Settant’anni dopo i palestinesi sfollati interni aspettano ancora di ritornare a casa

Orly Noy

15 maggio 2020 – +972Magazine

Muhammad Kayal è uno delle centinaia di migliaia di cittadini palestinesi in Israele che, 72 anni dopo la Nakba, restano rifugiati all’interno del Paese e a cui Israele non permette di ritornare a quelle che erano le loro terre, ora spesso abbandonate.

Le restrizioni imposte dalla pandemia da coronavirus e il divieto di assembramenti quest’anno hanno attutito, in un certo modo, la tensione emotiva, simbolica e fisica in occasione della Festa dell’Indipendenza/ Giornata della Nakba.

Ogni anno Israele si compiace nell’autocelebrazione con massicci sorvoli dell’aeronautica e fuochi di artificio, ignorando con tutte le sue forze il fatto che questo per i palestinesi è il giorno della catastrofe. Ogni volta gli israeliani restano sorpresi del fatto che né il passare del tempo né le leggi draconiane sono riusciti a cancellare il disastro o a estirparne il ricordo fra i palestinesi.

Non è chiaro quanto gli israeliani siano consapevoli del fatto che persino mentre ogni anno loro stanno celebrando il Giorno dell’indipendenza nei parchi in tutto il paese i cittadini palestinesi tengono annualmente marce del ritorno verso le diverse comunità da cui i loro anziani furono espulsi nel 1948 e a cui non sono mai più potuti tornare.

Sebbene la data ufficiale che segna la Giornata della Nakba sia il 15 maggio, le marce del ritorno si svolgono tradizionalmente durante la Festa dell’Indipendenza di Israele (che cambia in base al calendario ebraico). La pandemia ha spostato su Zoom le commemorazioni, che includono altre attività organizzate dal

, con una minore partecipazione rispetto agli anni scorsi.

Quando il tema del ritorno appare nei discorsi israeliani, essi tendono a focalizzarsi sul ritorno dei rifugiati palestinesi che al momento vivono fuori dai confini del Paese. Eppure il Comitato stima che fra i cittadini di Israele ci siano circa 400.000 sfollati interni (IDPs).

Muhammad Kayal, consigliere ed ex direttore del Comitato, è un giornalista e traduttore la cui famiglia fu espulsa da al-Birwa, vicino a San Giovanni d’Acri, nel nord del Paese. Kayal lo chiama orgogliosamente “il villaggio di Mahmoud Darwish,” il defunto poeta palestinese. Oggi vive a Jedeidi-Makr, a circa due chilometri da al-Birwa, dove ora ci sono un kibbutz e un insediamento agricolo.

Cosa rispondi quando la gente ti chiede da dove vieni?

Dico che sono di al-Birwa e che vivo a Jedeidi. Mio padre ha detto per tutta la sua vita: ‘Sono di al-Birwa’, anche se ha abitato a Jedeidi per circa 60 anni. Quando parlava della ‘gente del nostro villaggio,’ si riferiva ad al-Birwa”.

I discendenti degli abitanti originari si tengono in contatto? Conosci altri che fanno parte di quella comunità, che condividono la tua identità?

Sicuro, siamo in contatto costante. Ogni anno per la Festa dell’Indipendenza, o, per meglio dire, la giornata della Nakba, gli abitanti originari di al-Birwa e ora residenti in tutto il Paese si incontrano sui terreni del villaggio. Quando ci sono delle celebrazioni e nelle giornate di lutto invitiamo centinaia di espulsi e loro discendenti, in migliaia vengono al paese per trovare conforto.”

Come instillate questo senso di appartenenza nelle generazioni dei più giovani? Se tuo padre ha detto fino al giorno della sua morte che era di al-Birwa e tu dici che sei di al-Birwa e Jedeidi, cosa diranno le future generazioni?

Nella giornata della Nakba durante le marce del ritorno portiamo bambini e giovani al villaggio. Organizziamo per i giovani delle visite ai paesini spopolati, stampiano t-shirt con la scritta ‘Sono di al-Birwa’ in arabo e abbiamo un gruppo attivo su Facebook per i discendenti degli espulsi.

Promuoviamo anche la poesia nazionale come quella di Mahmoud Darwish e progetti come ‘Udna’ (che in arabo significa “siamo ritornati”, un progetto congiunto del Comitato, della ONG israeliana Zochrot, che si focalizza sulla Nakba, e altri, nda). Va avanti da tre anni e porta i giovani ai villaggi spopolati, con molte conferenze e produzione di materiali scritti.

Ci sono anche film che trattano il tema. Abbiamo un progetto speciale, ‘Il cammino del ritorno delle donne’, rivolto a centinaia di donne di diverse comunità che partecipano a visite, conferenze e film sui villaggi, che includono molte attività mirate alle giovani.”

Ti sembra che stia funzionando? Che questo senso di appartenenza si stia diffondendo fra le generazioni dei più giovani?

Sai, è come per tutte le cose: ci sono quelli più coinvolti e attivi e quelli meno. Ma se prendi come esempio le marce, più del 70% dei partecipanti sono giovani di seconda, terza e quarta generazione dalla Nakba.”

Il compito principale del Comitato è la conservazione della memoria e la creazione della consapevolezza. Evitate intenzionalmente le attività politiche concrete che mirano a ottenere il diritto al ritorno di rifugiati e sfollati interni?

Noi ci coordiniamo con l’High Follow-Up Commitee [Alto Comitato per il Seguimento, ndtr.], che include i partiti arabi, per esempio quando organizziamo le marce annuali. Tutti i movimenti politici vi partecipano.”

C’è l’impressione che la Lista Unita vada cauta sul conflitto sollevato da questo tema. Il ritorno di rifugiati e IDPs non è ai primi posti nei programmi.

Durante la campagna elettorale ho sollevato precisamente questo problema con un gruppo di attivisti della Lista Unita. Loro hanno detto che se ne è parlato nelle pubblicazioni della Lista Unita rivolte alla società araba. Ma per noi non è abbastanza. Sia l’Autorità Nazionale Palestinese che la Lista Unita sottovalutano il tema e non mettono in evidenza la Nakba e il diritto al ritorno, per concentrarsi invece su altre questioni. Eppure parlarne è esattamente quello che farebbe ottenere loro un maggiore sostegno nella società araba.

È vero che questo è un dibattito impopolare nella società ebraica. Loro cercano di insabbiare e minimizzare, eppure eccoci qua: Benny Gantz non voleva la Lista Unita. Persino l’Autorità Nazionale Palestinese parla della fine dell’occupazione e del blocco agli insediamenti, ma non si preoccupa del diritto al ritorno. Così tutto è nelle mani di Abu Mazen (il presidente palestinese Mahmoud Abbas) e della Lista Unita. Tutto ciò mentre ci sono decine di marce del ritorno a Gaza.

È anche importante sottolineare che la Nakba non si è conclusa, ma continua, con demolizioni di case, espropri di terreni, politiche di espulsione, la legge dello Stato Nazione (ebraico). Fino ad oggi non un solo rifugiato è potuto ritornare al villaggio da cui era stato espulso.”

Le marce annuali di solito si dirigono verso zone remote e non c’è stata una marcia di massa, per esempio, su Manshiyyeh o Sheikh Muwannis [quartieri palestinesi distrutti che ora si trovano rispettivamente a sud e a nord di Tel Aviv]. Si teme che queste marce diventino il luogo di uno scontro diretto con l’establishment israeliano?

Nel 1948 sono stati spopolati 531 villaggi e 11 città, per esempio San Giovanni d’Acri, Haifa, Yaffa, Be’er Sheva e altre. Fino ad ora ci sono state 22 marce e quest’anno il coronavirus ne ha impedito lo svolgimento. In passato abbiamo organizzato una marcia a Wadi Zubala nel Naqab e nelle zone intorno a Tiberiade, San Giovanni d’Acri e Haifa. Ci sono molti posti in cui non siamo ancora andati. Stiamo decisamente considerando l’idea di organizzarne in una delle grandi città.

In tutta sincerità, il Comitato e i suoi amministratori sono rappresentanti dei villaggi e delle città spopolate e non tutti la pensano allo stesso modo. Alcuni sono più cauti, altri meno. Alcuni si battono per i propri diritti, in questo caso il diritto di protestare e sollevare il dibattito sui IDPs, mentre altri preferiscono organizzare le marce in zone dove gli scontri sono meno probabili.

Cinque anni fa abbiamo tenuto un incontro ad Haifa e per noi è stato importante che i rappresentanti della zona fossero preparati a tenere là una marcia. Ma poi ci sono state le elezioni e la gente ha detto che voleva concentrarsi su quello. Non stiamo dicendo di no, al contrario siamo assolutamente intenzionati a fare una delle prossime in una delle grandi città da cui i palestinesi sono stati espulsi.”

Durante tutta la nostra conversazione, Kayal ha frequentemente menzionato i rifugiati palestinesi della diaspora e il loro diritto al ritorno. Mi chiedo cosa sia più difficile: desiderare ardentemente la propria terra da lontano, dall’esilio fuori dai confini del Paese, o da una casa le cui finestre quasi si affacciano sui terreni a cui ti è proibito tornare.

Ancora oggi, alcuni degli anziani di al-Birwa sanno indicare esattamente il pezzo di terra che apparteneva loro,” dice Kayal. “Dobbiamo tenerlo bene in mente. Un piccolo kibbutz occupa un’area gigantesca, mentre a Jedeidi la gente vive in condizioni di sovraffollamento. Quindi è ovvio che vogliono ritornare, che rivogliono la loro terra.”

Quando parli di ritornare ad al-Birwa intendi dire che vorresti vivere accanto al kibbutz e all’insediamento agricolo o al loro posto? Quando si parla del ritorno molti ebrei fanno proprio questa domanda.

Nella vasta maggioranza dei casi, le zone costruite dei villaggi originari sono ora terre abbandonate. È così per esempio a Iqrit e Bir’im e in molti altri posti, eppure la gente non può ritornarci. Noi non ignoriamo la realtà presente, ma crediamo che ristabilire il diritto al ritorno sia possibile. L’ostacolo è rappresentato dal pensiero ideologico e politico sionista.

Noi facciamo visite dal Naqab all’Alta Galilea. Per la maggior parte dei territori vuoti è stato dichiarato che il proprietario non esiste, anche se i proprietari ci sono e sono cittadini dello Stato che li ha cacciati. È una decisione politica basata su un’ideologia razzista.”

Quest’articolo è apparso la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

Orly Noy è una redattrice di Local Call, un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa in farsi. Fa parte del consiglio di amministrazione di B’Tselem [ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ndtr.] ed è un’attivista del partito politico Balad [partito ebreo e palestinese che fa parte della Lista Unita, ndtr.]. Nei suoi scritti parla delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di ebrea mizrahi [cioè originaria di un Paese musulmano, ndtr.], di donna di sinistra, di donna, una migrante temporanea che vive dentro un’immigrata perpetua e del dialogo costante fra entrambe.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele non ha bisogno di “avvertimenti” contro l’annessione, ma di misure conseguenti

Hagai El-Ad

30 aprile 2020 – +972

Mezzo secolo di occupazione è un ampio margine di tempo perché potenti Stati come la Germania imparino che le parole senza i fatti non fanno altro che rafforzare l’impunità di Israele

La scorsa settimana nell’ultima seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla situazione in Medio Oriente, in seguito alle notizie secondo cui l’accordo di coalizione tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale Benny Gantz include l’impegno a portare avanti l’annessione della Cisgiordania a partire dal primo luglio, l’ambasciatore tedesco Jürgen Schulz ha rilasciato quello che potrebbe essere frainteso come un forte avvertimento.

Sconsigliamo fermamente un qualunque governo israeliano dall’annettere territori palestinesi occupati,” ha detto l’ambasciatore. “Ciò costituirebbe una chiara violazione delle leggi internazionali e non avrebbe solo gravi ripercussioni negative per la realizzazione della soluzione dei due Stati e dell’intero processo di pace, ma potenzialmente anche per la stabilità regionale e per la posizione di Israele nella comunità internazionale.”

