, alcuni dei quali minori.

Unaltro elemento presentato come prova contro di lei è una schermata proveniente dal WhatsApp di un insegnante che mostra un messaggio in cui lei scrive: I soldati israeliani non hanno mai violentato donne palestinesi? Lo fanno dal 1948. Questo non è contenuto nei libri di testo [di storia]”. Mi parli di questa conversazione.

Il 7 ottobre nel gruppo c’è stato uno scambio di opinioni emotivamente intenso, giustamente. La gente era scioccata, e lo ero anchio. Molti insegnanti hanno scritto cose che esprimevano shock e dolore, e si è sviluppata una discussione sugli obiettivi della risposta israeliana. Hanno scritto che Gaza avrebbe dovuto essere rasa al suolo e Hamas sradicato. Quindi ho chiesto: Qual è il fine? Cosa vogliamo?”

Ho scritto che uccidendo un gran numero di donne e bambini stavamo facendo del male a persone innocenti, cosa impossibile da accettare. Allora qualcuno ha risposto che dopo quello che ci hanno fatto [i palestinesi] se lo meritavano e ha affermato che i nostri soldati non hanno mai violentato le donne palestinesi. Quindi ho corretto questa affermazione. Sul mio telefono ho delle schermate dei diari di David Ben Gurion e Yisraeli Galili [il Capo di Stato Maggiore del gruppo paramilitare sionista pre-statale dell’Haganah] che descrivono casi in cui nel 1948 i nostri soldati hanno violentato donne palestinesi. Da quando sono stato rilasciato ho raccolto ulteriori prove di questo.

Mi racconti del suo arresto e interrogatorio a novembre.

Giovedì 9 novembre intorno alle 14.30 ho ricevuto una telefonata dalla polizia che mi informava che ero convocato per un interrogatorio con l’accusa di istigazione. Quando sono arrivato alla stazione di polizia un detective mi si è avvicinato. Ha confiscato il mio telefono e mi ha portato in una stanza dove mi hanno immediatamente legato mani e piedi e mi hanno portato via l’orologio da polso. [L’orologio, il telefono, il computer portatile e le chiavette USB sono stati restituiti a Baruchin solo tre settimane dopo il suo rilascio.]

Hanno iniziato a setacciare il mio telefono e poi mi hanno mostrato un mandato di arresto e uno di perquisizione dicendomi che avrebbero perquisito la mia casa. Cinque investigatori mi hanno portato a casa mia e, in presenza di due testimoni di cui avevo chiesto la presenza, la hanno messa a soqquadro.

Quella sera sono stato riportato alla stazione di polizia per essere interrogato. L’interrogatorio è durato circa quattro ore. L’investigatrice mi ha mostrato una dozzina di post sulla mia pagina Facebook, ma solo uno di questi era successivo al 7 ottobre. C’erano post di quattro anni fa, alcuni di un anno e mezzo fa.

La sua tecnica era molto manipolatoria. Non mi ha fatto vere e proprie domande. Piazzava le risposte all’interno delle domande. Ad esempio, mi chiedeva qualcosa del tipo: Se giustificasse lo stupro delle donne da parte di membri di Hamas, cosa ne penserebbe di…” – come se avesse già deciso che io giustificavo lo stupro.

E poi è stato messo in cella?

Sì, verso le 23:00. Agli altri detenuti è stato detto di non avvicinarsi né di parlare con me [Baruchin era l’unico ebreo israeliano tra i “prigionieri in regime di sicurezza” del Russian Compound – il centro di detenzione di massima sicurezza a Gerusalemme]. Mi hanno dato due coperte che puzzavano di sigarette. Con una mi coprivo e usavo l’altra come cuscino. Non avevo portato niente con me. Ho indossato gli stessi vestiti per quattro giorni. Mi hanno portato via i lacci delle scarpe e la cintura. Non mi hanno nemmeno permesso di tenere un libro da leggere e ovviamente non potevo guardare la televisione.

Nella cella stavo quasi sempre sdraiato sul letto e fissavo le pareti. Per non impazzire facevo esercizio fisico ogni ora e mezza o due, ma non c’era quasi spazio per muovermi. Una volta al giorno mi lasciavano uscire dalla cella per andare nel cortile, che è un quadrato di cemento recintato su tutti i lati. Per i primi due giorni non sono stato in grado di mangiare nulla [a causa dello stress]. Solo il terzo giorno sono riuscito a mangiare un pezzo di pane con formaggio e cetriolo. L’acqua delle docce era fredda.

