Come l’Europa potrebbe ripensare i suoi rapporti economici con Israele

Robert Swift e Ben Fisher

10 giugno 2020 – +972

Israele ha ignorato le critiche dell’UE sull’annessione della Cisgiordania usufruendo nel contempo dei finanziamenti per la ricerca scientifica e la tecnologia. Se i rapporti non cambieranno non bloccherà i suoi progetti.

Se c’erano speranze che la visita di mercoledì a Gerusalemme di Hieko Maas, ministro degli Esteri tedesco, avrebbe contribuito a dissuadere Israele dai suoi progetti di annettere formalmente vaste zone della Cisgiordania occupata, esse sono presto svanite.

Incontrandosi con politici israeliani, Maas ha manifestato la “seria e sincera preoccupazione” della Germania riguardo alla minaccia rappresentata dall’annessione alla soluzione dei due Stati, avvertendo che alcuni Stati stanno facendo pressione per imporre sanzioni contro Israele o per riconoscere la Palestina come Stato. Tuttavia Maas ha sottolineato che la Germania non discuterà un “prezzo da pagare” per la politica israeliana, ma sta semplicemente cercando un dialogo sull’argomento.

Nonostante i suoi avvertimenti, le osservazioni di Maas hanno in grande misura riconfermato la tradizionale prudenza, per cui è improbabile che l’Unione Europea – un fondamentale attore politico ed economico nel conflitto israelo-palestinese e di cui la Germania è un potente Stato membro – agisca in modo significativo per impedire l’annessione. A dispetto dei soliti discorsi contro questa mossa, la politica estera dell’UE è caratterizzata dai disaccordi interni su come procedere, immobilizzata dalla necessità di ottenere il consenso unanime tra i suoi 27 Stati membri.

Due fonti diplomatiche dell’UE hanno detto a +972 che tuttavia questa “prudenza” potrebbe sottovalutare una significativa opzione politica che l’UE potrebbe utilizzare per tradurre il suo enorme potere economico in influenza politica. L’unico problema è che l’UE sceglie di non farlo.

Perché il gigante europeo parli sulla scena mondiale lo deve fare con una voce univoca: un solo parere contrario di uno dei suoi Stati membri è sufficiente per impedire prese di posizione o azioni in politica estera. Questa clausola è stata un ostacolo fondamentale allo sviluppo di una efficace politica dell’UE su Israele/Palestina. Mentre una parte dei membri dell’UE ha cercato di spostare il blocco su una posizione critica nei confronti delle pratiche del governo israeliano, un’altra ha costantemente spinto nella direzione opposta.

Gli alleati che il primo ministro Benjamin Netanyahu si è procurato nel gruppo di Visegrad – cioè Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia – si sono rifiutati di criticare pubblicamente Israele, che vedono come un’anima gemella. Ciò non significa che siano d’accordo con il concetto secondo cui gli Stati possono annettersi un territorio ottenuto con la guerra. Dopotutto solo tre decenni fa erano tutti dominati da Mosca come parte dell’Unione Sovietica. Il precedente dell’Ue con la Crimea, che la Russia ha annesso nel 2014 (a cui l’UE ha risposto con sanzioni contro Mosca) li preoccupa.

Quindi la principale divergenza all’interno dell’UE è meno sulla posizione contro l’annessione che su come meglio impedirla.

Una fonte diplomatica, che ha chiesto di rimanere anonima in quanto non ha il permesso di parlare pubblicamente dell’argomento, ha detto a +972 che il disaccordo riguarda più la tattica che la sostanza, in particolare se Israele reagirebbe meglio a una condanna pubblica o a una sollecitazione in privato.

Il diplomatico ha spiegato che un campo insiste che Israele ha esplicitato le sue intenzioni annessioniste e gli dovrebbe essere immediatamente impedito di perseguirle; l’altro campo sostiene che è ancora troppo presto per agire.

Entrambi i diplomatici che hanno parlato con +972 dicono che non sono solo le solite voci critiche – Francia, Svezia, Spagna, Irlanda e Lussemburgo – che stanno sostenendo il “campo della deterrenza”, bensì oltre metà degli Stati membri dell’UE. Ma, nonostante qualche mormorio nella stampa israeliana e gli ultimi avvertimenti di Maas, sanzioni economiche non sembrano molto probabili, in quanto i Paesi membri sono praticamente certi che su questa misura non si possa trovare l’unanimità.

Il nuovo Horizon

Ciò non significa che l’UE non abbia opzioni per dissuadere Israele dall’annessione. “Horizon 2020” è un fondo settennale di 80 miliardi di euro dell’UE che fornisce sostegno finanziario alla ricerca, allo sviluppo tecnologico e all’innovazione. Il progetto termina quest’anno e nel 2021 dovrebbe essere sostituito con un nuovo programma di sette anni, “Horizon Europe”.

Benché praticamente ogni Paese al di fuori dell’UE possa presentare domanda di finanziamento per il programma Horizon, Israele insieme a Norvegia, Turchia, Albania e ad altri Paesi confinanti con l’UE, è definito “Paese associato”. Questo status, che Israele ha ottenuto nel 1996 come primo Paese non europeo a riuscirci, significa che gli è garantito l’accesso ai finanziamenti alla pari degli Stati membri dell’UE.

Per quanto riguarda il conflitto, la questione è se nel prossimo programma Israele, nel caso in cui proceda con l’annessione della Cisgiordania, godrà dello stesso status privilegiato di adesso.

Nili Shalev, direttrice generale della Direzione per la Ricerca e lo Sviluppo Israele-UE presso l’Autorità Israeliana per l’Innovazione [ente governativo che finanzia progetti di sviluppo e innovazione tecnologica, ndtr.] spiega che, mentre Israele paga per far parte del programma – 1.3 miliardi di euro saranno pagati all’UE entro la fine di Horizon 2000, una somma in base ai PIL rispettivamente di Israele e dell’UE –, ha ottenuto finanziariamente più di quanto ha sborsato. Per esempio, secondo Shalev, dal 2014 al 2018 Israele ha investito [in Horizon] 788 milioni di euro e ne ha ricevuti 940.

Shalev afferma che, tra i vari vantaggi, Israele beneficia di Horizon attraverso elargizioni accademiche europee che sono più consistenti di quelle che il governo fornisce a livello nazionale; il programma contribuisce anche a ridurre i tempi di commercializzazione (il tempo tra la produzione e la vendita) per le imprese private.

Al contempo, prosegue, l’UE trae vantaggio dalla collaborazione perché i progetti israeliani spesso affrontano priorità europee come l’innovazione ambientale, le cure mediche e la sicurezza informatica e in rete – progetti che contribuiscono a creare lavoro anche in Europa, aggiunge.

Ricordando che durante la precedente edizione di Horizon Israele ha dovuto affrontare la questione dei finanziamenti utilizzati fuori dai confini di Israele prima del 1967 [quindi nei territori occupati di Golan, Cisgiordania e Gaza, ndtr.], Shalev spera che le attuali differenze politiche non impediscano di continuare la collaborazione: “La scienza è un’innovazione per tutti. Porta conoscenza a tutta la popolazione del mondo, non ha confini,” afferma.

Molti palestinesi non sarebbero affatto d’accordo con questa affermazione. In un articolo del 2018 Yara Hawari, esperta di politica del gruppo di studio palestinese Al-Shabaka, ha evidenziato che molti dei progetti tecnologici finanziati da Horizon sono stati utilizzati anche per continuare l’occupazione israeliana. Per esempio, la clausola del “doppio uso” nelle linee guida di Horizon per i finanziamenti consente effettivamente alle imprese israeliane di “avere accesso a finanziamenti UE per un progetto ‘civile’ e in seguito svilupparlo per il settore militare,” mentre alcuni dei beneficiari dei finanziamenti si trovano nella Gerusalemme est occupata, oltre la Linea Verde [confine precedente al 1967, ndtr.].

I finanziamenti che Israele riceve da Horizon dovrebbero essere limitati a istituzioni accademiche e a imprese private che operano all’interno dei confini del Paese prima del 1967 – le frontiere riconosciute ufficialmente dall’UE. Se Israele continuerà o meno a mantenere il suo status di “associato” nel prossimo programma Horizon, secondo i due diplomatici rimarranno in vigore le disposizioni dell’UE su dove i fondi possono essere spesi.

Anche se l’Ue non prenderà misure attive contro l’annessione, molti elettori israeliani probabilmente vorranno una spiegazione dai loro politici sul perché il governo sta cooperando con un programma che rifiuta di riconoscere parti della Cisgiordania come “territorio sovrano di Israele”, dice la seconda fonte diplomatica: “Dopo l’annessione – si son chiesti – come potranno accettare che l’Università Ebraica e quella di Tel Aviv collaborino con l’Europa, ma che l’università di Ariel (in Cisgiordania) non possa farlo?”.

Da parte sua Shalev spera e crede che i dissensi sui confini non impediranno di continuare la collaborazione scientifica. Il rifiuto dell’UE di riconoscere le rivendicazioni di Israele su territori in Cisgiordania – compresa l’annessione formale di Gerusalemme est e delle Alture del Golan siriane nel 1980-81 – negli ultimi 25 anni non ha impedito alle due parti di collaborare; perché dovrebbe succedere in futuro?

Privilegiare la tecnologia sui diritti umani

Dato che Israele ha ignorato il punto di vista europeo sui confini, destinando nel contempo i finanziamenti dell’UE alle imprese israeliane, attualmente ha pochi incentivi a modificare la sua linea di condotta nei territori occupati. Pertanto, secondo chi critica questa situazione, l’UE non può continuare ad attribuire ad Israele una posizione privilegiata se è così preoccupata per la sua illegale espansione territoriale.

Innanzitutto la commissione UE potrebbe sospendere l’inclusione di Israele nel nuovo programma di Horizon del prossimo anno. Ciò includerebbe la fine dello status di Israele come “associato”, in modo che debba competere per i finanziamenti alla pari con la maggior parte dei Paesi di tutto il mondo. Come ha notato Shalev, è raro che Stati non associati ricevano fondi del programma e i dati di Horizon mostrano che meno del 2% dei suoi finanziamenti vanno a Paesi “terzi”.

In futuro non si tratterà solo di quello che verrà bloccato in termini di rapporti (UE-Israele), ma quali futuri accordi l’UE e Israele saranno in grado di avviare a causa dell’annessione,” afferma Hugh Lovatt, esperto di politica del programma su Medio Oriente e Nord Africa presso l’ European Council on Foreign Relations [gruppo di lavoro a livello europeo sulla politica estera, ndtr.].

Notando che Israele non ha ancora firmato il programma per le innovazioni del prossimo anno e che l’annessione potrebbe essere un punto critico, Lovatt afferma che la mancanza di unanimità all’interno della UE è un’arma a doppio taglio: rende difficile sospendere l’accordo, ma rende anche complicato ratificarne di nuovi.

Ciononostante è improbabile che l’UE prenda una posizione ostile nei confronti di Israele, almeno in parte a causa della volontà dell’Europa di avere accesso a “un’economia tecnologicamente molto avanzata, con molte ricerche in corso,” dice la prima fonte diplomatica.

Secondo i critici questo calcolo non fa ben sperare per il conflitto. I palestinesi hanno a lungo accusato il fatto che le credenziali tecnologiche di Israele accechino la comunità internazionale riguardo alle violazioni dei diritti umani che avvengono sotto l’occupazione militare, quello che molti hanno descritto come “ripulitura grazie alla tecnologia”.