Perché definirla come erroneamente, ma non realmente forte? In breve: perché questo “avvertimento” non è –né lo è mai stato – sostenuto dall’azione. Se “una chiara violazione delle leggi internazionali” non viene contrastata con azioni conseguenti, e se quelli che ne sono responsabili non ne devono mai rispondere, quale impatto hanno tali parole?

Dopo questa vuota esibizione di spavalderia, la Germania ha ripetuto la sua posizione, secondo cui “le attività israeliane di insediamento nei territori palestinesi occupati sono illegali in base alle leggi internazionali.” Eppure queste attività di colonizzazione sono continuate indisturbate per oltre mezzo secolo – un ampio margine di tempo per imparare che i suoi “avvertimenti”, indipendentemente da quanto severamente pronunciati, non hanno alcun potere su Gerusalemme.

Josep Borrell, alto rappresentante e vice presidente dell’Unione Europea, ha riconosciuto questo aspetto quando in febbraio ha scritto che “gli europei devono affrontare il mondo per come è, non per come sperano che sia,” il che a sua volta richiede “reimparare il linguaggio della forza.”

Sicuramente la Germania, uno degli attori politici fondamentali dell’Europa, se lo volesse potrebbe esercitare questa forza. Ma quando si tratta di schierarsi con i diritti dei palestinesi, la Germania si rifiuta di affrontare “il mondo per come è”. Israele sa tutto ciò troppo bene, e quindi può facilmente ignorare l’avvertimento della Germania continuando in modo altrettanto con totale indifferenza ad opprimere un intero popolo.

L’inazione su questo fronte è piuttosto sorprendente, dato che recentemente la Germania ha dimostrato che, se lo decide, può dispiegare il suo considerevole peso. Quando i giudici della camera preliminare della Corte Penale Internazionale hanno invitato le parti a presentare le loro considerazioni sulla giurisdizione della Corte riguardo allo Stato di Palestina, la Germania è stata tra i pochi Paesi che hanno obiettato riguardo alla giurisdizione della CPI.

Nell’argomentazione che ha presentato, la Germania ha affermato formalmente di “rimanere una fervente sostenitrice della lotta contro l’impunità.” Eppure la Germania ha deciso di sostenere che la CPI non abbia “una solida base giurisdizionale” perché lo Stato di Palestina non è “sovrano”. Non importa che questa precondizione non si trovi da nessuna parte nello Statuto di Roma [che ha istituito la CPI, ndtr.], né che la procuratrice generale [della CPI] Fatou Bensouda non abbia sostenuto una cosa simile. I palestinesi, ovviamente, devono ancora ottenere la sovranità proprio perché Israele ha occupato la loro terra. Tuttavia, con il suo non-argomento, la Germania ha continuato ad opporsi a un’inchiesta.

Se fosse stata solo una questione tecnica a bloccare la Germania, avrebbe potuto far valere la sua posizione come membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU almeno per cercare di fare in modo che il Consiglio rinviasse il caso della Palestina alla CPI per concedere quindi la giurisdizione alla Corte.

Certamente un “fervido sostenitore della lotta contro l’impunità” avrebbe fatto pesare la propria forza giuridica per difendere le leggi internazionali. Invece la Germania ha scelto di dire semplicemente, ancora una volta, che le colonie sono illegali, e ha solo espresso a parole, di nuovo, il suo presunto appoggio al fatto che i responsabili vengano chiamati a risponderne.

Di fronte alle infinite violazioni israeliane la Germania ha mantenuto significativamente silenzioso il suo “linguaggio della forza”. Questo linguaggio ha molte articolazioni – la CPI è solo una di esse -, ma la Germania ha deciso di non utilizzarne nessuna, salvo la vuota retorica. Nel frattempo Israele continua a violare le fondamenta del diritto internazionale davanti agli occhi del mondo, compresi quelli della Germania. Sostenere continuamente che qualcosa è sbagliato senza agire per fermarlo non è un “forte avvertimento”, è complicità.

Hagai El-Ad è direttore esecutivo di B’Tselem: Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Benvenuti nell’era del ‘coronialismo’

Oren Yiftachel 

30 aprile 2020 – + 972

Con la scusa dell’emergenza, gli Stati stanno usando il COVID-19 per consolidare il potere, sostenere l’ordine neoliberale e reprimere gli emarginati. Se non si riuscirà a lottare per un sistema diverso, le forze regressive ricolonizzeranno la società, specialmente in Israele-Palestina.

Negli ultimi due mesi la diffusione del COVID-19 ha provocato enormi cambiamenti nella sfera politica, economica e geografica in tutto il mondo. Sono state cambiate norme fondamentali e approvate leggi di emergenza, potenti economie si sono fermate e i più semplici contatti umani quotidiani sono stati ridotti al minimo.

Anche se la crisi indubbiamente si attenuerà, è difficile che “le cose ritorneranno alla “solita normalità.” Sono in corso significativi cambiamenti sociali e politici che segnalano l’inizio di una nuova era che ora possiamo chiamare “coronialismo”, specialmente in Israele-Palestina.

Il coronialismo, termine che naturalmente richiama quello di “colonialismo”, agisce però in circostanze differenti. In regime di coronialismo, il tessuto relativamente stabile della vita è insidiato da una pericolosa invasione di una forza esterna. L’invasione trasforma la società in modi non previsti dalla popolazione locale, con conseguenti mutamenti strutturali che danno vita a trasformazioni a breve e lungo termine. La crisi sanitaria potrebbe essere solo la punta dell’iceberg del coronialismo, le cui conseguenze saranno principalmente sociali, economiche e politiche.

Il coronialismo, come il suo predecessore, cerca di conquistare le menti che sono sotto il suo controllo. Sarebbe altrimenti impossibile capire perché, per limitare la diffusione di quello che al momento resta un morbo di medie dimensioni, miliardi di persone abbiano accettato chiusure draconiane, deresponsabilizzazione politica e rovina economica con scarse proteste o insubordinazione. Questo è reso possibile dall’atmosfera di paura che offre ai governi e ai media la scusa per bombardarci con una valanga di dettagli sul “disastro” incombente.

In Israele non si potrebbe spiegare altrimenti la decisione di Benny Gantz che, pur affermando di rappresentare l’opposizione a Netanyahu, si è unito al suo governo, tradendo i suoi elettori, se non ricorrendo alla retorica coronialista. Gantz è ora d’accordo ad accettare un ruolo secondario in un “governo di emergenza” coroniale che, per ora, salverà Netanyahu dal processo per corruzione, incoraggiandolo al tempo stesso a fare modifiche costituzionali che rafforzeranno ulteriormente il potere dell’esecutivo.

Sicuramente, l’ordinamento globale coroniale è ancora nella sua fase iniziale. A breve e medio termine il regime sta ponendo le fondamenta di una nuova “routine di emergenza” basata su alcune realtà nuove. Per prima cosa, il fallimento delle forze di mercato è stato clamoroso, gettando nuova luce sull’incapacità del capitalismo neoliberista di fronteggiare crisi meno gravi, come quella dell’incremento dei prezzi delle case o del declino della qualità dell’educazione.

Nel frattempo il ritmo della globalizzazione sta rallentando considerevolmente, mentre gli Stati-Nazione, che si presumevano indeboliti, stanno ritornando al centro della scena. I governi riprendono rapidamente le loro vecchie abitudini: aizzano la gente contro i migranti, impongono severi controlli di frontiera, limitando rigidamente gli spostamenti, introducendo misure di sorveglianza invasive e dando inizio a una rapida centralizzazione dei poteri. Per quanto riguarda gli spazi, la vita è stata riformattata tramite i nuovi modelli di distanziamento fisico e di comunicazione digitale che stanno cambiando la nostra realtà quotidiana.

Ma è quando si parla di lungo termine che la situazione si fa molto meno chiara, il che è precisamente il motivo per cui dovremmo trattare il coronialismo come un’occasione per lottare. Dopo tutto, le forze egemoni hanno rapidamente cambiato le regole del gioco a loro favore.

Politicamente ciò include lo scavalcamento delle istituzioni democratiche, l’allentamento dei controlli sull’esecutivo e nuove regole di emergenza. Quando si arriva poi all’economia, i governi in tutto il mondo hanno promosso stimoli fiscali e monetari senza precedenti, diretti principalmente al sostegno dei mercati finanziari. Appare già chiaro che quasi tutti questi nuovi aggiustamenti andranno a sostenere multinazionali e industrie, lasciando indietro gli emarginati che ora sono ancora più deboli, avendo perso il lavoro ed essendo stati privati dei servizi sociali. Questi provvedimenti colpiranno particolarmente la forza lavoro immigrata, i lavoratori a tempo determinato, i piccoli commercianti e industriali e i nuovi disoccupati.

D’altro canto, adesso che le politiche dello “Stato minimo” e “neoliberiste” durate decenni sono state denunciate per la loro incuria irresponsabile, stiamo cominciando ad assistere a una nuova fame di alternative che garantiscano la fornitura dei servizi essenziali da parte di istituzioni pubbliche (Stato, enti urbani e comunali). Si applica, prima e soprattutto, alla sanità, ma anche a trasporti, alloggi, ambiente e istruzione. La crisi da coronavirus ha messo a nudo il problema fondamentale della privatizzazione e della distribuzione di servizi in base al profitto e ci sta facendo intravedere quanto le società capitaliste siano inadatte a gestire situazioni da incubo, come i cambiamenti climatici o una potenziale guerra mondiale.

Visto sotto questa luce, il collegamento fra coronialismo e colonialismo va oltre la fonetica. La storia ci mette in guardia contro le forze dell’oppressione che sfruttano le “emergenze” allo scopo di impadronirsi di potere e risorse. In Israele-Palestina, questo è già diventato realtà, dato che le élite industriali e il Ministero della Finanza stanno già spingendo per imporre “tagli dolorosi” o, in altre parole, stanno trasferendo risorse dai poveri ai ricchi, dalla sfera pubblica a mani private e dalle minoranze alle maggioranze. Contemporaneamente, lo Stato sta “importando” severe misure usate contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata per governare i cittadini ebrei d’Israele.

Nel frattempo il blocco di estrema destra pro-apartheid, che ha dominato negli ultimi cinque anni la politica israeliana nella sua attuale composizione, spera di usare il nuovo “governo di emergenza” per traghettare l’annessione unilaterale di vaste zone della Cisgiordania. Tali misure faranno di Israele uno Stato in cui vige ufficialmente l’apartheid, con palese disprezzo dei diritti dei palestinesi e delle leggi internazionali. Qui il coroniale e il coloniale si fondono, creando un pericoloso cambio di direzione sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Le forze democratiche devono rendersi conto che in futuro avverrà una lotta lunga e aspra per plasmare la natura dell’ordine coronialista. Dobbiamo tener conto sia dei pericoli che delle potenzialità ed effettuare cambiamenti positivi in questo momento così delicato. Dovremmo imparare dai fallimenti delle campagne precedenti, in particolare dalla seconda Intifada e dalle proteste sociali nel 2011, perché nessuna ha creato un movimento che unisse varie componenti della società per ottenere un cambiamento progressista in Israele-Palestina. Dobbiamo lavorare per unire gli interessi di molti settori e gruppi che possono mobilitarsi contro apartheid e privatizzazioni, uguaglianza, accessibilità e democrazia.

La lunga strada per costruire queste alleanze inizia con una collaborazione reale ed egualitaria fra ebrei e arabi in Israele e con i palestinesi nei territori occupati, tenendo sempre presente che, direttamente o indirettamente, viviamo tutti sotto lo stesso regime. Tale collaborazione svelerà il vero obiettivo dell’attuale regime, cioè quello di privare milioni di persone dei loro diritti politici e sociali e instaurare un regime di apartheid non dichiarato con la scusa dell’emergenza.

