I palestinesi lottano per ricostruire le loro vite dopo i pogrom dei coloni in Cisgiordania

Yuval Abraham

18 gennaio 2024 – +972 Magazine

Unondata di violenze da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre ha sottratto le terre e i mezzi di sussistenza a numerose comunità palestinesi che ora non sanno dove andare.

I figli sono tutto ciò che resta a Naama Abiyat. Incontro la ventinovenne madre di cinque figli all’interno di una tenda dalle pareti sottili dove vive nella Cisgiordania meridionale occupata; la tenda è quasi vuota, fatta eccezione per una coperta ricevuta da alcuni passanti e pochi ceppi di legno. I figli interrompono di tanto in tanto la nostra conversazione reclamando la sua attenzione e facendole capire che hanno freddo.

Fino a due mesi fa Abiyat aveva la sua stanza, una casa, un giardino e un uliveto ad Al-Qanoub, un piccolo villaggio di 40 abitanti a conduzione familiare situato a nord di Hebron. Tra l’11 ottobre e il primo di novembre, però, l’intera comunità è fuggita in seguito ad una serie di pogrom da parte di coloni israeliani provenienti dal vicino insediamento coloniale di Asfar e dall’adiacente avamposto di Pnei Kedem. I coloni hanno incendiato le case, aizzato i cani contro gli animali della fattoria e, sotto la minaccia delle armi, ordinato ai residenti di andarsene, altrimenti sarebbero stati uccisi.

Da allora Abiyat e i suoi figli vagano, senza terra e senza casa. Insieme ad altre quattro famiglie sfollate da Al-Qanoub hanno allestito tende provvisorie alla periferia della città di Shuyukh, più vicino a Hebron.

Il giorno dell’espulsione i coloni si sono rifiutati di consentire loro di portare via qualsiasi cosa dal villaggio in fiamme: la carta d’identità di suo marito, veicoli, materassi, cellulari, sacchi di olive, chiavi – “e i miei vestiti”, aggiunge uno dei figli. Tutto è stato abbandonato e in gran parte rubato. Il figlio maggiore di Abiyat, che ha 11 anni, non può più andare alla scuola vicina al villaggio perché non c’è nessuno che possa accompagnarlo.

Nei giorni precedenti la decisione della sua famiglia di fuggire dal villaggio Abiyat dormiva fuori con i suoi figli, temendo che i coloni dessero fuoco alla loro casa mentre dormivano, come era successo a uno dei suoi vicini. “Di notte chiudevamo la casa, spegnevamo le luci e poi andavamo a dormire tra gli ulivi, sotto il cielo”, dice.

Ora Abiyat è impegnata a cercare di ottenere del denaro sufficiente per comprare legna da ardere per linverno. “Sto parlando con te e tutto il mio corpo sta per esplodere”, dice. Qui è pieno di scorpioni e serpenti. I bambini si trovano in uno stato mentale difficile. Non li emoziona più niente nella vita.”

Con il pretesto della guerra, in Cisgiordania un totale di 16 villaggi palestinesi che ospitavano complessivamente oltre 1.000 persone sono stati completamente spopolati a seguito di unondata di violenza da parte dei coloni e di pogrom contro le comunità di pastori palestinesi. Separate dalle loro comunità e costrette a vivere in tende su terreni appartenenti ad altri palestinesi, le famiglie sfollate chiedono tutte la stessa cosa: poter tornare a casa.

Ci hanno detto che avevamo unora per andare via

Prima dellinizio della guerra il villaggio di Southern a-Nassariyah, nella Valle del Giordano, ospitava cinque famiglie, per un totale di 25 persone. Il 13 ottobre sono tutti fuggiti dalle loro case sotto le violente minacce dei coloni israeliani. Attualmente vivono in tende vicino al villaggio di Fasayil, su un terreno di proprietà di un abitante del luogo che ha permesso loro di restare a condizione che vadano via entro aprile. Le famiglie sfollate non sanno dove andranno dopo.

Ci hanno ridotto a fare i braccianti. Dio santo, ci hanno ridotto a fare i braccianti,dice Musa Mleihat, posando una tazza di tè su uno sgabello fuori dalla tenda divenuta la sua casa. Il giorno della sua espulsione ha perso la terra, il che ha significato perdere il sostentamento: non potendo più far pascolare il gregge, è stato costretto a vendere la maggior parte delle pecore e delle capre della famiglia.

Alcuni degli altri abitanti del villaggio hanno iniziato a lavorare come braccianti agricoli negli insediamenti coloniali vicini. Linsediamento di Tomer, ad esempio, è noto per i suoi datteri e gli ananas, e assume lavoratori palestinesi pagandoli illegalmente al disotto del minimo salariale. Molti degli sfollati dai villaggi affermano che diventare braccianti fa parte del costo dellessere costretti ad abbandonare la propria terra.

A sud-est di Ramallah anche i 180 residenti del villaggio di Wadi al-Siq sono stati espulsi con la forza a seguito di un pogrom da parte di coloni. Il 12 ottobre coloni e soldati hanno fatto irruzione nel villaggio, hanno sparato e scacciato donne e bambini prima di rapire tre uomini, ammanettarli, spogliarli, urinare su di loro, picchiarli fino a farli sanguinare e abusare sessualmente di loro.

Dopo averci bendato ci hanno detto che avevamo unora per lasciare il villaggio, dopodiché chiunque fosse rimasto sarebbe stato ucciso, racconta Abd el-Rahman Kaabna, il capo del villaggio. Tre mesi dopo lespulsione sta ancora combattendo per accettare la violenza subita, che ha traumatizzato profondamente i suoi figli, tanto che da allora continuano a bagnare il letto.

Kaabna spiega che in seguito all’espulsione tutta la sua vita è cambiata. La comunità di Wadi al-Siq è stata completamente smembrata: la maggior parte degli abitanti, compreso Kaabna, sono sparsi in tende a est e a sud della città di Ramun, mentre altri si trovano vicino alla città di Taybeh, nei pressi di Ramallah. Vivono tutti sulla terra di altri.

“Ci sentiamo estranei qui”, dice. Non abbiamo le case in cui vivevamo, con campi e pascoli aperti. Oggi vivo in un uliveto e il proprietario continua a chiedermi quanto resteremo”.

Dopo l’espulsione i figli di Kaabna, di 6 e 8 anni, non hanno ripreso a frequentare la scuola. A Wadi al-Siq cera una scuola per gli studenti fino allottava classe [in Palestina l’istruzione obbligatoria comprende dieci anni, ndt.], ma dopo che i residenti se ne sono andati, i coloni hanno rubato tutto allinterno, compresi i libri per bambini. Un mese fa hanno portato un trattore e hanno demolito tutte le nostre case”.

Il villaggio era pieno di ricordi

I coloni hanno distrutto o incendiato le case in molti dei villaggi che i palestinesi sono stati costretti ad abbandonare negli ultimi mesi, rendendo impossibile il ritorno degli ex abitanti. In questo modo, i coloni stanno completando l’intervento della politica del governo israeliano che per anni ha cercato di costringere i palestinesi a lasciare lArea C [parte della Cisgiordania occupata sotto totale controllo israeliano, ndt.]: rifiutando di riconoscere i loro villaggi, impedendo loro di accedere allacqua e allelettricità e demolendo le loro case. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile, il braccio burocratico delloccupazione, allONG israeliana per i diritti di pianificazione Bimkom, tra il 2016 e il 2020 il governo ha rilasciato 348 volte più permessi di costruzione ai coloni israeliani rispetto ai palestinesi che vivono nellArea C.

