I coloni di Hebron partecipano al corteo di Purim mentre i palestinesi sono blindati per il coronavirus

Oren Ziv

10 marzo 2020 +972 Magazine

Ignorando la paura per il virus, i soldati e i poliziotti israeliani hanno accompagnato 250 coloni nel centro di Hebron pur impedendo agli spettatori palestinesi di avvicinarsi.

Con lo spettro della diffusione del coronavirus in Israele-Palestina, oltre 250 coloni israeliani hanno preso parte martedì all’annuale sfilata per la celebrazione della festa ebraica del Purim [“sorti” in ebraico. La festa commemora una vicenda biblica che sarebbe accaduta circa 2500 anni fa, ndtr.] nel centro di Hebron occupata.

I coloni, che hanno marciato dal quartiere di Tel Rumeida sino alla Tomba dei Patriarchi [luogo di devozione anche per i musulmani che lo chiamano Santuario di Abramo, ndtr.], sono stati accompagnati da centinaia di soldati e ufficiali di polizia israeliani che hanno impedito agli spettatori palestinesi di avvicinarsi.

I coloni si sono fatti vanto del fatto che la loro fosse l’unica festa del Purim autorizzata, dal momento che nelle città di tutto il paese erano stati cancellati i festeggiamenti a causa dei timori per il virus; tuttavia la partecipazione è stata più scarsa rispetto agli anni precedenti.

Nel frattempo, a soli 22 chilometri a nord, l’esercito israeliano ha posto il blocco a Betlemme dopo che sette casi di COVID-19 erano stati riscontrati in città, impedendo ai residenti di entrare o uscire dalla città.

La sfilata di martedì è iniziata presso la “Elor Junction”, dove nel marzo 2016 il soldato israeliano Elor Azaria uccise un assalitore palestinese già ferito mentre questi giaceva inerte sul terreno. Imad Abu Shamsiya, un palestinese di Hebron, si trovava a pochi metri di distanza e riprese l’incidente. La sua documentazione ha portato a un’indagine e a un successivo processo nei confronti di Azaria.

Poco prima delle 11, un gruppo di giovani coloni apparentemente ubriachi ha bussato alla porta di una famiglia palestinese che vive vicino alla famiglia di Abu Shamsiya. Quando un soldato israeliano ha cercato di allontanarli, uno dei coloni ha risposto dicendo: “Godiamoci un po’ il ‘Purim”. Quando il colono ha visto Abu Shamsiya nella casa adiacente, ha detto al suo amico che avevano sbagliato indirizzo.

“Spero solo che l’evento si concluda pacificamente”, ha detto Abu Shamsiya a bassa voce.

Dal 1967, il centro di Hebron è diventato il sito di numerosi insediamenti coloniali ebraici che Israele ha sviluppato all’interno della comunità locale palestinese. Per anni, i palestinesi che vivono nella zona sono stati sottoposti sia a restrizioni estreme imposte dai militari che a violenze di routine da parte di coloni estremisti. Di conseguenza, un numero enorme di residenti si è trasferito e centinaia di aziende sono state chiuse, lasciando la zona in [una condizione di] rovina economica.

Attualmente, circa 34.000 palestinesi e 700 coloni vivono nel centro della città. I palestinesi che risiedono lì sono soggetti a restrizioni negli spostamenti, inclusa la chiusura delle strade principali, mentre i coloni sono liberi di viaggiare dove desiderano. Inoltre, l’esercito israeliano ha emesso l’ordine di chiudere centinaia di negozi e attività commerciali della zona.

“Sebbene abbiamo avuto turisti di ogni provenienza, a Hebron il coronavirus non è arrivato”, ha detto Baruch Marzel, un importante attivista di estrema destra e residente della città, il quale indossava, durante la sfilata, un cappello con la scritta: “Make Hebron Great Again”. “Hebron è per gli ebrei una città forte e santa, dove i nostri antenati ci proteggono, mentre a Betlemme – ha aggiunto Marzel – che è sacra alla cristianità, il virus sta andando alla grande. 

I partecipanti al corteo, molti dei quali adolescenti con in mano bottiglie di vino, passavano davanti a negozi palestinesi, chiusi 25 anni fa in seguito al massacro della Grotta dei Patriarchi, dove, nel febbraio 1994, il colono Baruch Goldstein uccise 29 fedeli palestinesi. In risposta alle uccisioni, l’esercito israeliano iniziò a limitare il movimento dei residenti palestinesi di Hebron e ad applicare una politica di rigorosa segregazione tra loro e i coloni.

Vent’anni dopo le restrizioni sono diventate ancora più severe. La Shuhada Street di Hebron, dove ha avuto in gran parte luogo la marcia di martedì, riguarda la più nota di queste restrizioni. Un tempo affollato centro commerciale, molte porte di negozi sono state ora saldate per ordine militare, conferendo alla zona l’aspetto di una città fantasma. Oggi [sulla facciata di] molti dei negozi chiusi è stata verniciata la stella di David.

Nel corso del Purim le restrizioni in vigore nei confronti dei palestinesi diventano ancora più estreme. Ai palestinesi che vivono lungo il percorso della marcia non è nemmeno permesso di aprire le porte delle loro case, mentre alcuni osservano la marcia attraverso le protezioni di metallo installate sui loro balconi per ripararli dalle pietre lanciate dai coloni.

È anche possibile vedere i soldati israeliani ballare con i coloni e i pochi posti di controllo improvvisati, attraverso i quali i palestinesi possono entrare in Shuhada Street con un permesso speciale, vengono chiusi. La musica ad alto volume, i balli e i costumi colorati spiccano ancora di più sullo sfondo della città fantasma, le porte dei negozi coperte di graffiti ebraici.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills e scrittore dello staff di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sugli alloggi a prezzi accessibili e su altre questioni socio-economiche, le battaglie contro il razzismo e contro la discriminazione e la lotta per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Nel 2019 la censura delle IDF ha cancellato duemila notizie

Haggai Matar

March 9, 2020 – +972

Secondo dati ufficiali, la censura militare israeliana ha vietato del tutto la pubblicazione di oltre 200 articoli e ne ha parzialmente censurati altri 2.000.

Il 2019 è stato un anno di relativa calma per la censura delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.]. Secondo i dati ufficiali forniti lo scorso mese a +972 Magazine, Local Call [edizione di +972 in ebraico, ndtr.] e al Movimento per la Libertà di Informazione in seguito a una richiesta in base alla legge sulla libertà di informazione, il censore ha vietato del tutto la pubblicazione di 202 articoli sui mezzi di comunicazione e ne ha in parte censurati altri 1.973.

Rispetto ai dati che avevamo raccolto dal 2011, lo scorso anno ha visto il minor numero di censure dirette di mezzi di informazione dell’ultimo decennio.

In Israele a tutti i mezzi di comunicazione viene richiesto di sottoporre articoli relativi alla sicurezza ed alla politica estera alla censura delle IDF per un controllo prima della pubblicazione. Il censore ricava la sua autorità dalle “regole d’emergenza” emanate dopo la fondazione di Israele e che sono rimaste in vigore fino ad oggi.

Queste norme consentono al censore di cancellare totalmente o parzialmente un articolo, impedendo al contempo ai mezzi di comunicazione di indicare in qualche modo se un articolo è stato modificato. Tuttavia, mentre i criteri giuridici che definiscono la competenza della censura delle IDF sono sia stringenti che piuttosto ampi, la decisione di quali articoli sottomettere al controllo dipende dalla discrezionalità dei direttori dei mezzi di comunicazione.

La riduzione dell’intervento della censura militare nel 2019 è ancora più evidente se confrontata al 2018, l’anno di punta degli interventi censori. Quell’anno ha visto 363 notizie di cui è stata vietata la pubblicazione (circa una al giorno), mentre altre 2.712 sono state parzialmente censurate.

La contrazione dell’ampiezza della censura è stata anche accompagnata da un calo del numero di materiale presentato al censore dai mezzi di comunicazione. Nel 2019 le pubblicazioni hanno sottoposto 8.127 notizie al controllo della censura – circa il 25% in meno dell’anno precedente – che di per sé è stato un numero relativamente basso.

Eppure, persino in un anno “fiacco”, ciò significa che ci sono oltre 200 articoli che i giornalisti hanno considerato degni di nota ma che non hanno potuto rendere pubblici e più di 2.000 articoli che hanno subito un certo tipo di interferenza esterna.

Si tratta ancora di un grande numero, considerando che nessun altro Paese al mondo che si definisca una democrazia impone un simile obbligo ai giornalisti di ricevere l’approvazione ufficiale del governo prima della pubblicazione. Dal 2011 2.863 articoli sono stati eliminati dalla censura e 21.683 sono stati censurati.

Ovviamente la censura militare non condivide informazioni sulla natura delle notizie che nasconde all’opinione pubblica né stila un rapporto mensile di queste attività. Ciò rende ancora più difficile capire perché quest’anno ci sia un simile calo degli interventi censori.

Nel nostro rapporto sul 2018 abbiamo ipotizzato che il picco della censura potesse essere in rapporto con gli attacchi aerei israeliani in Siria e in Libano. Nel 2019 tuttavia i politici israeliani, soprattutto nel periodo delle elezioni di aprile e di settembre, si sono vantati di aver intrapreso tali azioni militari. Questo aspetto pubblico potrebbe fornire una sorta di spiegazione.

I dati che abbiamo visto un anno dopo l’altro indicano un fenomeno complesso e problematico,” afferma Or Sadan, un giurista del Movimento per la Libertà di Informazione, che guida anche il “Centro per la Libertà d’informazione” alla Scuola di gestione in Israele. “Il censore militare impedisce letteralmente al pubblico di avere a disposizione molte informazioni che i mezzi di comunicazione avevano ritenuto valesse la pena raccontare. La stampa libera è uno strumento con cui il pubblico viene a conoscenza degli sviluppi nel Paese, anche su argomenti legati alla sicurezza.”

A dispetto degli aspetti sensibili per la sicurezza,” continua Sadan, “gli organi competenti devono ridurre al minimo possibile i casi in cui l’informazione è oscurata dalla censura e solo in casi estremi, quando c’è un reale timore per la sicurezza nazionale. Continueremo a monitorare questi dati per capirne gli sviluppi nel corso degli anni.”

Un altro aspetto del lavoro del censore sono i suoi interventi negli archivi nazionali israeliani. Da quando gli archivi sono stati messi totalmente in rete e non hanno più una biblioteca fisica aperta al pubblico, il censore militare ha controllato tutto il materiale declassificato, che l’ha a volte portato a nascondere documenti che erano già stati resi pubblici.

Quando nel 2016 è iniziata la digitalizzazione degli archivi, le autorità archivistiche hanno sottoposto al controllo del censore circa 7.800 documenti. A differenza degli articoli, il censore si è rifiutato di informarci su quanto materiale d’archivio sia stato censurato, rispondendo solo che “la grande maggioranza dei documenti è stata approvata per la pubblicazione senza modifiche.”

La crescente mancanza di trasparenza della censura militare è di per sé una causa di preoccupazione. Il censore è totalmente esente dalla legge israeliana sulla libertà d’informazione, e, benché negli ultimi anni si sia offerto volontariamente di rispondere alle domande di +972, le sue risposte nel corso dell’anno si stanno riducendo.

Nelle prime reazioni alle nostre richieste, nel 2016, il censore ha reso pubblico il numero dei documenti di archivio che sono stati censurati e il numero di casi in cui il censore ha chiesto che i mezzi di comunicazione eliminassero informazioni pubblicate senza la precedente approvazione (una media di 250 casi all’anno). Nonostante ripetuti tentativi, negli ultimi anni questi dati non ci sono stati forniti.