Sono stato sradicato da tutto ciò che fa parte della mia vita: la famiglia, gli amici, le attività, gli hobby. Avrei dovuto iniziare a insegnare ai bambini evacuati dai kibbutz che circondano Gaza. Il loro preside voleva che insegnassi cinque giorni alla settimana; ovviamente ciò non è accaduto e non ho avuto nemmeno modo di dire loro che non avrei potuto farlo.

Il secondo giorno del mio arresto c’è stata un’udienza [per il prolungamento della detenzione]. Non ero fisicamente presente in aula; mi hanno condotto in manette nella sala videoconferenze del centro di detenzione, dove riuscivo a malapena a sentire quello che dicevano nel video.

Il rappresentante della polizia ha raccontato una serie di bugie, tra cui il fatto che io avessi giustificato tutte le atrocità commesse da Hamas. Non solo non ho mai giustificato una cosa del genere, ma ho scritto un post in cui condannavo esplicitamente le azioni di Hamas e dicevo che ero scioccato e profondamente ferito dalle atrocità commesse da Hamas. Hanno del tutto ignorato quel post.

Nel corso dell’udienza il giudice è andato di fretta per tornare a casa prima dello Shabbat e non mi ha permesso di parlare. Ha prolungato la mia detenzione fino a lunedì a mezzogiorno, e la questione è finita lì.

Dopo di che è stato interrogato di nuovo: cosa è successo allora?

Domenica sera [il quarto giorno di detenzione] sono stato portato per un altro interrogatorio. Anche questo è durato circa quattro ore. L’interrogante mi ha chiesto di Hamas, cosa pensassi di loro e delle organizzazioni terroristiche in generale. Non sono caduto nella sua trappola. Ad un certo punto ha detto che i miei post erano come i Protocolli degli Anziani di Sion [un famigerato falso che descrive una cospirazione ebraica per conquistare il mondo]. Queste sono state le sue parole.

Sono un insegnante di storia. Ho letto i Protocolli degli Anziani di Sion decine di volte. Ho insegnato l’argomento. Le ho chiesto se avesse mai letto i Protocolli degli Anziani di Sion. Lei è rimasta in silenzio.

Dopo alcune ore ha constatato che non riusciva a ottenere da me ciò che voleva, così ha chiamato il suo comandante più anziano, che mi ha posto anche lui una serie di domande usando esattamente la stessa tecnica. Sapevano benissimo di non avere nulla contro di me.

Il mese scorso le è stato finalmente permesso di tornare al suo posto di insegnante, ma presto la situazione è diventata insostenibile. Cos’è successo al suo rientro?

Il mio primo giorno di rientro è stato un venerdì e il venerdì di solito insegno in due classi del 12° anno. Quella mattina la preside mi ha mandato una mail dicendomi che ci sarebbe stata una grande manifestazione e che sarebbe stata presente la polizia. La mattina mi ha accompagnato in classe. Tutti gli studenti si sono rifiutati di restare in classe, tranne uno che non aveva portato con sé il quaderno, per cui è uscito anche lui. Sono rimasto in classe da solo. Due ragazze di un’altra classe sono entrate per curiosità e abbiamo avuto una piacevole conversazione.

Poi sono andato nell’aula professori e durante la pausa decine di studenti hanno bussato alla porta e alle finestre. Gridavano: Figlio di puttana! Tua madre è una puttana! Che ti venga un cancro! Violenteremo tua figlia!” Nessuno ha cercato di fermarli: né la preside, né gli addetti alla sicurezza all’interno della scuola, né la guardia al cancello. Non è stato chiamato alcun agente di polizia. C’erano due genitori fuori dal cancello che hanno solo peggiorato le cose.

Nei giorni successivi sono rimasto sotto assedio nella sala professori. Decine di studenti non frequentavano le lezioni, in realtà con l’autorizzazione. Nell’aula docenti c’erano circa 12-15 insegnanti di cui due o tre mi si sono avvicinati per stringermi la mano esprimendo empatia. Uno di loro mi è rimasto vicino per tutta la giornata.

