Noto attivista anti occupazione aggredito a Tel Aviv

Oren Ziv

8 luglio 2019 – +972

L’attivista di sinistra Jonathan Pollak aggredito da due assalitori fuori dal suo posto di lavoro nel sud di Tel Aviv. Gli aggressori mentre lo picchiavano avrebbero gridato ‘stronzo di sinistra’, prima che uno di loro tirasse fuori un coltello e lo ferisse in modo lieve.

Domenica a Tel Aviv un noto attivista di sinistra è stato aggredito fisicamente da due assalitori sconosciuti mentre usciva dal lavoro. Pare che gli aggressori mentre lo picchiavano abbiano gridato “stronzo di sinistra”, prima che uno di loro estraesse un coltello e lo ferisse in modo lieve al viso e alle braccia.

Jonathan Pollak, che ha militato a lungo nel movimento anti-occupazione in Israele e in Cisgiordania, è stato aggredito mentre usciva dall’edificio di Haaretz, nel sud di Tel Aviv, dove lavora come grafico.

Pollak ha detto che aveva notato di essere seguito da due individui che lui ha pensato fossero poliziotti che cercavano di arrestarlo a causa di un mandato di cattura. “Ho cercato di correre ma mi hanno raggiunto, mi hanno spinto a terra e hanno incominciato a prendermi a pugni e calci”, ha raccontato a casa sua dopo l’aggressione. “Quando ho cercato di difendermi uno di loro ha estratto un coltello e mi ha fatto un taglio in faccia”. Pollak ha riferito che i due mentre lo picchiavano gridavano “stronzo di sinistra”, prima di scappare.

Pollak ha riportato graffi al volto e alle braccia ed è stato colpito in faccia e alle costole. Ha detto di non avere idea di chi lo abbia aggredito, ma gli assalitori sembravano avere “tra i 20 e i 30 anni”.

Nel dicembre 2018 ‘Local Call’ [sito web in ebraico di +972, ndtr.] ha riferito che il gruppo di destra ‘Ad Kan’ ha avviato un’azione giudiziaria privata contro tre israeliani, compreso Pollak, per aver partecipato alle proteste contro la barriera di separazione in Cisgiordania. L’azione giudiziaria privata di ‘Ad Kan’, la prima di questo genere contro attivisti anti-occupazione, accusa gli imputati di “aggresssione contro soldati dell’esercito israeliano e contro la polizia di frontiera.”

Ad Kan’ si è messo in evidenza per la prima volta negli ultimi anni per aver infiltrato i suoi collaboratori nelle organizzazioni per i diritti umani per registrare con telecamere nascoste ogni loro mossa.

Tuttavia Pollak si è rifiutato di comparire in tribunale, sostenendo di non riconoscere la legittimità di un sistema che mantiene una “dittatura militare” su “soggetti privati di tutti i fondamentali diritti democratici” in Cisgiordania e Gaza, o che sono “cittadini di serie B” in Israele.

Il tribunale ha quindi emesso un mandato di arresto per Pollak, che consente alle autorità di trattenerlo fino all’ udienza successiva, prevista a settembre. Secondo il tribunale Pollak verrà rilasciato se accetterà di pagare una cauzione di 1.000 shekels (250 euro).

Non intendo presentare denuncia alla polizia perché verrò arrestato, ma non lo avrei fatto comunque”, ha detto Pollak. “Mi rifiuto di andare in tribunale perché i miei amici palestinesi ed io veniamo processati con diversi sistemi giudiziari e mi rifiuto di utilizzare i servizi della polizia che si attivano per me, mentre non lo fanno per i palestinesi.”

Immediatamente dopo il suo rifiuto di presentarsi in tribunale, ‘Ad Kan’ ha pubblicato parecchi post su Facebook e Twitter, inclusa una fotografia di Pollak, chiedendo al pubblico di contribuire a localizzarlo. Un utente di Twitter ha risposto che Pollak “si trova spesso nell’edificio di Haaretz in Schoken Street”, dove si è verificata l’aggressione di lunedì.

Dopo l’aggressione, ‘Ad Kan’ ha twittato: “Negli ultimi 15 anni Pollak è stato coinvolto in violente manifestazioni contro i soldati dell’esercito israeliano. Pollak attualmente ha in corso una denuncia penale che noi abbiamo presentato contro di lui. Noi, al contrario di Pollak, siamo contrari ad ogni forma di attività violenta. Il signor Pollak è invitato a contattare le forze dell’ordine, che ha recentemente dichiarato di non riconoscere, in modo che possano esaminare le sue accuse.”

Da anni i palestinesi e coloro che si oppongono all’occupazione vengono aggrediti nei territori occupati. Oggi questo è successo anche a Tel Aviv”, ha dichiarato dopo l’aggressione Ayman Odeh, capo del partito ‘Hadash-Ta’al [partito di sinistra arabo-israeliano, ndtr.]. “Dopo una campagna di istigazione delle organizzazioni di coloni mirata contro Jonathan Pollak, due uomini – di cui uno armato di coltello – lo hanno aggredito. Si tratta di un altro violento colpo basso e di una vittoria per l’apparato di istigazione della destra.”

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’.

Oren è un fotogiornalista e membro fondatore del collettivo di fotografi ‘Activestills’. Dal 2003 ha documentato una serie di vicende sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi, con una particolare attenzione nei confronti delle comunità di attivisti e delle loro lotte.

Tra gli eventi che io documento, con la convinzione che la fotografia possa provocare dei cambiamenti, vi sono: le proteste contro il muro e le colonie, la possibilità di avere un’abitazione ed altre questioni socio-economiche, le lotte contro il razzismo e le discriminazioni e la lotta per liberare gli animali.

Sono stato collaboratore di +972 quasi fin dall’inizio e lavoro anche per diversi altri mezzi di informazione locali e internazionali.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’uso dell’archeologia al servizio del nazionalismo

Di Chemi Shiff e Yonathan Mizrachi

|5 luglio, 2019 – +972 Magazine

L’inaugurazione di una presunta antica ‘Via del pellegrinaggio’ ebraica da parte dell’ambasciatore (americano) David Friedman e dell’inviato della Casa Bianca Jason Greenblatt ci ricorda che l’archeologia non è mai neutrale come alcuni vorrebbero credere.

Si tende a pensare all’archeologia come ad una disciplina neutrale. Gli archeologi dissotterrano i manufatti, li datano e cercano di stabilire una cronologia per comprendere meglio la storia di un particolare luogo o popolo.

L’inaugurazione, la settimana scorsa, della “Via del Pellegrinaggio” a Gerusalemme da parte dell’ambasciatore USA in Israele David Friedman e dell’inviato della Casa Bianca in Medio Oriente Jason Greenblatt ci ricorda che l’archeologia non è mai neutrale come a qualcuno piacerebbe credere. Secondo alcuni archeologi quella via era percorsa dai pellegrini ebrei quando salivano al Secondo Tempio circa 2000 anni orsono.

Per i palestinesi il tunnel si trova proprio sotto il quartiere di Silwan, a lungo agognato dai coloni israeliani che operano attivamente per giudaizzare l’area.

Quando si tratta dell’archeologia di Gerusalemme sembra che tutti preferiscano non vedere l’elefante nella stanza: come può qualunque sito archeologico, soprattutto se con una storia molto stratificata, essere presentato come prova delle esclusive pretese di un solo gruppo etnico-nazionale?

Doron Spielman, vice presidente dell’organizzazione di coloni Elad, che ha finanziato gli scavi e gestirà il relativo sito archeologico, ha detto al Jerusalem Post che “questo luogo è il cuore del popolo ebraico ed è come il sangue che scorre nelle vene.” Commentando l’importanza della scoperta, Greenblatt ha sottolineato che “l’archeologia non modella il paesaggio storico”, ma piuttosto si concentra sugli “scavi e l’analisi di manufatti e resti materiali.”

La posizione di Greenblatt trascende le differenze politiche tra sinistra e destra. Dopotutto l’archeologia è stata a lungo usata da molte società per consolidare la propria ideologia in quanto parte inseparabile del paesaggio. Questo ovviamente non significa che l’archeologia non possa essere usata per distinguere tra differenti culture. Però, nella maggior parte dei luoghi che sono stati abitati da innumerevoli culture nel corso dei secoli – e soprattutto in luoghi molto stratificati come Gerusalemme – le scoperte archeologiche usualmente rivelano la storia di relazioni complesse tra le varie culture stanziate in ogni specifica area.

Mentre non vi è dubbio che gli ebrei siano vissuti nella zona circostante la Via del Pellegrinaggio in diversi periodi, gli scavi hanno rivelato che l’area è stata costantemente abitata per migliaia di anni prima e dopo il periodo romano (a cui in Israele ci si riferisce come ‘periodo del Secondo Tempio’), durante il quale la via fu costruita per la prima volta.

Inoltre, mentre i rappresentanti di Elad sono convinti che questa via venisse percorsa dai pellegrini per recarsi al Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono. Le prove disponibili chiamano in causa l’esclusività ebraica sul sito. Però finora non è stato pubblicato alcun rapporto sui dati reperiti dagli scavi. In assenza di essi, ogni interpretazione della storia del sito deve essere considerata una congettura piuttosto che un fatto.

Ovviamente la parte non ebraica della storia deve ancora essere narrata. Quando si cammina nel sito archeologico della città di Davide, si apprende molto sull’eredità ebraica. Ci si dovrebbe interrogare sul fatto che la Via del Pellegrinaggio sia stata scavata come tunnel orizzontale, un metodo di scavo archeologico molto contestato, che impedisce la possibilità di distinguere tra gli strati del sito.

Inoltre il tunnel consente ai visitatori di attraversare il villaggio di Silwan senza vedere neanche una volta un palestinese o affrontare le implicazioni politiche dell’impresa archeologica di Elad a Gerusalemme. Così, gli scavi nel tunnel possono essere visti come un ulteriore passo nell’appropriazione di ciò che Friedman e Greenblatt definiscono la “verità” della storia di Silwan, dato che gli scavi stessi – e non soltanto l’interpretazione di essi – ignorano e distruggono gli strati al di sotto e al di sopra di questa via.

Alla domanda sull’importanza della Via del Pellegrinaggio, Friedman ha affermato che “espone la verità e la scienza ad una discussione che per troppo tempo è stata deformata dai miti e dalle mistificazioni”, spiegando che i ritrovamenti “mettono fine agli infondati sforzi di negare il fatto storico dell’antico legame di Gerusalemme con il popolo ebraico.” Friedman e Greenblatt hanno aggiunto che qualunque soluzione per una pace sostenibile con i palestinesi deve basarsi sulla “verità”.