Nell’ultima risposta del censore, datata febbraio 2020, non abbiamo neppure ricevuto informazioni sul numero di libri censurati dal censore, un numero che in precedenza era arrivato a varie decine all’anno.

La direttrice della censura militare, generalessa di brigata Ariella Ben-Avraham, nelle prossime settimane darà le dimissioni dal suo incarico, prima del previsto. Secondo varie notizie dei media, andrà a far parte del gruppo israeliano “NSO”, un’impresa informatica che produce materiale spionistico ed è stata associata ai tentativi di molte dittature di spiare giornalisti e difensori dei diritti umani.

Durante il suo primo anno come dirigente della censura, Ben-Avraham ha esteso la sua giurisdizione dai principali mezzi d’informazione alle reti sociali e agli organi d’informazione indipendenti, compreso +972Magazine, chiedendo che sottoponessero alla censura articoli per l’approvazione. Ben-Avraham ha anche deciso di smettere di rispondere alle nostre domande sul numero di volte in cui il censore ha attivamente eliminato articoli che erano già stati pubblicati.

Haggai Matar è un pluripremiato giornalista israeliano e un attivista politico, oltre ad essere direttore esecutivo di “+972 – Promozione del giornalismo dei cittadini”, l’associazione no-profit che pubblica +972 Magazine.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La destra israeliana non ha idea di come fare di fronte all’impennata della Lista Unita

 Meron Rapoport,

4 marzo 2020 – 972mag.com

Lo straordinario risultato elettorale della Lista Unita ha mostrato il crescente potere dei cittadini palestinesi. Potrebbe produrre nuovi orizzonti politici – ma anche rischi

Mercoledì sera è venuta chiaramente alla luce l’incapacità della destra israeliana di affrontare il crescente potere politico della Lista Unita. Se il primo ministro Benjamin Netanyahu si è lasciato andare a un calcolo razzista delegittimando l’oltre mezzo milione di persone che hanno votato lunedì per la Lista Unita – affermando di aver vinto tra gli elettori sionisti perché “gli arabi non fanno parte dell’equazione” – il parlamentare del Likud Miki Zohar è apparso in televisione e ha ipotizzato che il suo partito raggiunga la maggioranza di 61 seggi avvicinandosi agli elettori palestinesi, salvando così la destra.

Si può facilmente ironizzare su questa affermazione; i membri del Likud non hanno la più pallida idea di come avvicinare il pubblico palestinese, tanto meno su come mettere a punto una strategia e un’infrastruttura organizzativa per farlo. Ma è comunque interessante: se Netanyahu non conta i voti palestinesi – mercoledì, in una riunione dei leader dei partiti di destra, ha contato i voti della “destra sionista” e della “sinistra sionista”, ignorando il risultato della Lista Unita alle elezioni – Zohar sì. E addirittura conta su di loro per aprire la strada a un governo di destra.

La stessa ambiguità caratterizza l’attuale perseguimento di una legge che impedisca a chi sia stato incriminato di formare un governo. Il processo è guidato dai parlamentari Ofer Shelah di Blu e Bianco e Ahmed Tibi della Lista Unita – nonostante Blu e Bianco abbia appena promesso ai suoi elettori che avrebbe partecipato solo ad un governo di “maggioranza ebraica”, tentando di escludere la Lista da qualsiasi coalizione.

Non è la prima volta che partiti o politici palestinesi sono coinvolti nella promozione dell’attività legislativa del parlamento, ma ora si tratta di qualcosa di più di una semplice legge. Piuttosto, il prossimo governo potrebbe cambiare le regole della politica in Israele-Palestina, e porre fine alla carriera politica di Netanyahu.

Che la Lista Unita, avendo ricevuto un enorme voto di fiducia da parte del pubblico palestinese, possa essere un architetto centrale in questa legislazione è un fatto senza precedenti. Sì, i loro rappresentanti sono entrati alla Knesset come esito degli Accordi di Oslo, ma non erano stati coinvolti nell’elaborazione dell’accordo, hanno potuto solo accettarlo. Ora, invece, sono tra i decisori.

Questo sviluppo, ovviamente, è dovuto all’aritmetica politica. Questa volta la Lista Unita ha ottenuto due seggi in più rispetto alle elezioni di settembre 2019, decisivi per dare in parlamento la maggioranza al “campo anti-Bibi”. Senza di loro, a Netanyahu sarebbe assicurata la guida del governo mentre Blu e Bianco rimarrebbe bloccato all’opposizione.

La reazione di Blu e Bianco al risultato elettorale è stata di inviare un emissario, Ofer Shelah, per cercare di concludere un accordo con la Lista Unita. Nel frattempo, Avigdor Liberman, capo di Yisrael Beitenu [partito di destra ultranazionalista, ndtr.], ha annunciato giovedì il suo sostegno alla proposta di legge e, secondo fonti di partito, starebbe per annunciare il suo sostegno a Benny Gantz, capo di Blu e Bianco, nella formazione di un governo. Netanyahu, da parte sua, sta tentando di cancellare del tutto i voti della Lista Unita, mentre Miki Zohar accarezza la fantasia di impadronirsene a favore del Likud.

Gli eventi degli ultimi giorni non riguardano solo la politica. Rivelano un problema di fondo della società israeliana e dello Stato di Israele sin dalla sua fondazione: i cittadini palestinesi fanno parte della comunità politica israeliana – del suo “demos” – o il sistema politico israeliano è composto solo da un gruppo nazionale, gli ebrei? Israele è davvero un’etnocrazia, un regime etnicamente ebreo, dove i palestinesi sono semplicemente un bagaglio in eccesso che non ha posto nella politica del paese?

Molto è stato scritto su queste questioni, ma un aspetto è difficile da contestare: ad eccezione del governo Yitzhak Rabin nel 1992, i partiti palestinesi non hanno mai fatto parte della coalizione di governo. La forza del rifiuto a una presenza palestinese nel governo è illustrata da come Blu e Bianco si sia sentito in dovere di dichiarare che non si sarebbe mai appoggiato alla Lista Unita, in risposta al conciso e preciso slogan di Netanyahu che Gantz non sarebbe stato in grado di formare un governo senza Ahmad Tibi.

Anche la reazione agli exit poll di lunedì [i risultati definitivi si sono avuti giovedì dopo il voto dell’esercito, ndtr.] ha evocato questo sentimento. I portavoce di destra hanno immediatamente dichiarato che “il popolo aveva parlato”. Intendevano ovviamente gli elettori ebrei; i cittadini palestinesi non fanno parte del “popolo”.

Quando è stato chiaro ai partiti di destra che non avevano la maggioranza e che né Blu e Bianco né Lieberman avevano alcuna intenzione di garantirgliene una, quella rivendicazione si è solo rafforzata. Nella riunione di mercoledì Aryeh Deri, capo di Shas [partito degli ebrei orientali ultraortodossi, ndtr.], ha dichiarato che “il popolo ha chiaramente deciso” a favore della destra; Naftali Bennett, capo di Yamina [alleanza politica di partiti israeliani di destra e di estrema destra, ndtr.], ha aggiunto che “Blu e Bianco sta cercando di soffiare al popolo israeliano la vittoria del campo nazionale”. Il confronto che hanno in mente è chiaro: da un lato, il popolo di Israele; dall’altro, tutti gli altri, compresi Blu e Bianco e i palestinesi.

Ma il notevole risultato della Lista Unita in queste elezioni crea dei problemi a Blu e Bianco, sia che li si consideri un Likud 2.0, o un miscuglio di posizioni diverse nei confronti della popolazione palestinese. Il numero di palestinesi che si sono espressi renderà difficile per Blu e Bianco non considerarli parte del “popolo”. Ed è probabile che gli attacchi della destra costringeranno Blu e Bianco a guardare le cose in modo diverso: Ofer Shelah ha comunicato giovedì che la sua apertura a Tibi dimostra come ci sia “una maggioranza nella nuova Knesset a favore dello Stato di Israele, e contro lo Stato di Netanyahu. ” La Lista Unita, in questa visione, fa parte dello “Stato di Israele” – e quindi del “popolo”.

È troppo presto per dire se sia un modo per i cittadini palestinesi di entrare a far parte del “demos”. Ma accanto a Shelah, che a settembre ha rifiutato di avere un governo di minoranza supportato dalla Lista Unita, ci sono numerosi membri di Blu e Bianco, come Yoaz Hendel e Zvi Hauser, che rifuggono solo all’idea che il “popolo” includa i palestinesi. Non se ne parla proprio, per quel che riguarda Lieberman. E quanto alla Lista Unita, non vi è poi alcun accordo sul fatto che i palestinesi debbano far parte del “demos” israeliano e a quali condizioni. Anche a destra non è stata presa alcuna decisione sul come affrontare la sfida.

Tale elaborazione potrebbe essere un processo pericoloso. Tibi sa che il suo grande progetto politico, una volta aiutati Blu e Bianco e Lieberman a sbarazzarsi di Netanyahu, potrebbe benissimo finire con loro che formano un governo con il Likud lasciando di nuovo i palestinesi fuori al freddo. Questo sarebbe un risultato meno negativo – potrebbero addirittura presentare la Lista Unita come presenza illegittima e sovversiva contro “la maggioranza ebraica”. Se la destra prosegue nella sua linea secondo cui “gli arabi e la sinistra hanno rubato la vittoria al popolo di Israele”, questo capitolo potrebbe anche finire in modo violento. Rabin, tanto per non dimenticare, è stato assassinato, più che a causa degli accordi di Oslo, soprattutto perché ha portato al governo parlamentari palestinesi.

Tuttavia, adesso la situazione è diversa. La nuova influenza politica della popolazione palestinese, espressa con il successo della Lista Unita, sta iniziando a cambiare le regole del gioco, forse più velocemente di quanto possiamo immaginare. Se la legge che dovrebbe abbattere un governo di Netanyahu passerà con i voti di Blu e Bianco e Lieberman da un lato, e l’alleanza laburista-Gesher-Meretz [partiti israeliani di centro-sinistra, ndtr.] con la Lista Unita dall’altro, questo potrebbe essere il primo passo verso un nuovo orizzonte politico.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Sì, i mizrahi appoggiano la destra. Ma non per le ragioni che pensate.

Tom Mehager

27 febbraio 2020 – +972

Sostenendo i partiti di destra, i mizrahi hanno trovato soluzioni alle difficoltà che sono derivate da decenni di ashkenaziti.

Ogni elezioni politica israeliana è accompagnata dal solito dibattito pubblico sulle comunità mizrahi [lett.: orientali, ndtr.] e sul loro presunto appoggio alla destra, e più precisamente al partito di governo Likud. In Israele a sinistra molti ipotizzano regolarmente le ragioni per cui così tanti mizrahi – ebrei originari di Paesi arabi o musulmani – votano per partiti di destra, ma spesso finiscono per mancare completamente il bersaglio oppure per riciclare stereotipi razzisti.

Quindi, come possiamo capire questa scelta? Il principale contesto del problema è il conflitto israelo-palestinese. Non pretendo di fornire una risposta esaustiva e completa alla questione, ma darò invece esempi che dimostrano come le pluridecennali politiche di Israele di discriminazione e marginalizzazione dell’opinione pubblica mizrahi da parte dell’establishment ashkenazita [lett. tedeschi, ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] abbia determinato il fatto che molti abbiano trovato nel campo nazionalista una risposta alle difficoltà economiche.