La seconda fonte diplomatica smentisce questa affermazione, insistendo sul fatto che, mentre l’UE è desiderosa di collaborare con Israele, è un’esagerazione dire che ciò dipende dalle innovazioni israeliane. “L’affermazione secondo cui Israele è talmente avanzato tecnologicamente da poterne trarre vantaggi politici può funzionare con alcuni Paesi del Terzo Mondo, ma non con l’Europa.”

Eppure è probabile che l’Europa accolga ancora Israele nel prossimo programma Horizon, continuando a protestare contro l’annessione. Nel migliore dei casi questa contraddizione invierà segnali contraddittori; nel peggiore, rafforzerà le critiche secondo cui l’Europa sta privilegiando la tecnologia sui diritti umani dei palestinesi. La prima fonte diplomatica ammette quest’ultima preoccupazione, benché affermi che è troppo presto per fare questa affermazione.

Benché il governo israeliano abbia previsto il 1 luglio come data in cui presenterà [in parlamento] l’annessione, non è chiaro se il governo procederà come promesso. Si moltiplicano le ipotesi secondo cui Netanyahu potrebbe rinunciare all’iniziativa, consentendo all’UE almeno tre settimane per farsi sentire prima della data prevista. Se il futuro della collaborazione scientifica e tecnologica dovesse essere preso in considerazione, i timori degli europei riguardo all’annessione probabilmente sarebbero presi più seriamente.

Un portavoce dei programmi Horizon presso la Commissione europea ha rivolto domande riguardo a Israele al rappresentante dell’ufficio Affari Esteri e Sicurezza della Commissione, che a sua volta ha girato le richieste all’ufficio di Horizon. Nessuno ha fornito un commento per questo articolo.

Robert Swift è un giornalista freelance e scrittore scozzese che vive a Gerusalemme. Il suo lavoro riguarda la tecnologia, la politica mediorientale e questioni belliche e relative alla sicurezza.

Ben Fisher è un giornalista freelance di Seattle. Ha lavorato per il Jerusalem Post e il suo disco folk di 17 brani su Israele-Palestina “Does the Land Remember Me?” [la terra si ricorda di me?] è stato pubblicato nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli ebrei USA stanno dalla parte di Black Lives. Perché non facciamo altrettanto con i palestinesi?

Oren Kroll-Zeldin

4 giugno 2020 – +972

Non denunciando apertamente l’uccisione di palestinesi come Iyad al-Allaq le associazioni di ebrei americani stanno svalutando la nostra presa di posizione contro la violenza di Stato in patria.

George Floyd e Iyad al-Hallaq non si sono mai incontrati. Vivevano a circa 6.000 km di distanza uno dall’altro in mondi completamente diversi. Ma un unico tragico destino, determinato dalla violenza dello Stato, unisce per sempre questi due uomini: Floyd, un nero disarmato, è stato ucciso dalla polizia a Minneapolis e la stessa settimana Hallaq, un palestinese disarmato affetto da autismo, è stato ucciso dalla polizia israeliana a Gerusalemme.

Una settimana dopo la sua uccisione, che ha provocato massicce proteste in tutti gli USA e nel resto del mondo a favore della giustizia razziale e per la fine delle brutalità della polizia, George Floyd è diventato famoso. Egli si è aggiunto a una lista troppo lunga di nomi che includono Breonna Taylor, Ahmaud Arbery, Michael Brown, Eric Garner, Tamir Rice, Philando Castile, Oscar Grant e un numero infinito di neri americani, donne e uomini, uccisi dalla polizia.

Durante la scorsa settimana ho visto appelli di molte associazioni e dirigenti ebrei americani che chiedono alla propria comunità di familiarizzare con quei nomi e di unirsi alla lotta per la giustizia razziale. Queste azioni sono lodevoli e necessarie – in quanto ebrei dobbiamo partecipare attivamente a questi movimenti sociali sempre importanti e opportuni.

Eppure c’è un problema eclatante nel modo in cui molte importanti organizzazioni di ebrei americani stanno rispondendo a questo momento cruciale: non hanno applicato lo stesso approccio basato sui valori ai diritti dei palestinesi e alla violenza di Stato israeliana come fanno con la violenza poliziesca negli USA. A causa di questa incoerenza le risposte di molte associazioni ebraiche agli attuali avvenimenti negli USA sembrano nella migliore delle ipotesi vuote, nel peggiore opportuniste.

Non lo dico per sminuire l’appoggio ebraico al Movimento per la Vita dei Neri o per screditare la partecipazione degli ebrei alle attuali proteste. Non sto neppure mettendo sullo stesso piano la situazione dei neri negli Stati Uniti con quella dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana: sono contesti diversi dal punto di vista storico, politico, giuridico e culturale.

Tuttavia, date le loro terribili somiglianze e dato che la comunità ebraica americana è profondamente coinvolta in entrambi i Paesi, il silenzio delle organizzazioni ebraiche nei confronti della violenza di Stato israeliana parla da sé. Non schierandoci in modo inequivocabile a favore dei diritti dei palestinesi quando sono sottoposti a tali uccisioni extragiudiziarie stiamo svilendo la posizione della nostra comunità contro simili atti di violenza negli Stati Uniti.

Perché non c’è stata nessuna indignazione da parte dei dirigenti della comunità ebraica dopo che la polizia israeliana ha ucciso Iyad al-Hallaq? Perché nel 2016 i dirigenti della comunità ebraica non hanno alzato la voce dopo che Abdel Fattah al-Shafir, inerme dopo aver tentato di accoltellare un soldato israeliano, è stato giustiziato a bruciapelo da Elor Azaria, nonostante al-Shafir non rappresentasse una minaccia per i soldati? Perché è più probabile che ricordino il nome del soldato e non quello dell’uomo che ha ucciso?

E qual è stata la risposta due anni fa quando un cecchino dell’esercito israeliano ha colpito e ucciso Razan al-Najjar, l’infermiera volontaria palestinese di 21 anni assassinata durante la Grande Marcia del Ritorno di Gaza mentre stava curando un manifestante ferito? Perché la comunità ebraica ha risposto con indignazione quando la piattaforma politica del Movement for Black Lives [Movimento per le Vite dei Neri] ha incluso parole di solidarietà nei confronti dei palestinesi?

Quel silenzio di molte organizzazioni ebraiche americane è ora più che mai assordante. Per molti questa dissonanza rende più difficile prendere sul serio l’impegno degli ebrei per una giustizia razziale negli USA, mentre lo stesso gruppo lavora strenuamente per sostenere sistemi di oppressione simili in Palestina-Israele.

Il fatto che molti dipartimenti di polizia degli USA si addestrino con poliziotti israeliani rende ancora più sconvolgente il rifiuto di denunciare gli abusi nei confronti dei palestinesi. Secondo Amnesty International organizzazioni ebraiche come l’ Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, una delle principali organizzazioni della lobby filo-israeliana negli USA, ndtr.], l’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, una delle più antiche organizzazioni di difesa degli ebrei negli USA, ndtr.] e il Jewish Institute for National Security Affairs [gruppo di studio filo-israeliano con sede a Washington, ndtr.] hanno persino finanziato questi corsi di addestramento.

Quando la polizia negli USA e in Israele uccide persone disarmate nella stessa settimana dovremmo sentire le comunità e associazioni ebraiche esprimere lo stesso sdegno a favore della giustizia in entrambi i luoghi. Ma la triste verità è che non lo fanno.

Quindi sfido gli ebrei americani a chiedersi: come vi sentite riguardo al personale israeliano che addestra poliziotti americani? Se a questo riguardo qualcosa vi irrita, come si spiega ciò? Ne sapete qualcosa della campagna “Scambio letale” che intende porre fine alla collaborazione tra polizie degli USA e di Israele? La campagna vi scandalizza perché fa parte di Jewish Voice for Peace [organizzazione antisionista degli ebrei USA, ndtr.], che appoggia apertamente il BDS? Fin dove arriva il vostro impegno per la giustizia?

In definitiva essere un alleato si basa sull’impegno politico condiviso e sul rifiuto risoluto di accettare l’ingiustizia in ogni contesto. Ai dirigenti della comunità ebraica piace citare Martin Luther King, che com’è noto scrisse nella sua “Lettera dalla prigione di Birmingham” che “l’ingiustizia ovunque è una minaccia alla giustizia ovunque”. Per essere sinceri alleati nella lotta contro la disuguaglianza razziale noi ebrei dobbiamo portare avanti questa lotta sia negli Stati Uniti che in Israele e far leva sulla nostra influenza e sul nostro privilegio in entrambi i luoghi.

Il silenzio cui assistiamo oggi non è solo complicità, ma anche un tradimento dei valori ebraici e della ricca tradizione della partecipazione degli ebrei ai movimenti sociali. Dobbiamo unirci al Movimento per le Vite dei Neri e ad altri gruppi guidati dai neri e appoggiare attivamente le proteste nelle nostre strade. Ed è fondamentale che ci esprimiamo con lo stesso zelo e con la stessa giusta indignazione contro la violenza dello Stato israeliano e a favore della giustizia per i palestinesi.

Gli assassinii di George Floyd e di Iyad al-Hallaq dovrebbero essere di monito perché la natura interconnessa delle loro morti la raffiguri come la nostra lotta. Se siamo impegnati nella giustizia per tutti, allora dobbiamo rifiutare di sostenere i sistemi razzisti e disuguali che le rendono possibili.

Oren Kroll-Zeldin è il vicedirettore del Swig Program in Jewish Studies and Social Justice [Programma Swig per gli Studi Ebraici e la Giustizia Sociale] all’ università di San Francisco, dove è anche assistente nel dipartimento di Teologia e Studi religiosi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per capire il sionismo dobbiamo vederlo sia come un progetto di liberazione che come un progetto colonialista

Alon Confino e Amos Goldberg 

3 giugno 2020 – +972

Il dibattito sull’antisemitismo spesso ignora gli elementi del colonialismo di occupazione facendo di Israele un’eccezione. Mettere in discussione questa analisi non è antisemita.

Il mese scorso, Felix Klein, commissario tedesco per la lotta all’antisemitismo, ha accusato di antisemitismo Achille Mbembe, l’eminente storico e filosofo camerunense. Klein ha tentato di impedire a Mbembe e ad altri gruppi e personalità di tenere il discorso di apertura a un importante festival in Germania, scatenando un violento dibattito pubblico.

Come ha riportato Mairav Zonszein sul quotidiano +972, l’accusa di Klein era basata sul paragone stabilito da Mbembe fra le politiche israeliane a danno dei palestinesi e il regime di apartheid in Sud Africa, così come sul suo approccio comparativo nello studio dell’Olocausto, che i suoi accusatori sostengono equivalga a una banalizzazione del genocidio.

La storia ha svelato quanto il dibattito sulla relazione fra gli studi postcoloniali e lo studio dell’antisemitismo sia non solo importante, ma debba anche essere sviluppato.

Una delle critiche mosse a Mbembe è stata che l’analisi postcoloniale tende a ignorare gli aspetti dell’antisemitismo che sono specifici rispetto ad altre forme di razzismo. Ma questa argomentazione ignora l’altro elemento dell’equazione: che il discorso contemporaneo sull’antisemitismo ignora gli aspetti coloniali di Israele e del sionismo e genera una visione ‘eccezionalista’ dell’antisemitismo e di Israele come entità a sé in una storia presa come caso isolato.