Tuttavia, come per tanti casi precedenti, sembra che la ricerca della verità attraverso l’archeologia si riveli una giustificazione di programmi nazionalisti piuttosto che un tentativo di costruire ponti tra popoli.

Nella loro ricerca di una verità di convenienza, per Friedman e Greenblatt niente è più facile che rimuovere la complessa vicenda storica di Silwan, della Via del Pellegrinaggio e della violenza che questa zona ha subito a causa dell’uso dell’archeologia da parte sia di israeliani che di palestinesi come partita a somma zero. Invece di monopolizzare una narrazione nazionalista esclusiva, sarebbe forse meglio che i leader di tutte le parti creassero un contesto capace di includere le tante narrazioni che il paesaggio contiene.

Chemi Shiff e Yonathan Mizrachi sono membri di Emek Shaveh, una Ong israeliana che si occupa della protezione dei siti antichi come beni pubblici che appartengono ai membri di tutte le comunità, fedi e popoli.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli accademici israeliani e l’emigrazione

Edo Konrad

24 giugno 2019 972.com

da Nena News

Alcuni documenti appena scoperti rivelano che, nei giorni immediatamente successivi all’occupazione, Israele istituì una “Commissione dei Cattedratici” con il compito di elaborare politiche volte a tenere calmi i palestinesi e a indurli ad abbandonare definitivamente la Cisgiordania e Gaza

Poche settimane dopo aver quasi triplicato la dimensione del territorio sotto controllo israeliano, con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele reclutò squadre di accademici perché individuassero un modo per  indurre i palestinesi ad emigrare dai territori appena occupati.

Secondo i documenti appena scoperti da Omru Shafer Raviv, dottorando del Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica, nel luglio del 1967 l’allora primo ministro Levi Eshkol riunì una commissione di accademici, tra cui l’illustre sociologo Shmuel Noah Eisenstadt, l’economista Michael Bruno, il demografo Roberto Bachi e il matematico Aryeh Dvoretzky – tutti  caratterizzati da legami con le alte sfere – e li spedì nei territori per analizzare la popolazione appena messa sotto occupazione.

In teoria, l’obiettivo della “Commissione per lo Sviluppo dei Territori Amministrati”, anche detta “Commissione dei Cattedratici”, era quello di creare un ente responsabile della “pianificazione a lungo termine” nei territori occupati. I professori, insieme alle loro squadre di ricercatori, vennero spediti nei villaggi, nelle città e nei campi profughi per intervistare i palestinesi sulle loro vite, bisogni e desideri.

Il secondo obiettivo, spiega Shafer Raviv, doveva essere una miglior comprensione dei palestinesi dei territori occupati, per poter capire come evitare che facessero resistenza al regime militare loro imposto da Israele – che ancora oggi li domina – mentre si cercava il modo di indurli ad andarsene. “Quei primi anni hanno dato forma alle odierne politiche israeliane”, sostiene Raviv.

La minaccia della modernità

Alla fine della guerra, il governo israeliano si era posto obiettivi di ogni sorta nei confronti della popolazione palestinese, primo fra tutti la riduzione del numero di coloro che vivevano nei territori occupati. “Lo si è visto soprattutto a Gaza, dove le autorità credevano di poter dimezzare la popolazione da 400mila a 200mila per far fronte al nuovo problema demografico”.

I palestinesi di Gaza erano per la maggior parte profughi: il governo voleva smantellare i campi profughi, inducendo (i profughi) a lasciare il Paese e a farsi “assorbire” – o a integrarsi – altrove, spiega Raviv. “Questo è il quadro in cui si inserisce la decisione di Eshkol di creare la Commissione dei Cattedratici”.

Nei primi anni dopo l’inizio dell’occupazione, ci fu un’ondata di resistenza popolare, per lo più nonviolenta, con diversi scioperi generali. Esisteva anche una resistenza armata, di gruppi come Fatah, che tentò di suscitare contro Israele una guerriglia in stile vietcong. Un altra missione che il governo israeliano affidò alla Commissione dei Cattedratici fu quella di capire come circoscrivere la resistenza popolare contro il dominio israeliano e scoprire in che misura idee rivoluzionarie come il comunismo o il nazionalismo palestinese  avrebbero potuto diffondersi nei territori occupati.

Per analizzare le loro scoperte empiriche e formulare linee guida politiche, gli accademici facevano riferimento a un quadro teorico chiamato “teoria della modernizzazione”. Tale teoria, secondo cui le società cambiano seguendo un andamento lineare, da “tradizionali” a “moderne”, divenne molto popolare tra gli scienziati sociali in Occidente, ma non ha superato adeguatamente la prova del tempo. I critici la accusano di essere troppo focalizzata sull’Occidente e fondamentalmente incapace di calcolare i complessi cambiamenti interni ed esterni che caratterizzano gruppi e società. Questi punti deboli teoretici avrebbero pregiudicato tutto il lavoro della Commissione.

“I ricercatori fecero una distinzione tra la popolazione giovanile urbana – più orientata al laicismo e all’istruzione e più incline a partecipare alle attività politiche – e la popolazione anziana, molto meno interessata alla politica, più tradizionalista, religiosa e rurale. La prima era considerata una minaccia, mentre lo stile di vita depoliticizzato di quest’ultima andava incoraggiato”, spiega Raviv.

Mentre gli scienziati sociali occidentali utilizzavano la teoria della modernizzazione nel tentativo di modernizzare le società come parte dello sforzo per evitare il comunismo, gli accademici e le autorità israeliane adottarono un approccio inverso.

“Quando si trattò di mettere una popolazione civile sotto controllo militare, la modernizzazione della società palestinese diventò un elemento avverso agli interessi israeliani”, aggiunge Raviv. “Il governo israeliano voleva mantenere tranquilla la popolazione occupata, e pensava che quanto più questa fosse stata modernizzata, tanto maggiore sarebbe stata la minaccia della resistenza”.

Tra i quesiti posti dai ricercatori israeliani ai palestinesi, c’erano anche domande su cosa mangiassero a cena, per capire se classificarli come “moderni” o “tradizionalisti”. Le cene di famiglia con molti commensali, per esempio, erano considerate tradizionali, mentre quelle più intime, con meno persone, erano considerate sintomo di modernità. Tutto ciò aveva delle conseguenze. Chi veniva considerato più “moderno” veniva più facilmente sospettato di essere laico, e quindi più incline a sostenere politiche nazionaliste o rivoluzionarie.

C’erano poi altre domande politiche, soprattutto nei campi profughi: “Vuoi trasferirti in un nuovo Paese? Perché no? Cosa ti convincerebbe a trasferirti? Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione alla questione profughi?”.

Nell’ottobre del 1967, un ricercatore, scienziato politico, si recò al confine di Allenby Bridge per intervistare i palestinesi diretti in Giordania. Molti palestinesi attraversavano sistematicamente il confine tra i territori palestinesi occupati e la Giordania, per lavoro o perché la loro famiglia viveva all’estero.

“Chiese a 500 persone per quale motivo avevano scelto di andarsene – spiega Raviv – e le risposte sarebbero poi state consegnate al governo, in modo da poter meglio comprendere le ragioni per cui la gente se ne andava”.

L’accademico israeliano, che lavorava con l’autorizzazione dell’esercito israeliano, concluse che i palestinesi se ne andavano in Giordania con l’obiettivo di trovare lavoro, o per motivi di ricongiungimento familiare.

”Sotto il dominio giordano c’erano stati pochissimi investimenti in Cisgiordania, così, quando gli israeliani la occuparono, semplicemente non c’era abbastanza lavoro” spiega Raviv. “Dopo la guerra, in Cisgiordania la situazione era ulteriormente peggiorata. Il governo israeliano preferì mantenere alta la disoccupazione, perché si rese conto che questo avrebbe spinto la gente ad emigrare verso posti come la Giordania o il Kuwait”.

Esperti colti alla sprovvista

Shafer Raviv fa parte di un gruppo di accademici israeliani che hanno deciso di focalizzare la loro ricerca sull’occupazione. Mentre i Nuovi Storici, come Benny Morris e Tom Segev, hanno scoperto dettagli della guerra del ’48 e degli anni successivi alla fondazione di Israele che contraddicevano direttamente la narrativa sionista, questo nuovo gruppo di ricercatori si è concentrato sul regime israeliano nei territori occupati.

Lo studio di Raviv è il primo di questo genere, dato che utilizza documenti governativi ufficiali risalenti alla guerra del 1967 e al periodo immediatamente successivo, che solo recentemente sono stati desecretati dall’Archivio Nazionale di Israele e dagli Archivi delle forze armate israeliane.

Fino alla guerra del 1967, la questione centrale del conflitto israelo-palestinese era quella dei profughi palestinesi, che erano stati deportati e fatti fuggire dal territorio poi divenuto Israele, e ai quali Israele impedì il ritorno alle proprie case dopo la guerra del 1948. Con la fine della guerra del 1967, Israele si ritrovò a spadroneggiare sulla maggior parte di quegli stessi profughi, che si erano rifugiati in Cisgiordania e Gaza da ormai quasi vent’anni.

Il governo israeliano, racconta Raviv, considerò l’occupazione del 1967 come un’opportunità per risolvere alle proprie condizioni il problema dei profughi, inducendoli ad andarsene di propria volontà o tramite un accordo con altri Stati arabi. Ma quando iniziarono la loro ricerca sui profughi, gli accademici scoprirono qualcosa che li colse alla sprovvista: ai profughi non interessavano soluzioni politiche che non comprendessero il loro ritorno alla terra d’origine.

“I ricercatori erano convinti che, se i profughi avessero potuto vivere tranquilli in qualche posto come il Kuwait, non avrebbero avuto alcun motivo per preferire una vita di patimenti in un campo profughi di Gaza”, spiega Raviv. “Ora, invece, la maggioranza dei profughi stava rispondendo che “No, noi vogliamo tornare in quella che è diventata Israele”. Il che, ovviamente, era fuori discussione per le autorità israeliane.

Gli accademici si stupirono ancor di più quando scoprirono che i profughi avevano più caratteristiche “moderne” rispetto alla maggior parte della restante società palestinese. “Quando erano stati costretti nei campi, i profughi avevano dovuto abbandonare le loro terre, il che significava che non c’era motivo che i loro figli imparassero a lavorare la terra”, spiega Raviv.