Se comprendiamo la storia della lotta dei mizrahi – e la sua repressione da parte del campo più strettamente legato oggi al movimento pacifista israeliano – da una prospettiva politica ed economica, comprenderemo meglio come i mizrahi si siano trovati in un campo molto spesso associato alla destra nazionalista. Cosa ancora più importante, una simile analisi ci consente di comprendere precisamente perché la destra abbia dato una risposta alle ristrettezze economiche dei mizrahi derivate dalla supremazia degli ashkenaziti nel contesto politico ed economico israeliano.

Terra, casa e insediamenti

In Israele la storica lotta del movimento sionista sulla terra ha posto fin dai suoi inizi le fondamenta della gerarchia basata sull’etnia e sulla classe. La guerra del 1948 è stata il culmine di questa lotta. Dopo l’espulsione e la fuga dei palestinesi – e il fatto di averne impedito il ritorno – il governo di Israele e le sue istituzioni sioniste si impossessarono delle notevoli risorse che erano state lasciate dietro di loro dai rifugiati. Alla fine della guerra solo il 13,5% della terra del Paese era di proprietà dello Stato, ma, grazie ad una rapida campagna di espropri, le istituzioni israeliane presero il controllo della maggior parte delle terre. L’effetto immediato di questa politica fu, ovviamente, la spoliazione del popolo palestinese dei propri averi e della propria patria.

La distribuzione delle terre palestinesi tra gli ebrei israeliani rifletteva una gerarchia su linee etniche tra “veterani” ashkenaziti e immigrati mizrahi appena arrivati, che giunsero in Israele dopo la guerra. È proprio in questo modo che le differenze di classe vennero inserite all’interno della costruzione della società israeliana: un’élite ashkenazita privilegiata nell’accesso alla casa ed alla terra opposta a una popolazione mizrahi deprivata. La maggior parte delle comunità arrivate dal Nord Africa, in particolare dal Marocco, vennero insediate fuori dai centri urbani del Paese, dove Israele indediò la maggior parte degli immigrati ashkenaziti.

Verbali degli incontri del ministero degli Interni e dell’Agenzia Ebraica dell’epoca rivelano il modo in cui i funzionari del governo vedevano i mizrahi. I nordafricani, dicevano i dirigenti, potrebbero essere mandati nelle regioni di frontiera, mentre agli immigrati polacchi – tra cui, affermavano, c’erano dei professionisti – dovevano essere ospitati nelle zone centrali del Paese, lungo la costa. Raramente il governo diede riserve di terreni alle misere città di sviluppo, che vennero costruite in regioni remote del Paese per gli immigrati nordafricani, spesso su terre palestinesi, così come alle comunità arabe rimaste dopo il 1948. I consigli regionali, tuttavia erano le sedi degli abitanti dei kibbutz [comunità agricole sioniste collettivizzate, ndtr.], dei moshav [comunità sioniste di tipo cooperativo, ndtr.] e di altre forme di insediamento associate con l’élite ashkenazita che aveva fondato il Paese.

Inoltre la distinzione tra zone in cui la proprietà della terra degli ebrei nei territori palestinesi venne “formalizzata” in città come Gerusalemme e Tel Aviv e luoghi in cui gli abitanti erano definiti “invasori” corrispondeva allo stesso modo con la distinzione tra ashkenaziti e mizrahi. Mentre gli abitanti dei kibbutz, in cui la maggior parte discendeva da ashkenaziti, facevano ricorso a commissioni di ammissione per garantire la separazione abitativa, i mizrahi delle classi basse vennero relegati in case popolari fatiscenti.

Dagli anni ’50 la lotta dei mizrahi mise al centro dell’attenzione il razzismo istituzionalizzato del Mapai, il partito dominante e precursore dell’attuale partito Laburista, chiedendo una soluzione immediata alla difficile situazione dei mizrahi in Israele. Un documento pubblicato dall’“Unione dei Nordafricani” – che guidò la rivolta da parte degli abitanti mizrahi del quartiere di Wadi Salib ad Haifa nel 1959 contro le condizioni abitative degradate che erano obbligati a sopportare – chiedeva, tra le varie cose, al governo di fornire “abitazioni umane per ogni famiglia, l’immediata abolizione di ogni Ma’abarot (campi di transito gestiti dal governo per i nuovi immigrati), l’eliminazione delle baraccopoli e case per i celibi. Chiedevano anche al governo di fornire un’istruzione adeguata a tutti, la fine di ogni discriminazione, della segregazione etnica in materia religiosa, del governo militare che controllava le vite dei cittadini palestinesi di Israele, la garanzia della libertà di parola ed altre rivendicazioni.

Più di un decennio dopo le Pantere Nere [gruppo politico mizrahi che lottava contro le discriminazioni, anche a danno dei palestinesi, e si richiamava all’omonimo gruppo afro-americano, ndtr.] israeliane, che nacquero nel 1971 nel quartiere di Musrara a Gerusalemme, parlavano di “baraccopoli” per descrivere la crisi abitativa che colpiva i mizrahi di Israele. Chiesero al governo di smantellare i “ghetti per neri” in città. Attivisti del quartiere Yemin Moshe di Gerusalemme si lamentarono che gli abitanti mizrahi dichiarati “intrusi” venissero cacciati dalle loro case e sostituiti da ricchi ashkenaziti. In questo modo i militanti mizrahi definirono attivamente le proprie politiche con concetti di sinistra, per l’uguaglianza e i diritti umani.

È per questo che il rapporto tra l’arrivo al potere del Likud nel 1977 e la resistenza dei mizrahi ai privilegi materiali degli ashkenaziti – che segnarono i primi 30 anni dello Stato – sono in genere, e in modo restrittivo, visti attraverso il prisma del risentimento storico nei confronti del Mapai. Si deve considerare il risentimento di larghe frange dei mizrahi nei confronti della sinistra israeliana in questo contesto di decenni di razzismo istituzionalizzato, il rapimento di bambini [figli di mizrahi, soprattutto yemeniti, vennero tolti ai genitori, sostenendo che erano morti, e affidati a famiglie facoltose, israeliane o statunitensi, ndtr.] e l’irrorazione dei nuovi immigrati mizrahi con il pesticida DDT [che risultò in seguito essere cancerogeno, ndtr.].

Benché questi aspetti siano importanti, non raccontano tutta la storia. È fondamentale ricordare che il Likud rafforzò la posizione socio-economica dei mizrahi. Lo storico israeliano Danny Gutwein sostiene che un numero relativamente ampio di mizrahi che votano per la destra è il prodotto, tra le altre cose, del modo in cui l’impresa di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme ha compensato gli israeliani dello smantellamento dello Stato sociale negli anni ’80. In questo modo, secondo Gutwein, le politiche del Likud oltre la Linea Verde [che prima dell’occupazione separava Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] contribuì a migliorare la posizione di classe dei mizrahi.

È vero che le case popolari nelle colonie fornirono ai mizrahi una soluzione per i loro problemi economici. Eppure, nonostante le affermazioni di Gutwein, la costituzione delle colonie con agevolazioni statali non è stato il risultato dell’incapacità di uno stato sociale israeliano che non esiste più, dato che in primo luogo in Israele uno stato sociale equo non è mai esistito. La forza principale che ha spinto alla costruzione di insediamenti sociali oltre la Linea Verde è la differenza socioeconomica tra gli ashkenaziti e i mizrahi, il prodotto di un regime di privilegi per i primi messo in atto prima dell’occupazione del 1967 e che diede vita a quella che noi chiamiamo la rivolta mizrahi. La ricchezza della terra e delle risorse palestinesi venne distribuita in modo diseguale all’interno dei confini del ’48, dove gli ashkenaziti godettero di privilegi riguardo alla terra e alle condizioni abitative, però oltre la Linea Verde si può trovare una nuova ricchezza, sostenuta da finanziamenti pubblici e sussidi per le abitazioni che, per la prima volta, hanno beneficiato le famiglie mizrahi. È così che una significativa parte dei mizrahi israeliani è stata in grado di conquistarsi una posizione. 

Sia ashkenaziti che mizrahi hanno beneficiato della spoliazione dei palestinesi in fasi diverse dell’ebraizzazione della Palestina. Mentre le “conquiste” del 1948 beneficiarono solo gli ashkenaziti, i mizrahi trovarono la soluzione della crisi abitativa nelle colonie di edilizia sociale al di là della Linea Verde, a Gerusalemme e in Cisgiordania. Ognuno di questi gruppi ha i propri interessi politici ed economici specifici. Quindi non c’è da stupirsi che un gruppo come Peace Now, che è legato all’élite ashkenazita, vigili sulla costruzione di colonie al di là della Linea Verde, ma non parli mai del rapporto tra la spoliazione dei palestinesi nel 1948 e il conflitto israelo-palestinese.

Educazione e lavoro

Riguardo a educazione e lavoro, il regime di discriminazione e segregazione etnica di Israele ha spinto i mizrahi nelle braccia del sistema di sicurezza. Nel 1945 Eliezer Riger, uno dei più importanti sostenitori della formazione professionale, che in seguito diventerà ispettore generale del sistema educativo israeliano, si espresse a favore della necessità della segregazione tra mizrahi ed ashkenaziti nel sistema educativo: “Dopotutto la preminenza nell’(educazione) pre-professionalizzante potrebbe essere di grande vantaggio per la popolazione orientale…I bambini orientali, almeno gran parte di essi, non possono che apprezzare l’insegnamento semplificato e non ricavavano una reale utilità dall’istruzione teorica.” Zalman Aren, ministro dell’Educazione dell’epoca, sostenne un’opinione simile: “Ho una grande opinione delle scuole superiori di livello accademico, ma non ho alcun dubbio che nella situazione dello Stato a questo livello ci sia ancora una predilezione per le scuole professionali. Non vorrei che le città di sviluppo si attenessero a questo tipo di snobismo e mandino un ragazzino in una scuola superiore che lo danneggerebbe.”

Fino ai nostri giorni il sistema educativo utilizza una politica di monitoraggio degli studenti che indirizza molti adolescenti mizrahi nella formazione professionale, mentre molto spesso gli studenti ashkenaziti sono inviati nelle scuole superiori normali. Questa politica ha chiaramente un impatto molto maggiore sulle prospettive educative dei mizrahi, impedendo a molti di loro di continuare gli studi all’università.

Secondo un rapporto del Centro Adva, un gruppo di studio progressista israeliano che monitora le dinamiche socio-economiche, le due principali reti di scuole professionali, ORT e Amal, si trovano per lo più nella periferia geografica ed economica di Israele. Delle 159 scuole delle due reti, 113 (il 71%) si trovano in zone della fascia più bassa dello spettro socio-economico, comprese 35 scuole in zone arabe, 43 in città di sviluppo e 35 in altre località. Inoltre un nuovo studio di Yanon Cohen, Noah Levin Epstein ed Amit Lazarus sull’istruzione tra gli israeliani di terza generazione ha scoperto che le percentuali di diplomati o laureati sono di circa il 20% più alte tra gli ashkenaziti rispetto ai mizrahi.