Poi, alla fine della giornata, decine di studenti si sono presentati alla porta dell’edificio che conduce all’aula professori. Volevo andare a casa e la preside e la guardia di sicurezza mi hanno scortato fino alla porta.

A 30 metri dal cancello della scuola c’erano decine di studenti che imprecavano e mi sputavano contro. Quando ho lasciato il portone della scuola i genitori e gli studenti mi hanno inseguito continuando a imprecare e sputare. La settimana successiva è accaduta la stessa cosa.

Come ha risposto la scuola?

Lunedì sera [22 gennaio], la preside ha inviato un messaggio al gruppo WhatsApp dei genitori dicendo che la scuola, educando alla tolleranza, non accettava alcuna violenza verbale. Ma la realtà si è dimostrata completamente diversa.

Al mio successivo rientro la preside mi aveva suggerito di entrare nella scuola dall’ingresso sul retro, ma ho rifiutato. Sarei entrato solo dall’ingresso principale. Avrebbero potuto imprecare, sputare, picchiarmi: non avrei risposto. Se un quindicenne pensa che sia giusto sputare addosso a un uomo di 62 anni, non ho niente da dire al riguardo.

Dopo aver perso in tribunale volevano rendermi la vita infelice e rendermi insopportabile il tempo trascorso a scuola. Pensavano che ciò mi avrebbe spezzato.

Perché è importante per lei postare sui social media su ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania?

Lopinione pubblica israeliana non sa cosa viene fatto in suo nome, né in Cisgiordania né a Gaza, per come lo Stato manipola la nostra coscienza. Non appare nei media, certamente non nei principali. E a quelli che lo sanno non importa. Nei miei post cerco di portarlo alla loro attenzione. E voglio mostrare nomi e volti: Guardateli! Guardateli! Alcuni di loro sono bambini! Guarda cosa stanno facendo in vostro nome! Potete convivere con questo?” Se i media facessero il loro lavoro, non dovrei farlo io.

Molte volte le persone mi hanno accusato di non scrivere di ciò che ci fanno i palestinesi. E io rispondo sempre che non hanno bisogno che lo faccia io: hanno tutti i media, la tv, la stampa, la radio, internet. Uso la mia pagina Facebook per scrivere di ciò che non sanno, non di ciò che sanno già. E c’è qualcosa che non va in loro se non capiscono che quello che è successo il 7 ottobre mi ha profondamente scioccato e ferito.

Qual è il suo approccio pedagogico, come insegnante di storia e di educazione civica che lavora in una società del genere?

Per me, leducazione ai valori” e linsegnamento vanno di pari passo. Non cerco di instillare i miei valori nei miei studenti: presento una serie di valori e lascio che i miei studenti, che hanno 16 o 17 anni, capiscano da soli quali saranno quelli a cui attenersi. Il punto non è che io sia soddisfatto ma che loro si sentano contenti di se stessi.

Insegno da 35 anni e nessuno studente ha cambiato ciò che pensava a causa di qualcosa che ho detto in classe. Se pensa che io abbia il potere di far cambiare loro idea, non sta rendendo sufficiente merito agli studenti. Non sono marionette e non sono io a tenere i fili. Spesso non sono d’accordo con me e può svilupparsi una conversazione rispettosa. Questa è la filosofia della mia professione e rende le lezioni interessanti. Anni dopo la laurea molti di loro restano in contatto e mi mandano messaggi del tipo: Sa, solo adesso capisco il significato di ciò di cui abbiamo parlato in classe”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La madre di un ostaggio dice che gas tossici provenienti da bombe israeliane hanno ucciso suo figlio. Ha ragione?

Yuval Abraham

31 gennaio 2024 – +972 magazine

Fonti dicono che l’esercito israeliano sa che le armi con cui ha preso di mira i tunnel di Gaza possono disperdere residui tossici che le famiglie temono possano aver ucciso tre ostaggi.

A metà dicembre l’esercito israeliano ha scoperto i corpi di tre degli ostaggi rapiti nel sud di Israele e portati nella Striscia di Gaza il 7 ottobre: i soldati Ron Sherman e Nik Beizer e il civile Elia Toledano. All’inizio le loro famiglie erano state informate che i tre uomini erano stati uccisi in prigionia da Hamas ma Maayan, la madre di Sherman, ha presto dichiarato che non è andata così.