Costretti ad abbandonare lo stile di vita, i costumi e le economie agrarie della “vita rurale”, i profughi avevano iniziato ad investire nell’educazione dei figli, come fece l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di gestire i campi profughi. “Tutto ciò – dice Raviv – ebbe conseguenze a lungo termine: la percentuale di analfabetismo, nei profughi di prima generazione, si aggirava intorno al 70%, ma scese a circa il 7% con la seconda generazione, cresciuta nei campi profughi”.

La Commissione dei Cattedratici si augurò un rafforzamento di questa “tendenza alla modernizzazione” tra i profughi. Credeva che indurre i profughi di seconda generazione a ricevere un’istruzione e a spostarsi in città, luogo in cui poter realizzare i propri sogni, avrebbe forse portato allo smantellamento dei campi. Avevano capito che, con il semplice smantellamento dei campi profughi e spingendo la gente andarsene, si sarebbe arrivati a quella che battezzarono ”resistenza collettiva”.

”Gli accademici compresero che, per risolvere il problema dei profughi, non si poteva dire apertamente ‘risolvere il problema dei profughi’ ”, spiega Raviv. “Bisognava farlo sottovoce, e cos’è di più discreto che la ricerca di opportunità di studio o lavoro all’estero?”.

Lo spirito della Commissione è ancora vivo

Tra le altre indicazioni della Commissione dei Cattedratici, alcune furono inizialmente contro-intuitive nel loro scopo di incoraggiare l’emigrazione e ridurre il numero di palestinesi che vivevano sotto il controllo israeliano.

”Uno dei suggerimenti, adottato dal governo israeliano nel dicembre del 1967, era di permettere che chiunque volesse lasciare i territori occupati potesse tornarci – racconta Raviv – Era qualcosa di rivoluzionario; andava contro la posizione generale israeliana adottata nel 1948, che proibiva il ritorno delle persone che avevano lasciato il Paese. Se gli si dice in anticipo che non possono tornare, non se ne andranno mai, perché farlo significherebbe perdere qualsiasi legame con la loro famiglia e la loro terra”.

La Commissione dei Cattedratici pubblicò le prime anticipazioni nel settembre del 1967, anche se la prima parte della ricerca fu completata in febbraio del 1968, quando le conclusioni vennero consegnate al primo ministro Eshkol e la Commissione tenne un certo numero di consultazioni con i funzionari del governo militare.

In un documento di parecchi anni dopo, sono elencate almeno 30 ricerche su una gamma di tematiche come ad esempio la popolazione cristiana nei territori occupati, l’economia di Nablus e l’ipotesi di esportazione di beni israeliani in Libano. Questi progetti di ricerca continuarono per un bel po’, fino alla metà degli anni ‘70: a quel punto, la traccia cartacea si perde.

Shafer Raviv sostiene che, anche se non possiamo avere la certezza che le raccomandazioni della Commissione dei Cattedratici siano mai state trasformate direttamente in politiche di governo – dal momento che le autorità tennero in considerazione anche altre osservazioni, come per esempio le opinioni dello Shin Bet e dell’esercito – lo spirito della loro ricerca ha sicuramente influenzato chi aveva il potere decisionale.

Secondo lui, “non c’è prova che le raccomandazioni siano state adottate unicamente sulla base di ciò che la Commissione aveva proposto. Ma è evidente il legame tra raccomandazioni e politiche di governo. Se ne può notare un primo esempio nella decisione del governo di incentivare l’emigrazione palestinese”.

(Traduzione di Elena Bellini)




Alcuni rapporti svelano che negli attacchi contro Gaza sono stati deliberatamente presi di mira civili

Oren Ziv

14 giugno 2019 – +972

Due diverse inchieste di B’Tselem e Human Rights Watch hanno stabilito che l’esercito israeliano e gruppi armati palestinesi hanno illegalmente colpito la popolazione civile durante la più recente escalation a Gaza.

Secondo un nuovo rapporto di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] reso noto mercoledì, nella sua ultima campagna a Gaza Israele ha ucciso 13 civili palestinesi che non erano coinvolti nelle ostilità né affiliati a gruppi di miliziani. Due delle vittime erano bambini e tre erano donne, una delle quali a fine gravidanza. “Queste morti sono il prevedibile risultato dell’illegale e immorale politica israeliana di bombardare case a Gaza,” ha stabilito B’Tselem.

In base all’inchiesta di B’Tselem, dal 3 al 6 maggio Israele ha lanciato attacchi aerei ed ha bombardato più di 350 obiettivi a Gaza, ferendo 153 persone. L’associazione per i diritti umani ha anche scoperto che nessuno degli attacchi “è stato preceduto dal alcun adeguato avvertimento che potesse dare agli abitanti l’opportunità di cercare rifugio o di salvare i propri beni.”

Durante questo periodo i gruppi di miliziani legati ad Hamas e alla Jihad Islamica hanno lanciato circa 700 razzi contro Israele, uccidendo tre persone e ferendone 123. Un razzo lanciato da uomini della Jihad Islamica ha colpito una casa a Gaza ed ha ucciso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, e un missile anticarro sparato da quei gruppi ha ucciso un civile israeliano. Secondo il rapporto “il fatto di prendere di mira la popolazione civile in Israele è illegale e immorale,”.

Come negli attacchi precedenti, il rapporto ha rilevato che Israele ha di nuovo preso di mira edifici residenziali e uffici. Secondo le Nazioni Unite, è stato distrutto un totale di 33 unità abitative e altre 19 sono state gravemente danneggiate, lasciando senza casa 52 famiglie – 327 palestinesi, tra cui 65 bambini. Altre centinaia di abitazioni sono state parzialmente danneggiate.

B’Tselem ha sottolineato che sparare contro strutture residenziali in aree densamente popolate come la Striscia di Gaza “comporta inevitabilmente il rischio di danneggiare civili. Il pericolo non è ipotetico: negli scorsi anni Israele ha già ucciso migliaia di civili, comprese centinaia di minori, in attacchi aerei contro le loro case.” Nella sola operazione ‘Margine protettivo’ del 2014 Israele ha ucciso almeno 1.055 palestinesi – tra cui 405 minori e 229 donne – che non avevano preso parte alle ostilità.

Il rapporto evidenzia anche come questi attacchi non siano stati provocati da combattenti criminali che hanno trasgredito gli ordini militari, ma di fatto “parte di una politica formulata da personalità del governo e da importanti comandi militari.” Gli attacchi “hanno avuto l’appoggio dei corpi MAG [Military Advocate General, ufficio legale che fornisce la consulenza legale per giustificare le prassi dell’esercito israeliano, ndtr.], che emanano pareri giuridici che sostengono questa politica.”

Israele, continua il rapporto, ha giustificato questi attacchi affermando che sono conformi alla legge umanitaria internazionale, ma “quest’interpretazione è irragionevole, legalmente errata e basata su una visione del mondo moralmente distorta. Dovrebbe essere categoricamente rifiutata.”

In un altro rapporto reso pubblico anch’esso mercoledì, una ricerca di Human Rights Watch sull’escalation di maggio ha confermato i risultati di B’Tselem: “Quattro attacchi israeliani hanno colpito bersagli che non sembravano contenere alcun obiettivo militare o potrebbero aver provocato sproporzionate perdite civili in violazione delle leggi di guerra.” HRW ha anche affermato che, dato che i razzi sparati dai gruppi armati palestinesi non potevano prendere di mira un particolare obiettivo militare, il loro uso in zone civili è “intrinsecamente indiscriminato in violazione delle leggi di guerra.”

Entrambi i rapporti includono testimonianze di sopravvissuti agli o testimoni degli attacchi. Un missile sparato contro la casa della famiglia al-Madhun nel quartiere di al-‘Atatrah della città occidentale di Gaza Beit Lahiya ha ucciso quattro persone: ‘Abd a-Rahim al-Madhun, 60 anni, suo figlio ‘Abdallah al-Madhun, 21 anni, membro del braccio militare della Jihad islamica; sua nuora, Amani al-Madhun, 36 anni, madre di quattro figli che era incinta di nove mesi, e il loro vicino, Fadi Badran, di 33 anni. L’attacco ha anche ferito sei bambini.

Muhammad al-Madhun, figlio di ‘Abd a-Rahim, che era in casa al momento del bombardamento, ha detto a B’Tselem: “Sono arrivato a casa alle 14,30. Mia moglie e i bambini erano andati a dormire, perché pensavamo che non avremmo potuto chiudere occhio di notte, data l’escalation e i bombardamenti. Sono andato a dormire accanto a loro.”

“Mi sono alzato alle 17 e mi sono seduto in soggiorno a prendere un caffè con mio cugino e un vicino. Sono andato in cucina per fare il caffè per il mio vicino e quando sono tornato improvvisamente ho sentito una pesante esplosione in casa. Era fortissima, ma in un primo momento ho pensato che provenisse da qualcosa che era successo fuori. Mi ci è voluto un momento prima di capire che era avvenuta in casa. L’ho compreso quando ho visto schegge di vetro, di metallo, pietre, sabbia, polvere e fumo intorno a me. Sono rimasto lì scioccato e non mi potevo muovere. Sono semplicemente rimasto lì ed ho sentito i detriti e le macerie che cadevano giù attorno a me.

Ho chiamato i vicini e ho chiesto loro di tirare fuori da sotto i detriti i feriti – mia moglie e due dei miei bambini. Il mio vicino Muhammad al-Far è uscito dalle macerie e si è messo a camminare verso la strada portando mia figlia Fatimah di due anni e mezzo. L’ho sentita gridare e lamentarsi per il dolore.

Sono stato portato in ambulanza all’ospedale Indonesiano. Sono stato visitato ed hanno constatato che stavo bene. Sono andato ad identificare i corpi. Ho identificato quello di mia moglie Amani ed ho anche visto il corpo del feto. Poi ho identificato i corpi di Fadi Badran e di mio fratello Abdallah.”

Il padre di Mohammad è morto alla fine della giornata all’ospedale al-Shifa per le ferite riportate.

In un altro attacco due missili hanno colpito il tetto di un edificio di cinque piani, sempre a Beit Lahiya. L’esplosione ha ucciso sei persone di due famiglie, compreso un bambino di 3 mesi.