Gli ostacoli educativi hanno spinto molti mizrahi della classe lavoratrice a cercare opportunità lavorative nell’esercito israeliano e in altre forze di sicurezza. La sociologa Orna Sasson-Levy spiega come il servizio militare, anche a livello più basso, possa fornire opportunità economiche ai mizrahi: “In quanto studenti negli istituti professionali, molti dei quali senza un diploma di scuola superiore, la maggior parte dei soldati in questa situazione non si vede continuare a studiare nelle scuole superiori, laddove la loro forza lavoro manuale e la professionalità che hanno acquisito nella scuola superiore potrebbero essere le principali risorse che hanno come garanzia dal punto di vista economico, e per questo è importante per loro sviluppare le risorse a loro disposizione dalla prima infanzia (…). I soldati che continuano a fare il militare per un certo numero di anni su base professionale lo spiegano anche principalmente con considerazioni di carattere economico. Valutano l’esercito in base a standard in genere riservati a un posto di lavoro, come l’opportunità di ricevere un addestramento professionale, vantaggi sociali, cure mediche e dentistiche ed altre.”

Il professor Yagil Levy mostra come l’esercito possa potenzialmente contribuire a migliorare la classe socio-economica di un individuo. Il suo libro “Israel’s Materialist Militarism” [Il militarismo materialista di Israele] analizza come l’esercito abbia aiutato a legittimare le richieste sociali dei mizrahi attraverso il servizio militare. Mentre gli ashkenaziti laici hanno iniziato a essere protagonisti di un processo di smilitarizzazione e cercano altre prospettive socio-economiche, Levy ha scoperto che gruppi della periferia israeliana hanno iniziato ad utilizzare l’esercito per soddisfare le proprie necessità sociali ed economiche.

Oltre a questi studi, l’alta percentuale di mizrahi che lavorano nella polizia o nel servizio penitenziario israeliano può essere spiegata con il fatto che, in assenza di un impiego redditizio – che richiede un’educazione superiore –, il lavoro nelle forze di sicurezza offre condizioni economiche stabili. Questo tipo di lavoro può servire come rifugio rispetto ad una crisi educativa e lavorativa, proprio come le case popolari nelle colonie vengono usate da molti come un rifugio dalla crisi abitativa all’interno di Israele. Sia nell’ambito abitativo che educativo/occupazionale, i processi possono essere spiegati alla luce delle differenze di classe tra ashkenaziti e mizrahi. Quindi ambienti che sono in genere visti come di destra, nazionalisti o radicali nei confronti dei palestinesi – colonie oltre la Linea Verde o forze di sicurezza israeliane – nella società israeliana sono considerati dalle comunità mizrahi come un salvagente socio-economico.

Secondo uno studio condotto nel 1987 da Noah Levin-Epstein e Moshe Semyonov anche l’ingresso di lavoratori palestinesi a giornata dai territori occupati nel mercato del lavoro israeliano dopo l’occupazione del 1967 ha giocato un ruolo fondamentale nel miglioramento delle condizioni socio-economiche dei mizrahi. Essi hanno dimostrato che nel 1969 circa il 42% degli immigrati [ebrei] dall’Asia e dall’Africa erano impiegati in lavori non o semi qualificati; nel 1982 questo numero è sceso al 25%. Levin-Epstein e Semyonov evidenziano che “data la concentrazione di arabi dei territori occupati in un piccolo numero di impieghi al fondo della scala lavorativa, essi non solo non vengono percepiti da molti israeliani come una minaccia, ma in molti casi sono persino indicati come “liberatori” da ‘lavori disprezzati e pesanti,’” che molti israeliani non devono più fare.

Nel suo libro “In the land of Israel” [Nella terra di Israele], lo scrittore israeliano Amos Oz è andato nella città di sviluppo di Beit Shemesh, dove ha parlato con un abitante del posto su quale significato avrebbe avuto la pace con i palestinesi per i mizrahi:

Se restituiscono i territori, gli arabi smetteranno di venire a lavorare e immediatamente ci rimetterete a fare i lavori senza futuro, come prima. Anche solo per questo motivo non vogliamo lasciare che restituiate quei territori. Per non parlare dei diritti che ci vengono dalla Bibbia, o della sicurezza. Guarda mia figlia: ora lavora in una banca, e ogni pomeriggio un arabo va a pulire l’edificio. Quello che volete è sbatterla da una banca a qualche fabbrica tessile, o farle lavare il pavimento al posto dell’arabo. Come mia madre faceva le pulizie per voi. Per questo qui vi odiamo. Finché Begin sarà al potere, mia figlia è sicura in banca. Se tornano i vostri ragazzi, come prima cosa la farete tornare in basso.”

Per gli abitanti delle città di sviluppo, il governo e il controllo del Likud sui territori occupati rappresenta una garanzia contro la minaccia che i mizrahi tornino a una condizione socio-economica inferiore e vengano obbligati a competere con i cittadini palestinesi di Israele per il lavoro e le risorse. Questo è un ulteriore esempio che dimostra come le condizioni materiali, nate dai rapporti di potere tra i differenti gruppi della società israeliana e dal conflitto israelo-palestinese portino a un’“alleanza” dei mizrahi con il Likud.

La concorrenza tra mizrahi e palestinesi sul mercato del lavoro non è un prodotto dell’immaginazione degli abitanti di Beit Shemesh, è il risultato di concrete condizioni politiche dei mizrahi in Israele. Il primo ministro israeliano David Ben-Gurion disse: “Abbiamo bisogno di persone che siano nate come lavoratori manuali. Dobbiamo prestare attenzione alla caratteristica locale tra le comunità orientali, gli yemeniti e i sefarditi, le cui qualità di vita e pretese sono più basse di quelle di un lavoratore europeo e possono competere con successo con gli arabi.”

I nostri ragazzi nel Likud

Un ulteriore esempio di come gli interessi di classe dei mizrahi siano stati realizzati attraverso il loro appoggio alla destra israeliana può essere visto nell’alta percentuale di membri mizrahi nel partito Likud. Un momento particolarmente significativo nel 2002 mostra esattamente perché. Durante un infuocato discorso di fronte a centinaia di membri del Comitato Centrale del Likud l’ex ministro dell’Educazione Limor Livant chiese in modo retorico alla folla se il gruppo dirigente del partito fosse stato “eletto per dare lavoro.”

Aspettandosi che la folla avrebbe risposto in modo massiccio di no, Livnat fu smentito quando i membri del Comitato gridarono sonoramente che sì, si aspettavano che il partito desse loro qualcosa in cambio del loro eterno appoggio.

Questo momento sintetizza come il sostegno dei mizrahi per il Likud sia parte di uno scambio: i mizrahi e i membri del Comitato Centrale appoggeranno lo Stato solo in cambio di uffici nei corridoi del potere del regime israeliano. Quindi gli interessi dei mizrahi si sono fusi con il dominio senza interruzione del Likud nella forma di nomine politiche, sindacati dei lavoratori e autorità locali.

Bisogna comprendere il contesto storico in cui il Comitato Centrale del Likud è diventato un polo dell’attivismo dei mizrahi. Quando il Mapai era al potere, il partito si impegnò in quella che è nota come protektzia, ossia la concessione di favori ai membri del partito. Questo significò che i migliori impieghi e abitazioni sarebbero rimasti nelle mani dei funzionari del partito. Ciò significò anche che molti mizrahi rimasero fuori da questo circolo nepotista. Il Comitato centrale del Likud può essere visto come una risposta dell’opinione pubblica mizrahi che la compensi dei privilegi degli ashkenaziti dovuti al controllo del Mapai sugli enti e le istituzioni dello Stato.

Contrastare i privilegi degli ashkenaziti

L’elezione di Menachem Begin nel 1977 creò un nuovo discorso etno-nazionale, che mobilitò a favore della destra gli israeliani emarginati dal punto di vista socio-economico dalla società. Nel 2003 la professoressa Sasson-Levy pubblicò uno studio sulla base di interviste con soldati israeliani di umili origini. Scoprì che i soldati che arrivavano da un contesto socio-economico modesto esprimevano in modo più veemente opinioni di destra. Dalla ricerca di Sasson-Levy:

Le (loro) opinioni di destra emergono da un discorso etno-culturale come forma di compensazione per la loro emarginazione di classe nella società israeliana, in quanto ciò permette loro di presentarsi come appartenenti al centro dell’opinione dominante in Israele per il solo fatto di essere ebrei.”

Questo discorso si può applicare all’opinione pubblica mizrahi in Israele nel suo complesso. A differenza degli storici leader del Mapai, che disprezzavano qualunque cosa assomigliasse anche lontanamente alla cultura mizrahi e araba, Menachem Begin fu abile nel portare i mizrahi nel grembo dell’identità israeliana allargando la sua definizione per includere tutti gli ebrei israeliani, invece che solo quelli che sembravano e parlavano come l’élite del partito. In un suo famoso “discorso alla plebaglia” del 1981 Begin rispose ai commenti razzisti e sprezzanti fatti da Dudu Topaz – una delle più famose personalità televisive e membro del campo progressista ashkenazita – sui soldati mizrahi [durante un comizio del Mapai disse che i mizrahi erano degli imboscati, ndtr.], promettendo di farla finita con le gerarchie tra ashkenaziti e mizrahi nell’esercito israeliano. È così che la dinamica tra ashkenaziti e mizrahi ha portato questi ultimi a cercare soluzioni alle loro difficoltà socio-economiche nelle politiche aggressive della destra israeliana. La visione di Begin, che accolse apertamente gli ebrei mizrahi, avrebbe semplicemente rafforzato la gerarchia razziale tra i cittadini ebrei e non ebrei del Paese.

Nonostante le affermazioni di esponenti di sinistra secondo cui l’opinione pubblica mizrahi vota contro i suoi stessi interessi, vale la pena di fare un bilancio dei modi in cui una serie di interessi cruciali dei mizrahi sono venuti alla luce sotto il governo della destra israeliana. Pare che quelli che credono che i mizrahi farebbero meglio a votare per la sinistra nella sua forma attuale – principalmente ashkenazita e di classe medio-alta – non siano consapevoli e non vogliano contrastare i privilegi di cui gli ashkenaziti hanno goduto fin dalla fondazione del Paese. Senza una vera discussione su questo aspetto del regime israeliano non saremo in grado di iniziare un processo di riconciliazione e compensazione, sia all’interno dell’opinione pubblica ebraica in Israele che nel contesto del conflitto israelo-palestinese.

Tom Mehager è direttore del programma del Gruppo di Globalizzazione e Sovranità all’Istituto Van Leer [centro di studi e discussioni interdisciplinari, ndtr.] di Gerusalemme, membro della Scuola di Teologia dell’università di Harvard e facilitatore del seminario “Nakba, ashkenaziti e mizrahi” di Zochrot [organizzazione israeliana che si occupa di promuovere la memoria della Nakba palestinese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele sta cercando di “spezzare” questo sobborgo di Gerusalemme est – con esiti brutali

Judith Sudilovsky

25 febbraio 2020 – +972

Malek è l’ultimo minore di Issawiya sotto occupazione a perdere un occhio a causa di un proiettile di gomma mentre la polizia israeliana intensifica la repressione dei residenti palestinesi.

Per più di una settimana, da quando il loro figlio di nove anni Malek è stato colpito all’occhio da un proiettile di gomma, Wael e Sawsan Issa hanno vegliato su di lui insieme ad amici e parenti all’ospedale Hadassah di Gerusalemme, prima in terapia intensiva e poi nel reparto pediatrico.

Nonostante diversi interventi chirurgici, i medici non sono stati in grado di salvare l’occhio sinistro di Malek e quindi hanno dovuto rimuoverlo. Dopo essere stata rimandata a casa lunedì, la famiglia è tornata all’ Hadassah poche ore dopo a causa del dolore che tormentava il ragazzo.

Le preoccupazioni che Malek potesse aver subito un danno cerebrale sono state fugate e, riferisce suo padre Wael Issa, [Malek] ha parlato. “Sta dormendo. Non vuole parlare con nessuno. Gli fa male e vuole stare tranquillo. Ci vorrà del tempo.”