Dobbiamo trovare nuovi ambiti nei quartieri, fra città e paesi da entrambi i lati della Linea Verde, dove lavorare insieme per costruire una società giusta. Una società basata su questi principî in futuro sarebbe più stabile e resiliente per la salute e l’ambiente, in vista di crisi politiche ed economiche che sono inevitabili nel periodo post-coroniale che ci aspetta.

Il prof. Oren Yiftachel insegna geografia politica e urbanistica all’università Ben Gurion. È un attivista sociale e co-fondatore del movimento pacifista ‘Two States, One Homeland’. (Due Stati, una patria ).

Questo articolo non rappresenta necessariamente la posizione della Ben-Gurion University (BGU).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli ulivi che raccontano la storia dell’espropriazione palestinese

Meron Rapoport

28 aprile 2020 – +972mag

I palestinesi di Saffuriya furono espulsi con la forza nel 1948 e gli fu vietato il ritorno; abbandonarono i loro antichi ulivi di cui oggi si prendono cura gli ebrei israeliani.

La scorsa settimana, il mio collega Edo Konrad ha pubblicato un articolo in cui rivelava come, in onore del Giorno del Ricordo [dei caduti nel conflitto con arabi e palestinesi, ndtr.] di Israele, il Ministero della Difesa avesse deciso di consegnare alle famiglie israeliane in lutto bottiglie di olio d’oliva prodotte in una colonia della Cisgiordania occupata.

L’olio d’oliva è prodotto da Meshek Achiya, un’azienda situata nel cuore dei territori occupati a circa 45 chilometri a nord di Gerusalemme, fondata nel 1997 nell’avamposto di Achiya. Come ha spiegato a Konrad Dror Etkes, esperto per le attività di insediamento, Meshek Achiya era uno dei sei avamposti costituiti a ovest dell’insediamento di Shiloh al fine di conquistare terre palestinesi di proprietà privata.

Dopo la pubblicazione dell’articolo, un certo numero di famiglie in lutto ha lanciato una petizione chiedendo al Ministero della Difesa di riprendersi il suo dono.

Durante il fine settimana, Haaretz Magazine [inserto settimanale dell’omonimo quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.] ha pubblicato un articolo sugli israeliani che coltivano ulivi secolari in Galilea, nel nord di Israele. L’articolo si concentra sulla famiglia Noy-Meir, che coltiva “centinaia di alberi secolari”, molti dei quali hanno tra i 200 e gli 800 anni, su terreni adiacenti a Moshav Tzippori nella bassa Galilea. L’olio d’oliva prodotto dall’azienda di Noy-Meir, Rish Lakish, veniva molto elogiato da Ronit Vered, autore dell’articolo e critico gastronomico di Haaretz.

Ma come mai alberi così antichi sono di proprietà della famiglia Noy-Meir, che si stabilì a Tzippori solo 20 anni fa? Nell’articolo non viene fornito alcun contesto storico per spiegare l’esistenza di questi alberi, che, scrive Vered, “sono sparsi su una vasta area e si trovano su terreni difficili per la coltivazione e la raccolta”.

Non è necessario essere un esperto di alberi per trovare una risposta: Moshav Tzippori si trova sulla terra appartenente al villaggio palestinese distrutto e spopolato di Saffuriya.

Secondo Palestine Remembered, un sito web dedicato alla conservazione della memoria degli oltre 400 villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, nel 1948 Saffuriya era una comunità relativamente grande con oltre 5.000 residenti. Secondo il libro di Walid Khalidi Ciò che rimane, l’area intorno al villaggio “aveva molti terreni fertili e risorse idriche di superficie e sotterranee”, e le olive costituivano il “principale prodotto agricolo” del villaggio.

Saffuriya fu conquistata dalle forze israeliane il 15 luglio 1948. Secondo gli abitanti del villaggio, solo un piccolo numero di persone rimase nel villaggio dopo che fu bombardato dagli aerei israeliani, e pochissimi furono in grado di tornare e recuperare le loro proprietà.

Nel suo libro L’origine del problema dei rifugiati palestinesi, che ha svelato archivi statali israeliani precedentemente nascosti (a cui fa riferimento Khalidi), lo storico israeliano Benny Morris scrive che coloro che rimasero a Saffuriya furono espulsi nel 1948, ma che “a centinaia tornarono di nascosto indietro” nei mesi seguenti.

Le autorità israeliane, scrisse Morris, temevano che se i palestinesi di ritorno fossero stati autorizzati a rimanere, il villaggio sarebbe “presto tornato alla sua popolazione prebellica”. All’epoca, i vicini insediamenti ebraici avevano già “messo gli occhi sulle terre di Saffuriya”.

Secondo Morris, un alto funzionario israeliano nel novembre del 1948 dichiarò: “Accanto a Nazareth c’è un villaggio … le cui terre lontane sono necessarie per i nostri insediamenti. Forse gli si può dare un altro posto. ” Poco dopo, “nel gennaio del 1949 gli abitanti furono caricati su camion e nuovamente espulsi verso le comunità arabe di ‘Illut, al-Rayna e Kafr Kanna”.

In breve, le “centinaia di ulivi secolari” non sono cresciute dal nulla. I residenti palestinesi di Saffuriya li hanno piantati e coltivati per secoli. Gli alberi gli sono stati rubati con la forza. Lo Stato dà in affitto quegli alberi dopo aver rivendicato la terra del villaggio come propria. Su parte di quella terra è stata piantata una nuova foresta dal Fondo Nazionale Ebraico [ente sovranazionale dell’Organizzazione Sionista Mondiale e proprietario di circa il 15% della terra di Israele, ndtr.].

A suo merito, la famiglia Noy-Meir si è coinvolta negli aiuti ai raccoglitori di olive palestinesi in Cisgiordania e ha lavorato a fianco dei palestinesi le cui famiglie sono state sradicate da Saffuriya. Tuttavia, ignorare la storia del villaggio, come ha fatto l’articolo di Haaretz, non è meno grave che ignorare il furto della terra in Cisgiordania, su cui Meshek Achiya produce il suo olio d’oliva.

Taha Muhammad Ali, il famoso poeta palestinese, è nato ed è stato espulso da Saffuriya. La famiglia di Mohammad Barakeh, il politico che dirige l’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, è stata cacciata via dal villaggio. Saffuriya può anche essere sparito, ma il suo ricordo vive.

Appartengo a un movimento israelo-palestinese – Due stati, una Patria – che propone che ogni israeliano palestinese ed ebreo possa vivere ovunque desideri tra il fiume [Giordano] e il mare, sia nello Stato di Israele che nello Stato di Palestina. I rifugiati che torneranno saranno cittadini della Palestina, ma potranno vivere come residenti con pieni diritti in Israele, proprio come i cittadini israeliani potranno vivere come residenti con pieni diritti in Palestina. Una federazione istituirebbe un meccanismo per facilitare il ritorno e / o offrire un risarcimento finanziario per i beni espropriati durante il conflitto.

Non abbiamo un futuro qui se chiudiamo gli occhi su ciò che è accaduto nel 1948, immaginando che il conflitto sia iniziato solo con l’occupazione del 1967. Non è così.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Paradosso nell’era del corona virus: il muro israeliano “protetto” dai palestinesi!

Suha Arraf

16 aprile 2020 +972 Magazine

Palestina Cultura è Libertà

È una storia che persino uno sceneggiatore avrebbe difficoltà a inventare: temendo che i palestinesi che lavorano all’interno della Linea Verde possano portare il nuovo coronavirus in Cisgiordania, i palestinesi stanno segnalando le rotture della barriera di separazione che divide Israele dai territori occupati. I membri dei Comitati popolari, che negli ultimi due decenni hanno promosso manifestazioni non violente contro il muro di cemento e le recinzioni metalliche che compongono la barriera, stanno cercando di ripararne i buchi.

Funzionari palestinesi affermano che il governo israeliano non riesce a mantenere adeguatamente la barriera, permettendo così ai lavoratori palestinesi di entrare liberamente Israele attraverso varchi aperti nella recinzione metallica e nei canali di drenaggio, e di tornare senza alcun tipo di controllo medico. Secondo i media israeliani, quasi i due terzi di tutti i casi confermati di COVID-19 nei Territori Occupati possono essere fatti risalire ai lavoratori palestinesi di ritorno da Israele.
Con una strana giravolta, alcuni hanno persino iniziato a vedere la barriera come una misura protettiva, sostenendo che ha contribuito a prevenire la più ampia diffusione di COVID-19 in Cisgiordania e ha permesso all’Autorità Palestinese di tenere sotto controllo il numero di casi .

Rafaa Rawajbeh, il governatore di Qalqilya nella Cisgiordania settentrionale, accusa Israele di aver intenzionalmente cercato di diffondere il coronavirus nei territori occupati. “È una cospirazione deliberata da parte di Israele”, afferma. “Perché adesso, per la prima volta, stanno aprendo cancelli e canali di drenaggio senza schierare soldati? È un chiaro tentativo di danneggiare noi e i nostri sforzi [per fermare la diffusione] in modo che ci sia un focolaio di malattia.

Rawajbeh non è l’unico a fare questa affermazione, che Israele ha negato con forza, definendolo “incitamento razzista”. Un funzionario della difesa israeliano ha minacciato di ridurre la libertà di movimento per il personale di sicurezza palestinese se la “campagna di incitamento” dovesse continuare – gli stessi ufficiali palestinesi che hanno stazionato ai posti di blocco in Cisgiordania per settimane per cercare di prevenire un’ulteriore diffusione della malattia. In altre parole, se l’Autorità Palestinese non smette di accusare Israele di consentire la diffusione del virus, Israele interverrà sulla capacità dell’AP di combattere quel virus.

Il governatore di Jenin Akram Rajoub rifiuta l’ affermazione di una cospirazione israeliana volta a peggiorare l’epidemia di coronavirus. “Se il virus si diffonde nei territori occupati”, dice, “anche Israele ne risentirà”.
Tuttavia, ritiene che Israele “voglia mettere in imbarazzo” l’AP. “Non possono tollerare l’idea che siamo riusciti a far acquisire credito all’Autorità palestinese”, afferma Rajoub. “Vogliono che sembriamo deboli di fronte alla nostra gente, perché incapaci di adempiere ai nostri obblighi”.

Oltre a indebolire l’AP, che finora ha avuto un relativo successo nel prevenire la diffusione del virus (al momento in cui scrivo, ci sono 308 casi confermati di COVID-19 e due decessi in aree controllate dall’AP, rispetto a 11.868 casi e 117 morti in Israele), Rajoub ritiene che l’altro obiettivo principale di Israele sia quello di risparmiare danni alla propria economia. Questo, dice, è il motivo per cui il governo sta prendendo “ogni misura possibile” per garantire che i lavoratori palestinesi siano in grado di raggiungere il loro posto di lavoro all’interno della Linea Verde.

Rajoub afferma di aver visto personalmente soldati israeliani in piedi pigramente mentre i lavoratori palestinesi entravano in Israele attraverso le rotture nel recinto di separazione. Questa settimana, dice che ha visitato Anin, un villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale, insieme a membri del Comitato di emergenza, istituito per servire i villaggi e le comunità lungo la barriera. Lì, gli è stato detto da un membro del Coordinamento Palestinese e del Quartier Generale di collegamento che le Autorità israeliane hanno avvertito che avrebbero sparato a chiunque si fosse avvicinato alla recinzione. Eppure ha visto tre palestinesi attraversare la barriera pienamente visibili a una jeep dell’esercito israeliano, mentre i soldati osservavano senza reagire.