Il villaggio di Zanuta, sulle colline a sud di Hebron, che prima dellinizio della guerra contava 250 residenti, è il più grande villaggio ad aver subito negli ultimi mesi la pulizia etnica da parte dei coloni. I coloni hanno successivamente distrutto la scuola del villaggio, insieme a 10 edifici residenziali. Quando gli abitanti di Zanuta hanno tentato di ritornare, un ispettore dellAmministrazione Civile ha detto loro che se avessero montato una sola tenda lesercito lavrebbe considerata una nuova costruzionee lavrebbe abbattuta.

Dopo essere fuggiti dalle loro case gli abitanti di Zanuta sono andati dispersi in sei luoghi diversi: alcuni vivono attualmente vicino al checkpoint di Meitar, all’estremità meridionale della Cisgiordania, alcuni vicino all’insediamento coloniale di Tene Omarim e altri hanno preso in affitto terreni ovunque siano riusciti a trovarne. Ci manchiamo l’un l’altro, mi dice Fayez al-Tal, un ex abitante del villaggio. “Dal giorno in cui abbiamo lasciato Zanuta non ci siamo più visti.”

Non solo gli abitanti hanno perso la maggior parte dei loro pascoli ma sono stati anche costretti a vendere la maggior parte delle loro greggi a causa delle ingenti tasse 70.000 shekel (circa 17.000 euro) a famiglia richieste per il trasporto di tutte le loro proprietà dal villaggio distrutto, lacquisto di nuove tende e baracche e del cibo per le pecore e le capre rimaste che non possono più pascolare.

Nei primi giorni della guerra gli 85 abitanti di Ein al-Rashash, un villaggio di pastori vicino a Ramallah, hanno raccolto le loro cose e sono fuggiti. “Il villaggio era pieno di ricordi della nostra infanzia”, dice uno degli abitanti. Oggi vivono in tende e baracche di alluminio che hanno costruito su un terreno roccioso vicino alla città di Duma. Non sanno cosa faranno in seguito.

Qui non ci sono coloni, ma ci sono altri problemi: lAmministrazione Civile, spiega Awdai, che viveva a Ein Rashash. Dopo che lui e altri hanno iniziato a montare le tende, un drone dell’Amministrazione Civile è arrivato e li ha fotografati. A breve potrebbe seguire un ordine di demolizione.

Il governo sostiene i coloni

Negli ultimi anni nellarea C della Cisgiordania sono stati realizzati decine di avamposti coloniali di allevamento di bestiame e sono diventati una forza trainante per l’incremento delle violenze contro i palestinesi. Tuttavia per molti ex abitanti di villaggi spopolati la paura dei coloni teppisti” non è lunica ragione del loro sfollamento, né ciò che impedisce loro di tornare a casa. Il problema più grave è rappresentato dal sostegno che i coloni ricevono dallesercito e dalla polizia israeliani.

Sappiamo come proteggerci, dice al-Tal, di Zanuta. Ma se lo facciamo i soldati ci sparano o finiamo in prigione. Il governo sostiene i coloni. In passato, racconta, quando i soldati o la polizia arrivavano nel villaggio durante un raid dei coloni arrestavano i palestinesi. Gli abitanti di ciascuno dei villaggi sfollati ripetono la stessa cosa: l’esercito protegge gli aggressori e arresta coloro che vengono aggrediti.

Il 3 gennaio si è tenuta un’udienza presso la Corte Suprema israeliana in merito ad un ricorso presentato a nome degli abitanti di Zanuta e di altri villaggi rimasti completamente o parzialmente spopolati. Lappello chiedeva allo Stato di specificare quale fosse il suo impegno rivolto a proteggere tali comunità dai coloni e chiedeva alle autorità di creare condizioni sul campo che consentissero alle comunità sfollate di tornare nelle loro terre.

Qamar Mashraki-Assad e Netta Amar-Shiff, che rappresentavano i palestinesi, hanno detto ai giudici che la polizia ignora sistematicamente le denunce sulla violenza dei coloni rifiutandosi di raccogliere prove sul campo. Inoltre lesercito non agisce in conformità con lobbligo previsto dal diritto internazionale di proteggere la popolazione occupata.

Durante ludienza, Roey Zweig, un ufficiale del Comando Centrale dellesercito, responsabile delle unità che operano in Cisgiordania e delle costruzioni nellArea C, ha affermato assurdamente che negli ultimi tempi la violenza dei coloni sarebbe in realtà diminuita grazie a misure che l’esercito avrebbe iniziato ad attuare. Nel corso delle sue osservazioni, Zweig che nel 2022, mentre prestava servizio come comandante della Brigata Samaria, aveva affermato che [il progetto di] insediamento coloniale e lesercito sono una cosa sola” – ha definito i villaggi spopolati avamposti palestinesi, ricorrendo al termine utilizzato per le comunità israeliane sulle colline della Cisgiordania che sono palesemente illegali secondo la stessa legge israeliana.

Gli abitanti di ciascuno dei villaggi spopolati conoscono i nomi dei coloni che li hanno terrorizzati e gli insediamenti o avamposti coloniali di cui fanno parte. Per mesi, se non anni, questi coloni hanno fatto di tutto per espellerli, impossessarsi delle loro terre e minacciarli violentemente.

Tuttavia, secondo un funzionario della sicurezza che ha parlato con +972 Magazine e Local Call, occuparsi delle violenze dei coloni e dellespulsione delle comunità palestinesi non rientra nel mandatodellAmministrazione Civile. Le accuse di discriminazione nei permessi di costruzione o nell’applicazione delle norme, ha detto il funzionario, dovrebbero essere “dirette altrove” perché l’Amministrazione Civile è “solo un organo esecutivo”, non “politico”.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




Dentro il campo di tortura israeliano per i prigionieri di Gaza

Yuval Abraham

5 gennaio 2024 – + 972 Magazine

I palestinesi arrestati nel nord della Striscia di Gaza descrivono gli abusi sistematici dei soldati israeliani sia sui civili che sui combattenti, dalle gravi deprivazioni alla crudele violenza fisica.

Allinizio di dicembre sono circolate in tutto il mondo immagini che mostravano decine di palestinesi nella città di Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza, mentre venivano svestiti e lasciati in mutande, fatti inginocchiare o sedere piegati in avanti, poi bendati e caricati come bestiame sul retro di camion militari israeliani. Come confermato in seguito da funzionari della sicurezza israeliani la stragrande maggioranza di questi uomini era costituita da civili senza affiliazione ad Hamas, portati via dallesercito senza che le loro famiglie venissero informate sul luogo di detenzione. Alcuni di loro non sono mai tornati.