Era frequente per gli ebrei riconoscere già negli anni ’20 e ’30 che la resistenza araba al movimento sionista, e poi a Israele, non era dovuta all’antisemitismo, ma piuttosto alla loro opposizione alla colonizzazione della Palestina. Per esempio, Ze’ev Jabotinsky, leader sionista fondatore del movimento revisionista [corrente di destra del sionismo, ndtr.], riconosceva le caratteristiche coloniali del sionismo e offriva una spiegazione onesta delle ragioni per cui i palestinesi vi si opponevano.

I miei lettori hanno un’idea generale della storia della colonizzazione in altri Paesi,” scriveva Jabotinsky nel suo saggio del 1923 “Il muro di ferro.” “Io suggerisco che prendano in considerazione tutti i precedenti di cui sono a conoscenza per vedere se ci sia un solo caso in cui la colonizzazione sia avvenuta con il consenso della popolazione nativa. Non c’è alcun precedente simile. Le popolazioni native […] hanno sempre resistito ostinatamente contro i colonizzatori.”

Nel 1936, Haim Kaplan, un convinto sionista di Varsavia, scrisse nel suo diario con la stessa ottica. Riflettendo sulla Grande Rivolta araba in Palestina, dove all’epoca vivevano i suoi due figli, Kaplan osservava che parlare di un nuovo antisemitismo arabo era solo propaganda sionista. Gli arabi, dal loro punto di vista, avevano ragione: il sionismo li cacciava dalla loro terra e i seguaci del movimento dovevano essere visti come quelli che stavano facendo la guerra contro la popolazione locale.

Nonostante queste considerazioni, figure come Jabotinsky e Kaplan avevano comunque i loro motivi per giustificare il sionismo. Oggi, in molti Paesi, incluso Israele, le loro osservazioni critiche verso il movimento sarebbero considerate antisemite. Ma loro avevano ragione.

Solide ricerche hanno mostrato che il sionismo ha presentato elementi di colonialismo da insediamento. I sionisti cercavano di fondare una comunità oltremare, vincolata dai legami di identità e di un passato condiviso, in una terra che loro consideravano vuota o abitata da nativi che essi ritenevano meno civilizzati. Volevano non tanto governare o sfruttare i nativi, ma rimpiazzarli come una comunità politica. Una questione chiave su cui molti storici discutono è quanto il colonialismo da insediamento sia stato prevalente rispetto ad altre caratteristiche del sionismo.

Trattare il sionismo come uno fra gli altri movimenti coloniali da insediamento non nega necessariamente la ricerca di giustizia come parte integrante del sionismo, secondo cui gli ebrei hanno diritto ad una propria patria nel mondo moderno. Non nega necessariamente neppure il “diritto di esistere” di Israele, proprio come riconoscere Stati Uniti, Canada e Australia quali Stati coloniali di insediamento non nega a loro il diritto di esistere.

Questo approccio rende quindi chiara la dualità del sionismo, che è sia un movimento di liberazione nazionale per offrire un rifugio agli ebrei che fuggono dall’antisemitismo e dove i sopravvissuti all’Olocausto potevano ricostruire le loro vite, ma anche un progetto coloniale di insediamento che ha creato una relazione gerarchica fra ebrei e palestinesi basata su segregazione e discriminazione.

Il prisma del colonialismo di insediamento è corretto per capire altri casi storici nel mondo e non c’è motivo per non dibatterne anche quando nella discussione si viene sopraffatti dalle emozioni – il caso Israele-Palestina è uno di questi, compreso il concetto di apartheid.

Per capire il sionismo si deve abbracciare la complessità di due narrazioni che sembrano inconciliabili, ma che in realtà sono complementari: raccontare la storia dei motivi per cui gli ebrei in fuga da antisemitismo e discriminazioni in Europa immigrarono in Palestina raccontando nel contempo la storia delle conseguenze di questo evento per i palestinesi nel corso del secolo scorso.

L’intellettuale palestinese Raef Zreik ha descritto in modo poetico questo dualismo: “Il sionismo è un progetto coloniale di insediamento, ma non è solo questo. Esso unisce l’immagine del rifugiato con l’immagine del soldato, l’inerme con il potente, la vittima con il persecutore, il colonizzatore con il colonizzato, il progetto di insediamento che è allo stesso tempo un progetto nazionale. Gli europei vedono la schiena di un rifugiato ebreo che fugge per salvarsi la vita. Il palestinese vede la faccia del colonialista che si insedia prendendogli la terra.”

Analogamente, capire l’antisemitismo significa anche prenderne in considerazione la complessità: in molte parti del mondo gli ebrei oggi sono vittime (o vittime potenziali) dell’antisemitismo, che talvolta si nasconde dietro discorsi anti-israeliani o anti-sionisti, ma allo stesso tempo Israele è uno Stato potente, criminale e di occupazione. Gli ebrei, come tutti gli esseri umani, possono essere sia vittime che carnefici.

Questo non sminuisce gli ebrei. Piuttosto attribuisce loro una doppia responsabilità: combattere l’antisemitismo ovunque nel mondo; in quanto israeliani, avere la responsabilità dei crimini contro i palestinesi.

Politicamente, perciò, ogni confronto sul conflitto israelo-palestinese che voglia dare pieni diritti politici, nazionali, civili e umani a tutti gli abitanti fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo sotto forma di uno Stato, di due Stati o di una federazione bi-nazionale dovrebbe essere ben accolto e non considerato antisemita.

La Germania, con le sue ultime due generazioni, nonostante le imperfezioni e la complessa storia post-bellica, è stata un modello nel fare i conti con il proprio passato. Ora noi ci chiediamo se questa strada non sia arrivata a un punto morto che richiede un attento riesame. Oggi la situazione in Germania è assurda. Ogni critica severa dell’occupazione di Israele o delle sue politiche è considerata antisemita. È questa una lezione che i tedeschi vogliono trarre dall’Olocausto? Che gli ebrei non possono fare nulla di sbagliato? Questo tipo di filo-semitismo è inquietante.

Da studiosi dell’Olocausto, una delle cose che la nostra ricerca ci ha insegnato è l’importanza dell’ascoltare le voci delle vittime. Questa attenzione, dal processo a Eichmann ai libri di Saul Friedlander sull’Olocausto, riflette il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica e dei ricercatori del valore di includere le voci delle vittime nella narrazione storica. Un’esigenza morale simile fu posta da Gayatri Spivak nel campo degli studi postcoloniali quando si era chiesta: “I subalterni possono parlare?” Partendo dall’Olocausto e dall’esperienza del colonialismo europeo, si è riconosciuto che ascoltare queste voci sia un imperativo morale universale che va oltre l’Olocausto.

In questo caso chi sono i subalterni e chi le vittime? Dal punto di vista dell’Olocausto e dell’antisemitismo sono gli ebrei, ma nell’ottica del conflitto israelo-palestinese sono i palestinesi, le cui voci quindi richiedono grande attenzione.

Sono stati i palestinesi a identificare fin dall’inizio gli aspetti colonialisti del sionismo. Contestavano l’affermazione che la popolazione araba locale nel 1948 se ne fosse andata volontariamente, documentando che erano in realtà stati espulsi durante quello che loro descrivono come la Nakba [la catastrofe, in arabo, ndtr.]. Oggi sono testimoni dell’occupazione israeliana: il saccheggio della terra, lo stabilirsi di insediamenti, gli omicidi di innocenti, la demolizione delle case e altro ancora. Loro assistono all’infrangersi di ogni possibilità di uno Stato palestinese indipendente mentre Israele si prepara ad annettere formalmente vaste aree della Cisgiordania.

Noi dobbiamo ascoltare queste voci. Non perché siano sempre dalla parte della ragione (chi lo è?), e anche se sono voci dai toni accesi (gli occupati hanno il diritto di essere arrabbiati), ma perché noi abbiamo l’obbligo di ascoltare i testimoni di un’ingiustizia. Queste voci fanno parte del dibattito e non possono essere automaticamente definite antisemite. Ascoltarle e tenerne conto ci fa più, non meno, ebrei. Ci fa tutti più, non meno, umani.

Alon Confino occupa la cattedra Pen Tishkach di Studi dell’Olocausto presso Amherst, l’università del Massachusetts. Il suo libro più recente è “A World Without Jews: The Nazi Imagination from Persecution to Genocide” [Un mondo senza ebrei. L’immaginario nazista dalla persecuzione al genocidio, Mondadori, 2017].

Amos Goldberg è docente di storia dell’Olocausto. I suoi libri più recenti sono “Trauma in First Person: Diary Writing during the Holocaust” [Trauma in prima persona: scrittura di diari durante l’Olocausto] e un testo curato con Bashir Bashir “The Holocaust and the Nakba: A New Grammar of Trauma and History.[L’Olocausto e la Nakba: una nuova grammatica di trauma e storia].

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il mondo non fermerà l’annessione israeliana. Cosa faranno i leader palestinesi?

Omar H. Rahman

22 maggio 2020 – 972mag.com

Quattro eventi della scorsa settimana danno un’idea dell’incapacità della comunità internazionale a bloccare l’annessione – e perché solo un cambiamento della politica palestinese la costringerà ad agire.

Martedì il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha reso quella che inizialmente sembrava essere una affermazione epica, in cui ha dichiarato che i palestinesi sono “sciolti” dai loro accordi con Israele, compresi quelli relativi al coordinamento della sicurezza. Abbas ha fatto tali dichiarazioni numerose volte nel corso degli anni, facendo sì che molti ignorassero le sue osservazioni. Tuttavia, stanno venendo fuori relazioni confuse e non verificate che suggeriscono come, per la prima volta, potrebbe effettivamente dare corso alla sua decisione.

Che mantenga o no la promessa, la dichiarazione di Abbas avviene in un momento critico per i palestinesi, perché facciano il punto sulla situazione della loro lotta politica. Mentre il movimento nazionale palestinese si fa sempre più diviso e impotente, Israele ha fatto notevoli sforzi per massimizzare i propri guadagni a sue spese. Il più importante è l’impegno del governo israeliano ad annettere formalmente gran parte della Cisgiordania occupata, mossa che molti considerano un punto di non ritorno.

In effetti, quattro eventi della scorsa settimana hanno offerto uno speciale, simbolico distillato di come la comunità internazionale – e i palestinesi – abbiano regolarmente fallito nel fermare il percorso di Israele verso l’annessione.

Il 13 maggio, nonostante la pandemia globale, il segretario di stato americano Mike Pompeo ha fatto una visita a sorpresa di 12 ore per incontrare diversi leader israeliani pochi giorni prima che il nuovo governo di unità prestasse giuramento. Il viaggio è stato detto era concentrato su questioni geopolitiche come l’Iran e la Cina, ma alcuni osservatori hanno ipotizzato che fosse parzialmente destinato a puntellare l’appoggio degli evangelici USA all’amministrazione Trump. Altri invece hanno pensato che potesse anche essere un tentativo di rassicurare le autorità israeliane – tra cui Benny Gantz, partner della coalizione di Benjamin Netanyahu e “primo ministro supplente” – del sostegno americano all’annessione.

Gantz, durante la campagna elettorale, aveva apertamente dichiarato il suo sostegno all’annessione e aveva insistito sul fatto che avrebbe dato corso alla mossa solo se realizzata in “coordinamento” con la comunità internazionale. In linea con questa condizione, il nuovo accordo di governo sostiene che i primi ministri a rotazione “agiranno in pieno accordo con gli Stati Uniti, insieme agli americani, per quel che riguarda le mappe e il dialogo internazionale sull’argomento [dell’annessione]”. La teatrale visita in persona di Pompeo potrebbe aver placato ogni dubbio sulla posizione di Washington secondo cui, come ripeteva il segretario di Stato a Gerusalemme, “questa è una decisione che spetta agli israeliani “.