“Vogliono che i lavoratori si infiltrino in Israele e stanno impedendo al Comitato di Emergenza e ai funzionari della sicurezza palestinese di raggiungere [la barriera] per fermarli”, afferma Rajoub.
La recinzione metallica nell’area di Jenin in Cisgiordania è “piena di brecce”, continua Rajoub. “Questo stava già accadendo prima del corona [virus], ma non ci preoccupavamo delle violazioni perché era nel nostro interesse che i lavoratori entrassero in Israele. Ma dal momento in cui è scoppiato il coronavirus, fa paura” aggiunge.

Israele sapeva esattamente dove era stata aperta la barriera anche prima della crisi del coronavirus, secondo Rajoub. Tuttavia, funzionari israeliani gli hanno detto che non hanno il budget per riparare il danno o forze di sicurezza sufficienti per proteggere la barriera. “Potrebbero fare qualcosa, ma non vogliono”, dice.

L’AP ha inviato le sue forze a Jenin e attraverso la Cisgiordania per impedire ai lavoratori palestinesi di avvicinarsi alla barriera per entrare in Israele, in coordinamento con i volontari del Comitato di emergenza. Le forze dell’AP hanno anche istituito posti di blocco all’interno della Cisgiordania per far rispettare le istruzioni del Ministero della Sanità palestinese e anche per monitorare il movimento dei lavoratori. Il primo ministro Mohammed Shtayyeh, conoscendo la sensibilità dei palestinesi nei confronti dei checkpoint, ha proposto di chiamarli “Love Checkpoint” o “Compassion Checkpoint”.

Il governatore di Qalqilya Rawajbeh dipinge un quadro simile a Rajoub. “Nella sola area di Qalqilya, ci sono più di 50 aperture in 54 chilometri [di recinzione]”, afferma. Analogamente a quanto testimoniato da Rajoub, Rawajbeh descrive come i canali di drenaggio di solito sigillati da griglie di ferro – messi in atto per impedire ai palestinesi di attraversare la Linea Verde – siano stati aperti giovedì scorso dai soldati israeliani, che hanno poi lasciato i canali incustoditi.

“I lavoratori sono passati [in Israele] attraverso questi canali e non c’erano soldati israeliani dall’altra parte”, dice Rawajbeh. Una troupe televisiva palestinese che filmava in quel sito giovedì ha usato uno di questi canali per andare in Israele; nel loro filmato, il reporter è visto in piedi sul lato israeliano della recinzione, senza nessun altro in giro.
“La loro scusa è che pioveva, motivo per cui hanno aperto le griglie”, dice. “Ma pioveva ben poco, mentono. “

Secondo Rawajbeh, le precedenti richieste dei palestinesi di aprire i canali al fine di prevenire le inondazioni, erano state accolte solo dopo colloqui formali e coordinamento con l’amministrazione civile, il governo militare israeliano in Cisgiordania. Ma anche allora, la griglia è stata aperta per 2-3 ore al massimo, sotto la costante sorveglianza dei soldati israeliani dall’altra parte.
Giovedì, dice Rawajbeh, Israele ha ritardato la richiesta dei palestinesi di chiudere la griglia, il che significa che i lavoratori palestinesi sono stati in grado di attraversare liberamente dentro e fuori Israele, senza alcun tipo di controllo medico o di sicurezza al loro ritorno. Domenica, tuttavia, le griglie sono state chiuse nuovamente.

Riad Abu Hamdeh, 55 anni, residente nel villaggio di Hableh a sud di Qalqilya e direttore di una società per la sicurezza, si è offerto volontario durante la notte, con i Comitati popolari, per cercare di impedire ai lavoratori palestinesi di entrare in Israele. “Mi prendo cura del mio villaggio e della mia gente”, dice. “I paesi grandi e potenti stanno crollando a causa del coronavirus; l’Autorità [palestinese] ha poche risorse e Dio vieta che il virus si diffonda qui. “

Ci sono quattro brecce nel recinto attorno al suo villaggio e il cancello è aperto, dice Abu Hamdeh. I volontari lavorano in tre turni vicino alla recinzione, pattugliandone la lunghezza a una distanza di 50 metri da ogni breccia. Se si avvicinano, dice, i soldati apriranno il fuoco contro di loro.

“Non appena vediamo i lavoratori, proviamo a convincerli a tornare a casa”, spiega Abu Hamdeh. “Alcuni di loro si convincono; altri iniziano a discutere con noi, dicendo che non andranno in Israele solo se pagheremo loro il salario.
“Ci coordiniamo pienamente con le forze di sicurezza palestinesi”, continua. “Quando un lavoratore entra da Israele, arriva un’ambulanza e [l’equipaggio] effettua un controllo. Se cerca di andare in Israele, lo portano a casa. Durante il mio turno, siamo riusciti a rimandare indietro circa 20 lavoratori che stavano cercando di entrare in Israele. “

Abu Hamdeh afferma di aver visto come i soldati hanno aperto le cosiddette “porte agricole” nella recinzione. Queste porte consentono agli agricoltori palestinesi di raggiungere rapidamente la loro terra che è stata lasciata sul lato “israeliano” del muro, dopo l’ esame dei loro permessi di ingresso.
“Ho visto con i miei occhi come i soldati aprono le porte e se ne tengono alla larga”, dice. “Una volta abbiamo persino chiuso il cancello noi stessi. I soldati ci hanno visto e ci hanno urlato di tornare indietro. Non abbiamo le chiavi del cancello o alcun modo per chiuderlo, quindi lo chiudiamo con un filo di ferro, una corda o qualsiasi cosa abbiamo a disposizione. “

Poi Abu Hamdeh racconta di aver visto i soldati israeliani guardare mentre i lavoratori palestinesi attraversavano. “Hanno posto loro una domanda e non li hanno controllati”, afferma. “Questo è un nuovo fenomeno. Solo ai tempi del coronavirus. Prima del coronavirus chi avrebbe osato avvicinarsi alla recinzione? Gli avrebbero immediatamente sparato. “
“Prima del coronavirus, c’erano sempre due tre jeep militari che pattugliavano il recinto”, continua. “Oggi ce n’è solo una.”

Ma al di là dello strano comportamento dei soldati e del fatto che i palestinesi sono ora diventati i protettori della barriera, rimane la questione dell’Autorità Palestinese. “Onestamente si può dire che l’AP ha affrontato la crisi del coronavirus meglio degli israeliani”, afferma Rajoub, governatore di Jenin. Con le mani legate e con scarse risorse, l’AP ha fatto un lavoro migliore di Israele, che si considera una superpotenza in materia di scienza e medicina e l’unica democrazia in Medio Oriente, dice. “Abbiamo imbarazzato Israele. Abbiamo ottenuto risultati che Israele non ha ottenuto. Questo è ciò che ha causato la tensione e i problemi “.

Non si tratta affatto di gelosia, dice il sindaco. “Il loro interesse è politico. Il loro obiettivo è presentarci come deboli, sottomessi e sotto il controllo israeliano, il nostro custode. Stanno cercando di dirci: “Siamo i vostri benefattori, siamo quelli istruiti, siamo quelli con i mezzi e le capacità e voi non siete niente”.

Dato che la reputazione dell’AP sembra migliorare tra i palestinesi della Cisgiordania, afferma Rajoub, Israele è più determinato a indebolirla. “La crisi del coronavirus ha notevolmente rafforzato la posizione dell’Autorità tra il popolo palestinese”, afferma. “Questa è la prima volta da Oslo che io, in quanto membro del governo, sento che il popolo palestinese sta lodando le forze di sicurezza e il governo palestinese. [Israele] vuole indebolire l’AP e minare il morale e la fiducia del popolo palestinese nella sua leadership politica e di sicurezza “.

In risposta alle accuse secondo cui ha aperto i canali di drenaggio, il Coordinamento delle attività governative nei territori (COGAT), che sovrintende alla politica israeliana in Cisgiordania, ha espresso rammarico per il fatto che “mentre lo Stato di Israele sta aiutando l’Autorità palestinese a gestire meglio la lotta globale contro lo scoppio del coronavirus, il governatore di Qalqilya sceglie di parlare contro Israele. “

COGAT ha inoltre affermato che, in previsione della pioggia, le autorità hanno aperto i canali di drenaggio nell’area di Qalqilya per prevenire inondazioni “per il benessere dei palestinesi che vivono nell’area”. L’affermazione secondo cui i canali erano stati aperti per l’ingresso dei lavoratori senza controlli, è “falsa e sganciata dalla realtà”, ha aggiunto, questo tipo di procedura è comune durante il tempo piovoso e nota alle autorità palestinesi.

COGAT non ha risposto alla richiesta di riparare le aperture nella recinzione.
Per quanto riguarda le accuse secondo cui l’esercito israeliano non controlla i canali aperti e le aperture nella recinzione, consentendo così ai lavoratori di passare, il portavoce dell’IDF ha dichiarato che “contrariamente alle accuse, l’impegno difensivo continua come al solito”.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call.

Traduzione di Alessandra Mecozzi




Il cinema israeliano prova, senza riuscirci, a fare i conti con il terrorismo ebraico

Natasha Roth-Rowland

10 aprile 2020 – +972 Magazine

Quattro film recenti esaminano l’ascesa dell’estrema destra in Israele. Ma, nel dare un’immagine di eccezionalità ai loro personaggi, non riescono ad arrivare alle radici della loro ideologia.

Data l’accelerazione in corso negli ultimi anni in Israele del processo di normalizzazione dell’ideologia religiosa di estrema destra, non sorprende che i cineasti guardino alla storia del fanatismo di destra per cercare di capire come la politica israeliana abbia acquisito le sue attuali tendenze. Quattro film sull’argomento sono usciti in altrettanti anni: “Incitement” [Istigazione,ndtr.], che intraprende un viaggio nel mondo interiore di Yigal Amir, l’uomo che ha assassinato il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin; “The Prophet” [il profeta, ndtr.], che descrive la carriera del rabbino Meir Kahane (rabbino e politico ultranazionalista, ndtr.) mentre reca il suo messaggio di violenza della destra ebraica dalle strade di New York alle aule della Knesset (il parlamento ebraico, ndtr.); “The Settlers” [i coloni, ndtr.], che racconta la storia del movimento dei coloni; e “The Jewish Underground”, sull’omonimo gruppo terroristico.

“Incitement”, diretto da Yaron Zilberman, è una scrupolosa riproposizione dell’atmosfera dell’era di Oslo. Si concentra soprattutto sugli ebrei israeliani che si stavano mobilitando in opposizione ai colloqui e, più minacciosamente, a Rabin. La cinepresa si sofferma sulle immagini anti-Rabin nel campus dell’Università Bar-Ilan, nelle piazze e nelle strade: graffiti che istigano contro il primo ministro; manifesti stile “ricercato”, con un bersaglio sulla sua testa, che lo qualificano “L’Assassino”; e cartelli che nel corso di feroci manifestazioni lo mostrano con indosso una kefiah o un’uniforme delle SS.

Vediamo anche Amir partecipare al funerale di Baruch Goldstein, che uccise 29 palestinesi nella Moschea Ibrahimi di Hebron nel febbraio 1994. Lì sente un rabbino discutere della liceità di un mandato di morte religioso contro Rabin, sulla base del fatto che il primo ministro, con la negoziazione di un compromesso territoriale, ha messo in pericolo gli ebrei. Amir già nelle prime sequenze del film ha assistito ad altre argomentazioni simili. Da ciò siamo portati ad assumere che il passo perché proprio lui esegua quella condanna a morte possa essere breve.

Ci sono altri momenti premonitori. All’inizio, la madre di Amir racconta a una donna che egli ha invitato a casa e a cui è sentimentalmente interessato che il suo nome, Yigal, significa “Egli redimerà” e che lei è convinta che riscatterà “la sua gente”. Suo figlio, dice, è destinato alla grandezza, un messaggio che ripete ad Amir quando la sua possibile fidanzata lo rifiuta. In un’altra scena di famiglia, una delle più intense del film, il padre di Amir, avendo scoperto i piani di suo figlio, gli urla: “Ci vorranno generazioni – generazioni! – per guarire una tale ferita.”