Ron è stato assassinato,” ha scritto sulla sua pagina Facebook il 16 gennaio, ma “non da Hamas.” Ha asserito infatti che suo figlio è stato ucciso da “bombardamenti con gas tossici.”

Maayan ha fatto queste asserzioni dopo aver letto i risultati non definitivi di un’autopsia che le sono stati presentati da delegati del dipartimento vittime dell’esercito israeliano e dalla brigata 551, i cui soldati avevano rinvenuto il corpo di Sherman a Gaza. “I rappresentanti [dell’esercito] ci hanno riferito di non escludere [come causa della morte] un avvelenamento da gas conseguente ai bombardamenti dell’IDF, ma di non esserne certi,” ha detto a +972 e Local Call [edizione in ebraico di +972, ndt.].

Secondo due fonti israeliane della sicurezza che hanno parlato a +972 e Local Call a condizione di rimanere anonimi, questa non sarebbe la prima volta che gli attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira la rete sotterranea di tunnel di Hamas a Gaza avrebbero ucciso delle persone in questo modo. L’esercito, dicono, è consapevole che, esplodendo nei tunnel, le bombe possono disperdere gas tossici come monossido di carbonio.

Per esempio a maggio 2021, nell’ambito di un suo vasto attacco chiamato “Operazione Guardiani delle Mura,” l’esercito israeliano aveva lanciato un assalto mirato contro la rete di tunnel di Hamas detto “Operazione fulmine.” Gadi Eizenkot, che era capo di stato maggiore dell’IDF quando fu pianificata l’operazione e che ora è un membro del gabinetto di guerra israeliano, ha detto in seguito che l’operazione mirava a “trasformare i tunnel in una trappola mortale” e uccidere centinaia di appartenenti ad Hamas. 

Durante quegli attacchi, che alla fine uccisero solo poche decine di militanti di Hamas, coloro che si erano nascosti nei tunnel furono ammazzati “non solo dalla bomba che li aveva colpiti, ma anche dal fatto che i bombardamenti rilasciano gas dentro i tunnel,” ha affermato una fonte a +972 e Local Call.

La fonte ha spiegato che l’esercito non ha usato una testata chimica o biologica, ma si è invece scoperto che, penetrando in un ambiente ristretto come i tunnel, certe bombe potrebbero rilasciare come effetto secondario gas tossici “a grande distanza”. Una seconda fonte l’ha confermato, aggiungendo che i test condotti a proposito dall’esercito hanno mostrato che inalare questi gas in spazi chiusi è letale.

+972 e Local Call non sono riusciti a confermare se il soffocamento con gas tossici sia una tattica deliberata usata dall’esercito israeliano in questo conflitto per uccidere membri di Hamas nascosti nei tunnel.

In risposta a queste accuse il portavoce dell’IDF ha detto a +972 e Local Call che l’esercito “usa solo mezzi di guerra legali, in ossequio al diritto internazionale. L’IDF non l’ha fatto nel passato e non lo fa ora, non usa gli effetti collaterali dei bombardamenti per colpire i suoi obiettivi.”

Gli israeliani e i palestinesi sono uguali — tutte le vite sono ignorate’.

All’inizio di questo mese l’esercito israeliano ha annunciato che i corpi di Ron Sherman e degli altri due ostaggi erano stati trovati vicino a un tunnel in cui il comandante della brigata di Hamas del nord di Gaza, Ahmed Ghandour, era stato assassinato da un attacco aereo israeliano a metà novembre. Maayan accusa l’esercito israeliano di aver ucciso intenzionalmente suo figlio nell’attacco per assassinare Ghandour.

Una fonte della sicurezza israeliana al corrente di informazioni sull’attacco ha detto a +972 e Local Call di non sapere se l’esercito avesse il dubbio che ostaggi israeliani erano tenuti vicino a Ghandour. Ma per uccidere un capo di Hamas, continua la fonte, l’esercito ha bombardato un edificio pieno di civili palestinesi, ben sapendo di ucciderne decine. 

 “Ghandour era sotto un grande edificio,” dice la fonte. “Noi abbiamo bombardato sapendo che l’intera struttura sarebbe crollata. Sono stati uccisi molti civili. Ma Ghandour non c’era. L’hanno mancato. C’è voluto un secondo bombardamento per ucciderlo, ma con moltissimi danni collaterali.”