Due giorni dopo la visita di Pompeo, i ministri degli Esteri degli Stati membri dell’Unione Europea si sono incontrati a Bruxelles per definire una risposta unitaria ai piani di annessione di Israele. I leader europei, tra cui il capo della politica estera europea Josep Borrell, hanno per settimane dato segni di voler prendere una dura posizione contro Israele, per impedire qualsiasi mossa definitiva a partire dal 1 ° luglio.

Si dice che alcune nazioni – tra cui Francia, Irlanda, Svezia, Spagna e Belgio – stiano spingendo per sanzioni contro Israele, segnalando la potenziale gravità dell’annessione. Altri paesi all’interno del blocco – in particolare Ungheria, Austria, Repubblica Ceca, Romania e Grecia – hanno frenato ogni tentativo di agire contro Israele. Negli ultimi anni Netanyahu ha sapientemente costruito solide relazioni con i cosiddetti paesi di Visegrad, mirando a dividere le posizioni sulla politica mediorientale dell’UE, le cui decisioni devono essere prese all’unanimità.

Non sorprende che l’incontro si sia concluso con nulla di fatto. Non sono stati proclamati impegni o dure condanne – una conclusione che fornisce ai leader israeliani ulteriori motivi per considerare l’Europa debole e insignificante. “Gerusalemme ha espresso soddisfazione perché la discussione si è conclusa senza dichiarazioni o decisioni concrete”, ha riferito Noa Landau ad Haaretz, “e perché Borrel non ha attaccato Israele durante la conferenza stampa, ma sottolineato piuttosto la necessità di rispettare il diritto internazionale”. Israele ha anche apprezzato che Borrel abbia respinto una domanda sul confronto fra l’annessione della Cisgiordania e l’annessione della Crimea da parte della Russia, affermando che “ci sono differenze tra l’annessione di territori che appartengano a uno Stato sovrano e quelli dei palestinesi”, ha aggiunto Landau.

Mentre si svolgevano queste discussioni, sabato scorso l’Autorità Nazionale Palestinese si preparava a tenere una riunione a Ramallah, evidentemente con le varie fazioni palestinesi, per discutere il futuro del movimento nazionale alla luce dei piani di annessione di Israele. La settimana precedente, durante una tavola rotonda ospitata dal Middle East Institute [centro culturale e di ricerca senza fini di lucro né affiliazione politica, a Washington dal 1946, ndtr.], il primo ministro palestinese Mohammed Shtayyeh aveva affermato che la discussione interna fra i palestinesi potrebbe portare alla ristrutturazione dell’ANP, all’abrogazione formale degli accordi di Oslo e alla riformulazione delle relazioni fra Palestina e Israele.

Eppure l’incontro non è mai avvenuto. I funzionari palestinesi hanno addotto una serie di motivi per rimandarlo, inclusa la necessità di aspettare fino a quando si fosse insediato il nuovo governo israeliano. Allo stesso tempo, Hamas e la Jihad islamica, che, ha detto Shtayyeh, erano state invitate a partecipare e avevano segnalato la loro disponibilità, hanno cancellato la propria adesione pochi giorni prima dell’incontro, mettendo in dubbio la serietà del presidente Abbas a muoversi in una nuova direzione. Altri resoconti suggerivano che funzionari europei e arabi avessero fatto pressioni su Abbas affinché non prendesse una netta posizione fino a quando il governo israeliano non avesse espresso ufficialmente le sue intenzioni sull’annessione.

Domenica, Netanyahu l’ha fatto. Mentre il nuovo governo israeliano prestava giuramento alla Knesset [Parlamento, ndtr.] a Gerusalemme, Netanyahu ha dichiarato che “è giunto il momento” di proseguire con l’annessione, descrivendola come l’epilogo di un “processo storico”.

Il processo a cui il primo ministro si riferiva non sono soltanto i tre anni durante i quali si è coordinato con l’amministrazione Trump per elaborare quello che alla fine è diventato l’ “accordo del secolo”. Né sarebbero i 52 anni di attività di insediamento, costruzione di infrastrutture pubbliche e cambiamenti demografici in Cisgiordania che hanno reso l’annessione de jure più una formalità simbolica che una radicale decisione politica. Piuttosto, è stato il processo di colonizzazione più che centenario che ha portato l’intera terra tra il fiume [Giordano] e il mare [Medterraneo] sotto il controllo esclusivo di Israele.

Una realtà che è stata resa possibile la settimana scorsa dalle azioni esemplari di tutte e quattro le parti: il sostegno degli Stati Uniti, l’acquiescenza dell’Europa, la frammentazione dei palestinesi e la risolutezza di Israele a portare inesorabilmente avanti il suo progetto sionista, anche mentre discuteva di divisione e pace durante i negoziati.

Nei prossimi mesi continueranno probabilmente a fare più o meno lo stesso. L’amministrazione Trump raddoppierà il proprio sostegno ai massimalisti territoriali israeliani, in particolare con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre. Gli Stati europei possono intraprendere azioni individuali, ma è improbabile che un’Europa unita prenda una posizione ferma. L’UE potrebbe apportare alle sue relazioni con Israele lievi modifiche che non richiedano il consenso, ma alla fine non riuscirà a dissuadere Israele dalla sua intraprendenza.

Non resta che la leadership palestinese, la cui inazione e indecisione di fronte all’annessione israeliana è sconcertante. La dichiarazione di Abbas di abbandonare gli accordi con Israele, se effettivamente rispettata, potrebbe rappresentare una rottura importante col passato. Ma senza un piano d’azione dettagliato e concreto, e con dubbi diffusi sull’effettivo impegno dell’ANP riguardo alle sue parole, la dichiarazione di Abbas suona solo una minaccia vuota. Abbandonare gli Accordi di Oslo senza una chiara idea su come districarsi dalle strutture che si sono consolidate per 27 anni è la ricetta per una vasta confusione e, nel peggiore dei casi, il caos.

Nel mutevole panorama globale, da qualche tempo è evidente che l’imperativo di un cambiamento immediato spetta in definitiva ai palestinesi. È molto più facile per le terze parti pronunciare belle frasi piuttosto che intraprendere azioni politiche fondamentali ma politicamente costose da realizzare. Solo un cambiamento reale e decisivo nella posizione palestinese può costringere altre parti a reagire in modo significativo. Eppure sono stati sprecati anni di tempo prezioso per prepararsi e organizzare, e non sono stati fatti nemmeno i primi passi di un riordino del palazzo palestinese.

Se i palestinesi potranno avere qualche possibilità in questa fase avanzata, l’ANP deve allentare la sua presa sul potere, riconciliare le diverse fazioni politiche, ripristinare la legittimità delle istituzioni politiche e guidare il suo popolo e le sue risorse nel perseguire una nuova, popolare ed efficace strategia nazionale.

I palestinesi non possono fermare l’annessione da soli; è necessaria una solida risposta internazionale per invertire questa pericolosa strada. Ma demandando ogni speranza politica alle azioni di altri, la leadership palestinese può essere certa che nessun cambiamento arriverà fino a quando non sarà troppo tardi.

Omar H. Rahman è scrittore e analista politico specializzato in politica mediorientale e politica estera americana. Attualmente è assistente ricercatore presso il Brookings Doha Center [campus a Doha in Qatar del Brooking Institute di Wahington, ndtr.], dove sta scrivendo un libro sulla frammentazione palestinese nell’era post-Oslo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Terrorismo ebraico: gli askhenaziti forniscono il carburante, i mizrahi accendono il fiammifero

Orly Noy

19 maggio 2020 – +972

I leader israeliani hanno impregnato generazioni di mizrahi con l’odio verso gli arabi, così come verso la loro stessa identità araba. I risultati sono stati letali.

Martedì la condanna di Amiram Ben-Uliel per l’uccisione di tre membri della famiglia Dawabsheh durante un attacco incendiario nel villaggio cisgiordano di Duma nel 2015 ha immediatamente riportato i ricordi a quei giorni da incubo. Il solo pensiero del piccolo Ali, bruciato vivo nell’incendio, di suo padre Saad, morto una settimana dopo, di sua madre Riham, deceduta dopo un mese in ospedale, e di Ahmad, che all’epoca aveva quattro anni ed è sopravvissuto, toglie il respiro.

I miei pensieri sono andati al quindicenne Muahammad Abu Khdeir, abitante di Gerusalemme come me, che venne bruciato vivo da estremisti ebrei nel 2014. Poi ho pensato all’incendio della scuola bilingue di Gerusalemme “Mano nella mano”, dove hanno studiato le mie due figlie e che per anni è stata per la nostra famiglia una seconda casa.

Mi baluginavano nella mente i nomi dei responsabili degli attacchi incendiari contro palestinesi: Amiram Ben-Uliel, Yosef Haim Ben David, Yitzhak Gabbai, Shlomo Twito, Nahman Twito. Sono tutti, dolorosamente, di origine mizrahi. I mirzahi (ebrei originari di Paesi arabi e/o musulmani) non sono in alcun modo gli unici responsabili dei crimini efferati contro i palestinesi. È sufficiente seguire per un solo giorno le attività dei terroristi “della cima delle colline” [gruppo terroristico di giovani ebrei particolarmente violenti, ndtr.] per comprendere che è ben lungi dall’essere così.

Però al contempo noi come mizrahi non dobbiamo far finta di niente rispetto agli incendi omicidi che uccidono palestinesi e avvelenano la nostra gioventù con un odio perverso. Abbiamo l’impegno morale, così come un impegno nei confronti della nostra stessa comunità, di fare qualcosa di più che limitarci a comprendere perché questi giovani accendono il fiammifero. Dobbiamo chiederci chi fornisce il combustibile.

La risposta facile, quasi banale, a queste domande è venuta all’inizio dell’anno da Natan Eshel, uno stretto collaboratore del primo ministro Benjamin Netanyahu, che è stato registrato mentre diceva che “l’odio è ciò che unisce” il campo della destra guidato dal partito Likud, e che fare propaganda negativa funziona bene con gli elettori “non askhenaziti [originari dell’Europa centro-orientale e l’élite etnica in Israele, ndtr.]”. E in effetti funziona. Si pensi a Benzi Gopstein, un dichiarato suprematista ebraico e leader del violento gruppo “Lehava”, contrario al meticciato razziale, che per anni ha avuto successo a Gerusalemme nel trasformare mizrahi della classe operaia in stupidi soldati contro i palestinesi della città.

Per decenni sociologi e attivisti mizrahi hanno descritto come il sionismo abbia creato un meccanismo ben oliato che ha intriso generazioni di mizrahi di odio furioso sia per gli arabi tra cui vivono che per la loro stessa identità araba latente, cancellando nel contempo la storia e la lingua dei loro antenati. Poiché l’ideologia sionista ha trasformato qualunque cosa che sembrasse anche lontanamente “araba” in una minaccia meritevole di disprezzo, così anche i mizrahi hanno sentito la necessità di dissociarsi dall’identità araba per essere considerati degni agli occhi dell’establishment israeliano.

La destra israeliana ha sfruttato cinicamente e in modo calcolato per i propri scopi questa tragedia. Comprende la profonda ostilità dei mizrahi nei confronti dei discendenti del Mapai, il precursore politico del partito Laburista, e dell’élite ashkenazita, che li ha trattati con sufficienza e li ha discriminati in ogni modo nei primi decenni dalla fondazione di Israele. Alcuni di questi discendenti continuano ancora oggi a mostrare lo stesso disprezzo per i mizrahi.