In quell’attacco Mohammad Abu al-Jidyan, 26 anni, ha perso entrambi i genitori. Stava tornando a casa quando suo padre l’ha chiamato per dirgli di affrettarsi a causa degli attacchi lanciati contro Gaza. “Circa 5 minuti dopo che mio padre aveva chiamato, sono arrivato al portone e sono entrato nell’edificio. In quello stesso momento l’appartamento in cui vivo con i miei genitori è stato bombardato,” ha detto al-Jidyan a B’Tselem.

“Sono corso su per le scale per vedere cosa fosse successo. Ho visto tutti i vicini correre giù e ho temuto che la mia famiglia fosse stata uccisa. Nessuno mi ha sentito. C’è un appartamento vuoto al quarto piano. Quando sono arrivato lì ho visto che il quinto piano, dove vivevamo i miei genitori, mio fratello ‘Abd a-Rahman ed io, era crollato e caduto sul quarto. Date le condizioni in cui era tutto quanto, ero sicuro che i miei genitori e mio fratello fossero caduti come martiri.

Le mie due sorelle ed io abbiamo perso tutta la famiglia – nostro padre, nostra madre e nostro fratello – senza un avvertimento e senza la possibilità di dirci addio. L’attacco è stato così brutale che non abbiamo neppure trovato i loro corpi tutti interi. Quando abbiamo sepolto i miei genitori, il corpo del mio fratellino era disteso nella stessa tomba con mia madre. Era nato dopo dieci anni di tentativi di rimanere incinta…Mi sento solo al mondo, senza i miei genitori e senza la nostra casa, che è rimasta completamente distrutta. Spero di riuscire a trovare la forza per superare quello che ci è successo.”

L’alleggerimento del blocco contro Gaza che Israele aveva accettato di mettere in atto nell’ultima serie di negoziati deve ancora essere realizzato pienamente e, dato che è previsto che le proteste presso la barriera di confine ricomincino venerdì, probabilmente è solo questione di tempo prima che ci sia un’altra ‘escalation’ nelle ostilità. Di conseguenza sarebbe saggio per Israele riconoscere il pesante prezzo che i palestinesi della Striscia di Gaza pagano persino durante periodi di ‘calma’ mentre resistono a condizioni di vita insopportabili a causa del blocco.

Una versione in ebraico di questo articolo è già stata pubblicata su Local Call.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”

Hind Khoudary

6 giugno 2019 – +972

Date le crescenti restrizioni sociali e politiche sotto il controllo di Hamas, i musicisti incontrano notevoli difficoltà se vogliono sviluppare la propria carriera musicale nella Striscia. Molti intendono andarsene per cercare opportunità altrove.

GAZA CITY – Abed Nasser, il proprietario del ristorante Ceda a Gaza City ha dato la notizia ai suoi clienti in un post su Facebook: lo spettacolo musicale tanto atteso in programma più tardi per la serata di Ramadan era stato annullato per le persecuzioni e l’intromissione dell’amministrazione di Hamas.

Secondo Nasser, la polizia aveva cercato di impedire l’accesso a un pubblico misto. Gli avevano ordinato di non permettere agli uomini di partecipare, a meno che non facessero parte di una famiglia che partecipava all’evento. A Nasser è stato chiesto di presentarsi alla sezione dell’intelligence della polizia di Gaza, ma lui ha rifiutato.

La musica sta diventando sempre di più un modo per i giovani di Gaza per sfogare stress e traumi – I palestinesi a Gaza hanno dovuto sopportare, per decenni, violenze e violazioni di diritti umani, in particolare da quando Israele ha imposto il blocco sulla Striscia nel 2007. Ma, con le crescenti restrizioni, sociali, politiche e religiose sotto il governo di Hamas, le opportunità per i musicisti sono ridotte, dato che il governo impedisce a gruppi e attività commerciali di offrire un palco per farlo.

Gli artisti che vogliono esibirsi o i locali che intendono ospitare eventi culturali devono prima procurarsi un permesso. Questo implica rivolgersi ad almeno quattro differenti autorità: il ministero del Turismo, il ministero della Pubblica Sicurezza, l’Unità Generale di Investigazioni che, fra le altre cose, agisce come una polizia della morale pubblica, e la stazione di polizia di Abbas. I permessi sono rilasciati in base a considerazioni di sicurezza e di carattere sociale. Parecchi titolari di esercizi che sono stati oggetto di tali restrizioni sono stati contattati per questo articolo, ma si sono rifiutati di rilasciare interviste per paura di intimidazioni governative.

Hamada Naserallah, un cantante professionista, laureato in legge, ha detto che Hamas gli ha impedito di esibirsi a Gaza almeno cinquanta volte. “Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”, ha detto Naserallah, che canta con il gruppo Sol Band, una band musicale palestinese che ha preso il nome della quinta nota della scala musicale. Il gruppo di otto componenti suona sia musica moderna che araba tradizionale. “Reprimere, umiliare, vietare feste, controllare la libertà – non posso cantare liberamente come tutti gli altri cantanti su questo pianeta”, ha aggiunto Naserallah.

Ci ha detto che, dopo il concerto del 2016 nella sala della Mezzaluna rossa, la polizia ha proibito al gruppo Sol Band di esibirsi per due anni, perché le donne e le ragazze del pubblico applaudivano e cantavano con Naserallah. Ora un ufficiale di polizia è presente a tutti i suoi concerti, sorveglia la lista delle canzoni e le interazioni con il pubblico. “Ricordo che la polizia una volta ha minacciato di buttarmi giù dal palco se avessi cantato ‘canzoni d’amore’, ha commentato.

In aprile Sol Band ha avuto l’opportunità di esibirsi all’Expo musicale palestinese, a Ramallah. Per Naserallah il sogno di lasciare Gaza si è avverato. Andarsene da Gaza è costoso, e richiede un permesso difficile da ottenere e Israele proibisce ai palestinesi quasi tutti i viaggi tra la Cisgiordania e Gaza. Per Naserallah questa è stata anche l’occasione di esibirsi su un palcoscenico senza una supervisione o censura governative, dato che Ramallah è relativamente più liberale di Gaza.

Prima che Hamas prendesse il controllo nel giugno 2007, la comunità palestinese a Gaza era per la maggior parte tradizionalista e conservatrice”, scrisse nel 2010 Mkhaimer Abu Saada, docente di scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza. Ma, da quando controlla la Striscia, Hamas ha intensificato gli sforzi per imporre un’interpretazione conservatrice delle regole della Sharia, anche sulla vita sociale della Striscia.

Ayman Al Batniji, un portavoce della polizia di Gaza a cui è stato chiesto un commento, ha detto che le autorità impediscono solo le feste che “incoraggiano le frequentazioni anormali” fra i sessi. La polizia vieta le riunioni che possono danneggiare i valori della comunità, ha aggiunto, sottolineando che Gaza è una società conservatrice. La gente o i locali a cui è stato impedito di fare una festa avevano avuto in precedenza problemi con il governo in relazione alla moralità, ha detto Batniji, ma per il resto le autorità non impediscono alla gente di esibirsi o di tenere eventi culturali.

Secondo uno studio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, che ha preso in esame l’amministrazione di Hamas nella Striscia dal 2011 al 2015, Hamas ha informalmente permesso un approccio più liberale di esistere parallelamente al suo governo conservatore. Per esempio, Hamas incoraggia la separazione dei sessi in scuole e università, ma non l’ha imposta ufficialmente. Basandosi sui dati del medesimo rapporto, Hamas ha comunque mostrato “poca tolleranza nei confronti di una presenza mista ad attività culturali, specialmente se implicano musica, danza e canto”.

Le restrizioni sociali stanno avendo un impatto, al punto che Sol Band ha rinunciato ad esibirsi a Gaza. Hanno invece deciso di crearsi un pubblico sui social media, postando video su Instagram e Facebook. Comunque anche questo sta diventando difficile, dice Naserallah, dato che Hamas non permette ai musicisti a Gaza di filmare video mentre cantano o suonano uno strumento in strada senza prima avere un permesso del Ministero degli Affari Interni, neppure per una storia su Istagram.

Tre dei componenti del gruppo hanno già lasciato Gaza per sempre a causa della mancanza di libertà e di opportunità di sviluppare la propria carriera. A uno dei più giovani, Rahaf Shamaly, 16 anni, è proibito cantare su un palcoscenico, in ristoranti e caffè a Gaza, semplicemente perché è una donna. L’anno scorso la polizia ha impedito a Shamaly di esibirsi al Jazz Journey in Palestine tenuto a Gaza dall’UNESCO.

Vivo in una comunità conservatrice, dove la cultura e le tradizioni controllano la gente. A Gaza non si è abituati a vedere una donna cantare con musicisti maschi” ci ha detto Shamaly. Lei non crede di avere un futuro da cantante a Gaza, date queste restrizioni. Come molti giovani palestinesi, frustrati dai vari livelli di oppressione, con una disoccupazione crescente e limitazioni alla libertà, sta progettando di lasciare la Striscia dopo il diploma di scuola superiore.

Hind Khoudary è un reporter che vive a Gaza.

(traduzione di Mirella Alessio)




Il prezzo pagato dai mizrahim per fare il militare nell’esercito israeliano

Orly Noy

29 maggio 2019 – +972 Magazine

I mizrahim sono costretti a fare il lavoro sporco dell’occupazione, scontrandosi faccia a faccia con i loro sottoposti palestinesi in Cisgiordania. Le cose non dovrebbero andare per forza così.

È difficile sapere con certezza che tipo di considerazioni siano alla base della crisi crescente tra il primo ministro Benjamin Ntanyahu e Avigdor Liberman. Una crisi che potrebbe portare alle elezioni anticipate se i due non dovessero riuscire a formare una coalizione insieme.

Ma c’è qualcosa di quasi ridicolo nel fatto che i due non riescano a trovare un accordo su un problema che, sotto tutti i punti di vista, è uno dei più grandi inganni collettivi del nostro dibattito pubblico: la coscrizione forzata degli israeliani ultraortodossi.

La truffa parte dal concetto che si possa persino avere il coraggio di definire quello israeliano come un “esercito del popolo” grazie alla coscrizione forzata dei suoi cittadini. La parola “popolo” naturalmente si riferisce ai soli cittadini ebrei di Israele: i palestinesi cittadini di Israele non vengono comunque presi in considerazione.