“Incitement” affronta anche il contesto originario di Amir in quanto figlio di immigrati yemeniti in Israele. Una serie di tensioni aggrovigliate tra loro è presente nella sua famiglia: il disprezzo di sua madre per l’elitarismo razzista degli israeliani ashkenaziti [i discendenti delle comunità ebraiche di lingua e cultura yiddish stanziatisi nel medioevo nella valle del Reno, ndtr.]; le discussioni tra lei, un’estremista, e suo padre, che è più fiducioso sugli Accordi di Oslo; l’evidente disagio dell’amica ashkenazita di Amir quando arriva e assiste allo svolgersi di una riunione di famiglia, allusione all’emarginazione di Amir nella società israeliana in quanto ebreo Mizrahi [ebrei orientali, provenienti dai paesi del mondo arabo, ndtr.].

Eppure il film si occupa ben poco di queste dinamiche all’interno del mondo religioso-sionista. Qui, i rabbini istigatori contro Rabin sono invariabilmente Ashkenazi. Nel mondo reale, in seguito all’assassinio, alcuni componenti della classe religioso-sionista cercarono di assolversi dalla responsabilità dell’omicidio indicando la discendenza Mizrahi di Amir come prova del suo status di estraneo.

Il fatto che conosciamo la fine della storia non contribuisce minimamente ad alleviare la tensione nel film. Al contrario, il film prelude all’incombente disastro fin dal primo fotogramma. Il montaggio sulle riprese di un cinegiornale d’archivio nel corso della successione degli eventi accresce il senso di premonizione, anche durante gli ultimi momenti del film, quando vediamo i fotogrammi sgranati del vero Amir, riconoscibile con la sua maglietta blu, in attesa dell’auto di Rabin, intervallati da immagini in primo piano di lui che parla amichevolmente con la scorta di sicurezza di Rabin. Loro credono che sia uno di loro.

Come molti altri film israeliani recenti, “Incitement” allude chiaramente al fatto che l’estremismo abbia messo radici ai vertici della politica israeliana, incarnato nella figura di Benjamin Netanyahu e in quella del gruppo di rabbini religioso-sionisti che hanno posto una taglia religiosa sulla testa di Rabin. Zilberman termina con le riprese della presenza di Netanyahu alle rabbiose proteste anti-Rabin prima dell’assassinio, inclusa la sua famigerata comparsa su un balcone che si affaccia sulla Piazza Sion di Gerusalemme, mentre gli israeliani di destra chiedono urlando la morte di Rabin.

Zilberman ha ragione a stabilire questa connessione, ma dato che si tratta di un film sul nazionalismo religioso estremista e considerando il momento politico in cui il suo lavoro viene presentato, esso appare come un’occasione mancata. Il film evita di interrogarsi sui legami più profondi tra le élite religioso sioniste e quelle politiche in Israele. In maniera ancora più lacunosa, il film si ritrae dall’esame del perché Netanyahu abbia avuto tanto successo e perché, pochi mesi dopo aver contribuito ad istigare all’omicidio di Rabin, sia stato eletto a capo del successivo governo israeliano.

Questa omissione si coniuga in parte coll’assenza quasi totale di palestinesi nel film. È vero che “Incitement” è una storia sul mondo etnicamente isolato della destra religiosa israeliana e sulla follia inesplorata in cui è piombato in occasione degli Accordi di Oslo. Ma il film è inteso come una immersione profonda nell’ideologia di quello stesso gruppo, e quanto può essere efficace un simile intento se non riesce a interagire con l’oggetto della paura e dell’odio di quell’ideologia? Rabin è davvero il principale bersaglio dei protagonisti del film, ma solo nella misura in cui Amir e i suoi coetanei credevano che fosse un fantoccio dei palestinesi, e quindi una minaccia mortale per lo stato ebraico.

Con questa lacuna, il film ha forse detto più di quanto intendesse sul momento attuale: “Incitement” è arrivato nei cinema statunitensi a pochi giorni dall’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha rivelato il suo “Accordo del Secolo”, una tabella di marcia verso l’annessione che ha stabilito piani dettagliati per il futuro della Palestina senza consultare nessuno di coloro che dovrebbero viverci. Nel film, come nel piano di Trump, i palestinesi sono presenti assenti.

L’ estrema destra israeliana è ugualmente sotto il microscopio in “The Prophet”, del regista Ilan Rubin Fields. Il documentario del 2019 esplora la carriera del rabbino estremista nato a Brooklyn Meir Kahane, che ha fondato a New York negli anni ’60 la Jewish Defense League [Lega di Difesa Ebraica, ritenuta dal FBI un’organizzazione terrorista per i suoi atti di violenza, ndtr.] e, negli anni ’80, è stato presente nel parlamento israeliano come unico rappresentante del suo partito, Kach. Ripercorre alcuni degli atti più noti di Kahane e della JDL, dall’attentato dinamitardo del 1970 negli uffici dell’Aeroflot a New York, alla proposta di Kach di aprire un “ufficio di emigrazione” nella città palestinese settentrionale di Umm al-Fahm, al fine di tentare di incoraggiare i cittadini palestinesi a lasciare il paese.

Nel corso del film Fields intervista i membri di Otmza Yehudit, il partito kahanista che ha partecipato lo scorso anno al triplo round delle elezioni israeliane, i cui leader sono tutti ex accoliti di Kahane. Baruch Marzel, commentando le proposte di Kahane di espellere i palestinesi dalla totalità della biblica “Terra di Israele”, osserva che il suo mentore “ha sottolineato una contraddizione intrinseca tra lo stato ebraico e la democrazia”. Qualsiasi altra opzione è frutto di fantasia, afferma Marzel: “O è democratico o è ebraico. Non può essere entrambi.” Un simile concetto, ribadisce l’esperto di diritto Moshe Negbi, viene affermato nella dichiarazione delle Nazioni Unite del 1975 secondo la quale il sionismo è razzismo.

Questa discussione, condotta attraverso interviste dirette, piuttosto che attraverso dialoghi, rappresenta uno dei due difetti del film. Sembra guardare direttamente negli occhi le contraddizioni tra avere uno Stato etnico particolaristico e una democrazia, per poi distogliere nuovamente lo sguardo, respingendola come semplicemente un’idea inconcepibile espressa da estremisti.

Questo è un peccato, perché il film di Fields va oltre “Incitement” nel sottolineare come nella società e nella politica israeliane si trovino il razzismo sistemico e lo sciovinismo. Verso la conclusione del film rievoca una serie di attacchi terroristici ebraici – il massacro di Goldstein [nel 1994, nella Moschea di Ibrahimi a Hebron, ndtr.], l’omicidio di Muhammad Abu Khdeir [16 enne palestinese sequestrato e ucciso da cittadini israeliani il 2 luglio 2014, ndtr.], il bombardamento della casa dei Dawabshe a Douma [nel Luglio del 2016, in cui morirono 3 membri della famiglia, tra cui un bambino di 18 mesi, ndtr.] – e poi abilmente passa alla Knesset, mostrando i politici del Likud mentre diffamano i palestinesi, prima di terminare con l’approvazione della legge ebraica sullo Stato – Nazione. I fotogrammi finali del film mostrano scene del Giorno dell’Indipendenza di Israele, una festa di bandiere e fuochi d’artificio.

Il messaggio implicito qui è chiaro: una malattia strutturale ha messo radici nello Stato di Israele. E nel 2020, quando il partito Likud, che ha governato il paese per più di 30 anni, ha ripetutamente offerto supporto a Otzma Yehudit [partito politico israeliano di estrema destra, ndtr.] e si è impegnato a conquistarne gli elettori, l’impostazione di Fields appare realisticamente efficace. Ma il documentario, nel suo sviluppo e nel trascurare la storia pre-Kahane, lascia l’impressione che sia un singolo demagogo a produrre il marciume, piuttosto che esporre e discutere la profonda xenofobia e la paranoia razzista che hanno fatto parte delle caratteristiche dello Stato dal primo giorno.

L’altro grande difetto del documentario è l’incapacità di intervistare neppure una donna o un singolo palestinese. (viene mostrata una donna nella veste di intervistata nel filmato di archivio che Rubin include nel film.) Data la centralità delle questioni della purezza etnica e di genere (e le connessioni tra loro) nell’ideologia kahanista – e nell’ideologia israeliana di estrema destra in generale – questo rappresenta un paio di sorprendenti omissioni. Lascia essenzialmente che la storia sia raccontata solo da quelli che si trovano nel suo pieno centro, che sono quasi esclusivamente uomini ashkenaziti, e cancella le voci di chi si trova ai margini dell’estrema destra e delle sue vittime.

Dei quattro film, “The Jewish Underground” è forse quello che riesce meglio a dimostrare che l’acquiescenza nei confronti dei violenti radicali di destra è una caratteristica, e non un errore, del sistema politico israeliano. Anche questo, tuttavia, inciampa a proposito della parità di genere dei suoi intervistati: nella prima ora non riesce a includere nessuna donna tra i personaggi. È significativo che l’unica comparsa di una donna in questa parte risulta sullo sfondo di un’intervista con uno dei leader del gruppo; è una figura sfocata, con le spalle rivolte verso gli spettatori, in piedi in cucina.

Tuttavia, ciascuno di questi quattro film riesce, in qualche modo, a rendere l’eccezionalità dei suoi personaggi. Si concentrano tutti su gruppi o individui che sono in qualche modo ritenuti al di fuori dell’opinione corrente israeliana, e quindi li presentano come aberrazioni, piuttosto che prodotti della società israeliana. Nonostante, con pregi e difetti, venga riportata la visione violenta e sciovinista del mondo da parte di quegli uomini, questo approccio aderisce al modo in cui questi personaggi vengono rappresentati nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana: come mostri che aspettano dietro le quinte per poi irrompere sulla scena per tentare di rovinare del tutto Israele.

Attraverso la scelta di esempi del calibro di Kahane, Amir e Jewish Underground, senza affrontare

seriamente le radici ideologiche e storiche della loro politica – ponendo l’origine di tutto nel 1967 e non nel 1948 – questi film smettono di essere quella trasparente resa dei conti che si sforzano di rappresentare. In questo senso, riflettono la specifica odierna focalizzazione su Netanyahu come fonte delle tendenze antidemocratiche nella società israeliana, con un collegamento pressoché nullo riguardo ciò che significava la “democrazia” israeliana prima della sua salita al potere.

Va bene osservare Kahane e i suoi seguaci che urlano “fuori gli Arabi;” osservare Miri Regev sul seggio della Knesset dire alla parlamentare Haneen Zoabi del partito Balad : “Torna a Gaza, traditrice;” osservare le proteste dei parlamentari del partito Lista Unita guidata da palestinesi, i quali vengono espulsi dall’aula plenaria della Knesset, mentre i loro colleghi approvano la legge ebraica sullo Stato Nazione. Ma senza riconoscere che lo Stato sta dicendo, in un modo o nell’altro, “fuori gli Arabi!” dal 1948, i cineasti e gli osservatori in generale non riusciranno mai a capire chi siano questi “mostri”, né respingeranno il caos che essi provocano.

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in Storia presso l’Università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli Stati Uniti. Precedentemente ha trascorso diversi anni come scrittrice, editrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è apparso su The Daily Beast, sul London Review of Books Blog, su Haaretz, su The Forward e su Protocols. Scrive sotto il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che fu costretto a cambiare il suo cognome in “Rowland” quando richiese asilo nel Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




No, la chiusura di Israele per Passover, non è pari al blocco dell’occupazione

Orly Noy*

8 aprile 2020   +972 Magazine

11 aprile 2020 Cultura è Libertà

E’ duro per gli ebrei israeliani essere separati dai propri cari a causa del coronavirus. Ma per loro la chiusura è temporanea, mentre per i palestinesi è senza fine

Questa sera, saremo seduti, milioni di ebrei in Israele e nel mondo per un triste Seder di Passover, forse il più strano che molti di noi hanno vissuto in tutta la loro vita. I più fortunati tra noi saranno seduti con i membri della propria famiglia, altri, compresi molti anziani, si siederanno da soli o dovranno affrontare un Seder virtuale.