Tuttavia in Israele la destra non ha fatto molto di più per consentire ai mizrahi di migliorare la loro educazione o la loro cultura. Al contrario, ha offerto loro una sorta di patto in cui avrebbero continuato ad essere identificati con la turpitudine, l’ignoranza e la volgarità, e come tali sarebbero stati calorosamente accolti perché fossero utili agli interessi politici della destra.

Ci sono buone ragioni per continuare a sfidare i discendenti del Mapai. I mizrahi stanno ancora pagando il prezzo delle discriminazioni che sono al cuore della fondazione dello Stato. Ma non dobbiamo dimenticare che abbiamo ancora un conto in sospeso con la destra, che ha governato Israele per decenni eppure non ha fatto praticamente niente per ottenere giustizia per i mizrahi.

Il nostro primo compito tuttavia dev’essere salvare le anime dei nostri figli dalle grinfie dei Natan Eshel e dei Benzi Gopstein. Non solo salveremo le loro vite, ma anche le vite delle future vittime palestinesi. Nessuna spiegazione sociologica potrà liberarli dalla responsabilità per questo tipo di crimini, e nessuna resa dei conti storica laverà le macchie di sangue dalle loro mani.

Una versione di questo articolo è apparsa la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

Orly Noy è una redattrice di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa in farsi. Fa parte del consiglio di amministrazione di B’Tselem [ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ed è un’attivista del partito politico Balad [partito ebreo e palestinese che fa parte della Lista Unita, ndtr.]. Nei suoi scritti parla delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di ebrea mizrahi, di donna di sinistra, di donna, una migrante temporanea che vive dentro un’immigrata perpetua e del dialogo costante fra entrambe.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Settant’anni dopo i palestinesi sfollati interni aspettano ancora di ritornare a casa

Orly Noy

15 maggio 2020 – +972Magazine

Muhammad Kayal è uno delle centinaia di migliaia di cittadini palestinesi in Israele che, 72 anni dopo la Nakba, restano rifugiati all’interno del Paese e a cui Israele non permette di ritornare a quelle che erano le loro terre, ora spesso abbandonate.

Le restrizioni imposte dalla pandemia da coronavirus e il divieto di assembramenti quest’anno hanno attutito, in un certo modo, la tensione emotiva, simbolica e fisica in occasione della Festa dell’Indipendenza/ Giornata della Nakba.

Ogni anno Israele si compiace nell’autocelebrazione con massicci sorvoli dell’aeronautica e fuochi di artificio, ignorando con tutte le sue forze il fatto che questo per i palestinesi è il giorno della catastrofe. Ogni volta gli israeliani restano sorpresi del fatto che né il passare del tempo né le leggi draconiane sono riusciti a cancellare il disastro o a estirparne il ricordo fra i palestinesi.

Non è chiaro quanto gli israeliani siano consapevoli del fatto che persino mentre ogni anno loro stanno celebrando il Giorno dell’indipendenza nei parchi in tutto il paese i cittadini palestinesi tengono annualmente marce del ritorno verso le diverse comunità da cui i loro anziani furono espulsi nel 1948 e a cui non sono mai più potuti tornare.

Sebbene la data ufficiale che segna la Giornata della Nakba sia il 15 maggio, le marce del ritorno si svolgono tradizionalmente durante la Festa dell’Indipendenza di Israele (che cambia in base al calendario ebraico). La pandemia ha spostato su Zoom le commemorazioni, che includono altre attività organizzate dal

, con una minore partecipazione rispetto agli anni scorsi.

Quando il tema del ritorno appare nei discorsi israeliani, essi tendono a focalizzarsi sul ritorno dei rifugiati palestinesi che al momento vivono fuori dai confini del Paese. Eppure il Comitato stima che fra i cittadini di Israele ci siano circa 400.000 sfollati interni (IDPs).

Muhammad Kayal, consigliere ed ex direttore del Comitato, è un giornalista e traduttore la cui famiglia fu espulsa da al-Birwa, vicino a San Giovanni d’Acri, nel nord del Paese. Kayal lo chiama orgogliosamente “il villaggio di Mahmoud Darwish,” il defunto poeta palestinese. Oggi vive a Jedeidi-Makr, a circa due chilometri da al-Birwa, dove ora ci sono un kibbutz e un insediamento agricolo.

Cosa rispondi quando la gente ti chiede da dove vieni?

Dico che sono di al-Birwa e che vivo a Jedeidi. Mio padre ha detto per tutta la sua vita: ‘Sono di al-Birwa’, anche se ha abitato a Jedeidi per circa 60 anni. Quando parlava della ‘gente del nostro villaggio,’ si riferiva ad al-Birwa”.

I discendenti degli abitanti originari si tengono in contatto? Conosci altri che fanno parte di quella comunità, che condividono la tua identità?

Sicuro, siamo in contatto costante. Ogni anno per la Festa dell’Indipendenza, o, per meglio dire, la giornata della Nakba, gli abitanti originari di al-Birwa e ora residenti in tutto il Paese si incontrano sui terreni del villaggio. Quando ci sono delle celebrazioni e nelle giornate di lutto invitiamo centinaia di espulsi e loro discendenti, in migliaia vengono al paese per trovare conforto.”

Come instillate questo senso di appartenenza nelle generazioni dei più giovani? Se tuo padre ha detto fino al giorno della sua morte che era di al-Birwa e tu dici che sei di al-Birwa e Jedeidi, cosa diranno le future generazioni?

Nella giornata della Nakba durante le marce del ritorno portiamo bambini e giovani al villaggio. Organizziamo per i giovani delle visite ai paesini spopolati, stampiano t-shirt con la scritta ‘Sono di al-Birwa’ in arabo e abbiamo un gruppo attivo su Facebook per i discendenti degli espulsi.

Promuoviamo anche la poesia nazionale come quella di Mahmoud Darwish e progetti come ‘Udna’ (che in arabo significa “siamo ritornati”, un progetto congiunto del Comitato, della ONG israeliana Zochrot, che si focalizza sulla Nakba, e altri, nda). Va avanti da tre anni e porta i giovani ai villaggi spopolati, con molte conferenze e produzione di materiali scritti.

Ci sono anche film che trattano il tema. Abbiamo un progetto speciale, ‘Il cammino del ritorno delle donne’, rivolto a centinaia di donne di diverse comunità che partecipano a visite, conferenze e film sui villaggi, che includono molte attività mirate alle giovani.”

Ti sembra che stia funzionando? Che questo senso di appartenenza si stia diffondendo fra le generazioni dei più giovani?

Sai, è come per tutte le cose: ci sono quelli più coinvolti e attivi e quelli meno. Ma se prendi come esempio le marce, più del 70% dei partecipanti sono giovani di seconda, terza e quarta generazione dalla Nakba.”

Il compito principale del Comitato è la conservazione della memoria e la creazione della consapevolezza. Evitate intenzionalmente le attività politiche concrete che mirano a ottenere il diritto al ritorno di rifugiati e sfollati interni?

Noi ci coordiniamo con l’High Follow-Up Commitee [Alto Comitato per il Seguimento, ndtr.], che include i partiti arabi, per esempio quando organizziamo le marce annuali. Tutti i movimenti politici vi partecipano.”

C’è l’impressione che la Lista Unita vada cauta sul conflitto sollevato da questo tema. Il ritorno di rifugiati e IDPs non è ai primi posti nei programmi.

Durante la campagna elettorale ho sollevato precisamente questo problema con un gruppo di attivisti della Lista Unita. Loro hanno detto che se ne è parlato nelle pubblicazioni della Lista Unita rivolte alla società araba. Ma per noi non è abbastanza. Sia l’Autorità Nazionale Palestinese che la Lista Unita sottovalutano il tema e non mettono in evidenza la Nakba e il diritto al ritorno, per concentrarsi invece su altre questioni. Eppure parlarne è esattamente quello che farebbe ottenere loro un maggiore sostegno nella società araba.

È vero che questo è un dibattito impopolare nella società ebraica. Loro cercano di insabbiare e minimizzare, eppure eccoci qua: Benny Gantz non voleva la Lista Unita. Persino l’Autorità Nazionale Palestinese parla della fine dell’occupazione e del blocco agli insediamenti, ma non si preoccupa del diritto al ritorno. Così tutto è nelle mani di Abu Mazen (il presidente palestinese Mahmoud Abbas) e della Lista Unita. Tutto ciò mentre ci sono decine di marce del ritorno a Gaza.

È anche importante sottolineare che la Nakba non si è conclusa, ma continua, con demolizioni di case, espropri di terreni, politiche di espulsione, la legge dello Stato Nazione (ebraico). Fino ad oggi non un solo rifugiato è potuto ritornare al villaggio da cui era stato espulso.”

Le marce annuali di solito si dirigono verso zone remote e non c’è stata una marcia di massa, per esempio, su Manshiyyeh o Sheikh Muwannis [quartieri palestinesi distrutti che ora si trovano rispettivamente a sud e a nord di Tel Aviv]. Si teme che queste marce diventino il luogo di uno scontro diretto con l’establishment israeliano?

Nel 1948 sono stati spopolati 531 villaggi e 11 città, per esempio San Giovanni d’Acri, Haifa, Yaffa, Be’er Sheva e altre. Fino ad ora ci sono state 22 marce e quest’anno il coronavirus ne ha impedito lo svolgimento. In passato abbiamo organizzato una marcia a Wadi Zubala nel Naqab e nelle zone intorno a Tiberiade, San Giovanni d’Acri e Haifa. Ci sono molti posti in cui non siamo ancora andati. Stiamo decisamente considerando l’idea di organizzarne in una delle grandi città.

In tutta sincerità, il Comitato e i suoi amministratori sono rappresentanti dei villaggi e delle città spopolate e non tutti la pensano allo stesso modo. Alcuni sono più cauti, altri meno. Alcuni si battono per i propri diritti, in questo caso il diritto di protestare e sollevare il dibattito sui IDPs, mentre altri preferiscono organizzare le marce in zone dove gli scontri sono meno probabili.

Cinque anni fa abbiamo tenuto un incontro ad Haifa e per noi è stato importante che i rappresentanti della zona fossero preparati a tenere là una marcia. Ma poi ci sono state le elezioni e la gente ha detto che voleva concentrarsi su quello. Non stiamo dicendo di no, al contrario siamo assolutamente intenzionati a fare una delle prossime in una delle grandi città da cui i palestinesi sono stati espulsi.”

Durante tutta la nostra conversazione, Kayal ha frequentemente menzionato i rifugiati palestinesi della diaspora e il loro diritto al ritorno. Mi chiedo cosa sia più difficile: desiderare ardentemente la propria terra da lontano, dall’esilio fuori dai confini del Paese, o da una casa le cui finestre quasi si affacciano sui terreni a cui ti è proibito tornare.

Ancora oggi, alcuni degli anziani di al-Birwa sanno indicare esattamente il pezzo di terra che apparteneva loro,” dice Kayal. “Dobbiamo tenerlo bene in mente. Un piccolo kibbutz occupa un’area gigantesca, mentre a Jedeidi la gente vive in condizioni di sovraffollamento. Quindi è ovvio che vogliono ritornare, che rivogliono la loro terra.”

Quando parli di ritornare ad al-Birwa intendi dire che vorresti vivere accanto al kibbutz e all’insediamento agricolo o al loro posto? Quando si parla del ritorno molti ebrei fanno proprio questa domanda.