Ma persino tra gli israeliani ebrei la coscrizione forzata è lungi dall’attirare consensi. Come afferma il professor Yagil Levy nei suoi studi sulla relazione tra esercito, politica e società israeliani, l’obbligo all’arruolamento degli ultraortodossi, la maggioranza dei quali si rifiuta di servire le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.], rappresenta il crollo della definizione stessa di “armata del popolo”. E mentre tale termine si svuota sempre più di ogni significato reale, la pretesa incessante di arruolare tutti gli ebrei israeliani ha fatto fare carriera a una quantità di politici cinici e opportunisti.

Non c’è motivo dunque per non estendere il discorso anche al tema della coscrizione forzata degli altri gruppi della società israeliana, inclusi i mizrahim (ebrei provenienti dai paesi arabi e/o musulmani).

Assieme alla menzogna dell’“armata del popolo”, l’etica militaristica di Israele ha aiutato a rafforzare l’illusione del ruolo dell’esercito come grande strumento livellatore della società israeliana, come un vero e proprio biglietto d’ingresso all’israelianità. Ma l’inseguimento costante dei mizrahim – che comincia nei quartieri dimenticati e nelle città in sviluppo nella periferia del paese e continua con il fatto che molti adolescenti mizhrai vengano mandati a studiare negli istituti professionali – prosegue anche nelle IDF.

Lì, molti vengono mandati a prendere parte alle operazioni di polizia e ai combattimenti contro i palestinesi nei territori occupati, mentre gli israeliani di classe medio-alta tendono più a servire negli ospedali o nelle unità speciali. Così come per le opportunità di istruzione, nell’esercito i mizrahim vengono inviati nelle zone periferiche a fungere da forza lavoro in nero, agli ultimi posti della gerarchia. Tutto ciò si è solo intensificato con il blitz organizzato dalla comunità nazional-religiosa per la conquista delle più alte cariche dell’esercito.

È vero che nelle IDF i mizrahim hanno una maggiore possibilità di mobilità sociale che consente loro di salire la scala sociale fino ai vertici, se confrontato ad altre istituzioni legali o politiche di Israele, ma questa è solo l’altra faccia della stessa tragica medaglia: è un sistema in cui possibilità di ascesa sociale sono inestricabilmente legate alla de-arabizzazione dell’identità mizrahi, adottando nel frattempo come modello l’immagine del mista’arev (soldati travestiti da arabi). Questa è in parole povere la storia dei mizrahi vis a vis con il sionismo da almeno settant’anni: oppressione e discriminazione a causa della componente araba dell’identità mizrahi, con la promessa che, disfacendosi di ogni traccia di arabicità fino a sviluppare un ardente odio verso gli arabi, le loro chance di entrare nel giro dei privilegiati aumentino.
Questa dinamica distruttiva è stata una parte significativa del processo grazie al quale un’ampia fetta della comunità mizrahi ha abbracciato politiche aggressivamente di destra (
a cui hanno contribuito anche i disastri commessi dalla sinistra israeliana). Ma nell’esercito, questa dinamica prende una piega ancora più tragica: l’arruolamento come arma di autodistruzione dell’identità mizrahi. Per esempio, tale tattica si riscontra nella adozione dei mizrahi come mita’arevim, militari che vengono spediti nei territori occupati e usano il loro aspetto di arabi per fare la guerra agli arabi, usati dunque contro la loro stessa arabicità.

Questa tendenza può essere anche vista nell’uso della lingua araba nell’esercito. Come sottolineato dal dott. Yoni Mendel in una petizione degli israeliani mizrahi contro la legge “Israele Stato-Nazione degli Ebrei”, l’arabo in Israele è stato sottoposto a un processo di “trasformazione in questione di sicurezza”: deprivandolo della sua legittimità culturale, l’arabo è stato portato via a tutti quegli ebrei mizrahi che desideravano distinguersi dalle connotazioni negative che erano state cucite loro addosso. Nel frattempo, all’arabo era stata conferita legittimità solo in contesti di “sicurezza nazionale” – come i problemi di intelligence o di hasbara. Ovvero, i mizrahim distruggono la loro stessa identità araba utilizzando l’arabo allo scopo di combattere “l’altro arabo”.

L’attacco all’identità mizrahi all’interno dell’esercito è ormai un processo inevitabile nell’ambito di quel sistema. Il tentativo di provare e mettere in pratica un cambiamento dall’interno dell’esercito stesso significherebbe lavorare per assicurare ai soldati mizrahi di poter fare la scalata sociale fino a sedere in quelle stanze con l’aria condizionata da cui si inviano a fare il lavoro sporco coloro che si trovano in una posizione inferiore nella piramide sociale. Gli ultraortodossi capiscono bene che l’arruolamento corromperà l’identità e i valori fondamentali della loro comunità, e stanno quindi conducendo una strenua battaglia contro questo. Non c’è alcun motivo per cui i mizrahim non dovrebbero pensarla allo stesso modo su cosa la coscrizione provochi sulla loro comunità.

Questo articolo è stato inizialmente pubblicato in lingua ebraica su Local Call.

(Traduzione di Maria Monno)




Storie di sofferenza tragicamente normale a Gaza

Tania Hary

6 maggio 2019 +972

Ho ricevuto una mail da un uomo che mi chiedeva se avrei potuto aiutare lui e la sua famiglia a scappare da Gaza se fosse scoppiata una guerra. Sembra così ragionevole, finché non ti rendi conto che non ci sono precedenti di evacuazione di civili palestinesi in tempo di guerra.

Ieri un personaggio di Gaza popolare nei social media ha twittato che se avesse dovuto scegliere un film che assomigliasse di più alla vita nella Striscia sarebbe stato Groundhog’s Day [Ricomincio da capo]. Nella commedia del 1993 il protagonista è obbligato a rivivere in continuazione lo stesso giorno. Potrebbe sembrare un’osservazione superficiale, dato che ieri è stato il giorno più sanguinoso dello scontro tra Israele e Gaza dall’operazione militare del 2014 [“Margine protettivo”], con 27 palestinesi uccisi dalle forze israeliane e quattro cittadini israeliani uccisi dal lancio di razzi da Gaza. La morte, la distruzione e la fosca previsione di un’altra guerra vissuta da milioni di persone sono cose troppo dure per essere prese alla leggera.

  • La considerazione ovviamente riguardava qualcosa di molto più sinistro – una sensazione pervasiva di esserci già passati prima, di vedere lo stesso film. Ci alziamo, c’è un’escalation, persone (per lo più palestinesi) vengono uccise, un cessate il fuoco i cui dettagli non vengono mai del tutto resi noti entra in vigore proprio nel momento in cui pare che le cose possano scappare di mano, e poi un taglio, il film finisce.

Tuttavia, come hanno osservato giustamente molti analisti, gli accordi raggiunti in questi oscuri cessate il fuoco non sono stati posti in essere, spingendo quindi le fazioni palestinesi a prendere le armi e a rafforzare la propria posizione negoziale. Ci alziamo, c’è un’escalation, le persone (per lo più palestinesi) vengono uccise, ecc. ancora e ancora, si sa già la dinamica.

Anch’io sto guardando quel film, dalla mia prospettiva fuori dalla Striscia, per lo più dall’ufficio di Tel Aviv in cui lavoro come direttrice di un’organizzazione israeliana per i diritti umani che promuove la libertà di movimento per i palestinesi. Ma ovviamente non si tratta di un film, e le persone a Gaza stanno vivendo la vita reale – quando i media informano e quando non lo fanno.

Ieri ho sentito molte storie dai nostri amici, clienti, partner e altri contatti a Gaza. Non erano necessariamente le storie più drammatiche, non sono arrivate ai notiziari della notte. Erano le storie devastanti ma normali delle esperienze di vita di moltissime persone a Gaza. Erano le storie della normalità da “Groundhog Day” a Gaza.

Una mail con oggetto “Evacuazione in caso di guerra”, in cui un uomo chiedeva se “Gisha” [Ong israeliana per i diritti umani, ndtr.] potesse aiutare lui e la sua famiglia a scappare. Sembra così ragionevole, finché non ti rendi conto che non ci sono precedenti di evacuazione di civili palestinesi durante le ultime tre principali operazioni militari. Le uniche persone evacuate sono state alcune centinaia di possessori di passaporti stranieri e solo dopo che gli scontri erano finite.

Il nostro operatore sul campo a Gaza ha confidato di aver cercato di dire ai suoi figli che le esplosioni che sentivano non erano niente, o che erano lontane, e che non rappresentavano una minaccia, ma ha lamentato (quasi con orgoglio) che i suoi figli piccoli la sapevano troppo lunga per credergli.

Un giovane uomo di soli 29 anni, ci ha mandato foto, prima e dopo, del suo negozio di vestiti distrutto. Ha raccontato che aveva investito i risparmi della sua misera vita nel negozio e aveva ordinato vestiti per Eid-al-Fitr, la festa che segna la fine del Ramadan, quando la gente che può permetterselo si compra vestiti nuovi. Il negozio a piano terra era ridotto a un cumulo di macerie e tutte le merci erano rimaste distrutte in uno degli attacchi che hanno demolito l’intero edificio. Un attacco missilistico ha tolto il lavoro a lui e ai suoi due dipendenti e in una frazione di secondo lo ha precipitato nell’abisso di debiti insostenibili. Forse sono stati fortunati ad esserne usciti vivi, rendendo la loro storia praticamente insignificante. Non sono neanche riusciti a risultare nel macabro conteggio dei “loro” morti contro i “nostri” nei notiziari della sera.

Così tanti civili hanno pagato, stanno pagando e pagheranno il prezzo della follia di leader moralmente senza remore che ci precipitano in guerra, e poi all’improvviso ce ne allontanano. Non ci sono solo “due parti” in questa storia, ci sono molteplici modi in cui può finire e non tutti promettono guerra contro milioni di persone.

Siamo bloccati in un circolo vizioso non solo perché gli accordi di cessate il fuoco non vengono messi in pratica, ma perché Israele e molti dei suoi alleati rifiutano di comprendere che i civili rappresentano la grandissima maggioranza della popolazione della Striscia. Le loro vite e ogni aspetto della vita nella Striscia sono stati ridotti a merce di scambio – il limite della zona di pesca sarà di sei miglia o di dodici o di quindici o di nuovo di sei? La prossima stagione le fragole arriveranno in Cisgiordania? Riuscirai a vedere tuo padre malato in Cisgiordania?