Stasera canteremo le canzoni di Passover. Canteremo Ma Nishtana e le quattro domande e desidereremo il familiare chiasso di cui ci lamentavamo spesso. Avremo nostalgia dello zio con le sue vecchie battute, quello che insiste a recitare l’ Hagaddah dall’inizio alla fine senza saltare una sola parola. E naturalmente ci mancheranno le infinite discussioni politiche senza costrutto.

Un’auto della polizia è rimasta ferma sulla strada di fronte a casa mia dalla notte di lunedì. I poliziotti controllano i documenti d’ identità alle poche auto che passano sulla strada. La chiusura che imponiamo ai palestinesi in occasione di ogni vacanza ebraica improvvisamente ha un nuovo significato: anche noi siamo chiusi dentro. E’ una cosa sorprendente per noi cittadini ebrei di Israele. La parola “chiusura” sembra emergere da un altro universo semantico, del tutto estranea a noi, per definizione. Ma per altri, il cui destino è rimanere chiusi dietro cancelli, privati della libertà di movimento, la chiusura è semplicemente parte del loro ordine naturale.

Improvvisamente ci troviamo tutti, Ebrei e Palestinesi, a condividere lo stesso destino. Il coronavirus è diventato un grande livellatore, costringendo l’occupante e l’occupato a vivere chiusi nelle loro case. L’eguaglianza si è fatta strada in questa terra, anche se per poco tempo, con l’aiuto di una furiosa pandemia e ora ci troviamo tutti nella stessa barca. Ma è proprio vero?

E’ facile farsi prendere da questa versione dei fatti – una narrazione che non deriva necessariamente da insensibilità, ma da un profondo desiderio di esprimere solidarietà per i Palestinesi e di vedere un legame tra le difficoltà che affrontiamo. Si dovrebbe sperare che la schadenfreude ( il gioire della disgrazia altrui: “finalmente gli ebrei israeliani assaggiano un po’ della loro stessa medicina”) non entri in gioco, ma che si tratti piuttosto del bisogno di vedere la nostra impotenza riflessa nella loro.

E’ importante chiarire questo punto non solo perché non metto in dubbio questa sensazione di un destino comune e neppure sottovaluto il peso del disagio che stiamo affrontando in questa settimana: chiarire cioè che non c’è nessuna somiglianza tra la chiusura che noi ebrei israeliani stiamo affrontando questa settimana di Passover e le ripetute serrate imposte ai Palestinesi nei territori occupati.

Quando ci sediamo a tavola stasera, saremo chiusi nelle nostre case da una chiusura che è stata decisa prima di tutto per la salvaguardia della nostra salute. Non si tratta di una misura punitiva e arbitraria e, anche se abbiamo riserve circa il grado di necessità che l’ha giustificata, sappiamo che è stata decisa da un governo che il pubblico, di cui noi siamo parte, ha eletto. Anche i più radicali di sinistra tra di noi godono del privilegio di un dibattito pubblico e possono usufruire di istituzioni statali.

Un Palestinese, dall’altro lato, non potrà uscire di casa stasera a causa di una serrata imposta da un esercito di occupazione e da un governo ostile sul quale non hanno alcun modo di esercitare una qualche influenza. Devono starsene chiusi in casa perché non hanno altra scelta che quella di obbedire anche ai più stravaganti e arbitrari ordini di questo esercito che è insediato su quei territori con il compito di rendere penosa la vita ai palestinesi.

Quando ce ne stiamo a casa per via della chiusura, lo facciamo non perché ci è stato imposto come cittadini, ma come un atto di solidarietà con la nostra comunità – soprattutto con i più vulnerabili tra di noi. La maggior parte di noi non se la prenderà se gli agenti di polizia impongono di starcene a casa e ci impediscono di passare la serata con i nostri cari. Se dovessimo essere costretti a lasciare le nostre case per una emergenza, ci aspettiamo che gli agenti siano di aiuto e persino che si prendano cura di noi. Nel peggiore dei casi, potremmo ricevere dei rimproveri o una multa.

Dall’altra parte, un palestinese che viola la chiusura nei territori occupati, rischia la vita. I soldati, all’entrata di un villaggio o di una città palestinese non saranno gentili e non staranno a sentire le ragioni di un palestinese prima di premere il grilletto. Il palestinese sa che, diversamente da quel che accade a un ebreo israeliano, nessuno se ne accorgerà se saranno uccisi da un soldato o da un agente di polizia. E’ altamente improbabile che qualcuno in Israele venga anche a sapere dell’incidente.

Noi ebrei israeliani stasera staremo a casa per una chiusura che ha una data di scadenza. I nostri vicini palestinesi staranno sotto una chiusura che è solo una di un’ infinita serie di chiusure. Mentre noi stanotte celebreremo la nostra liberazione, sappiamo che la nostra reale libertà non è minacciata in nessun modo. Quando i Palestinesi staranno a casa stasera, la libertà rimarrà per loro un’ idea molto lontana.

Non accade spesso che lo stesso concetto possa descrivere due situazioni tanto distanti tra loro nella loro essenza. Questo è proprio quello che succederà stasera. E così, nonostante i nostri sentimenti soggettivi, è importante non cadere nella tentazione, anche in situazioni come questa, di depoliticizzare la nostra realtà. I cittadini israeliani dovranno sopportare per la serata di rimanere chiusi in casa. La chiusura di milioni di Palestinesi, dall’altro lato, deve ancora essere sconfitta.

Traduzione Gabriella Rossetti

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica, trduttrice di poesia e prosa farsi. Fa parte dell’Esecutivo di B’Tselem’s executive ed è attivista del partito Balad. Scrive sulle linee di intersezione e definizione della sua identità, come Mizrahi, donna di sinistra, migrante temporanea che vive all’interno d una migrante perpetua e nel costante dialogo tra le due.




Se si propagasse la pandemia, i villaggi beduini non riconosciuti potrebbero ‘diventare come il nord Italia’

Oren Ziv

29 marzo 2020 – +972 Magazine

Privati dei servizi essenziali, i villaggi non riconosciuti del Naqab non sono in grado di affrontare il coronavirus – e il governo israeliano non interviene.

Abitanti e attivisti affermano che i villaggi beduini non riconosciuti nel Naqab / Negev nel sud di Israele  si trovano ad affrontare una crisi in conseguenza della pandemia da coronavirus. Per la mancanza di infrastrutture e servizi sanitari, le comunità non sono in grado di seguire le linee guida stabilite dal Ministero della Salute israeliano.

Attiah al-Aasem, presidente del Consiglio Regionale dei Villaggi Non Riconosciuti del Naqab, avverte che “il coronavirus aggraverà i problemi quotidiani nei villaggi”. In assenza di servizi come acqua, fognature e raccolta dei rifiuti, aggiunge al-Aasem, gli abitanti devono fare del loro meglio per prendersi cura di se stessi.

“Il Naqab potrebbe diventare come il nord Italia”, afferma Salame Alatrash, capo del Consiglio Regionale di Al-Kasom.

Qui le persone vivono in condizioni di grande affollamento. Una baracca di 50 metri può ospitare da sette a dodici persone”, afferma. “Il governo è a conoscenza del grave affollamento e della mancanza di infrastrutture. E cosa hanno fatto in tutti questi anni? Noi li abbiamo avvertiti che ciò avrebbe portato al disastro.”

“Un abitante di un villaggio non riconosciuto afferma che non ci sono stati provvedimenti e che non sono disponibili dispositivi di protezione individuale. “Siamo consapevoli [della situazione], ma come ci proteggeremo?” dice. “Abbiamo paura, ma abbiamo la necessità di recarci al supermercato.”

‘Stiamo vivendo nella paura e nel panico’

Nei 37 villaggi non riconosciuti del Naqab vivono circa 150.000 persone. A causa del pluridecennale rifiuto del governo israeliano di concedere loro lo status legale, questi villaggi si vedono negati i servizi essenziali come l’acqua, un sistema fognario o la raccolta dei rifiuti, e sono in continua lotta per resistere alle demolizioni di case e ai trasferimenti forzati. Il loro relativo isolamento dai centri urbani ha contribuito, per il momento, a tenere a bada la pandemia, ma gli abitanti temono che una volta arrivato il virus la mancanza di infrastrutture possa provocare un’epidemia di massa.

“Questa crisi sta evidenziando una realtà che in tempi normali passa inosservata”, afferma Sari Arraf, un avvocato dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Adalah. “Sta mettendo in evidenza la disuguaglianza che devono affrontare i villaggi non riconosciuti. Se fossero state soddisfatte le richieste che avevamo fatto di collegare i villaggi alle infrastrutture essenziali, non ci troveremmo in una situazione che sta mettendo in pericolo non solo gli abitanti dei villaggi non riconosciuti, ma anche l’intera popolazione del Naqab.”

“Viviamo nella paura e nel panico”, afferma Aziz Abu Mdeghem, abitante di Al-Araqib, che le autorità israeliane hanno demolito 175 volte negli ultimi 10 anni. “Non abbiamo modo di proteggerci dal coronavirus. Non possiamo conservare il cibo e non c’è nessun posto nelle vicinanze dove possiamo lavarci le mani regolarmente, perché non c’è acqua corrente”.

Gli abitanti hanno paura di lasciare il villaggio per procurarsi il cibo e temono il giorno in cui uno dei loro vicini potrebbe essere costretto ad autoisolarsi, perché il villaggio non è in grado di consentire un simile distanziamento.

Alatrash, il capo del consiglio di Al-Kasom, ha segnalato la stessa preoccupazione al Ministero della Sanità, chiedendo diverse settimane fa il permesso di trasformare le scuole del suo distretto in centri di isolamento. Sta ancora aspettando di ricevere il consenso.

Mentre Al-Araqib non ha acqua corrente, altri villaggi non riconosciuti sono in grado di utilizzare punti di approvvigionamento idrico isolati a pagamento installati dalla compagnia idrica nazionale israeliana. Questi punti di accesso possono trovarsi a chilometri di distanza dai villaggi e non forniscono acqua a sufficienza per le comunità.

“I villaggi ricevono la quantità minima di acqua al massimo costo”, afferma Arraf. Il prezzo si basa su due tariffe: il volume della fornitura e l’entità del surplus del consumo oltre la fornitura. Gli utenti abituali dell’acqua pagano per una determinata quantità, al di sopra della quale pagano un extra. I beduini residenti “pagano il doppio fin dalla prima goccia d’acqua, il che rende costoso rispettare le linee guida del Ministero della Salute. È assurdo “, aggiunge Arraf. Inoltre, poiché gli abitanti hanno dovuto costruire le proprie reti idriche utilizzando lunghe tubazioni non interrate all’interno dei loro villaggi, spesso sorgono problemi di pressione e qualità dell’acqua.

La mancanza di infrastrutture fa sì che, anche in tempi normali, le ambulanze non possano raggiungere i villaggi a causa dell’assenza di strade asfaltate. Non è quindi chiaro come potrebbe arrivare l’assistenza medica se le vittime del coronavirus richiedessero un’evacuazione urgente.

“Qui siamo tutti in crisi”, afferma Alatrash. “Questa non è una situazione normale e non c’è distinzione tra ebrei e arabi: dobbiamo lavorare insieme”.

Tutto è stato annullato, eccetto le demolizioni’

Le misure del governo israeliano per combattere la pandemia potrebbero avere gravi conseguenze economiche per molti dei villaggi non riconosciuti. “Ci sono migliaia di beduini che sono lavoratori temporanei e guadagnano 150-200 shekel [38-51 euro, ndtr.] al giorno nell’agricoltura, nei ristoranti, hotel e lavando le automobili”, afferma Alatrash. “Non hanno diritto alla disoccupazione e se questa crisi persiste, avranno bisogno di un sostegno che non possiamo fornire”.