Nella vasta maggioranza dei casi, le zone costruite dei villaggi originari sono ora terre abbandonate. È così per esempio a Iqrit e Bir’im e in molti altri posti, eppure la gente non può ritornarci. Noi non ignoriamo la realtà presente, ma crediamo che ristabilire il diritto al ritorno sia possibile. L’ostacolo è rappresentato dal pensiero ideologico e politico sionista.

Noi facciamo visite dal Naqab all’Alta Galilea. Per la maggior parte dei territori vuoti è stato dichiarato che il proprietario non esiste, anche se i proprietari ci sono e sono cittadini dello Stato che li ha cacciati. È una decisione politica basata su un’ideologia razzista.”

Quest’articolo è apparso la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

Orly Noy è una redattrice di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa in farsi. Fa parte del consiglio di amministrazione di B’Tselem [ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ed è un’attivista del partito politico Balad [partito ebreo e palestinese che fa parte della Lista Unita, ndtr.]. Nei suoi scritti parla delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di ebrea mizrahi [cioè originaria di un Paese musulmano, ndtr.], di donna di sinistra, di donna, una migrante temporanea che vive dentro un’immigrata perpetua e del dialogo costante fra entrambe.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele non ha bisogno di “avvertimenti” contro l’annessione, ma di misure conseguenti

Hagai El-Ad

30 aprile 2020 – +972

Mezzo secolo di occupazione è un ampio margine di tempo perché potenti Stati come la Germania imparino che le parole senza i fatti non fanno altro che rafforzare l’impunità di Israele

La scorsa settimana nell’ultima seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla situazione in Medio Oriente, in seguito alle notizie secondo cui l’accordo di coalizione tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale Benny Gantz include l’impegno a portare avanti l’annessione della Cisgiordania a partire dal primo luglio, l’ambasciatore tedesco Jürgen Schulz ha rilasciato quello che potrebbe essere frainteso come un forte avvertimento.

Sconsigliamo fermamente un qualunque governo israeliano dall’annettere territori palestinesi occupati,” ha detto l’ambasciatore. “Ciò costituirebbe una chiara violazione delle leggi internazionali e non avrebbe solo gravi ripercussioni negative per la realizzazione della soluzione dei due Stati e dell’intero processo di pace, ma potenzialmente anche per la stabilità regionale e per la posizione di Israele nella comunità internazionale.”

Perché definirla come erroneamente, ma non realmente forte? In breve: perché questo “avvertimento” non è –né lo è mai stato – sostenuto dall’azione. Se “una chiara violazione delle leggi internazionali” non viene contrastata con azioni conseguenti, e se quelli che ne sono responsabili non ne devono mai rispondere, quale impatto hanno tali parole?

Dopo questa vuota esibizione di spavalderia, la Germania ha ripetuto la sua posizione, secondo cui “le attività israeliane di insediamento nei territori palestinesi occupati sono illegali in base alle leggi internazionali.” Eppure queste attività di colonizzazione sono continuate indisturbate per oltre mezzo secolo – un ampio margine di tempo per imparare che i suoi “avvertimenti”, indipendentemente da quanto severamente pronunciati, non hanno alcun potere su Gerusalemme.

Josep Borrell, alto rappresentante e vice presidente dell’Unione Europea, ha riconosciuto questo aspetto quando in febbraio ha scritto che “gli europei devono affrontare il mondo per come è, non per come sperano che sia,” il che a sua volta richiede “reimparare il linguaggio della forza.”

Sicuramente la Germania, uno degli attori politici fondamentali dell’Europa, se lo volesse potrebbe esercitare questa forza. Ma quando si tratta di schierarsi con i diritti dei palestinesi, la Germania si rifiuta di affrontare “il mondo per come è”. Israele sa tutto ciò troppo bene, e quindi può facilmente ignorare l’avvertimento della Germania continuando in modo altrettanto con totale indifferenza ad opprimere un intero popolo.

L’inazione su questo fronte è piuttosto sorprendente, dato che recentemente la Germania ha dimostrato che, se lo decide, può dispiegare il suo considerevole peso. Quando i giudici della camera preliminare della Corte Penale Internazionale hanno invitato le parti a presentare le loro considerazioni sulla giurisdizione della Corte riguardo allo Stato di Palestina, la Germania è stata tra i pochi Paesi che hanno obiettato riguardo alla giurisdizione della CPI.

Nell’argomentazione che ha presentato, la Germania ha affermato formalmente di “rimanere una fervente sostenitrice della lotta contro l’impunità.” Eppure la Germania ha deciso di sostenere che la CPI non abbia “una solida base giurisdizionale” perché lo Stato di Palestina non è “sovrano”. Non importa che questa precondizione non si trovi da nessuna parte nello Statuto di Roma [che ha istituito la CPI, ndtr.], né che la procuratrice generale [della CPI] Fatou Bensouda non abbia sostenuto una cosa simile. I palestinesi, ovviamente, devono ancora ottenere la sovranità proprio perché Israele ha occupato la loro terra. Tuttavia, con il suo non-argomento, la Germania ha continuato ad opporsi a un’inchiesta.

Se fosse stata solo una questione tecnica a bloccare la Germania, avrebbe potuto far valere la sua posizione come membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU almeno per cercare di fare in modo che il Consiglio rinviasse il caso della Palestina alla CPI per concedere quindi la giurisdizione alla Corte.

Certamente un “fervido sostenitore della lotta contro l’impunità” avrebbe fatto pesare la propria forza giuridica per difendere le leggi internazionali. Invece la Germania ha scelto di dire semplicemente, ancora una volta, che le colonie sono illegali, e ha solo espresso a parole, di nuovo, il suo presunto appoggio al fatto che i responsabili vengano chiamati a risponderne.

Di fronte alle infinite violazioni israeliane la Germania ha mantenuto significativamente silenzioso il suo “linguaggio della forza”. Questo linguaggio ha molte articolazioni – la CPI è solo una di esse -, ma la Germania ha deciso di non utilizzarne nessuna, salvo la vuota retorica. Nel frattempo Israele continua a violare le fondamenta del diritto internazionale davanti agli occhi del mondo, compresi quelli della Germania. Sostenere continuamente che qualcosa è sbagliato senza agire per fermarlo non è un “forte avvertimento”, è complicità.

Hagai El-Ad è direttore esecutivo di B’Tselem: Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Benvenuti nell’era del ‘coronialismo’

Oren Yiftachel 

30 aprile 2020 – + 972

Con la scusa dell’emergenza, gli Stati stanno usando il COVID-19 per consolidare il potere, sostenere l’ordine neoliberale e reprimere gli emarginati. Se non si riuscirà a lottare per un sistema diverso, le forze regressive ricolonizzeranno la società, specialmente in Israele-Palestina.

Negli ultimi due mesi la diffusione del COVID-19 ha provocato enormi cambiamenti nella sfera politica, economica e geografica in tutto il mondo. Sono state cambiate norme fondamentali e approvate leggi di emergenza, potenti economie si sono fermate e i più semplici contatti umani quotidiani sono stati ridotti al minimo.

Anche se la crisi indubbiamente si attenuerà, è difficile che “le cose ritorneranno alla “solita normalità.” Sono in corso significativi cambiamenti sociali e politici che segnalano l’inizio di una nuova era che ora possiamo chiamare “coronialismo”, specialmente in Israele-Palestina.

Il coronialismo, termine che naturalmente richiama quello di “colonialismo”, agisce però in circostanze differenti. In regime di coronialismo, il tessuto relativamente stabile della vita è insidiato da una pericolosa invasione di una forza esterna. L’invasione trasforma la società in modi non previsti dalla popolazione locale, con conseguenti mutamenti strutturali che danno vita a trasformazioni a breve e lungo termine. La crisi sanitaria potrebbe essere solo la punta dell’iceberg del coronialismo, le cui conseguenze saranno principalmente sociali, economiche e politiche.

Il coronialismo, come il suo predecessore, cerca di conquistare le menti che sono sotto il suo controllo. Sarebbe altrimenti impossibile capire perché, per limitare la diffusione di quello che al momento resta un morbo di medie dimensioni, miliardi di persone abbiano accettato chiusure draconiane, deresponsabilizzazione politica e rovina economica con scarse proteste o insubordinazione. Questo è reso possibile dall’atmosfera di paura che offre ai governi e ai media la scusa per bombardarci con una valanga di dettagli sul “disastro” incombente.

In Israele non si potrebbe spiegare altrimenti la decisione di Benny Gantz che, pur affermando di rappresentare l’opposizione a Netanyahu, si è unito al suo governo, tradendo i suoi elettori, se non ricorrendo alla retorica coronialista. Gantz è ora d’accordo ad accettare un ruolo secondario in un “governo di emergenza” coroniale che, per ora, salverà Netanyahu dal processo per corruzione, incoraggiandolo al tempo stesso a fare modifiche costituzionali che rafforzeranno ulteriormente il potere dell’esecutivo.

Sicuramente, l’ordinamento globale coroniale è ancora nella sua fase iniziale. A breve e medio termine il regime sta ponendo le fondamenta di una nuova “routine di emergenza” basata su alcune realtà nuove. Per prima cosa, il fallimento delle forze di mercato è stato clamoroso, gettando nuova luce sull’incapacità del capitalismo neoliberista di fronteggiare crisi meno gravi, come quella dell’incremento dei prezzi delle case o del declino della qualità dell’educazione.

Nel frattempo il ritmo della globalizzazione sta rallentando considerevolmente, mentre gli Stati-Nazione, che si presumevano indeboliti, stanno ritornando al centro della scena. I governi riprendono rapidamente le loro vecchie abitudini: aizzano la gente contro i migranti, impongono severi controlli di frontiera, limitando rigidamente gli spostamenti, introducendo misure di sorveglianza invasive e dando inizio a una rapida centralizzazione dei poteri. Per quanto riguarda gli spazi, la vita è stata riformattata tramite i nuovi modelli di distanziamento fisico e di comunicazione digitale che stanno cambiando la nostra realtà quotidiana.

Ma è quando si parla di lungo termine che la situazione si fa molto meno chiara, il che è precisamente il motivo per cui dovremmo trattare il coronialismo come un’occasione per lottare. Dopo tutto, le forze egemoni hanno rapidamente cambiato le regole del gioco a loro favore.

Politicamente ciò include lo scavalcamento delle istituzioni democratiche, l’allentamento dei controlli sull’esecutivo e nuove regole di emergenza. Quando si arriva poi all’economia, i governi in tutto il mondo hanno promosso stimoli fiscali e monetari senza precedenti, diretti principalmente al sostegno dei mercati finanziari. Appare già chiaro che quasi tutti questi nuovi aggiustamenti andranno a sostenere multinazionali e industrie, lasciando indietro gli emarginati che ora sono ancora più deboli, avendo perso il lavoro ed essendo stati privati dei servizi sociali. Questi provvedimenti colpiranno particolarmente la forza lavoro immigrata, i lavoratori a tempo determinato, i piccoli commercianti e industriali e i nuovi disoccupati.

D’altro canto, adesso che le politiche dello “Stato minimo” e “neoliberiste” durate decenni sono state denunciate per la loro incuria irresponsabile, stiamo cominciando ad assistere a una nuova fame di alternative che garantiscano la fornitura dei servizi essenziali da parte di istituzioni pubbliche (Stato, enti urbani e comunali). Si applica, prima e soprattutto, alla sanità, ma anche a trasporti, alloggi, ambiente e istruzione. La crisi da coronavirus ha messo a nudo il problema fondamentale della privatizzazione e della distribuzione di servizi in base al profitto e ci sta facendo intravedere quanto le società capitaliste siano inadatte a gestire situazioni da incubo, come i cambiamenti climatici o una potenziale guerra mondiale.