Il proiettile che ha colpito al capo Malek è stato sparato da un agente di polizia israeliano il 15 febbraio, durante un’incursione per un arresto da parte delle forze israeliane nel villaggio palestinese di Issawiya, a Gerusalemme est. Secondo i resoconti della stampa, il poliziotto ha affermato di aver sparato il proiettile contro un muro per aggiustare la mira.

La polizia ha anche affermato di aver risposto alle proteste incontrate durante l’arresto; tuttavia, le riprese video dell’incidente mostravano nella zona il solito normale traffico stradale.

“Sappiamo che il ragazzo è stato ferito nella parte superiore del corpo mentre la polizia era di pattuglia nella zona”, ha detto il portavoce della polizia Micky Rosenfeld a +972. “Per quanto ne sappiamo, – dice – l’incidente è sotto inchiesta da parte del Ministero della Giustizia”, come da protocollo nel caso in cui dei civili vengano feriti da un agente di polizia.

Issa denuncia che il proiettile fosse diretto proprio al centro della fronte di suo figlio.

Anche dei testimoni oculari, tra cui il cugino di 10 anni di Malek che era insieme a lui e alle sue due sorelle mentre erano fermi presso un chiosco per comprare un panino, dicono che nella strada non c’erano disordini.

Il cugino, la cui madre ha chiesto di non citare il suo nome, ha spiegato che Malek non ha sentito le sue sorelle mentre gli dicevano di aspettare perché c’erano dei soldati per strada ed è corso via prima di loro. “Poi è caduto a terra”, ha detto il cugino.

Per la zia [di Malek], questo incidente è una storia ricorrente a Issawiya. “La polizia – dice – viene a fare gli arresti mentre i ragazzi escono da scuola”. Dopo la sparatoria suo figlio “a casa è molto nervoso. È come se avessero ferito anche mio figlio.” Ha aggiunto che un assistente sociale e uno psicologo dovevano incontrare i compagni di classe di Malek per aiutarli a gestire il trauma legato all’evento.

La sparatoria non è stata un incidente isolato. Il padre, che ha lasciato il lavoro presso un ristorante di Tel Aviv per stare con suo figlio durante la convalescenza, dice che Malek è l’undicesimo minore di Issawiya a perdere un occhio a causa di un proiettile di gomma. Sua moglie e le sue figlie hanno chiesto un aiuto terapeutico, osserva, ma lui ne sta facendo a meno.

Dalla scorsa estate Issawiya è il luogo con più pattugliamenti di polizia e con più arresti, con oltre 700 persone arrestate e un giovane ucciso. I residenti si sono lamentati delle continue molestie da parte delle autorità israeliane, e i genitori hanno paura per l’incolumità pubblica dei loro figli.

“Non permetto ai miei figli di uscire e di giocare ovunque”, afferma Issa. “Ho sempre paura. Ma erano tornati da scuola e la madre aveva detto loro che era una bella giornata e che potevano tornare a casa dal punto in cui l’autobus li aveva lasciati. Si sono fermati per un minuto a comprare dei dolci e, nonostante tutte le mie precauzioni, Malek è stato colpito.”

Un giro per il villaggio rivela molti condomini dotati di tapparelle nuove, non per motivi estetici o perché le persone hanno soldi da spendere, ma per proteggersi dai proiettili vaganti, afferma il leader della comunità Mohammed Abu-Hummos.

“È una cosa quotidiana”, dice Hashem Ashahab, un altro residente del villaggio, che ha cinque figli. “La polizia viene per creare tensione. C’era un accordo (con i leader locali) sul fatto che non sarebbero venuti mentre i ragazzi escono da scuola, ma hanno infranto l’accordo … Perché la polizia sceglie sempre di venire a fare i suoi arresti e i controlli nei momenti di maggior traffico? Ho cinque figli, tre dei quali vanno a scuola, e ho sempre paura che succeda loro qualcosa. [Ma] non posso non mandare i miei figli a scuola”.

Salendo su un pulmino utilizzato per il trasporto locale a Issawiya una donna di 35 anni, che ha rifiutato di dare il suo nome, afferma che gli incidenti tra la polizia e i giovani possono scoppiare in qualsiasi momento, e gli abitanti devono sempre stare in allerta.

Aviv Tatarsky, un assistente ricercatore di Ir Amim [Ong che opera a Gerusalemme est, ndtr.] che segue la situazione di Issawiya in collaborazione con residenti palestinesi locali, spiega che dal giugno 2019 nel villaggio si assiste a “uno sconvolgimento piuttosto grave, provocato dalla polizia, della libertà di movimento e della sicurezza degli abitanti”.

Sebbene per ora l’intensità delle incursioni sia diminuita rispetto all’estate, queste si ripetono tuttora, afferma Tatarsky. Nonostante il dialogo tra la polizia e i leader locali sotto l’egida del Comune di Gerusalemme, aggiunge, la polizia ha ignorato gli accordi raggiunti, come denuncia anche l’abitante Ashahab.

I tribunali municipali di Gerusalemme e il Ministero delle Politiche Sociali israeliano non sono stati abbastanza espliciti contro le incursioni della polizia che sconvolgono la vita degli abitanti del villaggio, continua Tatarsky, sebbene i membri del consiglio Laura Wharton e Yossi Chaviliao, insieme a un gruppo di 40 presidi scolastici, abbiano fatto un appello al sindaco di Gerusalemme Moshe Lion sulla situazione. “Forse alcune cose si dicono a porte chiuse – dice -, ma certamente non in pubblico”.

Tatarsky ha affermato che un funzionario di alto livello del dipartimento dell’istruzione del Comune ha cercato di offrirsi come mediatore tra gli abitanti e la polizia. “Ma senza il benestare del sindaco non hanno il potere di fermare la polizia”.

Il portavoce della polizia Rosenfeld ha detto a +972 che le pattuglie di polizia vengono inviate in tutti i villaggi di Gerusalemme est per prevenire atti di violenza e farvi fronte quando si verifichino.

Egli afferma che negli ultimi mesi si sarebbero verificati nel quartiere “gravi incidenti”, tra cui bottiglie molotov e pietre lanciate contro auto della polizia e auto che percorrono l’autostrada Gerusalemme-Ma’aleh Adumim [grande colonia adiacente a Gerusalemme, ndtr.] (Statale 1), situata sotto il villaggio. Ad ottobre, ha aggiunto, il veicolo di un abitante del luogo è stato colpito da una bottiglia molotov destinata ad un’auto della polizia. “Sfortunatamente – afferma Rosenfeld – in quel sobborgo ci sono molti più incidenti che in altri villaggi”.

“I nostri agenti di polizia sono in contatto con i leader della comunità per cercare di evitare che si verifichino incidenti”, continua. “Il nostro messaggio per la comunità è di prevenire incidenti prima che si verifichino. La polizia continuerà a pattugliare l’area giorno e notte al fine di prevenire incidenti violenti sia all’interno che nei dintorni del villaggio.”

Tatarsky sostiene che l’immagine di Issawiya come focolaio di violenza è più frutto dell’immaginazione israeliana che altro. “Se si cercano attacchi o gruppi attivi ad Issawiya, non se ne trova nessuno. È molto indicativo che la polizia non sia stata in grado di evidenziare alcun singolo evento o serie di eventi che avessero provocato i suoi attacchi.”

Tatarsky collega l’accresciuta presenza della polizia al nuovo capo della polizia di Gerusalemme, il generale maggiore Doron Yadid, che ha sostituito Yoram Halevi nel febbraio 2019. Secondo Tatarsky, le incursioni hanno cominciato a intensificarsi pochi mesi dopo che è subentrato Yadid.

“Ha apportato alcune modifiche nella vigilanza su Gerusalemme Est – spiega -, nel senso di una maggiore aggressività”. Ad esempio, Yadid ha reintrodotto nei quartieri palestinesi l’uso della polizia di frontiera al posto delle normali pattuglie di polizia di comunità utilizzate dal suo predecessore.

Ma la tattica dura di Yadid per sconvolgere la vita quotidiana anche attraverso punizioni collettive rivolte a “spezzare” gli abitanti di Issawiya rappresenta un “grave errore”, avverte Tatarsky. “Ha ottenuto il contrario: resistenza e opposizione. L’opposizione alla presenza militare nel quartiere è … più intensa di quanto non lo fosse con il suo predecessore. La polizia di frontiera non è benvenuta a Issawiya.”

Inoltre, secondo Tatarsky, su circa 700 arresti effettuati dalla polizia, sono stati emessi solo 20 atti d’accusa, e anche in questo caso per azioni commesse solo in seguito all’arrivo della polizia nel quartiere.

Si terrorizzano i giovani, i quali ora dimostrano ogni tipo di disturbo psicologico e rabbia. Ciò ha determinato un danno maggiore e – afferma Tatarsky – (il capo della polizia) non è in grado di mostrare di aver effettivamente raggiunto alcun risultato “.

“Ciò che sta accadendo a Issawiya non ha precedenti”, aggiunge. “Non abbiamo mai subito una campagna così intensa, violenta e dirompente senza alcuna vera ragione e per così tanto tempo.”

Judith Sudilovsky è una giornalista freelance che scrive su Israele e i territori palestinesi da oltre 25 anni.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“È incitamento all’odio”: la deputata democratica affronta l’AIPAC

Alex Kane

14 febbraio 2020 – +972

In un’intervista esclusiva, la parlamentare Betty McCollum risponde all’inserzione dell’AIPAC secondo cui lei sarebbe “più pericolosa” dell’ISIS a causa del suo impegno per i diritti dei palestinesi.


La pubblicità negativa è una sporca, costante caratteristica della vita politica americana. Ma la deputata Betty McCollum (Democratici-Minnesota) è rimasta comunque sorpresa quando la sua segreteria le ha mostrato due inserzioni pubblicate su Facebook dall’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee – Comitato Israelo-Americano per gli Affari Pubblici, lobby americana di sostegno allo Stato di Israele, ndt) che prendono di mira direttamente lei e due sue colleghe, Rashida Tlaib (Democratici – Michigan) E Ilhan Omar (Democratici – Minnesota), un approccio insolito per un’organizzazione che ha tentato in tutti i modi di mantenere i Democratici dalla propria parte.

Le inserzioni diffamatorie – una delle quali contiene foto di McCollum, Tlaib e Omar – rimandavano ad una petizione che definiva le deputate “antisemite” e suggeriva che fossero “probabilmente più pericolose” di gruppi terroristici come l’ISIS e Hezbollah.

Vedere un attacco personale così pieno d’odio è stato davvero sconvolgente” ha dichiarato la McCollum a +972 Magazine, nella sua prima intervista dopo la pubblicazione delle inserzioni. “Con il loro linguaggio, incitano all’odio. E, per quel che posso capire, stanno cercando di intimidire i membri del Congresso perché non facciano sentire la propria voce”.

Circa una settimana dopo la pubblicazione delle inserzioni, McCollum è passata dallo shock all’azione. Mercoledì, la deputata ha pubblicato una feroce dichiarazione, in cui definisce l’AIPAC “gruppo d’odio”, dice che l’AIPAC “ha usato l’antisemitismo e l’odio come arma per mettere a tacere il dissenso” e che, nel farlo, “ha deriso i Democratici, facendosi beffe dei nostri valori fondanti”.