Israele è il principale attore che decide se i palestinesi di Gaza vivranno o moriranno durante ogni determinata escalation, ma anche come vivranno tra una violenta escalation e l’altra – se il loro negozio otterrà i suoi prodotti, se riceveranno le cure di cui hanno bisogno, se possono pescare o coltivare la terra in sicurezza. Anche altri attori – Hamas, altre fazioni palestinesi, l’Autorità Nazionale Palestinese, l’Egitto, il Qatar e il resto della comunità internazionale – stanno giocando un ruolo.

Ma se Israele volesse uscire dal circolo vizioso potrebbe, in qualunque momento, compiere una serie di passi per cambiare rotta a Gaza e riconoscere le vite normali di civili normali che hanno il diritto di vivere – cioè, non solo sopravvivere, ma di prosperare. Le armi tacciono, per modo di dire, ma non è il momento di guardare altrove. Non si tratta di applicare o non applicare il cessate il fuoco, si tratta di spezzare la maledizione di ripetere in continuazione lo stesso copione.

Tania Hary è la direttrice esecutiva di Gisha – Centro Legale per la Libertà di Movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




No, l’escalation non inizia con i razzi su Israele

Orly Noy

5 maggio 2019 , + 972

Israele può raccontare a sé stesso e al resto del mondo la storia di essere una vittima. In realtà da un decennio sta facendo violenza a due milioni di abitanti di Gaza assediati.

Mentre il numero delle vittime da entrambe le parti del confine di Gaza continua a crescere, i politici israeliani sono impegnati nella loro annosa questione: dobbiamo distruggere Gaza? Cancellarla? Oppure dobbiamo ricacciarla all’età della pietra? Propongo di trarre una lezione diversa dalla terribile violenza che, finora, è già costata la vita a 16 palestinesi e 4 israeliani: noi israeliani dobbiamo imparare l’arabo.

Mi rendo conto che la mia proposta è molto meno allettante per la maggior parte degli israeliani della “soluzione” che comporta più violenza e spargimento di sangue, ma a lungo termine potrebbe essere proprio la più efficace. Dopotutto, imparare l’arabo è l’unico modo per superare la nostra ignoranza riguardo a ciò che accade dall’altra parte tra un’“escalation” e l’altra, che secondo Israele inizia sempre con la prima vittima israeliana.

La prima cosa che si impara in ogni corso introduttivo di storia è che la storia è scritta dai vincitori. Può essere vero, ma questo non cancella il ruolo dei vinti. Forse la storia è scritta dai vincitori, ma è fatta da tutti i soggetti coinvolti.

Israele può raccontare a sé stesso e al mondo la storia che vuole. Può parlare di “escalation” solo quando cadono razzi nel sud, o di terrorismo solo quando i suoi cittadini ne pagano il prezzo. Può cancellare il feroce blocco di Gaza, l’indigenza senza fine della sua popolazione, i cecchini che uccidono manifestanti disarmati, gli spari contro i pescatori, la mancanza di acqua potabile, di elettricità, di infrastrutture, l’economia e la disoccupazione.

Però nulla di tutto ciò cesserà di far parte della storia dell’occupazione e della violenza. Con il dovuto rispetto, una narrazione non può sostituire la realtà e nella realtà Israele ha maltrattato due milioni di gazawi per oltre un decennio. Che cosa pensavamo che sarebbe successo? Che poiché i più forti hanno il potere di raccontare la storia i deboli semplicemente sarebbero scomparsi?

Coloro che seguono le trasmissioni in lingua araba in mezzo ai vari attacchi coi razzi sul sud di Israele scopriranno un universo parallelo che i media ebraici difficilmente prendono in considerazione. Per loro, “escalation” non vuol dire lancio di razzi sul sud (di Israele) – è vita quotidiana. E non solo a Gaza, ovviamente. Aprite qualunque sito di informazioni palestinese durante questi cosiddetti periodi di “calma” e scoprirete che la guerra non finisce mai davvero. I bambini palestinesi continuano a essere arrestati, le case palestinesi continuano ad essere demolite e i palestinesi continuano ad essere espulsi dalla loro terra.

E’ impossibile comprendere la nostra realtà senza comprendere la loro. Se non per umanità basilare, almeno per la consapevolezza che i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania fanno anch’essi parte della storia che stiamo vivendo. Nessuna propaganda israeliana può cambiare questo.

Un’analoga ignoranza ammorba il discorso pubblico nei confronti degli abitanti del sud di Israele, che sono stati pesantemente colpiti dai razzi negli ultimi quindici anni. Non è neppure questione di condiscendenza e ‘schadenfreude’ [dal tedesco: rallegrarsi della sfortuna altrui, ndtr.] (“Hanno votato Netanyahu? Si meritano i razzi”): il problema principale è che questo modo di pensare riduce le loro esperienze all’essere dei bersagli. Ad essere delle vittime.

Questo atteggiamento verso gli abitanti di quella che viene comunemente chiamata “la periferia” nasce non solo nel contesto dei lanci di razzi, ma caratterizza la posizione prevalente in Israele rispetto a tutto ciò che non fa parte dell’area di Tel Aviv. Il ruolo della periferia nel discorso politico israeliano è quello della vittima. Dopotutto, anche Tel Aviv è stata in precedenza colpita da razzi da Gaza, eppure nessuno si aspetta che i suoi abitanti adeguino il proprio modo di votare alla loro nuova situazione. E’ sufficiente sapere che questo non sarebbe avvenuto nemmeno se gli abitanti di Tel Aviv avessero continuato ad essere bombardati.

Personalmente credo che chiunque voti per Netanyahu non solo prende una decisione immorale, ma vota contro i propri interessi personali come cittadino di questo Stato. Capisco anche che agli occhi dei suoi elettori questo non è semplicemente un capriccio. Il primo ministro offre ai suoi sostenitori la promessa di un costante e violento dominio sui palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, incrementando al contempo la supremazia ebraica all’interno di Israele. Non si può ignorare la logica di queste priorità, a prescindere da quanto siano immorali.

Gli abitanti del sud di Israele che hanno votato per Netanyahu non lo hanno fatto a causa del ruolo che l’Israele che conta ha disegnato per “i poveri abitanti di una periferia sotto il tiro dei razzi”. Lo fanno perché sono cittadini ebrei in uno Stato suprematista ebraico.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call.

Inizio modulo

Fine modulo

Inizio modulo

Fine modulo

Inizio modulo

Fine modulo

Inizio modulo

Fine modulo

Sono un’attivista politica, un tempo all’interno della ‘Coalition for Peace’ e di ‘Mizrahi Democratic Rainbow’, ed attualmente come membro del comitato esecutivo di ‘B’Tselem’, e sono attivista del partito politico Balad [partito arabo ed ebraico israeliano antisionista, ndtr.]. Mi occupo delle linee che attraversano e definiscono la mia identità come mizrahi [ebrei di origine araba o degli altri Paesi del Medio Oriente, ndtr.], femminista di sinistra, donna, migrante temporanea che vive all’interno di una continua migrazione e del costante dialogo tra di esse. Traduco poesia e prosa dal farsi [lingua parlata in Iran, ndtr.] e il mio sogno è di costruire, se non un’intera biblioteca, almeno un semplice scaffale di libri persiani in ebraico, come atto politico nella lotta contro l’emarginazione della cultura mizrahi nel dibattito israeliano.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’appoggio ai leader di estrema destra di Netanyahu espone gli ebrei al rischio di antisemitismo

Rachel Shenhav-Goldberg

1 maggio 2019, +972 Magazine

Allineandosi ai leader nazionalisti che promuovono il suprematismo bianco, Netanyahu ha abbandonato la comunità ebraica mondiale con l’intento di rafforzare le sue manovre nazionaliste.

Da alcuni anni ormai, il primo ministro Benjamin Netanyahu sta stringendo relazioni diplomatiche forti con i leader nazionalisti di estrema destra del mondo. Tale allineamento potrebbe favorire il piano di Netanyahu di rafforzare il nazionalismo ebraico in Israele, ma allo stesso tempo esso indebolisce gli ebrei della diaspora e li rende più vulnerabili ai crimini di odio antisemita nei loro paesi.

Negli ultimi cinquant’anni l’antisemitismo è stato un fenomeno in declino, specialmente negli Stati Uniti. Oggi gli ebrei negli Stati Uniti occupano posizioni politiche di rilievo, svolgono ruoli chiave nel mondo degli affari e dell’intrattenimento e sono ben integrati nella società americana: sono americani in tutto e per tutto. Ciononostante, come dimostra amaramente l’orrendo atto terroristico in una sinagoga di San Diego la scorsa settimana, i suprematisti e nazionalisti bianchi non hanno mai accettato gli ebrei come loro pari o nemmeno come bianchi.

Il suprematismo bianco di certo esiste ancora: distruggere 500 anni di strutture istituzionalizzate e l’interiorizzazione dello status di privilegiati non è facile. Addirittura l’elezione del presidente Obama è stato sotto molti aspetti solo un progressivismo di facciata, una falsa speranza. Studi hanno dimostrato che il razzismo verso gli afroamericani era di fatto aumentato durante la presidenza Obama. Inoltre, la promessa del presidente Trump di “rendere l’America di nuovo grande” ha dato ai nazionalisti e suprematisti bianchi un segnale di assenso ad alzare la testa e agire.

La Anti Defamation League ha registrato nello scorso anno un totale di 1.879 atti di molestie, vandalismo e aggressione fisica commessi contro gli ebrei negli Stati Uniti. Questo rappresenta il terzo numero più alto di crimini registrati dagli anni 70 a oggi.

Le politiche di Netanyahu e la sua visione di Israele, unite al suo narcisismo e all’ambizione a rimanere al potere per sempre, hanno creato delle divisioni non solo all’interno della società israeliana, ma anche tra Israele e gli ebrei americani. L’idea di Israele che ha Netanyahu non è quella di una nazione ebraica con uguali diritti per tutti, bensì di una nazione israelo-ebraica, lasciando soli quindi sia gli israeliani non ebrei sia gli ebrei non israeliani.
Inoltre, la filosofia di Netanyahu del “si fa come dico io altrimenti quella è la porta” trasforma in traditori tutti quegli ebrei americani che si oppongono all’occupazione o che non supportano a pieno le politiche di Israele. Per rimpiazzare il mancato supporto, previsto o reale, Netanyahu si è cercato alleati altrove, in coloro che si sentono a proprio agio con le sue stesse idee nazionaliste.