Visto sotto questa luce, il collegamento fra coronialismo e colonialismo va oltre la fonetica. La storia ci mette in guardia contro le forze dell’oppressione che sfruttano le “emergenze” allo scopo di impadronirsi di potere e risorse. In Israele-Palestina, questo è già diventato realtà, dato che le élite industriali e il Ministero della Finanza stanno già spingendo per imporre “tagli dolorosi” o, in altre parole, stanno trasferendo risorse dai poveri ai ricchi, dalla sfera pubblica a mani private e dalle minoranze alle maggioranze. Contemporaneamente, lo Stato sta “importando” severe misure usate contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata per governare i cittadini ebrei d’Israele.

Nel frattempo il blocco di estrema destra pro-apartheid, che ha dominato negli ultimi cinque anni la politica israeliana nella sua attuale composizione, spera di usare il nuovo “governo di emergenza” per traghettare l’annessione unilaterale di vaste zone della Cisgiordania. Tali misure faranno di Israele uno Stato in cui vige ufficialmente l’apartheid, con palese disprezzo dei diritti dei palestinesi e delle leggi internazionali. Qui il coroniale e il coloniale si fondono, creando un pericoloso cambio di direzione sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Le forze democratiche devono rendersi conto che in futuro avverrà una lotta lunga e aspra per plasmare la natura dell’ordine coronialista. Dobbiamo tener conto sia dei pericoli che delle potenzialità ed effettuare cambiamenti positivi in questo momento così delicato. Dovremmo imparare dai fallimenti delle campagne precedenti, in particolare dalla seconda Intifada e dalle proteste sociali nel 2011, perché nessuna ha creato un movimento che unisse varie componenti della società per ottenere un cambiamento progressista in Israele-Palestina. Dobbiamo lavorare per unire gli interessi di molti settori e gruppi che possono mobilitarsi contro apartheid e privatizzazioni, uguaglianza, accessibilità e democrazia.

La lunga strada per costruire queste alleanze inizia con una collaborazione reale ed egualitaria fra ebrei e arabi in Israele e con i palestinesi nei territori occupati, tenendo sempre presente che, direttamente o indirettamente, viviamo tutti sotto lo stesso regime. Tale collaborazione svelerà il vero obiettivo dell’attuale regime, cioè quello di privare milioni di persone dei loro diritti politici e sociali e instaurare un regime di apartheid non dichiarato con la scusa dell’emergenza.

Dobbiamo trovare nuovi ambiti nei quartieri, fra città e paesi da entrambi i lati della Linea Verde, dove lavorare insieme per costruire una società giusta. Una società basata su questi principî in futuro sarebbe più stabile e resiliente per la salute e l’ambiente, in vista di crisi politiche ed economiche che sono inevitabili nel periodo post-coroniale che ci aspetta.

Il prof. Oren Yiftachel insegna geografia politica e urbanistica all’università Ben Gurion. È un attivista sociale e co-fondatore del movimento pacifista ‘Two States, One Homeland’. (Due Stati, una patria ).

Questo articolo non rappresenta necessariamente la posizione della Ben-Gurion University (BGU).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli ulivi che raccontano la storia dell’espropriazione palestinese

Meron Rapoport

28 aprile 2020 – +972mag

I palestinesi di Saffuriya furono espulsi con la forza nel 1948 e gli fu vietato il ritorno; abbandonarono i loro antichi ulivi di cui oggi si prendono cura gli ebrei israeliani.

La scorsa settimana, il mio collega Edo Konrad ha pubblicato un articolo in cui rivelava come, in onore del Giorno del Ricordo [dei caduti nel conflitto con arabi e palestinesi, ndtr.] di Israele, il Ministero della Difesa avesse deciso di consegnare alle famiglie israeliane in lutto bottiglie di olio d’oliva prodotte in una colonia della Cisgiordania occupata.

L’olio d’oliva è prodotto da Meshek Achiya, un’azienda situata nel cuore dei territori occupati a circa 45 chilometri a nord di Gerusalemme, fondata nel 1997 nell’avamposto di Achiya. Come ha spiegato a Konrad Dror Etkes, esperto per le attività di insediamento, Meshek Achiya era uno dei sei avamposti costituiti a ovest dell’insediamento di Shiloh al fine di conquistare terre palestinesi di proprietà privata.

Dopo la pubblicazione dell’articolo, un certo numero di famiglie in lutto ha lanciato una petizione chiedendo al Ministero della Difesa di riprendersi il suo dono.

Durante il fine settimana, Haaretz Magazine [inserto settimanale dell’omonimo quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.] ha pubblicato un articolo sugli israeliani che coltivano ulivi secolari in Galilea, nel nord di Israele. L’articolo si concentra sulla famiglia Noy-Meir, che coltiva “centinaia di alberi secolari”, molti dei quali hanno tra i 200 e gli 800 anni, su terreni adiacenti a Moshav Tzippori nella bassa Galilea. L’olio d’oliva prodotto dall’azienda di Noy-Meir, Rish Lakish, veniva molto elogiato da Ronit Vered, autore dell’articolo e critico gastronomico di Haaretz.

Ma come mai alberi così antichi sono di proprietà della famiglia Noy-Meir, che si stabilì a Tzippori solo 20 anni fa? Nell’articolo non viene fornito alcun contesto storico per spiegare l’esistenza di questi alberi, che, scrive Vered, “sono sparsi su una vasta area e si trovano su terreni difficili per la coltivazione e la raccolta”.

Non è necessario essere un esperto di alberi per trovare una risposta: Moshav Tzippori si trova sulla terra appartenente al villaggio palestinese distrutto e spopolato di Saffuriya.

Secondo Palestine Remembered, un sito web dedicato alla conservazione della memoria degli oltre 400 villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, nel 1948 Saffuriya era una comunità relativamente grande con oltre 5.000 residenti. Secondo il libro di Walid Khalidi Ciò che rimane, l’area intorno al villaggio “aveva molti terreni fertili e risorse idriche di superficie e sotterranee”, e le olive costituivano il “principale prodotto agricolo” del villaggio.

Saffuriya fu conquistata dalle forze israeliane il 15 luglio 1948. Secondo gli abitanti del villaggio, solo un piccolo numero di persone rimase nel villaggio dopo che fu bombardato dagli aerei israeliani, e pochissimi furono in grado di tornare e recuperare le loro proprietà.

Nel suo libro L’origine del problema dei rifugiati palestinesi, che ha svelato archivi statali israeliani precedentemente nascosti (a cui fa riferimento Khalidi), lo storico israeliano Benny Morris scrive che coloro che rimasero a Saffuriya furono espulsi nel 1948, ma che “a centinaia tornarono di nascosto indietro” nei mesi seguenti.

Le autorità israeliane, scrisse Morris, temevano che se i palestinesi di ritorno fossero stati autorizzati a rimanere, il villaggio sarebbe “presto tornato alla sua popolazione prebellica”. All’epoca, i vicini insediamenti ebraici avevano già “messo gli occhi sulle terre di Saffuriya”.

Secondo Morris, un alto funzionario israeliano nel novembre del 1948 dichiarò: “Accanto a Nazareth c’è un villaggio … le cui terre lontane sono necessarie per i nostri insediamenti. Forse gli si può dare un altro posto. ” Poco dopo, “nel gennaio del 1949 gli abitanti furono caricati su camion e nuovamente espulsi verso le comunità arabe di ‘Illut, al-Rayna e Kafr Kanna”.

In breve, le “centinaia di ulivi secolari” non sono cresciute dal nulla. I residenti palestinesi di Saffuriya li hanno piantati e coltivati per secoli. Gli alberi gli sono stati rubati con la forza. Lo Stato dà in affitto quegli alberi dopo aver rivendicato la terra del villaggio come propria. Su parte di quella terra è stata piantata una nuova foresta dal Fondo Nazionale Ebraico [ente sovranazionale dell’Organizzazione Sionista Mondiale e proprietario di circa il 15% della terra di Israele, ndtr.].

A suo merito, la famiglia Noy-Meir si è coinvolta negli aiuti ai raccoglitori di olive palestinesi in Cisgiordania e ha lavorato a fianco dei palestinesi le cui famiglie sono state sradicate da Saffuriya. Tuttavia, ignorare la storia del villaggio, come ha fatto l’articolo di Haaretz, non è meno grave che ignorare il furto della terra in Cisgiordania, su cui Meshek Achiya produce il suo olio d’oliva.

Taha Muhammad Ali, il famoso poeta palestinese, è nato ed è stato espulso da Saffuriya. La famiglia di Mohammad Barakeh, il politico che dirige l’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, è stata cacciata via dal villaggio. Saffuriya può anche essere sparito, ma il suo ricordo vive.

Appartengo a un movimento israelo-palestinese – Due stati, una Patria – che propone che ogni israeliano palestinese ed ebreo possa vivere ovunque desideri tra il fiume [Giordano] e il mare, sia nello Stato di Israele che nello Stato di Palestina. I rifugiati che torneranno saranno cittadini della Palestina, ma potranno vivere come residenti con pieni diritti in Israele, proprio come i cittadini israeliani potranno vivere come residenti con pieni diritti in Palestina. Una federazione istituirebbe un meccanismo per facilitare il ritorno e / o offrire un risarcimento finanziario per i beni espropriati durante il conflitto.

Non abbiamo un futuro qui se chiudiamo gli occhi su ciò che è accaduto nel 1948, immaginando che il conflitto sia iniziato solo con l’occupazione del 1967. Non è così.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Paradosso nell’era del corona virus: il muro israeliano “protetto” dai palestinesi!

Suha Arraf

16 aprile 2020 +972 Magazine

Palestina Cultura è Libertà

È una storia che persino uno sceneggiatore avrebbe difficoltà a inventare: temendo che i palestinesi che lavorano all’interno della Linea Verde possano portare il nuovo coronavirus in Cisgiordania, i palestinesi stanno segnalando le rotture della barriera di separazione che divide Israele dai territori occupati. I membri dei Comitati popolari, che negli ultimi due decenni hanno promosso manifestazioni non violente contro il muro di cemento e le recinzioni metalliche che compongono la barriera, stanno cercando di ripararne i buchi.

Funzionari palestinesi affermano che il governo israeliano non riesce a mantenere adeguatamente la barriera, permettendo così ai lavoratori palestinesi di entrare liberamente Israele attraverso varchi aperti nella recinzione metallica e nei canali di drenaggio, e di tornare senza alcun tipo di controllo medico. Secondo i media israeliani, quasi i due terzi di tutti i casi confermati di COVID-19 nei Territori Occupati possono essere fatti risalire ai lavoratori palestinesi di ritorno da Israele.
Con una strana giravolta, alcuni hanno persino iniziato a vedere la barriera come una misura protettiva, sostenendo che ha contribuito a prevenire la più ampia diffusione di COVID-19 in Cisgiordania e ha permesso all’Autorità Palestinese di tenere sotto controllo il numero di casi .

Rafaa Rawajbeh, il governatore di Qalqilya nella Cisgiordania settentrionale, accusa Israele di aver intenzionalmente cercato di diffondere il coronavirus nei territori occupati. “È una cospirazione deliberata da parte di Israele”, afferma. “Perché adesso, per la prima volta, stanno aprendo cancelli e canali di drenaggio senza schierare soldati? È un chiaro tentativo di danneggiare noi e i nostri sforzi [per fermare la diffusione] in modo che ci sia un focolaio di malattia.