McCollum ha anche respinto il tentativo dell’AIPAC di limitare i danni: una dichiarazione pubblicata sabato, con la quale hanno chiesto scusa per le inserzioni e le hanno rimosse. Comunque il gruppo ha ribadito la propria preoccupazione per un piccolo numero di Democratici che stanno “pregiudicando le relazioni USA-Israele”.

Le scuse, di qualsiasi tipo, dovrebbero essere sincere, venire dal cuore, essere pubbliche. Dovrebbero dire che hanno sbagliato e che non lo faranno mai più, e che non useranno più espressioni di questo tipo contro nessuno,” ha detto McCollum a +972.

Il ginepraio tra McCollum e l’AIPAC è uno scontro senza precedenti tra un Democratico e il gigante delle lobbies israeliane. Il che, ora, minaccia di tormentare l’organizzazione mentre si prepara all’annuale dimostrazione di forza, la conferenza politica dell’AIPAC, che di solito vede la partecipazione dei più potenti Democratici del Congresso.

McCollum aggiunge: “La reazione dei miei colleghi al Congresso, di qualsiasi appartenenza, è stata di sdegno e dispiacere per il modo in cui sono stata trattata”.

Non è chiaro se qualcuno, tra i Democratici del Congresso, boicotterà la conferenza dell’AIPAC alla luce degli attacchi contro McCollum, Tlaib e Omar. La candidata alle presidenziali Elizabeth Warren, però, aveva già dichiarato, prima che le inserzioni fossero pubblicate, che non sarebbe andata all’incontro.

Al di là della conferenza politica, comunque, c’è una preoccupazione ben più grande per l’AIPAC. Le inserzioni diffamatorie sono forse l’esempio più lampante del perché il marchio AIPAC si stia velocemente trasformando in un punto debole all’interno del Partito Democratico.

L’AIPAC si dedica da lungo tempo a garantire, attraverso relazioni personali e contributi elettorali, che entrambi i partiti politici restino irremovibili nel loro sostegno a Israele. Ma oggi, di fronte ai cambiamenti demografici nel Partito Democratico, a un movimento per i diritti dei palestinesi organizzato che sta facendo un’opposizione efficace, e alle dispute tra Netanyahu e Obama a cui è seguita l’alleanza Netanyahu-Trump, l’AIPAC sta lottando per mantenere la propria influenza all’interno del partito.

Non è chiaro quale sia esattamente il motivo per cui l’AIPAC abbia scelto di immischiarsi in questa faccenda proprio adesso, ma McCollum avanza un’ipotesi.

Ecco un esempio di qualcuno che è paranoico o spaventato, al punto da inveire utilizzando espressioni così piene d’odio per cercare di far fuori qualcuno o far sì che la gente abbia paura di venirvi associata. Mi fa pensare che derivi dalla paura”.

L‘AIPAC ha molto da temere in questo momento. La base del Partito Democratico si sta allontanando dal sostegno incondizionato a Israele. Bernie Sanders, candidato democratico capolista alle presidenziali, è il primo candidato credibile che chiede che, relativamente agli aiuti statunitensi a Israele, sia imposta la condizione del rispetto dei diritti umani, e di fare pressione su Israele perché smetta di costruire colonie nei territori occupati.

Nel frattempo, nel Congresso, l’AIPAC è in lotta con una nuova generazione di Democratici che non esitano a denunciare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele. E McCollum, ormai veterana tra i deputati, guida la carica nelle stanze del potere.

Già in precedenza McCollum si era scontrata pubblicamente con l’AIPAC, dopo che un rappresentante del Minnesota della lobby aveva dichiarato che “il suo [di lei, ndt] sostegno ai terroristi non verrà tollerato”. La dichiarazione è arrivata dopo che la deputata aveva votato contro un disegno di legge del 2006 che avrebbe tagliato l’assistenza umanitaria ai territori palestinesi occupati, una mossa che gli alleati di Israele al Congresso avevano intrapreso in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni democratiche di quell’anno. McCollum aveva poi sotterrato l’ascia di guerra con l’AIPAC, e ne aveva incontrato i rappresentanti di recente, proprio l‘anno scorso.

Ma McCollum non ha smesso di difendere i diritti dei palestinesi. L’anno scorso ha presentato una proposta di legge che vieterebbe a Israele di utilizzare l’aiuto militare statunitense per arrestare e commettere abusi sui minori palestinesi, una versione leggermente modificata della proposta del 2017, che aveva la stessa finalità. Questa è stata in assoluto la prima proposta di legge presentata al Congresso incentrata sui diritti umani dei palestinesi. Israele arresta centinaia di minori palestinesi ogni anno: spesso li tiene bendati, li picchia e li costringe a firmare confessioni in ebraico, una lingua che molti di loro non capiscono.

Tutti i minori meritano di essere trattati con dignità e rispetto, e non smetterò di battermi per questo,” ha dichiarato McCollum.

La proposta di legge ha oggi il sostegno di altri 23 Democratici. Il che non è abbastanza per farla procedere al Congresso, ma la normativa è appoggiata dalle stelle della nuova classe congressuale: Alexandra Ocasio-Cortez (Democratici-New York), Ayanna Pressley (Democratici – Massachusetts), Tlaib e Omar, comunemente note come “La Squadra”.

In merito all’AIPAC, McCollum ha dichiarato che, per il momento, non accetterà di parlare con i rappresentanti dell’AIPAC, riportando così il gelo nelle relazioni tra la deputata e l’organizzazione.

Perché dovrei incontrare qualcuno che pensa che io sia peggio di un terrorista?” chiede la deputata.

Alex Kane è un giornalista di New York i cui articoli su Israele-Palestina, libertà civili e politica estera USA sono stati pubblicati, tra gli altri, da Vice News, The Intercept, The Nation, In These Times.

(traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




In che modo i coloni si prendono la terra palestinese? La risposta è: con una strada

Dror Etkes 

12 febbraio 2020 – + 972

Per collegare le enclavi che compongono Kedumim, i coloni hanno assunto il controllo di una importante strada che serviva ai palestinesi e gliene hanno bloccato l’accesso.

Il 28 gennaio, il giorno in cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha reso pubblico l’ “accordo del secolo”, nella colonia di Kedumim una donna seduta in un’auto a noleggio digitava sul cellulare mentre gli spari risuonavano dalla vicina Kufr Qaddum. Si potevano sentire rumori di veicoli militari arrivare dal villaggio palestinese a poche centinaia di metri a ovest della colonia.

La donna continuava a guidare verso sud, verso l’uscita principale di Kedumim, e io proseguivo verso ovest lungo Nahlah Street. Dall’altra parte della strada, ho visto un allievo della scuola elementare tornare a casa mentre passava l’auto di servizio del consiglio dei coloni. Routine quotidiana della colonia.

Dopo un po’ sono arrivata alla casa più a ovest di Kedumim, accanto agli uliveti di Kufr Qaddum. È probabile che questo punto diventerà presto un altro segnale dei confini internazionali di Israele, se il piano di Trump verrà attuato e Israele annetterà gli insediamenti.

Kedumim fu fondata nel 1975 in seguito al famigerato “compromesso di Sebastia”, quando i coloni di Gush Emunim raggiunsero un accordo con l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin e il Ministro della Difesa Shimon Peres per fondare un nuovo insediamento come risarcimento dell’essere stati allontanati dalla terra che avevano occupato alla stazione ferroviaria di Sebastia, adiacente all’omonimo villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale. Da molti anni, però, Nahlah Street era la strada utilizzata dagli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum per accedere a Nablus, la grande città a loro più vicina.

Ma un tratto di 2 chilometri di quella strada si snoda tra gli ulivi e i campi di Kufr Qaddum orientale, su cui Kedumim è stata fondata 45 anni fa. E negli ultimi vent’anni, quella strada è stata chiusa agli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum. Mentre la lotta popolare si è in gran parte attenuata in tutta la Cisgiordania occupata, il villaggio è uno degli ultimi posti in cui è possibile assistere a manifestazioni quasi settimanali del venerdì che protestano contro la chiusura della strada.

Kufr Qaddum non è affatto l’unica comunità palestinese in Cisgiordania ad avere uno dei propri punti di accesso chiuso dall’espansione delle colonie. La colonia di Kiryat Sefer, per esempio, ha inglobato la strada Bil’in-Safa. La colonia di Maale Adumim controlla il tragitto Abu Dis-Old Jericho. E la colonia di Neve Daniel ha inglobato una strada locale che collegava diversi villaggi palestinesi a Maqam Nabi Daniel.

Per di più, la maggior parte delle aree che l’esercito ha assegnato alle colonie è composta da enclavi e territori non contigui, e comprende campi agricoli che le autorità israeliane riconoscono come terra privata palestinese. In quanto tali, fin dall’inizio queste aree non potevano essere ufficialmente sotto la giurisdizione delle colonie.

La cosa può suonare strana a chiunque pensi in modo tradizionale ai progetti di una comunità – dove le persone normali desiderano condurre una vita in base alle regole che non implichi il furto di proprietà. Ma la Cisgiordania non è un posto normale, e il sistema di assegnazione e pianificazione del territorio che Israele vi ha imposto obbedisce ad un principio organizzativo supremo: rubare e saccheggiare a piacimento e poi pensare a come fare col bottino.

Oltretutto, esiste solo una connessione statisticamente casuale tra le aree giurisdizionali ufficiali e quelle effettive delle colonie. Il motivo è che i coloni essenzialmente fanno ciò che vogliono e le autorità responsabili dell’applicazione della legge non la applicano. È ciò che è successo a Kedumim: l’area totale delle sette enclavi assegnate in aree non contigue è di 3.300 dunam [330 ettari], mentre i coloni sostengono che la comunità occupa circa 6.000 dunam [600 ettari]. Da dove vengono i 2.700 dunam [270 ettari] in più?

Oggi Kedumim occupa tutta la terra di Kufr Qaddum, che l’esercito ha “donato” ai coloni a spese degli abitanti palestinesi. Tra il 1970 e il 1978 l’esercito israeliano ha cominciato ad emanare una serie di “ordini di sequestro militare temporaneo per esigenze di sicurezza”, espropriando oltre 450 dunam [45 ettari] di terra, di cui oltre la metà è stata data ai coloni.

Le fotografie aeree scattate nel 1970 mostrano l’area acquisita quell’anno. Nella parte meridionale si trova la base militare di Kadum dell’esercito israeliano, nello stesso punto in cui prima del 1967 si trovava una base militare giordana. L’area settentrionale divenne, nel corso degli anni, il punto di partenza della colonia di Kedumim e della piccola zona industriale adiacente. A nord della colonia si vede chiaramente la strada che collega Kufr Qaddum a Nablus.

Nel 1979, con l’istanza Alon Moreh, l’Alta Corte di Israele decretò che era illegale assegnare per la costruzione di colonie i terreni palestinesi espropriati dall’esercito israeliano per un preteso scopo militare. Ma poco dopo, per espandere le colonie, Israele cominciò a dichiarare “terreni di stato” ampie fasce di terreno attorno a quello sotto ordine di sequestro, appartenenti agli abitanti di Kufr Qaddum,.

Le immagini aeree del 1983 mostrano chiaramente che i “terreni statali” consegnati ai coloni non erano adiacenti al nucleo della colonia, perché in quei luoghi c’erano – e ci sono ancora – uliveti di proprietà degli abitanti di Kufr Qaddum. I residenti palestinesi possono accedere ad alcuni dei loro uliveti solo un certo numero di giorni fissati ogni anno, e gran parte di quei terreni rimane loro del tutto inaccessibile. Già nei primi anni ’80, Kedumim si espanse al punto che i confini della colonia erano 2 chilometri più a nord del suo originale centro.