Il comun denominatore tra tutti questi leader (Viktor Orban in Ungheria, Jair Bolsonaro in Brasile e Donald Trump) è il supporto, spesso solo accennato ma a tratti anche esplicito, al suprematismo bianco. Essi appoggiano e impiegano retoriche dell’odio, usano termini razzisti, minano i diritti LGBTQ e delle donne. Il loro vero scopo è la promozione dell’ “ancien régime” discriminando e svilendo la posizione delle minoranze, categoria in cui inevitabilmente e ripetutamente rientrano anche gli ebrei.

La supremazia nazionale che questi leader promuovono nei rispettivi paesi è sotto molti aspetti indistinguibile dalle politiche di Netanyahu in Israele. Netanyahu è un uomo intelligente, qualsiasi sua mossa è perfettamente e strategicamente studiata. Allineandosi con i nazionalisti dell’estrema destra che promuovono il suprematismo bianco, l’antisemitismo e la conseguente violenza da essi provocata, ha deciso di abbandonare gli ebrei di tutto il mondo in cambio del supporto diplomatico e della legittimazione delle sue manovre nazionaliste.

Israele è diventato uno Stato ebraico a cui interessano solo i cittadini israeliani ebrei, infrangendo così la sua promessa di proteggere gli ebrei della diaspora, senza contare i suoi obblighi verso tutti i non-ebrei che vivono sotto il governo israeliano.

Rachel Shenhav-Goldberg è una cittadina israeliana residente in Nord America. Ha conseguito un dottorato in lavoro sociale all’università di Tel Aviv e un post-dottorato all’Università di Toronto. La sua attività di ricerca si concentra prevalentemente sull’antirazzismo in Israele e l’antisemitismo nel Nord America. È anche una mediatrice, fa lavoro sociale e volontariato per il New Israeli Fund (Nuovo Fondo Israeliano) in Canada.

(Traduzione di Maria Monno)




due articoli sul futuro dell’opposizione israeliana con proposte diametralmente opposte

Nota redazionale: riteniamo interessante presentare questi due articoli che affrontano il problema cruciale della ricerca strategica di un’alleanza tra le classi popolari del gruppo maggioritario e dominante e di quelle dominate e oppresse in un contesto coloniale. I due articoli che seguono propongono prospettive opposte.

Smettiamola di parlare di una “collaborazione tra ebrei e arabi” falsa

Rami Younis e Orly Noy 

17 aprile 2019, +972

Creando una simmetria tra israeliani e arabi, gli ebrei di sinistra non hanno solo perso di vista l’intero quadro, ma stanno contribuendo attivamente a cancellare la lotta palestinese.

Il triste stato del “campo della sinistra” era già chiaro molto prima che la scorsa settimana venissero resi pubblici i risultati finali delle elezioni israeliane. Come se niente fosse, è iniziato il rituale delle dichiarazioni su cosa ci sia di sbagliato nella sinistra e su come rimediare.

La pozione utile per tutti i mali “collaborazione tra ebrei e arabi” è stata tra le suggestioni più diffuse. La prescrizione sembra così ideologicamente corretta e politicamente necessaria che ogni critica è spesso interpretata quanto meno come cinica pedanteria. Eppure vale la pena di dare uno sguardo approfondito all’essenza di questa collaborazione.

Invisibile egemonia ebraica

Più che manifestare un’aspirazione all’uguaglianza, l’idea della collaborazione tra ebrei ed arabi presuppone una condizione simmetrica. In questo senso, si tratta di una versione leggermente aggiornata del concetto di “coesistenza”, che negli ultimi anni si è trasformato in una sorta di parolaccia nel campo pacifista, e per buone ragioni. Non è che ci opponiamo all’idea di coesistenza, ma siamo piuttosto arrivati alla convinzione che la coesistenza non riflette i rapporti di potere distorti tra gli ebrei israeliani e i palestinesi. È diventato un modo di dire troppo comodo da utilizzare per coloro i quali conoscono come unica coesistenza quella tra un cavallo e il suo cavaliere.

Possiamo presumere che quanti invocano una “collaborazione tra ebrei e arabi” non vogliano quella stupida forma di coesistenza, eppure si avvalgono dello stesso pericoloso senso di simmetria immaginario. Non è casuale che siano i maschi ebrei askenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndt.] che in genere guidano questi appelli alla collaborazione. Analogamente non è semplicemente simbolico che discorsi sulla collaborazione tra ebrei e arabi antepongano quasi sempre gli ebrei agli arabi, riflettendo l’invisibile egemonia ebraica che fa da base al concetto concreto.

Si può riscontrare la stessa asimmetria nello slogan non ufficiale delle persone e dei movimenti che sostengono che la risposta sia la collaborazione: “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”. L’importanza dell’oppresso che rifiuta di essere nemico del proprio oppressore non dovrebbe essere sottovalutata. Ma all’oppressore bisognerebbe chiedere qualcosa di completamente diverso: lui o lei devono rifiutarsi di dominare l’oppresso. Ciò non può essere ottenuto in una situazione di falsa simmetria.

Ciò è vero non solo per ragioni etiche, ma anche perché una lotta prigioniera di una realtà opposta, per quanto questa prospettiva possa essere valida, non potrà mai essere efficace. Finché l’egemonia ebraica resta invisibile, i vari modi in cui decide come sarà questa collaborazione, rimangono invisibili anch’essi in virtù dello stesso linguaggio di simmetria. Si prenda ad esempio il manifesto pubblicato da “Standing Together”, il principale movimento per la collaborazione tra ebrei e arabi, che afferma che non crede nello sventolio di nessuna bandiera nazionale.

Nella nostra situazione la bandiera ebrea-israeliana è ovviamente parte del panorama, mentre quella palestinese, e peraltro l’esistenza del popolo palestinese, è rifiutata, umiliata e cancellata. Quindi togliere di mezzo entrambe le bandiere non fa progredire l’uguaglianza, approfondisce la disuguaglianza. Nel mondo reale, la bandiera blu e bianca non ha bisogno di legittimazione, quella palestinese sì. Dire che le bandiere possono essere escluse simmetricamente significa negare che qui il destino di una persona sia determinato dalla propria affiliazione nazionale. Questa non è collaborazione, è partecipazione attiva all’oppressione.

La stessa invisibile egemonia ebraica sta anche dietro a varie proposte di fondere o unificare i partiti politici Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndt.], laburista [partito sionista dominatore della politica israeliana fino agli anni ’70, ndt.] e Hadash [partito non sionista a maggioranza arabo-israeliana, ndt.]. Questa fusione significherebbe ancora una volta che gli ebrei scelgono con quali “arabi buoni” possono costruire una “collaborazione”. Così facendo inoltre definiscono e delegittimano gli “arabi cattivi” che non sono degni di questa collaborazione.

Ricordate la Nakba?

La falsa simmetria sostenuta da quanti credono che “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” è quantomeno pericolosa. Un’intera costruzione basata su un’ideologia razzista, il sionismo, ha lavorato senza sosta durante 71 anni per cancellare sia la narrazione che l’identità palestinesi. Intere generazioni di palestinesi cittadini di Israele sono cresciute qui senza sapere di essere palestinesi – senza conoscere le ingiustizie perpetrate contro il loro stesso popolo. Com’è possibile che queste stesse persone che rivendicano giustizia e uguaglianza contribuiscano solo a perpetuare questa situazione?

E se molti palestinesi non sanno da dove vengono, come potranno sapere dove devono andare?

Abolire l’identità nazionale è anche funzionale a uno dei più ripetuti cliché della destra contro i palestinesi. A ogni palestinese che osi parlare della Nakba, la più grande ingiustizia perpetrata qui – e che la classe dirigente sionista rifiuta di riconoscere – viene immediatamente detto dal simbolico fascista di turno di andarsene e di smetterla di piagnucolare. Questi stessi fascisti rifiutano di capire, o forse scelgono di ignorare, la ferita sanguinante del 1948 e il grande problema storico del popolo palestinese.

Quelli che insistono per una collaborazione tra ebrei e arabi preferiscono concentrarsi sul 1967 [cioè nell’occupazione di Cisgiordania e Gaza, ndt.] come l’anno della grande ingiustizia. Ma non è così. Nella migliore delle ipotesi, non vedono la realtà, se non altro per il fatto che la maggioranza dei palestinesi (soprattutto a Gaza e in Cisgiordania) si concentra sul 1948. Se tutti i tuoi amici arabi parlano del ’67, probabilmente non hai un numero sufficiente di amici arabi.

Sventolare la bandiera palestinese ed essere orgogliosi di questa identità non è una provocazione, è il dovere di ogni palestinese con una coscienza politica, in modo che per le future generazioni la lotta non scompaia. Quelli che sostengono la coesistenza, che si oppongono a questi indicatori di orgoglio e identità, non sono veri alleati politici, stanno lavorando attivamente contro i palestinesi, che sostengono di proteggere in modo paternalistico e arrogante.

Ci si deve quindi chiedere chi sono gli arabi che si uniscono a questa “collaborazione”. Si deve ricordare che la tendenza dei gruppi indigeni che vivono sotto l’oppressione ad entrare in contatto con il proprio oppressore – anche solo per impedire a quest’ultimo di distruggere le loro vite – è naturale. Ora pensate a quanto sia naturale per i palestinesi dire “sì” ai cosiddetti ebrei illuminati e progressisti che offrono loro la cooperazione. Sentiamo spesso che molti palestinesi scelgono di autocensurarsi in presenza dei loro partner per non far arrabbiare quelli che tendono ad avere privilegi, contatti e, molto spesso, finanziamenti.

I gruppi per la coesistenza ignorano inoltre i palestinesi che vivono nei territori occupati. È probabile che molti ebrei israeliani, anche di sinistra, non abbiano mai visitato la Cisgiordania né abbiano rapporti con abitanti palestinesi locali in un modo che consenta loro di comprendere quello per cui molti palestinesi stanno lottando. Sanno, ad esempio, che molti sostengono il diritto al ritorno? Se dipendesse solo dai palestinesi, invece di gridare “Ebrei e arabi rifiutano di essere nemici”, preferirebbero scandire “Palestinesi ed ebrei appoggiano il diritto al ritorno”. Perché in realtà questo slogan non esiste? Perché questa “collaborazione” deve rimanere accettabile per gli ebrei.

Le decine di palestinesi che gridano lo stesso slogan insieme a voi nelle manifestazioni non hanno il diritto di parlare in nome dei palestinesi, così come gli autori di questo articolo non hanno mai ricevuto il diritto di parlare a nome dei rifugiati di Gaza. Eppure ciò non significa che non dobbiamo lottare per i loro diritti.