+972 Magazine e Local Call hanno parlato con quattro dei civili palestinesi apparsi in quelle foto, o arrestati vicino al luogo del fatto e portati nei centri di detenzione militare israeliani, dove sono stati trattenuti per diversi giorni o addirittura settimane prima di essere rilasciati per tornare a Gaza. Le loro deposizioni, insieme a 49 testimonianze video pubblicate da vari media arabi di palestinesi arrestati nelle ultime settimane in circostanze simili nei distretti settentrionali di Zeitoun, Jabalia e Shujaiya, rivelano abusi e torture sistematiche da parte dei soldati israeliani contro tutti i detenuti, sia civili che militanti.

Secondo queste testimonianze i soldati israeliani hanno sottoposto i detenuti palestinesi a scosse elettriche, ustionato la loro pelle con gli accendini, sputato loro in bocca, li hanno privati del sonno, del cibo e dellaccesso ai bagni fino a costringerli a defecarsi addosso. Molti sono stati legati a una recinzione per ore, ammanettati e bendati per gran parte della giornata. Alcuni hanno testimoniato di essere stati picchiati su tutto il corpo e che gli sono state spente delle sigarette sul collo e sulla schiena. Si è saputo che in seguito a tali condizioni di detenzione diverse persone sono morte.

I palestinesi con cui abbiamo parlato hanno detto che la mattina del 7 dicembre, quando sono state scattate le foto a Beit Lahiya, i soldati israeliani sono entrati nel quartiere e hanno ordinato a tutti i civili di lasciare le loro case. Gridavano: Tutti i civili devono scendere e arrendersi’”, ha detto a +972 e Local Call Ayman Lubad, un ricercatore in legge presso il Centro Palestinese per i Diritti Umani, arrestato quel giorno insieme al fratello minore.

Secondo le testimonianze, i soldati hanno ordinato a tutti gli uomini di spogliarsi, li hanno riuniti in un unico luogo e hanno scattato le foto che sono state poi diffuse sui social media (alti funzionari israeliani hanno poi rimproverato i soldati per aver diffuso le immagini). Nel frattempo è stato ordinato a donne e bambini di recarsi all’ospedale Kamal Adwan.

Quattro diversi testimoni hanno riferito separatamente a +972 e Local Call che mentre erano seduti ammanettati per strada i soldati sono entrati nelle case del quartiere e appiccato il fuoco; +972 e Local Call hanno ottenuto le foto di una delle case bruciate. I soldati hanno detto ai detenuti che erano stati arrestati perché “non si erano trasferiti nel sud della Striscia di Gaza”.

Un numero imprecisato di civili palestinesi è rimasto nella parte settentrionale della Striscia nonostante gli ordini di espulsione israeliani che sin dalle prime fasi della guerra hanno portato centinaia di migliaia di persone a fuggire verso sud. Coloro con cui abbiamo parlato hanno elencato diversi motivi per cui non sono partiti: paura di subire il bombardamento da parte dell’esercito israeliano durante il viaggio verso sud o mentre vi si trovavano rifugiati; paura di essere presi di mira dai combattenti di Hamas; difficoltà motorie o disabilità tra i membri della famiglia e lincertezza della vita nei campi di sfollati nel sud. La moglie di Lubad, ad esempio, aveva appena partorito e loro temevano i rischi insiti nel lasciare casa con un neonato.

In un video girato sul posto a Beit Lahiya un soldato israeliano con in mano un megafono è di fronte agli abitanti prigionieri, disposti in fila nudi, in ginocchio e con le mani dietro la testa, e proclama: L’esercito israeliano è arrivato. Abbiamo distrutto Gaza [City] e Jabalia a vostro discapito. Abbiamo occupato Jabalia. Stiamo occupando tutta Gaza. E’ questo quello che volete? Siete dalla parte di Hamas?” I palestinesi ribattono che sono dei civili.

“La nostra casa è bruciata davanti ai miei occhi”, ha detto a +972 e Local Call Maher, uno studente dell’Università Al-Azhar di Gaza, che appare in una fotografia dei prigionieri a Beit Lahiya (ha chiesto di usare uno pseudonimo per paura che lesercito israeliano si vendichi contro i suoi familiari, ancora reclusi in un centro di detenzione militare). Testimoni oculari hanno detto che il fuoco si è diffuso in modo incontrollabile, la strada si è riempita di fumo e i soldati hanno dovuto spostare i palestinesi legati a qualche decina di metri dalle fiamme.

“Ho detto al soldato: ‘La mia casa è andata a fuoco, perché state facendo questo?’ E lui ha risposto: ‘Dimentica questa casa’”, ricorda Nidal, un altro palestinese presente anche lui in una fotografia a Beit Lahiya che ha chiesto di usare uno pseudonimo per gli stessi motivi.

“Mi ha chiesto dove mi faceva male e poi mi ha colpito con violenza”

Si sa che attualmente sono detenuti nelle carceri israeliane più di 660 palestinesi di Gaza, la maggior parte dei quali nella prigione di Ketziot nel deserto del Naqab/Negev. Un ulteriore numero, che l’esercito si rifiuta di rivelare ma potrebbe arrivare a diverse migliaia, è detenuto in diverse basi militari tra cui quella di Sde Teyman vicino a Be’er Sheva, dove si presume avvengano gran parte degli abusi sui prigionieri.

Secondo le testimonianze, i detenuti palestinesi di Beit Lahiya sono stati caricati su camion e portati su una spiaggia. Sono stati lasciati lì legati per ore e un’altra loro foto è stata scattata e diffusa sui social media. Lubad racconta come una delle soldatesse israeliane abbia ordinato a diversi detenuti di ballare e poi li abbia filmati.

I prigionieri, ancora in mutande, sono stati poi portati in un’altra spiaggia all’interno di Israele, vicino alla base militare di Zikim, dove, secondo le loro testimonianze, i soldati li hanno interrogati e picchiati duramente. Secondo quanto riportato dai media, i primi interrogatori sono stati condotti da membri dell’Unità 504 dell’esercito, un corpo di intelligence militare.

Maher ha raccontato la sua esperienza a +972 e Local Call: Un soldato mi ha chiesto: Come ti chiami?e ha iniziato a darmi pugni allo stomaco e calci. Mi ha detto: Fai parte di Hamas da due anni, dimmi come ti hanno reclutato”. Gli ho risposto che ero uno studente. Due soldati mi hanno aperto le gambe e mi hanno dato un pugno lì e in faccia. Ho iniziato a tossire e mi sono reso conto che non riuscivo a respirare. Ho detto loro: Sono un civile, sono un civile”.

“Ricordo di aver fatto allungato la mano lungo il corpo e di aver sentito qualcosa di pesante”, continua Maher. Non mi ero reso conto che era la mia gamba. Non riuscivo più a sentire il mio corpo. Ho detto al soldato che mi faceva male e lui si è fermato e ha chiesto dove; gli ho risposto allo stomaco e allora mi ha colpito forte allo stomaco. Mi hanno detto di alzarmi. Non riuscivo a sentire le gambe e non potevo camminare. Ogni volta che cadevo mi picchiavano di nuovo. Sanguinavo dalla bocca e dal naso e sono svenuto”.

I soldati hanno interrogato alcuni prigionieri in questo stesso modo, li hanno fotografati, hanno controllato le loro carte d’identità e poi li hanno divisi in due gruppi. La maggior parte, compresi Maher e il fratello minore di Lubad, sono stati rimandati a Gaza dove hanno raggiunto quella stessa notte le loro case. Lo stesso Lubad faceva parte di un secondo gruppo di circa 100 prigionieri di Beit Lahiya che quel giorno sono stati trasferiti in una struttura di detenzione militare all’interno di Israele.