Le foto aeree del 2019 mostrano il punto più a nord a cui è arrivata Kedumim, a quarant’anni dalla sua fondazione. Gli edifici costruiti da allora si trovano prevalentemente all’interno dei confini meridionale e settentrionale della colonia.

Dunque, come hanno fatto queste zone separate a formare un unico, continuo insediamento in Cisgiordania? Secondo Daniella Weiss, leader dei coloni ed ex sindaco di Kedumim, basta costruire una strada che attraversa gli uliveti di Kufr Qaddum. Lo studio ravvicinato di una foto aerea del 1983 mostra che, nell’area sotto ordine di sequestro, una strada dalla zona meridionale sbuca nella parte settentrionale lungo la strada Kufr Qaddum-Nablus.

L’espansione della colonia verso nord è stata il colpo finale alla strada Kufr Qaddum-Nablus. Nel corso degli anni, mentre Kedumim si espandeva ed estendeva su più di 10 colline, la strada è diventata determinante per la crescita della colonia e tutto ciò che i coloni hanno dovuto fare è stato aspettare un’opportunità per bloccarvi il traffico palestinese.

L’opportunità è arrivata nei primi anni della Seconda Intifada, che vedevano i coloni di Kedumim nel pieno di una aggressiva campagna di occupazione iniziata alcuni anni prima. Questa campagna per il controllo su più terra intorno alla colonia includeva le solite mosse di questo tipo di colonie: creare nuove strade, bloccare violentemente l’accesso alle aree intorno alla colonia e costruire avamposti.

È così che, alla fine degli anni ’90, il monte Mohammad di Kufr Qaddum è diventato l’avamposto “Har Hemed”. Ed è così che nel 2004 è stato costruito il quartiere in cui vive attualmente il parlamentare di estrema destra e Ministro dei Trasporti Betzalel Smotrich.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’esercito israeliano ora usa un “drone parlante” per disperdere le proteste in Cisgiordania

Oren Ziv

3 febbraio 2020 – +972

Un nuovo drone delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] invita i manifestanti palestinesi del villaggio di Qaddum ad “andare a casa”, mentre sollecita gli attivisti israeliani a “non stare dalla parte del nemico.”

L’esercito israeliano sta utilizzando un drone parlante per invitare palestinesi e israeliani che partecipano alle proteste in Cisgiordania a smettere di manifestare e a disperdersi. Il drone è stato scoperto per la prima volta il 17 gennaio durante la dimostrazione settimanale contro l’occupazione nel villaggio di Qaddum, nel corso della quale ha ordinato in arabo ai manifestanti palestinesi di “andare a casa” e in ebraico a quelli israeliani di non “stare dalla parte del nemico”. Secondo i dimostranti di Qaddum questa è stata la prima volta che l’esercito ha usato questo tipo di drone, che probabilmente è stato ideato dall’impresa cinese DJI ed ha attaccato un altoparlante della ditta Mavic 2 che consente di far sentire messaggi preregistrati.

Sharon Weiss, un’attivista israeliana che era presente alla manifestazione, ha affermato che il drone le ha detto in ebraico di “andare a casa” e “non stare dalla parte dei nemici”, prima di andare da qualcun altro. “C’è praticamente sempre un drone durante le proteste, ma questa è la prima volta che ci ha parlato,” ha detto Weiss. “Lo scopo è di farci capire che ci stanno vedendo e che ci sorvegliano.”

Weiss ha detto che il “drone parlante” ha provocato una sensazione diversa tra i manifestanti. “È un ulteriore passo per fare pressione sui manifestanti perché non partecipino (alle proteste). È un’ ulteriore forma di intimidazione contro quanti osano opporsi all’occupazione dei palestinesi con i palestinesi stessi.”

Il portavoce delle IDF ha confermato che l’esercito ha utilizzato il drone, ma ha sostenuto che sia stato usato solo per dire ai dimostranti di “andare a casa”.

Anche altri attivisti palestinesi e israeliani presenti alle proteste hanno detto che il drone gli ha parlato sia in arabo che in ebraico. Un attivista ha affermato di credere che l’obiettivo degli appelli sia di fare in modo che i manifestanti guardino in alto affinché il drone possa fotografare il loro volto.

L’artista e fotografo israeliano Oded Yedaya, che documenta regolarmente le dimostrazioni a Qaddum, ha sostenuto che i manifestanti si sono “abituati al drone occasionale che si libra sulle nostre teste durante le proteste, che consente ai soldati di pianificare come inseguirci o riconoscere le nostre facce. Questa è stata la prima volta che abbiamo visto un drone parlante.”

Secondo il portavoce delle IDF il drone è stato usato “come parte dei tentativi di disperdere disordini violenti,” e che le IDF “utilizzano vari mezzi in base alle necessità operative sul campo.”

Questa non è la prima volta che l’esercito ha sperimentato una nuova tecnologia, una nuova tattica e nuove armi sui manifestanti della Cisgiordania. Nel suo film “The Lab”, il regista israeliano Yotam Feldman ha mostrato come la Cisigordania sia diventato un luogo fondamentale per le imprese belliche che vogliono testare i propri prodotti prima di venderli all’estero.

Negli anni l’esercito ha usato vari mezzi per disperdere manifestazioni non violente in Cisgiordania. Durante le prime proteste popolari nel villaggio cisgiordano di Bil’in l’esercito ha usato “L’Urlo”, un’arma sonora che obbliga i manifestanti a coprirsi le orecchie in modo che non possano lanciare pietre.

Nel 2009 l’esercito ha iniziato ad utilizzare “La Puzzola”, un cannone ad acqua mobile che spara un liquido puzzolente contro i dimostranti. Nel 2014 a Betlemme i soldati hanno iniziato ad utilizzare cannoni ad acqua a controllo remoto per disperdere le proteste nei pressi del checkpoint 300. Oggi le IDF usano droni per sparare candelotti lacrimogeni contro i manifestanti.

Oren Zin è un fotogiornalista, un membro fondatore del collettivo fotografico “Activestills” e un redattore di Local Call [la versione in ebraico di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di problemi sociali e politici in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, con una particolare attenzione per le comunità militanti e per le loro lotte. I suoi reportage si concentrano sulle proteste popolari contro il muro e contro le colonie, le abitazioni economiche e altre questioni socio-economiche, l’antirazzismo e le lotta contro le discriminazioni e per liberare gli animali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Trump denigra i palestinesi per l’uso della stessa violenza che ha fatto nascere Israele

Edo Konrad

30 gennaio 2020 – +972

Il discorso sull’ “accordo del secolo” di Trump ha condannato i palestinesi per terrorismo ed elogiato Israele per la pace – ignorando del tutto la storia violenta di Israele.

Il presidente Trump ha cercato a malapena di nascondere il suo disprezzo per il popolo palestinese. Martedì la sua esposizione dell’“Accordo del Secolo” ha rivelato nel modo più chiaro possibile ciò che egli pensa dei milioni di palestinesi – nei territori occupati, all’interno di Israele e nella diaspora – che verrebbero interessati dal suo “accordo di pace”.

Le considerazioni di Trump sono state intrise del classico immaginario razzista. Anzitutto nel suo discorso ha usato i termini “terrorismo” e “terrore” nove volte riferendosi ai palestinesi. Ciò contrasta con l’apprezzamento che ha mostrato nei confronti di Israele, che il presidente ha descritto come un’isola di democrazia e prosperità. Agli occhi del presidente i palestinesi sono “intrappolati in una spirale di terrorismo, povertà e violenza”, e devono rinunciare al terrorismo come condizione per creare un proprio Stato.

La caricatura fatta dal presidente dei palestinesi come terroristi è del resto consueta. Fin dalla fondazione di Israele i palestinesi sono stati descritti come violenti rivoluzionari il cui unico scopo nella vita era annientare lo Stato ebraico e tutti gli ebrei. Quella posizione fu assecondata dai vertici dell’establishment politico israeliano – compreso il Primo Ministro David Ben Gurion, che ordinò ai soldati israeliani di attuare una “politica di fuoco indiscriminato” lungo i confini del Paese. Ciò significa che potevano sparare ed uccidere “infiltrati” palestinesi, molti dei quali erano rifugiati che cercavano di tornare nella loro terra.

Ciò che è peculiare riguardo a questi mantra degli arabi “selvaggi violenti” è che essi trascurano la stessa storia di terrorismo del sionismo, che ricoprì un ruolo centrale nella nascita di Israele. Questa amnesia, soprattutto nell’opinione pubblica israeliana, è ciò che la ricercatrice in studi culturali Marita Sturken definisce “dimenticanza strategica”, con cui le Nazioni scelgono quali storie ignorare privilegiando invece memorie nazionali e culturali più positive.

Per esempio gli israeliani preferiscono dimenticare che, prima che diventassero Primi Ministri, Menachem Begin e Yitzhak Shamir furono solerti miliziani che pianificarono brutali atti di terrorismo contro civili palestinesi, attaccarono soldati e alti ufficiali inglesi e addirittura assassinarono personalità politiche straniere.

Il libro di Begin del 1951 “La rivolta” – che non solo divenne una lettura canonica per la destra israeliana, ma ispirò anche persone come Nelson Mandela – espone in dettaglio, e con grande spavalderia, i modi in cui i miliziani sionisti dei gruppi paramilitari Etzel [noto anche come Irgun, ndtr.] e Lehi[la banda Stern, ndtr.] facevano saltare in aria i mercati arabi e combattevano una sanguinosa guerriglia contro le forze britanniche, a cui Begin si riferiva come “esercito di occupazione.”

La celebrazione del terrorismo sionista va oltre questi ricordi. Tutto intorno a Tel Aviv si possono trovare targhe di bronzo che celebrano le vittorie e le sconfitte delle milizie sioniste antecedenti allo Stato. Una targa a sud della città commemora un tunnel scavato dai miliziani di Etzel che conduceva ad un’installazione militare britannica, che intendevano fare esplodere. Un’altra targa nei pressi segnala il luogo in cui due combattenti di Lehi, facendosi passare per operatori telefonici, guidarono un’autobomba dentro un centro di comunicazioni britannico, uccidendo diversi poliziotti.

Ci sono decine di queste targhe sparse per tutta la città. Alcune commemorano le fabbriche di armi dell’ Etzel, altre i luoghi dove il Lehi stampava i suoi volantini, altre ancora dove l’Haganah – la formazione paramilitare sionista più grande e più importante, che attuò  la maggior parte delle espulsioni durante la guerra del 1948 e costituì la spina dorsale del nascente esercito israeliano – teneva le riunioni segrete e i centri di addestramento. Tutte queste targhe non solo riportano le insegne delle milizie sioniste, ma anche il timbro ufficiale del Comune di Tel Aviv-Giaffa.

La città è anche sede di quattro musei dedicati alla memoria dei gruppi paramilitari. Camminando a sud lungo la Tel Aviv Promenade, si arriva ad un vecchio edificio palestinese. È l’ultima vestigia del quartiere un tempo conosciuto come Manshiyyeh, che oggi ospita il Museo di Etzel in onore del gruppo che “liberò” Giaffa durante la guerra del 1948. Una lapide accanto all’entrata dell’edificio riporta i nomi dei membri di Etzel uccisi nell’operazione.

Quella “liberazione” comportò l’espulsione di circa 95.000 palestinesi dall’area della Grande Giaffa, molti dei quali furono mandati con la forza nei campi profughi in Cisgiordania e a Gaza. Migliaia di altri palestinesi, molti in fuga dai villaggi nelle vicinanze di Giaffa, furono radunati in una piccola zona della città circondata da filo spinato, a cui le autorità israeliane informalmente facevano riferimento come al “ghetto”.