Daniel Hagari, portavoce dell’IDF, ha affermato che “l’esercito israeliano non sapeva della presenza di ostaggi nell’area.” Ha fatto commenti simili dopo il rilascio di un video di Hamas in cui l’ostaggio Noa Argamani dice che due degli ostaggi con cui era detenuta erano stati uccisi in un attacco aereo: “Noi [l’esercito] non attacchiamo posti dove sappiamo potrebbero esserci degli ostaggi,” ha concluso Hagari. 

Tuttavia le affermazioni di Hagari sono difformi dalla testimonianza di una fonte apicale della sicurezza, che viene svelata qui per la prima volta. La fonte ha detto a +972 e Local Call che durante le prime settimane di guerra l’esercito israeliano ha preso sistematicamente di mira con i suoi bombardamenti i palestinesi definiti come “sequestratori” — coloro che avevano rapito israeliani nel corso dell’attacco di Hamas del 7 ottobre — nonostante il timore che ci fossero ostaggi trattenuti nelle vicinanze. Secondo la fonte i rapiti israeliani sono stati “sicuramente colpiti” in questi bombardamenti: solo in seguito questo modo di attuare è stato cambiato.

Noi abbiamo bombardato i palestinesi sospettati di essere i sequestratori,” ha detto la fonte. “Abbiamo trovato i sospettati e li abbiamo bombardati. Ed è stato surreale perché si vedeva dall’identificazione della persona che chi si stava bombardando era ‘uno dei sospetti rapitori di israeliani, il che significa che c’era la possibilità che ci fossero ostaggi vicino a lui. Col senno di poi sappiamo che molti israeliani erano tenuti sottoterra. Ma ovviamente si sono fatti degli errori e noi abbiamo bombardato ostaggi.”

La decisione di bombardare i sequestratori, sospetta la fonte, non è stata presa a livello militare. “Questa è [una decisione] a livello politico, secondo me,” ha spiegato. “Abbiamo bombardato molti rapitori. Più di alcune decine e meno di cento. Per assurdo qui i civili israeliani e palestinesi erano uguali —le vite di entrambi non sono mai state prese in considerazione.”

Solo in seguito nel corso del conflitto il dipartimento dell’esercito per i prigionieri di guerra e dispersi li ha informati delle zone che non avrebbero dovuto colpire per paura di mettere in pericolo gli ostaggi. “All’inizio della guerra questo non è successo,” ha detto la fonte. “Non c’era un protocollo sugli ostaggi. Non erano stati presi in considerazione.

Ricordo di aver lasciato la base militare per la prima volta due o tre settimane [dopo l’inizio della guerra], e di essermi accorto che c’erano delle manifestazioni sugli ostaggi e che qui tutti ne parlavano,” continua la fonte. “E per me è stato surreale perché non è stato che quando sono andato a casa che ho scoperto i loro nomi e quante persone erano state rapite.”

La fonte ha spiegato che i palestinesi presi di mira in quanto sospettati di essere i rapitori non stavano necessariamente tenendo israeliani nelle loro case, ma che ciò era probabile: non sono stati eseguiti dei controlli prima di colpirli. “All’inizio della guerra non ce ne siamo preoccupati,” ha detto. “L’atmosfera era molto addolorata e vendicativa. Avremmo bombardato tutti i sequestratori palestinesi.”

La testimonianza della fonte non è rilevante solo per le fasi iniziali del massacro israeliano a Gaza. Lo scorso mese in un’indagine di +972 e Local Call, tre fonti dell’intelligence hanno confermato che non ci sono stati bombardamenti dell’esercito quando era a conoscenza che avrebbero potuto uccidere ostaggi, ma in molti casi il quadro dell’intelligence era incompleto.

Lo Stato li ha sacrificati due volte’

Dopo le affermazioni iniziali dell’esercito israeliano che i tre ostaggi erano stati uccisi da Hamas, l’esame patologico sui corpi di Ron Sherman e Nik Beizer non ha trovato segni esterni di ferite da armi da fuoco o fratture ossee. Hagari stesso ha affermato che “a questo stadio non è possibile escludere o confermare che siano stati uccisi come risultato di soffocamento, strangolamento, avvelenamento o come conseguenza di un attacco dell’IDF o di un’operazione di Hamas.”