Mentre erano lì i prigionieri sentivano regolarmente aerei che decollavano e atterravano”, quindi è probabile che fossero trattenuti nella base di Sde Teyman accanto a Beer Sheva, che comprende un aeroporto; secondo lesercito israeliano questo è il luogo in cui i prigionieri di Gaza vengono trattenuti per essere esaminati, vale a dire per decidere se devono essere classificati come civili o combattenti illegali”.

Secondo lufficio del portavoce dellesercito israeliano, le strutture di detenzione militare sono destinate solo agli interrogatori e allo screening iniziale dei prigionieri, prima che vengano trasferiti al servizio carcerario israeliano o fino al loro rilascio. Le testimonianze dei palestinesi trattenuti allinterno della struttura, tuttavia, dipingono un quadro completamente diverso.

Siamo stati torturati per l’intera giornata”

All’interno della base militare, i palestinesi sono stati trattenuti in gruppi di circa 100 persone. Secondo le testimonianze, sono rimasti ammanettati e bendati per tutto il tempo, e potevano riposare solo tra mezzanotte e le 5 del mattino.

Uno dei detenuti di ciascun gruppo, scelto dai soldati in base alla conoscenza dell’ebraico e denominato “Shawish” (un termine gergale per servitore o subordinato), era l’unico senza benda sugli occhi. Gli ex detenuti hanno spiegato che i soldati che li sorvegliavano avevano delle torce laser verdi che usavano per indicare chiunque si muovesse, cambiasse posizione a causa del dolore o emettesse un suono. Gli Shawish portavano questi detenuti dai soldati che si trovavano dalla parte opposta della rete di filo spinato che circondava la struttura per essere puniti.

Secondo le testimonianze, la punizione più comune consisteva nell’essere legati ad una recinzione e costretti a tenere le braccia sollevate per diverse ore. Chiunque le abbassasse veniva portato via dai soldati e picchiato.

“Siamo stati torturati per tutto il giorno”, riferisce Nidal a +972 e Local Call. Stavamo inginocchiati, a testa bassa. Quelli che non ci riuscivano venivano legati alla recinzione, [per] due o tre ore, finché il soldato non decideva di lasciarli andare. Sono rimasto legato per mezz’ora. Tutto il mio corpo era coperto di sudore; le mani sono diventate insensibili.

A proposito delle regole Lubad ricorda: Non puoi muoverti. Se ti muovi, il soldato punta un laser verso di te e dice allo Shawish: Portalo fuori, sollevagli le braccia. Se abbassi le braccia lo Shawish ti porta fuori e i soldati ti picchiano. Sono stato legato alla recinzione due volte. E ho tenuto le mani alzate perché c’erano persone intorno a me che erano state ferite. Una persona è tornata con una gamba rotta. Si sentivano i colpi e le urla provenire dall’altro lato della recinzione. Hai paura di guardare o sbirciare attraverso la benda. Se ti vedono guardare, c’è una punizione. Portano fuori anche te o ti legano alla recinzione”.

Un altro giovane rilasciato dalla detenzione ha detto ai media dopo essere tornato a Gaza che le persone venivano torturate continuamente. Sentivamo le urla. Loro [i soldati] ci hanno chiesto: Perché siete rimasti a Gaza, perché non siete andati a sud?” E io ho risposto: Perché dovremmo andare a sud?” Le nostre case sono ancora in piedi e non siamo legati ad Hamas”. Ci hanno detto: ‘andate a sud; il 7 ottobre avete festeggiato [per lattacco guidato da Hamas]”.

In un caso, dice Lubad, un prigioniero che si rifiutava di inginocchiarsi e abbassava le braccia invece di tenerle alzate è stato portato ammanettato dietro la rete di filo spinato. I prigionieri sentivano le percosse, poi hanno sentito il detenuto imprecare contro un soldato e poi uno sparo. Non sanno se il detenuto sia stato effettivamente colpito né se sia vivo o morto; in ogni caso non è tornato per il resto del tempo in cui sono stati trattenuti lì coloro con cui abbiamo parlato.

Nelle interviste con i media arabi degli ex prigionieri hanno testimoniato che altri reclusi sono morti accanto a loro. Lì dentro sono morte delle persone. Un prigioniero aveva una malattia cardiaca. Lo hanno buttato fuori, non volevano prendersi cura di lui”, ha riferito una persona ad Al Jazeera.

Anche diversi prigionieri che si trovavano insieme a Lubad gli hanno raccontato di questa morte. Hanno detto che prima del suo arrivo un uomo anziano del campo profughi di Al-Shati, che era malato, è morto nella struttura a causa delle condizioni di detenzione. I detenuti hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame per protestare per la sua morte e hanno restituito ai soldati le razioni di formaggio e pane. I prigionieri hanno riferito a Lubad che di notte i soldati sono entrati e li hanno picchiati duramente mentre erano ammanettati, e poi hanno lanciato contro di loro bombolette di gas lacrimogeno. I detenuti hanno smesso di scioperare.

L’esercito israeliano ha confermato a +972 e Local Call che dei prigionieri provenienti da Gaza sono morti nella struttura. “Sappiamo di casi di morte di persone recluse nel centro di detenzione”, ha detto il portavoce dell’esercito. Secondo le procedure, per ogni morte di un detenuto viene condotta un’indagine che comprende una verifica sulle circostanze della morte. I corpi dei prigionieri vengono trattenuti in conformità con l’ordinamento militare”.

Nelle testimonianze video i palestinesi rilasciati a Gaza descrivono casi in cui i soldati spegnevano sigarette sui corpi dei prigionieri e davano loro persino scosse elettriche. “Sono stato detenuto per 18 giorni”, ha detto un giovane ad Al Jazeera. [Il soldato] vede che ti addormenti, prende un accendino e ti brucia la schiena. Mi hanno spento delle sigarette sulla schiena un paio di volte. Uno dei ragazzi [che era bendato] ha detto [al soldato]: ‘Voglio dell’acqua da bere‘, e il soldato gli ha detto di aprire la bocca e poi ci ha sputato dentro”.

Un altro detenuto riferisce di essere stato torturato per cinque o sei giorni. Racconta che gli veniva detto: “Vuoi andare in bagno? Proibito”. [Il soldato] ti picchia. Ma io non sono Hamas, di cosa ho la colpa? Ma continua a dirti: ‘Tu sei Hamas, tutti quelli che rimangono a Gaza [City] sono Hamas. Se non fossi stato Hamas saresti andato a sud. Ti avevamo detto di andare a sud.'”

Shadi al-Adawiya, un altro prigioniero poi rilasciato, ha riferito a TRT [l’azienda radiotelevisiva di Stato turca, ndt.] in una testimonianza videoregistrata: Ci spegnevano le sigarette sul collo, sulle mani e sulla schiena. Ci prendevano a calci nelle mani e in testa. E c’erano le scosse elettriche”.