Rawajbeh non è l’unico a fare questa affermazione, che Israele ha negato con forza, definendolo “incitamento razzista”. Un funzionario della difesa israeliano ha minacciato di ridurre la libertà di movimento per il personale di sicurezza palestinese se la “campagna di incitamento” dovesse continuare – gli stessi ufficiali palestinesi che hanno stazionato ai posti di blocco in Cisgiordania per settimane per cercare di prevenire un’ulteriore diffusione della malattia. In altre parole, se l’Autorità Palestinese non smette di accusare Israele di consentire la diffusione del virus, Israele interverrà sulla capacità dell’AP di combattere quel virus.

Il governatore di Jenin Akram Rajoub rifiuta l’ affermazione di una cospirazione israeliana volta a peggiorare l’epidemia di coronavirus. “Se il virus si diffonde nei territori occupati”, dice, “anche Israele ne risentirà”.
Tuttavia, ritiene che Israele “voglia mettere in imbarazzo” l’AP. “Non possono tollerare l’idea che siamo riusciti a far acquisire credito all’Autorità palestinese”, afferma Rajoub. “Vogliono che sembriamo deboli di fronte alla nostra gente, perché incapaci di adempiere ai nostri obblighi”.

Oltre a indebolire l’AP, che finora ha avuto un relativo successo nel prevenire la diffusione del virus (al momento in cui scrivo, ci sono 308 casi confermati di COVID-19 e due decessi in aree controllate dall’AP, rispetto a 11.868 casi e 117 morti in Israele), Rajoub ritiene che l’altro obiettivo principale di Israele sia quello di risparmiare danni alla propria economia. Questo, dice, è il motivo per cui il governo sta prendendo “ogni misura possibile” per garantire che i lavoratori palestinesi siano in grado di raggiungere il loro posto di lavoro all’interno della Linea Verde.

Rajoub afferma di aver visto personalmente soldati israeliani in piedi pigramente mentre i lavoratori palestinesi entravano in Israele attraverso le rotture nel recinto di separazione. Questa settimana, dice che ha visitato Anin, un villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale, insieme a membri del Comitato di emergenza, istituito per servire i villaggi e le comunità lungo la barriera. Lì, gli è stato detto da un membro del Coordinamento Palestinese e del Quartier Generale di collegamento che le Autorità israeliane hanno avvertito che avrebbero sparato a chiunque si fosse avvicinato alla recinzione. Eppure ha visto tre palestinesi attraversare la barriera pienamente visibili a una jeep dell’esercito israeliano, mentre i soldati osservavano senza reagire.

“Vogliono che i lavoratori si infiltrino in Israele e stanno impedendo al Comitato di Emergenza e ai funzionari della sicurezza palestinese di raggiungere [la barriera] per fermarli”, afferma Rajoub.
La recinzione metallica nell’area di Jenin in Cisgiordania è “piena di brecce”, continua Rajoub. “Questo stava già accadendo prima del corona [virus], ma non ci preoccupavamo delle violazioni perché era nel nostro interesse che i lavoratori entrassero in Israele. Ma dal momento in cui è scoppiato il coronavirus, fa paura” aggiunge.

Israele sapeva esattamente dove era stata aperta la barriera anche prima della crisi del coronavirus, secondo Rajoub. Tuttavia, funzionari israeliani gli hanno detto che non hanno il budget per riparare il danno o forze di sicurezza sufficienti per proteggere la barriera. “Potrebbero fare qualcosa, ma non vogliono”, dice.

L’AP ha inviato le sue forze a Jenin e attraverso la Cisgiordania per impedire ai lavoratori palestinesi di avvicinarsi alla barriera per entrare in Israele, in coordinamento con i volontari del Comitato di emergenza. Le forze dell’AP hanno anche istituito posti di blocco all’interno della Cisgiordania per far rispettare le istruzioni del Ministero della Sanità palestinese e anche per monitorare il movimento dei lavoratori. Il primo ministro Mohammed Shtayyeh, conoscendo la sensibilità dei palestinesi nei confronti dei checkpoint, ha proposto di chiamarli “Love Checkpoint” o “Compassion Checkpoint”.

Il governatore di Qalqilya Rawajbeh dipinge un quadro simile a Rajoub. “Nella sola area di Qalqilya, ci sono più di 50 aperture in 54 chilometri [di recinzione]”, afferma. Analogamente a quanto testimoniato da Rajoub, Rawajbeh descrive come i canali di drenaggio di solito sigillati da griglie di ferro – messi in atto per impedire ai palestinesi di attraversare la Linea Verde – siano stati aperti giovedì scorso dai soldati israeliani, che hanno poi lasciato i canali incustoditi.

“I lavoratori sono passati [in Israele] attraverso questi canali e non c’erano soldati israeliani dall’altra parte”, dice Rawajbeh. Una troupe televisiva palestinese che filmava in quel sito giovedì ha usato uno di questi canali per andare in Israele; nel loro filmato, il reporter è visto in piedi sul lato israeliano della recinzione, senza nessun altro in giro.
“La loro scusa è che pioveva, motivo per cui hanno aperto le griglie”, dice. “Ma pioveva ben poco, mentono. “

Secondo Rawajbeh, le precedenti richieste dei palestinesi di aprire i canali al fine di prevenire le inondazioni, erano state accolte solo dopo colloqui formali e coordinamento con l’amministrazione civile, il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ma anche allora, la griglia è stata aperta per 2-3 ore al massimo, sotto la costante sorveglianza dei soldati israeliani dall’altra parte.
Giovedì, dice Rawajbeh, Israele ha ritardato la richiesta dei palestinesi di chiudere la griglia, il che significa che i lavoratori palestinesi sono stati in grado di attraversare liberamente dentro e fuori Israele, senza alcun tipo di controllo medico o di sicurezza al loro ritorno. Domenica, tuttavia, le griglie sono state chiuse nuovamente.

Riad Abu Hamdeh, 55 anni, residente nel villaggio di Hableh a sud di Qalqilya e direttore di una società per la sicurezza, si è offerto volontario durante la notte, con i Comitati popolari, per cercare di impedire ai lavoratori palestinesi di entrare in Israele. “Mi prendo cura del mio villaggio e della mia gente”, dice. “I paesi grandi e potenti stanno crollando a causa del coronavirus; l’Autorità [palestinese] ha poche risorse e Dio vieta che il virus si diffonda qui. “

Ci sono quattro brecce nel recinto attorno al suo villaggio e il cancello è aperto, dice Abu Hamdeh. I volontari lavorano in tre turni vicino alla recinzione, pattugliandone la lunghezza a una distanza di 50 metri da ogni breccia. Se si avvicinano, dice, i soldati apriranno il fuoco contro di loro.

“Non appena vediamo i lavoratori, proviamo a convincerli a tornare a casa”, spiega Abu Hamdeh. “Alcuni di loro si convincono; altri iniziano a discutere con noi, dicendo che non andranno in Israele solo se pagheremo loro il salario.
“Ci coordiniamo pienamente con le forze di sicurezza palestinesi”, continua. “Quando un lavoratore entra da Israele, arriva un’ambulanza e [l’equipaggio] effettua un controllo. Se cerca di andare in Israele, lo portano a casa. Durante il mio turno, siamo riusciti a rimandare indietro circa 20 lavoratori che stavano cercando di entrare in Israele. “

Abu Hamdeh afferma di aver visto come i soldati hanno aperto le cosiddette “porte agricole” nella recinzione. Queste porte consentono agli agricoltori palestinesi di raggiungere rapidamente la loro terra che è stata lasciata sul lato “israeliano” del muro, dopo l’ esame dei loro permessi di ingresso.
“Ho visto con i miei occhi come i soldati aprono le porte e se ne tengono alla larga”, dice. “Una volta abbiamo persino chiuso il cancello noi stessi. I soldati ci hanno visto e ci hanno urlato di tornare indietro. Non abbiamo le chiavi del cancello o alcun modo per chiuderlo, quindi lo chiudiamo con un filo di ferro, una corda o qualsiasi cosa abbiamo a disposizione. “

Poi Abu Hamdeh racconta di aver visto i soldati israeliani guardare mentre i lavoratori palestinesi attraversavano. “Hanno posto loro una domanda e non li hanno controllati”, afferma. “Questo è un nuovo fenomeno. Solo ai tempi del coronavirus. Prima del coronavirus chi avrebbe osato avvicinarsi alla recinzione? Gli avrebbero immediatamente sparato. “
“Prima del coronavirus, c’erano sempre due tre jeep militari che pattugliavano il recinto”, continua. “Oggi ce n’è solo una.”

Ma al di là dello strano comportamento dei soldati e del fatto che i palestinesi sono ora diventati i protettori della barriera, rimane la questione dell’Autorità Palestinese. “Onestamente si può dire che l’AP ha affrontato la crisi del coronavirus meglio degli israeliani”, afferma Rajoub, governatore di Jenin. Con le mani legate e con scarse risorse, l’AP ha fatto un lavoro migliore di Israele, che si considera una superpotenza in materia di scienza e medicina e l’unica democrazia in Medio Oriente, dice. “Abbiamo imbarazzato Israele. Abbiamo ottenuto risultati che Israele non ha ottenuto. Questo è ciò che ha causato la tensione e i problemi “.

Non si tratta affatto di gelosia, dice il sindaco. “Il loro interesse è politico. Il loro obiettivo è presentarci come deboli, sottomessi e sotto il controllo israeliano, il nostro custode. Stanno cercando di dirci: “Siamo i vostri benefattori, siamo quelli istruiti, siamo quelli con i mezzi e le capacità e voi non siete niente”.

Dato che la reputazione dell’AP sembra migliorare tra i palestinesi della Cisgiordania, afferma Rajoub, Israele è più determinato a indebolirla. “La crisi del coronavirus ha notevolmente rafforzato la posizione dell’Autorità tra il popolo palestinese”, afferma. “Questa è la prima volta da Oslo che io, in quanto membro del governo, sento che il popolo palestinese sta lodando le forze di sicurezza e il governo palestinese. [Israele] vuole indebolire l’AP e minare il morale e la fiducia del popolo palestinese nella sua leadership politica e di sicurezza “.

In risposta alle accuse secondo cui ha aperto i canali di drenaggio, il Coordinamento delle attività governative nei territori (COGAT), che sovrintende alla politica israeliana in Cisgiordania, ha espresso rammarico per il fatto che “mentre lo Stato di Israele sta aiutando l’Autorità palestinese a gestire meglio la lotta globale contro lo scoppio del coronavirus, il governatore di Qalqilya sceglie di parlare contro Israele. “

COGAT ha inoltre affermato che, in previsione della pioggia, le autorità hanno aperto i canali di drenaggio nell’area di Qalqilya per prevenire inondazioni “per il benessere dei palestinesi che vivono nell’area”. L’affermazione secondo cui i canali erano stati aperti per l’ingresso dei lavoratori senza controlli, è “falsa e sganciata dalla realtà”, ha aggiunto, questo tipo di procedura è comune durante il tempo piovoso e nota alle autorità palestinesi.

COGAT non ha risposto alla richiesta di riparare le aperture nella recinzione.
Per quanto riguarda le accuse secondo cui l’esercito israeliano non controlla i canali aperti e le aperture nella recinzione, consentendo così ai lavoratori di passare, il portavoce dell’IDF ha dichiarato che “contrariamente alle accuse, l’impegno difensivo continua come al solito”.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call.

Traduzione di Alessandra Mecozzi