Maayan, la madre di Sherman, ha ricevuto una relazione dettagliata dall’esercito dopo l’esame del corpo del figlio che includeva anche una TAC. “Non c’erano fratture, ferite da arma da fuoco o da colpi secchi,” ha spiegato. Secondo Maayan, il 19 gennaio il capo della direzione del personale dell’IDF ha detto alla famiglia che “il caso è chiuso” e che l’esercito non avrebbe eseguito ulteriori indagini. 

Daniel Solomon, un medico che ha trattato pazienti affetti da trauma soffocati da gas o fumo, ha detto che, poiché è passato troppo tempo dal momento della morte e il ritrovamento dei corpi, sarebbe stato difficile identificare post-mortem segni di soffocamento da monossido di carbonio— come un edema alle corde vocali, ustioni alle vie respiratorie o danni ai tessuti. 

Katia, la madre di Beizer ha detto a +972 e Local Call che l’esercito li ha informati che tre uomini erano trattenuti nello stesso tunnel in cui si nascondeva Ghandour quando l’esercito ha eseguito l’attacco. “L’intelligence [militare] ci ha detto che [le loro morti] potevano essere la conseguenza della bomba che aveva ucciso Ghandour, a causa dei gas e dell’esplosione, ma che non lo sanno.

Io ho chiesto di continuare le indagini,” ha proseguito Katia. “Ho detto loro che non gli avrei permesso di fermarsi. Dopo tutto negli incontri con funzionari militare governativi ci dicono in continuazione che sospettavano che tenessero gli ostaggi vicino a leader di Hamas. Allora se sai e sospetti che ci siano degli ostaggi nelle vicinanze, anche se non sai esattamente chi, come è stato possibile che bombardi?”

Maayan ha detto che tre settimane dopo il rapimento del figlio ufficiali dell’intelligence hanno informato la famiglia che “c’erano indicazioni che era vivo e che sapevano dove fosse.” Durante la shiva (il periodo di lutto ebraico di sette giorni) che si è tenuta dopo il ritrovamento del corpo di Sherman a dicembre, il generale Ghassan Alian — capo del Coordinatore delle attività governative nei territori (COGAT) — le ha detto che lui e Nitzan Alon, incaricato dei prigionieri di guerra e delle persone scomparse, “sapevano in ogni momento dove fossero Ron e Nik,” e che quindi erano sorpresi nell’apprendere le loro morti.

Ecco perché Maayan accusa l’esercito di averle ucciso il figlio per poter uccidere Ghandour. “Qui qualcuno sta mentendo,” prosegue. “Mi è chiaro che mio figlio è stato sacrificato. Mi chiedo cosa avrebbero fatto se ci fosse stato il figlio di Bibi [Netanyahu], e non Ron. Abbiamo passato mesi di tormenti.”

La mia unica domanda è la causa della morte di mio figlio,” conclude Katia. “Io voglio sapere come è successo e quando è successo. Non sappiamo neppure le date. Lo Stato li ha sacrificati non una volta, ma due: prima quando sono stati rapiti dalla loro base militare, che si supponeva fosse un posto sicuro, e io ho chiamato tutti quelli che potevo e nessuno li ha salvati. E la seconda volta quando erano ostaggi e l’esercito non li ha riportati a casa vivi.”

In risposta alle accuse mosse in questo articolo il portavoce dell’IDF ha affermato: “L’esercito israeliano condivide il dolore delle famiglie per la dolorosa perdita e continuerà a sostenerle. Rappresentanti dell’IDF hanno fornito alle famiglie tutte le informazioni verificate che sono in possesso dell’IDF e continuerà a farlo.

Le vite dei sequestrati sono un valore fondamentale nelle considerazioni dei decisori e perciò l’IDF non attacca aree dove ci sono indicazioni o si stima che siano presenti degli ostaggi. Vorremmo sottolineare che al momento dell’attacco l’IDF non aveva informazioni sulla presenza di ostaggi nel tunnel del comandante della brigata nord di Hamas.

L’attacco in cui il comandante della brigata nord è stato eliminato è stato approvato in accordo con le procedure operative attinenti. Va sottolineato che la portata del danno stimato ai civili quale parte dell’attacco citato nella vostra richiesta è completamente infondata. Anche le affermazioni relative agli attacchi contro le case dei sequestratori sono false.”

Yuval Abraham è un giornalista e attivista basato a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)