Nel frattempo, fino a lunedì scorso, nonostante lo stato di emergenza, le autorità israeliane stavano ancora effettuando demolizioni di case e distruggendo i raccolti appartenenti a villaggi beduini non riconosciuti. La preoccupazione principale degli abitanti di Al-Araqib rimane il rischio di perdere la casa, anche se dall’inizio dell’epidemia le autorità, diversamente dal solito andamento settimanale, hanno demolito le loro baracche solo una volta. “Le demolizioni delle case sono il nostro coronavirus”, afferma Abu Mdeghem.

Domenica scorsa, gli urbanisti e gli ispettori del ministero delle finanze sono arrivati nel villaggio di Rahma e hanno distribuito avvisi di demolizione per gli edifici che erano stati ristrutturati dopo essere stati danneggiati da inondazioni due settimane prima. Gli abitanti hanno rilevato che i funzionari sono arrivati senza dispositivi di protezione individuale e sono entrati nelle loro case in gruppi di otto persone, senza mantenere alcuna distanza tra loro.

“Tutto è stato annullato, eccetto le demolizioni contro i beduini”, dice al-Aasam. “Questo è ciò di cui lo Stato si preoccupa: di qualcuno che stia piazzando una lamiera o stia martellando su un chiodo. La distribuzione degli ordini [di demolizione] è una scusa: vogliono sfruttare l’opportunità di danneggiare le persone, che ora non hanno il tempo per costruire perché sono impegnate a preoccuparsi del coronavirus”.

Le visite degli ispettori rischiano di mettere in pericolo gli abitanti, aggiunge al-Aasem. “Qualcuno di loro potrebbe avere il virus, dal momento che si è diffuso in tutto il Paese.”

In seguito alla visita degli ispettori, un certo numero di organizzazioni per i diritti ha fatto un appello al governo affinché interrompa tutte le attività di demolizione contro le case e le terre dei villaggi non riconosciuti, soprattutto nel corso della pandemia, sottolineando che tali operazioni mettono a repentaglio non solo la salute degli abitanti dei villaggi, ma anche i tentativi di contrastare l’epidemia da coronavirus. Devono ancora ricevere una risposta.

Tuttavia, nonostante la persistenza delle operazioni di demolizione ci sono segnali che il governo stia iniziando a modificare i suoi interventi nei villaggi non riconosciuti, nella consapevolezza della potenziale catastrofe. Il 22 marzo, per la prima volta dall’istituzione dell’Autorità per lo Sviluppo e l’Insediamento dei Beduini nel Negev (chiamata di solito “Autorità Beduina”), il ministero dell’Agricoltura ha deciso che l’organismo avrebbe gestito, in cooperazione con vari ministeri, aiuti governativi per i villaggi non riconosciuti.

Normalmente l’Autorità Beduina è responsabile della cosiddetta “regolarizzazione” dei villaggi non riconosciuti e svolge attività di applicazione della legge, demolizioni e sfratti. Nei giorni scorsi, tuttavia, l’ente ha inviato dei dipendenti a distribuire materiale in lingua araba su come affrontare la pandemia. Secondo l’Autorità, il suo personale avrebbe avuto il compito di identificare i bisogni della popolazione beduina.

Il responsabile dell’Autorità Beduina, Yair Maayan, ha riferito a Local Call [sito di notizie israeliano, versione in ebraico di +972, ndtr.] che sono state congelate tutte le attività, comprese le demolizioni, e che “tutti i dipendenti stanno lavorando con la popolazione per cercare di prevenire la malattia”. Con una mossa del tutto inusuale, Maayan ha scritto al Ministero delle Finanze, dopo che i suoi ispettori avevano distribuito avvisi di demolizione in uno dei villaggi, chiedendo loro di interrompere tutti questi interventi. Invece di effettuare demolizioni e sfratti, ha scritto, il dipartimento dovrebbe “concentrarsi sulla sensibilizzazione e sulla riduzione delle infezioni da coronavirus”.

Tuttavia, Haia Noach, direttrice esecutiva del Negev Coexistence Forum – una delle organizzazioni che ha chiesto allo Stato di fermare le demolizioni – afferma che, mentre l’Autorità Beduina è competente sulle demolizioni, non è competente in merito alla salute pubblica. “Lasciare che queste persone [nell’Autorità] affrontino la situazione, – sostiene – significa abbandonare la comunità”.

Interruzione massiccia dell’istruzione

All’inizio della crisi le scuole israeliane sono state chiuse e il Ministero dell’Educazione ha creato dei programmi online nazionali per l’apprendimento a domicilio da parte degli studenti. Ma il progetto, chiaramente, non ha tenuto conto della popolazione di lingua araba, afferma il dott. Sharaf Hassan, che dirige un comitato di valutazione dell’educazione araba. “Non hanno pensato al divario tra ebrei e arabi. Circa un terzo degli studenti arabi non ha la tecnologia necessaria per accedere alle lezioni”.

Secondo Hassan circa la metà degli studenti arabo-palestinesi in Israele non partecipa all’apprendimento a distanza e metà vive al di sotto della soglia di povertà. Inoltre, aggiunge, non tutte le famiglie hanno accesso a un computer, per non parlare della disponibilità di corrente elettrica o di Internet.

Nel migliore dei casi, i bambini dei villaggi non riconosciuti devono lottare per accedere all’istruzione. Ora, tuttavia, il comitato per i villaggi non riconosciuti stima che circa il 70% degli studenti di queste comunità non partecipi all’apprendimento a distanza, a causa della mancanza di risorse.

“La mancanza di preparazione per una situazione di emergenza è dovuta a una discriminazione di lunga data”, afferma Hassan. Nel caso in cui l’apprendimento a distanza debba continuare per un lungo periodo, il governo deve garantire che gli studenti senza accesso a Internet possano comunque ricevere un’istruzione, fornendo loro router e computer.

Anche l’accesso alle informazioni sulla pandemia è stato un problema. “La gente ha impiegato un po’ di tempo per capire che la chiusura delle scuole non fosse dovuta a una vacanza”, afferma Huda Abu Obeid, attivista e abitante del Naqab. “Non c’erano abbastanza informazioni in arabo. Le stesse organizzazioni sanitarie, per un senso del dovere, hanno iniziato a distribuire le linee guida. È preoccupante.”

“Abbiamo bisogno di una task force che includa medici che conoscano la comunità e che fornisca delle soluzioni”, afferma Noach. “Lo Stato deve assumersi la sua responsabilità”.

Nel contempo al-Aasem propone una rapida fornitura di servizi essenziali, come un ambulatorio medico, anche se solo provvisorio. “Se riconoscessero i villaggi – afferma – e fornissero loro le infrastrutture essenziali, saremmo in grado di prevenire questo disastro”.

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills e cronista di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di problemi sociali e politici in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione verso le comunità di attivisti e le loro battaglie. La sua attività di reporter ha messo a fuoco le proteste popolari contro il muro e le colonie, l’edilizia popolare e altre questioni socio-economiche, le lotte contro il razzismo e la discriminazione e le battaglie per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perfino in una pandemia Israele non tratta i suoi sottoposti come uguali

Hagai el Ad, direttore B’Tselem

30 marzo 2020 +972 Magazine

2 aprile 2020 Cultura è Libertà

Un paese guidato da un primo ministro etnocentrico e razzista alle prese con una minaccia universale che colpisce tutte le persone sotto il suo controllo.

In un discorso alla nazione di metà marzo, il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha cercato goffamente di rivolgersi a tutte le persone che vivono sotto l’effettivo controllo del Governo – compito difficile dato che l’idea stessa va contro le sue convinzioni fondamentali.

In difficoltà nel trovare le parole giuste per rivolgersi al suo pubblico, Netanyahu se ne è uscito così: “Possiamo farlo insieme. Tutti i cittadini, tutti i residenti, chiunque mi stia ascoltando ora, seguano queste linee guida e raggiungeremo il nostro obiettivo. “

Se tutte le persone che vivono nel territorio sotto il controllo di Israele fossero considerate uguali, Netanyahu non avrebbe dovuto dividerle in tre categorie per parlare direttamente con loro. Eppure è esattamente così che funziona il regime israeliano; non è né umanistico né universalistico e si basa sulla attribuzione di diritti e libertà diversi a persone diverse in base alla loro classificazione.

Traduciamo. L’enfasi di Netanyahu su “tutti i cittadini” era, a quanto pare, un raro tentativo di riconoscere non solo i cittadini ebrei, ma anche quelli palestinesi di Israele. Riferendosi a “tutti i residenti“, il primo ministro ha incluso oltre 300.000 non cittadini palestinesi che vivono nell’annessa Gerusalemme est. Il suo vago appello a “chiunque mi stia ascoltando ora” ha lasciato intendere che i soggetti palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza potrebbero essere entrati a forza nella coscienza del primo ministro.

Sono tutti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo: cittadini, residenti e soggetti. Tutto sommato, 14 milioni di persone che non condividono gli stessi diritti.

Normalmente Netanyahu non conta né i residenti né i soggetti. Omette allegramente circa cinque milioni di persone – tutte palestinesi – il cui ruolo nel sistema è obbedire ai diktat israeliani. Di solito cerca anche di trascurare i cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono oltre un quinto della cittadinanza del paese e che ha definito “sostenitori del terrorismo”. Ciò significa che il primo ministro conta abitualmente solo la metà delle persone che vivono sotto le regole del suo governo, tutti cittadini ebrei.

Eppure questi sono tempi insoliti. Il rischio per la salute costituito dal coronavirus non obbedisce ai decreti israeliani. In effetti, mina gli stessi pilastri del regime israeliano, perché non distingue tra diverse classi di persone. Un primo ministro con una visione del mondo particolaristica, etnocentrica e razzista si trova di fronte a una minaccia universale.

Netanyahu sicuramente comprende il pericolo che questo virus rappresenta. Si rende conto che dopo aver spostato centinaia di migliaia di cittadini ebrei in circa 250 insediamenti in Cisgiordania – dove vivono in mezzo a 3 milioni di soggetti palestinesi – questa lotta non può essere vinta senza un approccio universalistico. Se sceglie di non prendere in considerazione tutti i milioni di persone che condividono questa terra, il virus si diffonderà e sconfiggerà tutti.

Netanyahu deve anche sicuramente sapere che nella Striscia di Gaza bloccata, ci sono condizioni mature per un’orribile diffusione della pandemia. Israele ha dimostrato il suo potere di tagliare Gaza dal resto del mondo attraverso i suoi 13 anni di assedio. Ciò potrebbe aver allontanato Gaza dal mondo in difficoltà; ma all’interno di una delle strisce di terra più densamente popolate della terra, quanto realistico è il distanziamento sociale come mezzo per combattere una pandemia?

Nel nord Italia, un sistema sanitario occidentale è crollato e il bilancio delle vittime ha raggiunto il 10 percento di tutte le persone infette. A Gaza, il sistema sanitario era crollato molto prima del primo paziente COVID-19 a seguito della politica israeliana. Se metà della popolazione rinchiusa a Gaza fosse contagiata, un tasso di mortalità del 10% significherebbe la morte di 100.000 persone.

Ovviamente, la retorica razzista e la visione del mondo del primo ministro si estendono oltre i suoi discorsi. Anche adesso, Netanyahu continua a incitare contro i cittadini palestinesi di Israele e minare la legittimità della loro rappresentanza politica. Circa 140.000 residenti palestinesi che vivono in quartieri oltre la barriera di separazione a Gerusalemme si svegliano ogni giorno con la paura di essere tagliati fuori dalla loro città e dal sistema sanitario che dovrebbe prendersi cura di loro e delle loro famiglie.

Nel frattempo, i soldati israeliani continuano a opprimere i palestinesi in Cisgiordania, alcuni ora indossando equipaggiamento medico protettivo. Al checkpoint di Maccabim, gli agenti di polizia hanno lasciato un lavoratore palestinese che mostrava sospetti sintomi del coronavirus sul ciglio della strada. La violenza dei coloni aumenta, senza sosta.