Non puoi chiedere nulla”, ha detto ad Al Jazeera un altro detenuto rilasciato dopo essere arrivato in un ospedale di Rafah. Se dici: Voglio bere, ti picchiano su tutto il corpo. Non c’è differenza tra vecchi e giovani. Ho 62 anni. Mi hanno colpito alle costole e da allora ho difficoltà a respirare”.

“Ho provato a togliermi la benda e un soldato mi ha dato una ginocchiata in fronte”

I palestinesi arrestati da Israele a Gaza, siano essi combattenti o civili, sono detenuti ai sensi della Legge sui combattenti illegali” del 2002. Questa legge israeliana consente allo Stato di trattenere combattenti nemici senza concedere loro lo status di prigioniero di guerra e di trattenerli per lunghi periodi di tempo senza regolari procedimenti legali. Israele può impedire ai detenuti di incontrare un avvocato e rinviare l’esame giudiziario fino a 75 giorni o, su approvazione di un giudice, fino a sei mesi.

Dopo lo scoppio dellattuale guerra in ottobre questa legge è stata modificata: secondo la versione approvata dalla Knesset il 18 dicembre, Israele può trattenere tali detenuti anche fino a 45 giorni senza emettere un ordine di detenzione: una disposizione che comporta preoccupanti conseguenze.

Scompaiono per 45 giorni”, ha detto a +972 e Local Call Tal Steiner, direttore esecutivo del Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele. Le loro famiglie non vengono informate. Durante questo periodo le persone possono morire senza che nessuno lo venga a sapere. [Si deve] provare che sia successo davvero. Tante persone possono semplicemente scomparire”.

L’ONG israeliana per i diritti umani HaMoked ha ricevuto chiamate da persone di Gaza riguardanti 254 palestinesi detenuti dall’esercito israeliano e i cui parenti non hanno idea di dove si trovino. Alla fine di dicembre HaMoked ha presentato una petizione allAlta Corte israeliana chiedendo che lesercito pubblichi informazioni sugli abitanti di Gaza detenuti.

Una fonte del Servizio Carcerario Israeliano ha detto a +972 e Local Call che la maggior parte dei detenuti prelevati da Gaza sono trattenuti dai militari e non sono stati trasferiti nelle carceri. È probabile che lesercito israeliano stia cercando di ottenere informazioni di intelligence dai civili utilizzando la legge sui combattenti illegali per tenerli prigionieri.

I detenuti che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato di essere stati trattenuti nella struttura militare insieme a persone che sapevano essere membri di Hamas o della Jihad islamica. Secondo le testimonianze, i soldati israeliani non fanno distinzioni tra i civili e i membri di queste organizzazioni e trattano tutti allo stesso modo. Alcuni degli arrestati in uno stesso gruppo a Beit Lahiya quasi un mese fa non sono stati ancora rilasciati.

Nidal descrive come, oltre alla violenza subita dai detenuti, le condizioni di detenzione fossero estremamente dure. “La toilette è una sottile apertura tra due pezzi di legno”, dice. Ci mettevano lì ammanettati e bendati. Entravamo e facevamo pipì vestiti. Ed è sempre lì che bevevamo”.

I civili rilasciati dalla base militare israeliana hanno raccontato a +972 e Local Call che dopo pochi giorni sono stati portati da una struttura all’altra per essere interrogati. La maggior parte ha affermato di essere stata picchiata durante gli interrogatori. È stato loro chiesto se conoscevano agenti di Hamas o della Jihad islamica, cosa pensavano di quanto accaduto il 7 ottobre, quale dei loro familiari fosse un agente di Hamas, chi fosse entrato in Israele il 7 ottobre e perché non fossero fuggiti a sud come ordinato.”

Tre giorni dopo Lubad è stato portato a Gerusalemme per l’interrogatorio. “L’inquirente mi ha dato un pugno in faccia e alla fine mi hanno portato fuori e mi hanno bendato”, dice. Ho provato a togliermi la benda perché mi faceva male e un soldato mi ha dato una ginocchiata in fronte, quindi l’ho lasciata.

“Mezz’ora dopo hanno portato un altro prigioniero, un professore universitario”, continua Lubad. A quanto pare non ha collaborato con loro durante linterrogatorio. Lo hanno picchiato davvero senza pietà accanto a me. Gli hanno detto: ‘Stai difendendo Hamas, non rispondi alle domande. Mettiti in ginocchio, alza le mani.Ho sentito due persone venire verso di me. Pensavo che fosse il mio turno di essere picchiato e nell’attesa ero contratto in tutto il corpo. Qualcuno mi ha sussurrato allorecchio: Di’ cane”. Ho detto che non capivo. Mi ha risposto: Di‘: il giorno verrà per ogni cane’”, intendendo morte o punizione.

Lubad è stato poi riportato nella cella di detenzione. Secondo lui le condizioni a Gerusalemme erano migliori che nella struttura a sud. Per la prima volta non è stato ammanettato né bendato. “Avevo così tanto male ed ero così stanco che mi sono addormentato, e basta”, dice.

Siamo stati trattati come galline o pecore”

Il 14 dicembre, una settimana dopo essere stato portato via dalla sua casa a Beit Lahiya dove aveva lasciato moglie e tre figli, Lubad è stato messo su un autobus per tornare al valico di Kerem Shalom tra Israele e la Striscia di Gaza. Ha contato 14 autobus e centinaia di prigionieri. Lui e un altro testimone hanno riferito a +972 e Local Call che i soldati hanno detto loro di scappare e che chiunque si guarderà indietro, gli spareremo”.

Da Kerem Shalom i prigionieri si sono recati a Rafah, una città che nelle ultime settimane si è trasformata in un gigantesco campo profughi dovendo ospitare centinaia di migliaia di palestinesi sfollati. I prigionieri rilasciati indossavano pigiami grigi e alcuni hanno mostrato ai giornalisti palestinesi ferite ai polsi, alla schiena e alle spalle, esito evidente della violenza subita durante la reclusione. Indossavano braccialetti numerati che avevano ricevuto appena arrivati al centro di detenzione.

Euro-Med Monitor, un’organizzazione per i diritti umani con sede a Ginevra con diversi ricercatori sul campo a Rafah, ha dichiarato a +972 e Local Call che si stima che nelle ultime settimane almeno 500 abitanti di Gaza siano stati rilasciati e rientrati in città dopo essere stati trattenuti in centri di detenzione israeliani, riportando testimonianze di feroci torture e abusi.

I prigionieri hanno detto ai giornalisti che a Rafah non sapevano dove andare o dove fossero le loro famiglie. Molti di loro erano scalzi. “Sono rimasto bendato per 17 giorni”, ha riferito uno di loro. Siamo stati trattati come galline o pecore”, ha detto un altro.

Uno dei detenuti arrivati a Rafah ha detto a +972 e Local Call che dal momento del suo rilascio due settimane fa vive in una tenda di nylon. “Solo oggi ho comprato delle scarpe”, dice. A Rafah, ovunque guardi, vedi tende. Da quando sono stato rilasciato, per me è stata psicologicamente molto dura. Un milione di persone sono stipate qui, in una città di 200.000 abitanti [prima della guerra]”.

Lubad appena arrivato a Rafah ha chiamato sua moglie. Era felice di sapere che lei e i suoi figli erano vivi. «In carcere continuavo a pensare a loro, a mia moglie che si trova in una situazione difficile, sola con il nostro bambino appena nato», spiega.