Le espulsioni, i massacri, i depositi segreti di armi e i tunnel delle milizie sioniste si estendevano ben oltre i confini dell’area di Tel Aviv-Giaffa. Erano parte di uno sforzo bellico di tutta la nazione, senza il quale lo Stato di Israele non avrebbe potuto vedere la luce. Come ho scritto diversi anni fa, quando l’esercito israeliano scoprì tunnel di Hamas da Gaza fin dentro il territorio di Israele, “se l’odierno Stato di Israele si fosse scontrato con i movimenti sionisti precedenti allo Stato, sicuramente avrebbe condannato le loro violazioni dei diritti umani e li avrebbe eliminati per sempre.”

Una simile storia violenta non è sicuramente peculiare solo di Israele, ma costituisce una grande lezione per il conflitto. Data la loro storia, gli israeliani dovrebbero essere i primi a capire perché chi combatte un occupante straniero per la propria liberazione e autodeterminazione diventa violento. Ovviamente non sarà Trump a risvegliare Israele sul suo passato, né oserà fare paragoni tra la violenza politica palestinese e quella ebraica. Ma prima o poi potrebbe arrivare un presidente USA che lo farà.

Edo Konrad è caporedattore di +972 Magazine. Vive a Tel Aviv ed in precedenza ha lavorato come redattore per Haaretz

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Avanti, annettiamo la Cisgiordania

Meron Rapoport 

23 gennaio 2020 – + 972

L’annessione della Valle del Giordano renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid dal fiume al mare. Ma potrebbe essere meno terribile di come pensiamo.

Si è saputo che anche Benny Gantz, rivale di centro del Primo Ministro Netanyahu, persegue l’obiettivo che Israele annetta la Valle del Giordano. Martedì, durante una visita in quella zona della Cisgiordania occupata, Gantz ha affermato che la Valle del Giordano è “lo scudo difensivo di Israele verso est in qualsiasi futuro conflitto. Consideriamo questa terra come parte inseparabile dello Stato di Israele.” Dopo le elezioni, ha continuato Gantz, avrebbe esteso la sovranità sulla valle con una “mossa concordata a livello nazionale” e coordinata con la comunità internazionale.

Non è una posizione nuova tra i falchi del centro israeliano. Un piano strategico pubblicato nell’ottobre 2018 dal National Security Research Institute, il luogo di formazione ideologica di ex generali dell’IDF come Gantz, afferma che Israele avrebbe già dovuto dichiarare la Valle del Giordano area strategica, da mantenere sotto controllo israeliano fino a quando Israele non arriverà ad un sufficiente accordo per la sicurezza.

È peraltro vero che le recenti condizioni poste da Gantz – che l’annessione della Valle del Giordano abbia il consenso nazionale e sia coordinato a livello internazionale – potrebbero far sì che la dichiarazione resti priva di fondamento. A parte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (e anche questo non è del tutto certo), è improbabile che la “comunità internazionale” accetti la mossa.

Eppure, anche se non ha alcuna reale intenzione di annettere la Valle, Gantz ha deliberatamente scelto di schierarsi con la retorica della destra israeliana, per la quale l'”annessione” è diventata una questione di buone maniere, cartina di tornasole per qualsiasi personaggio politico.

Le affermazioni di Gantz ricordano in qualche modo lo slogan della campagna elettorale di Netanyahu del 1996: “Fare una pace sicura”. Netanyahu all’epoca non aveva intenzione di fare la pace, così come oggi sembra che Gantz non abbia alcuna intenzione di procedere all’annessione. Tuttavia, tre anni dopo gli Accordi di Oslo, Netanyahu fu costretto ad includere il centro-sinistra israeliano dell’epoca, per cui la parola “pace” era una categoria a parte. Questo vale per gli ultimi 25 anni della politica israeliana: la pace è out, l’annessione è in.

Potrebbe non essere terribile come si pensa. Per alcuni aspetti, è veramente deplorevole che la coalizione di destra, secondo recenti sondaggi, non sarà in grado di assicurarsi 61 seggi della Knesset nelle prossime elezioni di marzo. Se dovesse vincere Netanyahu, è difficile immaginare come se la caverà con le sue chiare promesse di annettere immediatamente la Valle del Giordano. Nell’attuale situazione politica, l’annessione è il miglior regalo che possano sperare gli avversari dell’occupazione.

Questo non significa che le cose debbano peggiorare prima di migliorare. L’annessione scuoterà lo status quo di espansione infinita fatta di occupazione e insediamento, diventata molto comoda per Israele. Costringerà la società israeliana e parti della comunità internazionale a tornare a discutere una soluzione politica del conflitto, un obiettivo quasi scomparso. E costringerà i sostenitori della soluzione a due Stati, e persino i sostenitori di un singolo Stato, a uscire dalla loro zona protetta e ricalibrare i loro desideri con la realtà concreta.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’impatto dell’annessione sui confini definitivi di Israele o la fattibilità dell’idea dei due Stati non creerebbero necessariamente un discrimine. Israele ha annesso Gerusalemme Est più di 52 anni fa, pochi giorni dopo la fine della guerra del 1967; ciò non ha impedito a rappresentanti israeliani, ufficiali e non, di discutere dell’annessione in vari negoziati con i palestinesi e concordare che il futuro Stato palestinese avrebbe controllato i quartieri palestinesi della città.

Ciò vale anche per l’ex primo ministro Ehud Olmert, che ha fatto carriera politica nel partito Likud promettendo di tenere Gerusalemme “per l’eternità” (Olmert è stato anche protagonista della campagna elettorale del 1996 di Netanyahu, accusando i laburisti di Shimon Peres di “dividere Gerusalemme”). Un decennio dopo, durante i colloqui di pace con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, fu Olmert a proporre di dividere la città. E l’annessione delle Alture del Golan nel 1981 non ha impedito a Ehud Barak – e secondo i documenti, allo stesso Netanyahu – di discutere della possibilità di restituire il Golan alla Siria di Hafez al-Assad.

L’annessione non migliorerà particolarmente la situazione dei pochi coloni israeliani che vivono nella Valle del Giordano. Oggi, e specialmente dopo un decennio di governo di Netanyahu, la Linea Verde [confine tra Israele e Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza prima dell’occupazione del 1967, ndtr.] è quasi del tutto irrilevante e i coloni che vivono in Cisgiordania godono di diritti quasi identici ai cittadini israeliani all’interno dei confini del 1948.

L’annessione può rimuovere alcune delle barriere attualmente imposte ai coloni, ma può anche rendere loro la vita difficile. Nel momento in cui la Valle del Giordano diventasse soggetta ufficialmente alla legge israeliana – piuttosto che agli ordini militari – potrebbe essere molto più difficile confiscare terre, sfrattare palestinesi e stabilire colonie di soli ebrei.

Anche se Israele decidesse di concedere ai palestinesi che annette lo status di residenti invece della piena cittadinanza (come a Gerusalemme est), tale status consentirebbe loro di muoversi liberamente e lavorare all’interno di Israele, il che sicuramente migliorerebbe la loro attuale situazione. Eppure ci sono poche ragioni per credere che i palestinesi annessi rinuncerebbero alle loro aspirazioni nazionali: non è accaduto a Gerusalemme est dopo 52 anni di occupazione, non è accaduto con i palestinesi cittadini di Israele.

Ma c’è la possibilità che l’annessione possa dare impulso non solo ai palestinesi che si trovano sotto la sovranità israeliana, ma alla lotta palestinese in generale. L’annessione costringerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese a emergere dal suo coma; renderebbe più facile smantellarla, costringerebbe Israele a riprendere il diretto controllo sulla Cisgiordania, e il ritorno a una lotta per i diritti civili in uno Stato democratico tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo], simile al programma politico originario dell’OLP.

Se Israele, in effetti, rifiutasse di concedere pieni diritti civili ai palestinesi, sarà ancora più facile dimostrare che il regime in Cisgiordania non è un problema temporaneo di “territorio conteso”, come ama sostenere Israele. L’apartheid diventerebbe la politica ufficiale dello Stato.

Inoltre, l’annessione porterebbe la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo arabo. Il governo giordano sta già affrontando una forte opposizione al suo accordo di pace con Israele. Recenti manifestazioni nel Regno hascemita contro l’accordo con Israele per il gas sono ulteriori prove di dissenso. Se l’annessione dovesse avvenire, è difficile pensare che re Abdullah si atterrebbe all’accordo con Israele, volendo mantenere il potere.

La Giordania potrebbe trasformarsi in Palestina, come sperava Netanyahu nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations [Un posto fra le Nazioni, ndtr.] – ma questa “Palestina” avrebbe un esercito che potrebbe puntare le sue armi su Israele per solidarietà con i fratelli dall’altra parte del fiume Giordano.

Netanyahu, che conosce la scena internazionale meglio di qualsiasi altro leader a destra – e forse in Israele – è ben consapevole di tutto ciò. Questo è il motivo per cui, durante il suo decennio al potere, ha evitato di compiere passi drastici, perfezionando allo stesso tempo lo status quo. Le sue politiche hanno assicurato l’annessione strisciante di sempre più colonie, la cancellazione della Linea Verde dalla coscienza israeliana e la completa normalizzazione dell’occupazione.

Netanyahu sperava che l’opinione pubblica israeliana, la comunità internazionale, i regimi arabi filo-occidentali e forse gli stessi palestinesi avrebbero alla fine accettato il dominio israeliano sull’intera terra e avrebbero tolto l’opzione di uno Stato palestinese dal tavolo. Ha funzionato brillantemente; persino Gantz, il maggior rivale di Netanyahu, non parla di due Stati.

Ma per il primo ministro potrebbe aver funzionato troppo bene. Proprio perché uno Stato palestinese non sembra più essere preso in considerazione, la destra nazionalista-religiosa ha trasformato l’annessione in richiesta politica – qualcosa che non ha fatto in 40 anni di permanenza al governo, da quando la destra ha preso il potere nel 1977. Se gli insediamenti sono riusciti a impedire l’istituzione di uno Stato palestinese, dicono, perché non passare alla fase successiva e realizzare l’ideale del Grande Israele?

Finché Netanyahu è stato politicamente forte, poteva evitare di parlare di annessione a gente come Naftali Bennett [politico israeliano dell’estrema destra dei coloni ed attuale ministro della Difesa, ndtr.] Ma non appena i problemi legali hanno cominciato a premergli addosso, lo spazio di manovra di Netanyahu è diminuito. Non ha altra scelta che abbracciare il linguaggio del sovranismo, che solo pochi anni fa giaceva in qualche posto nelle plaghe dormienti della destra.

Non che Netanyahu non creda nell’esclusiva sovranità ebraica tra il fiume e il mare: semplicemente non credeva che dovesse realizzarsi attraverso l’annessione formale. Oggi non si tratta più di buttare sul tavolo l’annessione in cambio dell’immunità politica. È annessione o prigione.

Non vi è dubbio che l’annessione sia una violazione del diritto internazionale, che sarebbe imposta ai palestinesi con la forza e trasformerebbe ufficialmente Israele in uno Stato di apartheid. Bisogna opporsi. Ma dopo tanti anni sotto il dominio della fazione del Grande Israele, potrebbe essere il momento di mettere alla prova la proposta della destra. L’annessione chiarirà il vero dibattito Israele-Palestina: uguaglianza e autodeterminazione per ogni Nazione che vive tra la Giordania e il mare o supremazia ebraica.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)