Questo è ciò che Netanyahu avrebbe dovuto dire a chiunque stesse ascoltando il suo discorso: che “un virus che non distingue tra nessuno, felice o triste, ebreo o non ebreo” (come ha detto) è per definizione un pericolo universale. Che questo tipo di minaccia va fronteggiata da una politica universalista che “non distingue tra nessuno”. Che sradicherà la divisione tra cittadini, residenti e soggetti. Che tutti sono esseri umani che hanno bisogno di essere protetti. Che difendere tutti noi è sua responsabilità.
Netanyahu, ovviamente, non dirà nulla del genere. Non può dirlo perché è un razzista. Il razzismo corrompe sempre l’anima, ma molte volte il prezzo può essere pagato anche con vite umane. Questo è uno di quei momenti.

Hagai El-Ad è il direttore esecutivo di B’Tselem: il Centro informazioni israeliano per i diritti umani nei territori occupati.

traduzione Alessandra Mecozzi




Il blocco di Israele contro il coronavirus intralcia il lavoro per i diritti umani, ma non i soprusi

Judith Sudilovsky

31 marzo 2020 – +972

Le associazioni per i diritti umani segnalano che le direttive per l’emergenza di Israele stanno rendendo più difficile monitorare e proteggere i diritti dei palestinesi durante la pandemia

Alcune associazioni per i diritti umani palestinesi ed israeliane affermano che le direttive d’emergenza emanate dalle autorità israeliane, che con la scusa del coronavirus vietano la libertà di movimento e altre attività, stanno rendendo più difficile monitorare, documentare violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e difendere da esse in vari aspetti della vita.

Stiamo ancora monitorando casi, ma le nostre ricerche non sono in grado di essere presenti e documentare nel suo complesso l’area,” dice Rania Muhareb, ricercatrice giuridica e responsabile della sensibilizzazione presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. “È molto difficile dire se ci sono più o meno incidenti, per la semplice ragione che in questa situazione è più complicato avere tutte le informazioni con la rapidità di sempre.”

Le violazioni, spiega Muhareb, includono la continua confisca di terre e i progetti di costruzione di colonie israeliane e della barriera di separazione nella Cisgiordania occupata; la violenza contro i contadini palestinesi; incursioni e arresti in città e villaggi palestinesi; demolizioni di case.

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Queste violazioni evidenziano un tentativo diffuso e sistematico di compromettere i diritti dei palestinesi durante un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale,” afferma. Nonostante la grave crisi, “Israele continua ad avere il tempo di portare avanti queste azioni illegali.”

Muhareb evidenzia un incidente del 19 marzo nel villaggio di Sawahra Al-Sharqiya, a Gerusalemme est, in cui i bulldozer israeliani hanno distrutto una serie di edifici, compreso un recinto per le pecore, ma che non si può documentare a causa del divieto di muoversi.

Aggiunge che nella zona attorno a Nablus è continuata anche la violenza dei coloni. Il 17 marzo un gruppo di coloni ha attaccato una casa palestinese nel villaggio di Burin; secondo le persone che hanno seguito l’incidente, invece di bloccare i coloni i soldati israeliani hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni contro i palestinesi. Tre giorni dopo, il 20 marzo, a sud di Jenin i coloni hanno gravemente ferito il contadino Ali Musafa Zouabi.

Allo stesso modo l’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha riferito di violenti attacchi dei coloni che la scorsa settimana hanno ferito gravemente contadini e pastori palestinesi. I coloni sono arrivati da Halamish, Homesh (una ex-colonia che è stata demolita, ma in cui gli israeliani sono rimasti illegalmente), e Kochav Ha Shahar. Nessuno dei coloni è stato arrestato.

Muhareb afferma che i soldati delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] non hanno l’autorità di arrestare i cittadini israeliani in Cisgiordania. Al contrario, la scorsa settimana l’esercito ha arrestato parecchi palestinesi nella città vecchia di Jenin, a Qalqiliya e nei pressi di Nablus.

In un comunicato l’ufficio del portavoce delle IDF ha detto che le IDF “continuano l ‘attività operativa, che include l’interruzione di sospette attività terroristiche in base alle necessità operative e alle valutazioni aggiornate della situazione. Durante gli arresti i militari, così come i detenuti, sono protetti secondo le necessità operative.”

Non si può passare sopra diritti fondamentali”

In base alle nuove regole riguardanti la pandemia entrate in vigore il 15 marzo, questi prigionieri devono essere tenuti in quarantena per 14 giorni prima di poter essere interrogati. Il ministero israeliano della Sicurezza Pubblica ora può vietare le visite dei familiari per arrestati e detenuti e limitare i colloqui dei prigionieri con un avvocato solo a conversazioni telefoniche, afferma Sahar Francis, direttrice dell’ONG palestinese Addameer – Associazione per l’Appoggio e i Diritti Umani dei Detenuti.

L’esercito israeliano sta ancora arrestando persone pur sapendo che non le può interrogare, per cui le mette in isolamento per 14 giorni. È una violazione dei diritti fondamentali dei detenuti,” afferma.

Da due settimane o più hanno completamente chiuso tutte le prigioni e le strutture per la detenzione. (I prigionieri) non hanno contatti con i loro familiari e gli avvocati possono parlare con loro solo quando è prevista un’udienza in tribunale sul loro caso. Ci sono 5.000 prigionieri totalmente isolati dal mondo esterno.”

La portavoce del servizio carcerario israeliano ha fatto notare che le nuove regole sono state applicate in tutte le prigioni israeliane, indipendentemente dalle ragioni per cui i prigionieri vi sono reclusi.

Mantenerli in salute, tenere lontano il coronavirus, ora questo è il nostro unico obiettivo,” afferma. “Si spera che in breve tempo, quando ciò sarà finito, le cose torneranno come prima. Mantenerli in salute è nel nostro interesse più di qualunque altra cosa.”

La portavoce sostiene che le prigioni hanno fornito informazioni a tutti i detenuti in varie lingue, compreso l’arabo, ed hanno disinfettato le loro strutture. Stanno anche seguendo le direttive del ministero della Sanità di incrementare i turni di lavoro del personale carcerario fino a 96 ore, in modo che possano ridurre gli spostamenti dentro e fuori le prigioni.

Finora non abbiamo alcun prigioniero con il coronavirus, e speriamo che così continui ad essere fino alla fine della crisi,” afferma. “Non sappiamo se sia possibile, ma stiamo facendo del nostro meglio.”

Eppure, dice Francis di Addameer, ci sono preoccupazioni per la salute dei prigionieri palestinesi a causa delle loro condizioni di sovraffollamento. I prigionieri hanno anche raccontato che non gli è stato fornito alcun materiale sanitario speciale e che non è stata presa nessun’altra precauzione da parte delle autorità carcerarie.

Il 26 marzo Addameer, insieme ad Adalah – il Centro Giuridico per i Diritti delle Minoranze in Israele – e l’avvocato Abeer Baker hanno chiesto a nome del detenuto Kafri Mansour alla Corte Suprema israeliana di annullare le direttive d’emergenza nelle prigioni.

Pur riconoscendo la necessità di proteggere la salute dei reclusi, il ricorso sostiene che il governo israeliano non ha l’autorità giuridica di imporre il divieto alle visite di avvocati e familiari, che “violano in modo pesante e sproporzionato i diritti dei prigionieri”, in particolare dei minorenni. I ricorrenti accusano anche il fatto che le restrizioni impediscono anche ai prigionieri di riferire di qualunque violazione dei diritti nella prigione.

Il ricorso descrive anche come una conversazione tra l’avvocato Abeer Baker e un prigioniero sia stata trasmessa da altoparlanti in presenza delle guardie della prigione e di altri detenuti, violando la riservatezza tra avvocato e cliente.

Le sfide che questo stato d’emergenza pone alle autorità israeliane non possono consentire loro di passare sopra fondamentali diritti umani,” afferma l’avvocato di Adalah Aiah Haj Odeh. “Le leggi internazionali impongono che Israele debba riconoscere il diritto dei prigionieri e dei detenuti alle visite con i familiari, a consultarsi con gli avvocati e a rivolgersi ai tribunali.”

Arrestano come al solito i minorenni, come se non ci fosse il virus”

Nel contempo nel villaggio di Issawiya, a Gerusalemme est, gli abitanti affermano di aver sperato che l’attenzione sulla pandemia riducesse le incursioni e i pattugliamenti della polizia israeliana messi in atto in modo aggressivo nei loro quartieri dalla scorsa estate.

Invece, sostengono, tali azioni sono continuate. Blocchi stradali della polizia stanno ancora provocando lunghi ingorghi del traffico; scontri con i giovani comportano l’uso di lacrimogeni, granate assordanti e proiettili ricoperti di gomma, e vengono effettuati arresti nella totale inosservanza delle norme del governo sul coronavirus, mettendo in pericolo gli abitanti palestinesi.

Pensavamo che il coronavirus avrebbe contribuito a fermare le cose, ma non è cambiato niente,” dice Muhammad Abu Hummus, un attivista politico di Issawiya. “Al solito, arrestano minorenni come se non ci fosse nessun virus. Ogni giorno (la polizia) va in giro senza mascherine e senza guanti. Altrove forse aiutano la gente, ma a Issawiya portano solo lacrimogeni e balagan (disordine o confusione).”

Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld sostiene che la presenza della polizia nel villaggio fa parte del normale pattugliamento in tutti i quartieri di Gerusalemme intrapreso specificamente nel contesto dell’epidemia di coronavirus, inteso a garantire che gli abitanti rimangano in casa.

Non vengono effettuate incursioni, solo normali attività di polizia,” dice. “Se gli abitanti vogliono protestare e fare ritorsioni contro la polizia israeliana è un loro problema. La polizia sta pattugliando tutti i quartieri e mettendo in atto le nuove norme per tenere per quanto possibile le persone al sicuro in casa, per il loro stesso bene e la loro salute.”

Tuttavia in un rapporto del 19 marzo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha chiesto perché la polizia abbia scelto questo momento per incrementare quella che descrive come una punizione collettiva degli abitanti del villaggio, nonostante “una crisi senza precedenti che richiede…misure estreme di isolamento sociale.”

La presenza della polizia nel villaggio provoca scontri, dice B’Tselem, che sono già abbastanza problematici durante periodi normali, ma ancor più durante la pandemia, quando riunirsi in gruppo può diffondere il virus.

La violenza della polizia contro i palestinesi a (Issawiya), ormai una caratteristica nella vita del quartiere, è illegale e non può essere giustificata neppure come usuale routine dell’occupazione,” dice B’Tselem nel suo rapporto. “La condotta della polizia danneggia la sicurezza pubblica (compresa la salute dei poliziotti) e viola le linee guida sanitarie sull’isolamento sociale.”

B’Tselem aggiunge: “Il fatto che le autorità israeliane siano indifferenti alla vita degli abitanti (di Issawiya), compresi bambini ed adolescenti, non è affatto una novità. Eppure continuare e persino accentuare simile comportamento durante una pandemia è una manifestazione particolarmente vergognosa di questa politica.”

Un altro attivista del villaggio, che ha chiesto di rimanere anonimo per la sua sicurezza personale, ha detto a +972 di aver dovuto portare urgentemente la scorsa settimana sua figlia di sette mesi all’ambulatorio medico del villaggio dopo che la polizia durante uno scontro con giovani palestinesi ha utilizzato lacrimogeni che sono penetrati in casa sua.

La situazione è terribile,” afferma. “Ovviamente ho paura. Perché mettermi in una situazione per cui devo portare mia figlia all’ambulatorio in tempi di coronavirus?”

Judith Sudilovsky è una giornalista indipendente che da 25 anni si occupa di Israele e dei Territori Palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)