Ma al telefono ha capito che c’era qualcosa che i suoi familiari non gli dicevano. Alla fine, Lubad ha scoperto che unora dopo che suo fratello minore era tornato dalla prigionia a Zikim Beach era stato ucciso da un proiettile israeliano che ha colpito la casa di un vicino.

Ricordando l’ultima volta che aveva visto suo fratello, Lubad dice: “Vedevo come eravamo seduti lì in mutande, e faceva un freddo terribile, e gli ho sussurrato: ‘Va bene, va tutto bene, tornerai sano e salvo.’

Durante la sua detenzione la moglie di Lubad ha detto ai figli che lui era in viaggio allestero; Lubad non è sicuro che ci credessero. Quel giorno suo figlio di 3 anni lo ha visto per strada senza vestiti. Mio figlio desiderava tanto andare allo zoo, ma a Gaza non c’è più nessuno zoo. Allora gli ho detto che durante il mio viaggio avevo visto una volpe a Gerusalemme – e in effetti la mattina, durante il mio interrogatorio, passavano alcune volpi. Gli ho promesso che, quando tutto sarebbe finito, avrei portato anche lui a vederle.

In risposta alle affermazioni fatte in questo articolo secondo cui i soldati israeliani avrebbero bruciato le case dei palestinesi arrestati a Beit Lahiya, il portavoce dellesercito ha commentato che le accuse saranno prese in esame”, aggiungendo che negli appartamenti delledificio sono stati trovati documenti appartenenti ad Hamas e una grande quantità di armi” e che dalledificio sarebbero stati sparati colpi contro le forze israeliane.

Il portavoce dellesercito ha affermato che i palestinesi di Gaza sarebbero stati arrestati per coinvolgimento in attività terroristiche” e che ai detenuti che risultano non coinvolti in attività terroristiche e per i quali un prolungamento della detenzione non è giustificato viene permesso di tornare nella Striscia di Gaza alla prima occasione.”

Per quanto riguarda le accuse di maltrattamenti e torture il portavoce dell’esercito ha affermato che tutte le accuse di condotta impropria nella struttura di detenzione vengono indagate approfonditamente. I detenuti vengono ammanettati in base al loro livello di rischio e alle condizioni di salute, secondo una valutazione quotidiana. Una volta al giorno la struttura di detenzione militare offre ai detenuti che la richiedano una consulenza medica per verificarne le condizioni di salute”.

Tuttavia, i prigionieri che hanno parlato con +972 e Local Call hanno affermato di essere stati visitati da un medico solo al loro arrivo nella struttura e di non aver ricevuto alcun trattamento medico successivo nonostante le ripetute richieste.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il governo della “seconda Nakba” coglie l’attimo

Meron Rapaport

2 gennaio 2024, +972Mag

I leader israeliani esprimono esplicitamente l’intenzione di riutilizzare oggi a Gaza i metodi del 1948. Ma ciò che non riuscì a domare i palestinesi allora non ci riuscirà adesso.

All’inizio del dicembre 2022, poco prima che il governo di estrema destra israeliano prestasse giuramento e molto prima degli orrendi eventi del 7 ottobre e del brutale attacco israeliano alla Striscia di Gaza, Ameer Fakhoury e io avevamo pubblicato un articolo su queste pagine intitolato “Perché il governo della ‘seconda Nakba’ vuole rimodellare lo Stato israeliano”.

La nostra preoccupazione che questo governo volesse effettuare un’espulsione sul modello dell’esproprio di massa della Nakba del 1948 era basata sul fatto che a Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir erano stati assegnati ruoli centrali nel governo: Smotrich Ministro delle Finanze e de facto signore della Cisgiordania e Ben Gvir Ministro della Sicurezza Nazionale. Questo duo, avevamo scritto, desidera il caos, credendo che ciò “porterà al momento decisivo in cui i palestinesi si piegheranno o verranno espulsi”.

Un anno dopo i nostri peggiori timori si sono avverati: 1,9 dei 2,2 milioni di abitanti palestinesi della Striscia di Gaza sono attualmente sfollati dalle loro case – che in molti casi sono state completamente distrutte – e alti esponenti del governo israeliano stanno apertamente promuovendo e attivamente lavorando per l’espulsione di massa dall’enclave assediata.

Nei giorni scorsi Smotrich ha esposto in termini chiari la sua visione per la Striscia. “La mia richiesta è che Gaza cessi di essere un focolaio dove 2 milioni di persone crescono nell’odio e aspirano a distruggere lo Stato di Israele”, ha detto in un’intervista alla radio militare la settimana scorsa. “Se a Gaza ci fossero 100.000 o 200.000 arabi e non 2 milioni, tutto il discorso sul giorno dopo [la fine della guerra] sarebbe diverso”.

Il 1° gennaio, in una riunione della sua corrente Otzma Yehudit (Potere ebraico) alla Knesset, Ben Gvir ha proposto di “incoraggiare la migrazione degli abitanti di Gaza” come “soluzione corretta, giusta, morale e umana”, e ha fatto eco all’appello di Smotrich a ristabilire le colonie ebraiche nella Striscia. Ciò avviene dopo che a novembre due parlamentari del partito Likud di Netanyahu hanno pubblicato un articolo sul Wall Street Journal intitolato “L’Occidente dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza”.

E, come +972 e Local Call [edizione in ebraico di +972, ndt.] hanno rivelato integralmente alla fine di ottobre, il Ministero dell’Intelligence israeliano ha raccomandato il trasferimento forzato e permanente dell’intera popolazione palestinese di Gaza nella penisola del Sinai. L’Egitto, da parte sua, continua a sostenere che non consentirà alcun trasferimento di palestinesi nel suo territorio.

Non c’è nulla di nuovo nel fatto che i politici israeliani utilizzino la minaccia della Nakba come strumento politico; Fakhoury e io avevamo infatti pubblicato un altro articolo nel giugno 2022 intitolato “Come le minacce di una seconda Nabka sono diventate normali”, che descriveva dettagliatamente come la destra israeliana sia passata negli ultimi anni dal negare la Nakba al giustificarla e a usarla come rinnovata minaccia contro i palestinesi. Ora, però, questa minaccia si è trasformata da strategia retorica a realtà devastante.

Un’ “arma strategica” – e un fine

L’obiettivo dichiarato dell’esercito israeliano a Gaza è quello di mettere fuori combattimento Hamas e altri gruppi armati palestinesi. Tuttavia le sue azioni negli ultimi tre mesi attestano una campagna molto più ampia che ricorda le politiche della Nakba: espellere i civili in massa e rendere inabitabili le loro case e i loro quartieri.

Pochi giorni dopo la furia distruttiva guidata da Hamas nel sud di Israele, l’esercito israeliano ha ordinato a 1,1 milioni di palestinesi residenti nella metà settentrionale della Striscia di abbandonare le loro case e spostarsi a sud di Wadi Gaza fino a nuovo ordine – continuando a bombardare le aree in cui aveva detto loro di fuggire. Più recentemente, l’esercito ha emanato ulteriori ordini di espulsione ai palestinesi in varie parti del sud di Gaza, spingendone centinaia di migliaia verso la costa e il confine di Gaza con l’Egitto.