Questa è una lotta nazionale tra una Nazione indigena e una maggioranza violenta. Quelli che fanno parte della maggioranza non possono guidare e nemmeno pretendere di far parte della dirigenza della lotta contro l’oppressione. La prima cosa che devono fare è essere consapevoli della propria posizione in quanto membri del gruppo oppressore, per quanto possa essere difficile e spiacevole. Quello che possono e devono fare è solidarizzare con le lotte guidate dagli oppressi. Questa è un’idea rivoluzionaria per molti ebrei di buona volontà. Ovviamente si tratta di una posizione più difficile da prendere, in quanto richiede pazienza e ascolto dei problemi che i palestinesi devono affrontare.

All’inizio di questa settimana prigionieri palestinesi, che per anni sono stati privati dei propri diritti ed hanno sopportato maltrattamenti nelle prigioni israeliane, hanno posto fine a uno sciopero della fame. Non c’è niente di “simmetrico” riguardo al loro problema. I prigionieri palestinesi che fanno parte della lotta nazionale sono perseguitati e obbligati a pagarne il prezzo. È anche difficile per l’opinione pubblica ebraica accettarlo. Quale posto potrebbe mai avere la lotta dei prigionieri nella cosiddetta collaborazione con l’egemonia ebraica che spera di vincere i cuori e le menti di più persone possibile?

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

Rinunciare alla collaborazione tra ebrei e arabi vorrebbe dire rinunciare alla speranza

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green

23 aprile 2019, +972

La maggior parte delle persone di questa terra è vittima del governo Netanyahu. La collaborazione tra loro è l’unico modo per lottare contro le sue diverse forme di oppressione – compresa l’occupazione.

È molto facile per chi si trova in una situazione privilegiata criticare qualunque azione intrapresa da persone che fanno lavoro di base come “non abbastanza radicale” e guardare al mondo attraverso lenti ciniche e negative. Non c’è da stupirsi che, dalla loro comoda posizione, nel loro recente articolo “Smettiamo di parlare di una falsa ‘collaborazione tra ebrei e arabi’”, Rami Younis e Orly Noy abbiano scelto di non vederne le opportunità concrete e di non credere nel cambiamento.

Noi, al contrario, sappiamo che c’è speranza. Non abbiamo abbandonato questo luogo e non disperiamo nelle persone che vivono qui. L’ottimismo è una posizione politica.

Ci sono due aspetti dell’articolo di Younis e Noy che meritano un apprezzamento. Il primo è che in questi giorni è lodevole quanto meno parlare della collaborazione tra ebrei e arabi, uno degli argomenti politici più importanti da prendere in considerazione. In secondo luogo, insistendo sulla separazione tra arabi ed ebrei, involontariamente dimostrano esattamente come la destra in Israele abbia conservato il suo potere con la sua strategia di divide et impera, mettendo una contro l’altra le lotte sociali di arabi ed ebrei. Il loro punto di partenza elude la questione di come riuscire ad ottenere un cambiamento in questa terra – e di chi abbia interesse a raggiungerlo – e ciò li porta alla conclusione errata che la collaborazione tra ebrei e arabi sia inutile.

In fondo all’articolo originale in ebraico, Rami Younis descrive se stesso come un “arabo per niente simpatico che crede che gli ebrei debbano appoggiare le lotte dei palestinesi” e Orly Noy si descrive come “un’ebrea che odia se stessa e crede che i palestinesi debbano condurre da sé la propria lotta.” Al di là del tentativo di essere spiritosi, le acide note biografiche rivelano gli assunti impliciti: gli arabo-palestinesi che vivono qui lottano legittimamente, ma gli ebrei israeliani no (e se lo fanno, non sono abbastanza importanti o abbastanza radicali). Ma non puoi mettere da parte le legittime lotte di quartieri e città con servizi inadeguati, di donne, di ebrei mizrahi [cioè di origine araba, ndt.], dei disabili, per le case di edilizia pubblica, della comunità etiope, dei richiedenti asilo e di altri. Non puoi cancellare intere comunità e dichiarare semplicemente che sono parte di una “maggioranza distruttiva e violenta”.

Per di più, cancellando tutte le lotte di quelle comunità e paragonandole a una “maggioranza distruttiva e violenta”, Younis e Noy stanno suggerendo che la maggioranza degli ebrei israeliani vota per la destra semplicemente perché è razzista e cerca di proteggere i propri privilegi. In breve, Younis e Noy pensano che gli ebrei israeliani siano degli stronzi. Noi di “Standing Together” [organizzazione ebreo-araba israeliana di sinistra, ndt.] pensiamo che l’attuale governo di destra e la gente che vive in questa terra abbiano interessi diametralmente opposti, e che sia compito della sinistra mostrare semplicemente quanto siano dannose le politiche del governo e organizzare le lotte contro quelle istituzioni e le loro politiche.

Le politiche economiche della destra danneggiano seriamente i lavoratori e i settori deboli della popolazione, come dimostrato almeno in parte da una serie di proteste sociali in Israele nel corso degli anni. Le politiche sociali della destra trascurano i punti di vista della maggioranza dell’opinione pubblica; solo nell’ultimo anno queste politiche hanno portato a proteste di massa contro le violenze a danno di donne e contro i diritti LGBTQ. La destra cerca di rimanere al potere non migliorando le vite dei suoi elettori, ma attaccando la minoranza nazionale arabo-palestinese di Israele. Tra le altre cose, l’istigazione al razzismo è il modo della destra per nascondere il fatto che essa non ha migliorato le vite di quanti la votano.

Il modo per lottare contro Netanyahu è duplice: mostrare come le sue politiche economiche danneggino la grande maggioranza dell’opinione pubblica e lottare sia contro il suo incitamento al razzismo nei confronti dei palestinesi in Israele che contro il costante controllo militare di Israele sui territori palestinesi. Dall’articolo di Younis e Noy si può presumere che essi ritengano che le lotte per alloggi a prezzi accessibili, delle femministe, per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza per i palestinesi all’interno di Israele siano tutte secondarie rispetto alla lotta per porre fine all’occupazione. Noi La pensiamo in modo diverso.

La maggior parte della gente di questa terra è danneggiata dalle politiche del governo. La collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare contro queste varie forme di oppressione, compresa la fine dell’occupazione. Dalla sua fondazione noi di “Standing Together” abbiamo sempre creduto che sia possibile quanto necessario lavorare per la pace tra israeliani e palestinesi insieme alle lotte per la giustizia sociale e per uguali diritti civili e nazionali. Su ogni fronte di questa lotta insistiamo per lavorare insieme sulla base di interessi condivisi.

Adottiamo questo approccio con la piena consapevolezza del fatto che diversi gruppi della società israeliana sono vittime in modi diversi di sfruttamento, discriminazione e oppressione. I cittadini arabo-palestinesi non sono solo maggiormente danneggiati dalle politiche socioeconomiche della destra, ma sono anche discriminati sulla base della loro identità nazionale: le leggi razziste prendono specificatamente di mira la lingua e la cultura arabe e la legittimità della partecipazione politica araba. Ciò è stato strutturato in modo più rivelatore dalla legge sullo Stato-Nazione ebraico, che sovverte il principio di uguaglianza e stabilisce per legge lo status di cittadini di seconda classe dei palestinesi con cittadinanza israeliana.

Non c’è nessuna simmetria tra la situazione che vivono ebrei e arabi in Israele. Ma la destra israeliana sopravvive proprio trasformando questa asimmetria in una barriera per chiunque intenda cambiare. Ciò diventa particolarmente efficace quando la destra alimenta sistematicamente i timori degli ebrei israeliani, suggerendo che i simboli nazionali e culturali palestinesi incarnino un desiderio di “buttare a mare gli ebrei”. È così che la destra manipola i simboli nazionali palestinesi, soprattutto la bandiera palestinese e il Giorno della Nakba [commemorazione dell’espulsione dei palestinesi dal territorio poi diventato lo Stato di Israele nel 1948, ndt.].

Ferme restando le complicazioni intrinseche e i rapporti di potere di ogni collaborazione tra ebrei ed arabi in una società tanto segregata e polarizzata come la nostra, crediamo che questa collaborazione sia l’unico modo per far progredire un’alternativa e cambiare la nostra situazione. Sì, è una sfida. Come ha scritto Noam Shizaf [giornalista israeliano di +972, ndt.], non è facile raggiungere l’uguaglianza all’interno di una cornice politica comune. Ma noi di “Standing Together” abbiamo scelto di affrontare queste sfide ogni giorno della settimana. A volte abbiamo successo, a volte non molto, ma noi non rinunciamo, non ci disperiamo e non smettiamo di provarci.

Nel loro articolo Younis e Noy scrivono che i membri arabi di “Standing Together” non credono realmente nella collaborazione tra ebrei e arabi – che dicono che ci credono solo per tranquillizzare gli ebrei privilegiati nelle loro fila. Scrivendo ciò, riducono il contributo dei membri palestinesi di “Standing Together” – membri della dirigenza del movimento che definiscono il programma, lavorano per promuovere gli interessi degli arabo-palestinesi in Israele e che a volte pagano di persona per il fatto di essere dirigenti. Più tragicamente, attaccando “Standing Together”, Younis e Noy non fanno che rafforzare gli argomenti della destra, secondo cui i palestinesi che dicono di voler vivere pacificamente accanto agli ebrei israeliani in realtà stanno mentendo.

Queste sono le nostre convinzioni e ci crediamo davvero. Siamo convinti che le politiche della destra danneggino le famiglie arabe più di quelle ebraiche e che questi danni abbiano una radice storica. Sappiamo anche che la collaborazione tra ebrei e arabi è il modo per lottare per i diritti di tutte quelle famiglie, sia ebree che arabe, e per garantire che tutti possano vivere insieme in questa terra. Questi sono in nostri valori. Questa è la nostra teoria per il cambiamento. Questa è la fonte della nostra speranza. Crediamo nel cammino che abbiamo scelto e stiamo costruendo un ampio movimento – ebrei, arabi e socialisti – per realizzare un cambiamento fondamentale nella società, nell’economia e nella politica di Israele.

Nisreen Shehada e Alon-Lee Green sono membri della direzione di “Standing Together”. La versione originale di questo articolo in ebraico è già comparsa su “Local Call” [sito in ebraico di +972, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)