Il caporedattore del quotidiano progressista israeliano Haaretz Aluf Benn ha sostenuto che l’espulsione è “la principale mossa strategica di Israele” nella guerra, e che la possibilità per l’esercito di uccidere i civili che tentano di tornare a casa sarà la chiave per la vittoria di Israele. L’analista del quotidiano Middle Eastern Affairs Zvi Bar’el ha descritto in modo analogo la crisi umanitaria che Israele ha provocato a Gaza come “un’arma strategica” progettata “per imprimere nella coscienza palestinese la punizione apocalittica che dovrà affrontare chiunque d’ora in poi osi sfidare Israele”.

Israele non solo considera lo sfollamento forzato uno strumento, sembra anche considerarlo un fine in sé. Testimonianze e documenti che sono trapelati da Gaza durante questo periodo, oltre all’analisi delle immagini satellitari, suggeriscono che l’esercito israeliano stia facendo in modo che molte delle persone sfollate non abbiano una casa in cui tornare.

L’esercito ha raso al suolo interi quartieri, danneggiando o distruggendo oltre il 70% delle case di Gaza. Ha distrutto biblioteche e archivi, edifici comunali, università, scuole, siti archeologici, moschee e chiese. Anche se Israele alla fine non imporrà un’espulsione di massa dei palestinesi fuori dalla Striscia, resterà ben poco della loro vita prima di questa guerra.

Israele non ha alcun interesse che Gaza venga ricostruita”, ha detto a novembre Giora Eiland, ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, all’emittente nazionale israeliana Kan. “Una situazione di caos continuo a Gaza, simile a quella della Somalia, è qualcosa con cui Israele può convivere? Sì, Israele può conviverci. Chi vuole cambiare la situazione dovrà farlo alle nostre condizioni”.

Al di là della depravazione morale dell’idea stessa di deportare o uccidere 2 milioni di persone, il fiorire del “partito della Nakba” nella politica israeliana testimonia la povertà ideologica della società israeliana. Settantacinque anni dopo la fondazione dello Stato, l’unica cosa che la politica ebraico-israeliana ha da offrire è una seconda Nakba.

Ritornare alla strategia militare e politica fondativa del 1948, a quello stesso metodo di deportazione di massa di un intero popolo, dimostra l’instabilità e la debolezza degli altri metodi ipotizzati da Israele per affrontare la “questione palestinese” nel corso degli anni: annessione, mantenimento dello status quo, disimpegno unilaterale, “riduzione del conflitto” e persino proposte di soluzione a due Stati incentrate principalmente sugli interessi ebraici.

Inoltre, l’importanza data all’“opzione Nakba” nel discorso politico ebraico-israeliano contemporaneo testimonia ulteriormente l’eccezionalità di Israele nel mondo di oggi. Dopo la seconda guerra mondiale, e nonostante alcuni casi contrari, il consenso internazionale ha ampiamente ritenuto che i trasferimenti forzati di popolazione e le espulsioni di massa non fossero più legittimi, definendoli addirittura gravi crimini internazionali.

Anche più recentemente, quando queste tattiche sono state messe in atto come in Bosnia o in Ruanda, quasi nessuno Stato ha osato dichiararle la politica ufficiale, e la comunità internazionale – anche se a volte agendo in modo atrocemente tardivo – ha generalmente lavorato per porre fine all’uso di quelle tattiche. Ma espellere i palestinesi dalle loro case e impedirne il ritorno è la più antica politica di Israele, e i suoi leader sono pronti a metterla in atto ancora una volta.

Sull’orlo dell’abisso

Il 7 ottobre è stato un momento di crisi diverso da qualsiasi cosa Israele abbia vissuto nell’ultimo mezzo secolo, o forse addirittura dal 1948. La sicurezza nazionale di Israele è collassata, insieme al senso di sicurezza personale di molti dei suoi cittadini. La ferocia degli attacchi guidati da Hamas ha suscitato un profondo desiderio di vendetta; infatti la maggior parte dell’opinione pubblica ebraica ritiene che affidarsi alle armi sia l’opzione più ragionevole.

Ma vale comunque la pena ricordare: la Nakba del 1948 non ha risolto il conflitto tra ebrei e palestinesi. Settantacinque anni dopo, Israele sta combattendo i nipoti e i pronipoti dei rifugiati palestinesi che fuggirono o furono espulsi a Gaza nel 1948 dalle loro terre all’interno di quello che divenne lo Stato di Israele.

Ora Israele sta trasformando in realtà il sogno di mettere in atto una seconda Nakba, inebriato dal proprio potere e dal vantaggio militare su Hamas, e di fatto scagionato dalla legittimità che dopo il 7 ottobre la comunità internazionale gli ha concesso di “rispondere”. Ma Israele potrebbe tornare sobrio prima del previsto.

Una “pulizia” completa dell’intera Striscia di Gaza sembra essere una missione impossibile: Hamas non si arrenderà, i palestinesi non alzeranno bandiera bianca e la crisi umanitaria porterebbe probabilmente all’intervento arabo, americano ed europeo. La questione del destino degli ostaggi israeliani rimasti a Gaza può anche complicare una linea d’azione inequivocabile, mentre la politica interna israeliana è molto meno coesa di quanto le onnipresenti manifestazioni di patriottismo possano suggerire.

Se Israele alla fine dovesse tornare sobrio, come cambierà rotta? Si può sperare che, a differenza dei casi precedenti, forse questa volta la società israeliana non ritorni semplicemente all’idea assurda di “gestire il conflitto”. Si può sperare che, soprattutto dopo aver vissuto un trauma così terribile, la società israeliana cominci a capire che un futuro sicuro in questa terra può essere garantito solo raggiungendo un qualche accordo con i palestinesi – e che la coercizione, la violenza e la supremazia non risolveranno mai il conflitto.

Ebrei e palestinesi sono oggi più vicini all’abisso di quanto lo siano stati negli ultimi 75 anni, e l’adozione da parte di Israele di una soluzione di Nakba totale potrebbe gettarvici tutti dentro. Ma è anche importante ricordare: quando ci si trova sull’orlo dell’abisso è ancora possibile intravedere l’altra sponda.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I soccorritori di Gaza tormentati per coloro che non hanno potuto salvare

Ruwaida Kamal Amer

19 dicembre 2023 – +972 Magazine

Le squadre della protezione civile lavorano 24 ore su 24 con risorse ridottissime per aiutare i palestinesi intrappolati sotto le macerie. Troppo spesso è una battaglia persa.

Non riesco a dormire nemmeno per un minuto. Sono continuamente ossessionato dalle voci e dalle grida delle persone sotto le macerie che ci pregano di tirarle fuori.”

Ecco come Ibrahim Musa, un ventisettenne del campo profughi di Al-Bureij nel centro della Striscia di Gaza, descrive la sua vita dopo l’inizio del bombardamento di Israele. Non solo lotta per sopravvivere giorno dopo giorno come tutti nell’enclave assediata, ma Musa è anche uno degli oltre 14.000 addetti al soccorso inclusi nelle squadre di difesa civile di Gaza, che dopo ogni attacco aereo israeliano guidano i tentativi di salvare le vite di chi è rimasto intrappolato sotto le macerie.

Musa, pur avendo lavorato nella protezione civile di Gaza per cinque anni – anche durante le tante aggressioni israeliane alla Striscia, come in periodi di relativa “calma” in cui il lavoro consiste nel soccorrere le persone in casi di emergenza più comuni – non ha mai assistito a qualcosa di simile a ciò che sta accadendo adesso. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza dall’inizio della guerra si contano più di 8.000 persone disperse, di cui la gran maggioranza si pensa sia sepolta sotto le macerie. Molti di loro sono probabilmente morti nonostante tutti gli sforzi degli operatori della difesa civile come Musa, che non sono in grado di competere con il livello di distruzione che si è abbattuto su Gaza nelle ultime settimane.

Non abbiamo le attrezzature per rimuovere le macerie,” spiega Musa. “Se si tratta di un edificio di parecchi piani non c’è molto che possiamo fare. Ci vogliono molte ore e molti tentativi per ottenere qualche progresso.”

Arrivati sulla scena della distruzione dopo un attacco aereo israeliano, gli operatori della protezione civile devono cercare velocemente di capire con che cosa hanno a che fare. “Normalmente non sappiamo chi è intrappolato di sotto o quante persone stiamo cercando, perciò chiamiamo tra le macerie chiedendo se qualcuno è vivo e può dirci quante persone vivevano in questa casa.”, dice Musa. “Gridiamo finché qualcuno ci sente. A volte c’è una risposta immediata, ma spesso sentiamo solo dei gemiti che cerchiamo di seguire per salvare quelle persone.”

Una situazione che i soccorritori di Gaza affrontano regolarmente è dover cercare di calmare i bambini che sono intrappolati sotto le rovine della loro casa. “I bambini chiamano da sotto le macerie chiedendo dei membri della loro famiglia”, continua Musa. “A volte mentiamo e diciamo che stanno tutti bene in modo che non rimangano scioccati. Altre volte chiamano per dirci che un membro della famiglia che viveva vicino a loro è diventato un martire.”

Musa spesso ha l’impressione che lui e i suoi colleghi stiano combattendo una battaglia persa. “Non si tratta di una o due case bombardate, ma di interi complessi residenziali”, spiega. “L’intera area è completamente distrutta e diventa un unico cumulo di macerie. Dobbiamo scavare con le mani per tirar fuori le persone ferite ancora vive. Cerchiamo di stare attenti perché il peso delle macerie sui loro corpi potrebbe far sì che noi gli facciamo del male, persino fargli perdere degli arti nel tentativo di salvarli.”

La mia giornata è iniziata il 7 ottobre e non è ancora finita’

Ahmed Abu Khudair di Deir al-Balah, nel centro di Gaza, è un altro membro della protezione civile. Come Musa descrive questa guerra come “più aggressiva e violenta” di tutti i precedenti attacchi di Israele contro la Striscia; di fatto ritiene che l’esercito israeliano stia cercando attivamente di infliggere il maggior danno possibile alla popolazione civile di Gaza.

Gli stessi operatori della protezione civile non sono immuni dagli attacchi israeliani: almeno 32 di loro sono stati uccisi dall’inizio della guerra, compresi sette membri della squadra di Abu Khudair. Lui pensa che non sia stato per sbaglio.

Le forze di occupazione prendono di mira deliberatamente le squadre di difesa civile e delle ambulanze”, dice Abu Khudair. “Io sono stato ferito mentre lavoravo in una casa che era stata bombardata nel sud di Gaza. Abbiamo recuperato i corpi di tre martiri e salvato parecchi feriti, ma poi la casa è stata nuovamente bombardata. Quando sono salito sul tetto di una delle case vicine per cercare le persone siamo stati esposti ad altri due missili.”

Musa concorda con l’affermazione di Abu Khudair: “A Gaza chiunque è un bersaglio”.

Nonostante lavorino regolarmente 24 ore di seguito, gli operatori della protezione civile devono accettare il fatto che non sono in grado di salvare tutte le persone sepolte dalle macerie. “Non ci sono attrezzature”, dice Abu Khudair, spiegando che mancano i bulldozer per rimuovere grandi blocchi di cemento e anche dispositivi elettronici che possano individuare la posizione delle vittime. “Lavoriamo solo con la nostra forza fisica.”

Una situazione particolarmente devastante che è rimasta impressa nella memoria di Abu Khudair è stata in seguito ad un bombardamento notturno vicino ad un distributore di benzina nella cittadina di Al-Qarara, nel sud di Gaza. “Sono arrivato sul posto e in un primo momento non ho potuto trovare alcuna vittima”, ricorda. “Poi ho sentito dei lamenti e mi sono diretto verso quei suoni. Ho scavato tra le macerie e ho trovato due gambe incastrate, che ho liberato – appartenevano a una ragazza di 12 anni di nome Aisha.” La ragazzina gli ha detto che otto membri della sua famiglia erano intrappolati sotto le macerie, oltre ad altre famiglie, compresi 9 bambini molto piccoli.

Nonostante tutti i tentativi possibili di Abu Khudair e dei suoi colleghi, semplicemente non avevano i mezzi per salvarli. Descrive questo come “uno dei momenti più duri che ho vissuto – lasciare un luogo sapendo che ci sono persone vive sotto le macerie, ma non puoi fare niente per loro e alcuni moriranno di sicuro.

Oltre a cercare di salvare ogni giorno persone che non conoscono, i soccorritori hanno anche le proprie famiglie di cui preoccuparsi. Musa è stato lontano dalla sua casa e dalla sua famiglia lavorando 24 ore su 24 fin dal primo giorno di guerra, vivendo insieme ai suoi colleghi nell’ospedale Martiri di Al-Aqsa.

Nei periodi di guerra chi di noi sta nelle squadre di soccorso non sa mai quando le nostre giornate inizieranno o finiranno”, spiega. “Quanto a me, la mia giornata è iniziata il 7 ottobre e non è ancora finita.”

Essere lontano dalla propria famiglia significa che Musa non sa come stanno i suoi famigliari e riceve solo degli aggiornamenti per telefono. “Alcuni giorni trovano rifugio in una delle scuole a causa del pesante bombardamento del nostro quartiere nel campo [profughi] di Al-Bureij, altri giorni ritornano a casa”, dice. “Manco ai miei figli quanto loro mancano a me.”

Musa ha incontrato sua moglie e i suoi due figli solo una volta in più di due mesi – in seguito ad un attacco aereo vicino alla loro casa. “Mi hanno detto che c’era stato un bombardamento di una casa nel campo”, ricorda Musa. “Ero molto preoccupato per la mia famiglia. Con il veicolo della difesa civile siamo arrivati sempre più vicino alla strada in cui si trova la nostra casa, finché mi sono trovato alla porta del nostro edificio.”

Il bombardamento, prosegue Musa, aveva preso di mira la casa di suo zio, che è nello stesso edificio della sua famiglia. “Ho sentito tutti gridare e piangere. Mi sono messo a cercare mio zio e i suoi figli e chiunque si trovasse nella casa. Ho saputo che mio fratello di 19 anni, Abdul Rahman, era da loro, ma non ne ho trovato traccia. Il suo corpo era stato fatto a pezzi e mia sorella lo ha riconosciuto solo dai pantaloni che indossava; glieli aveva portati in regalo dall’Egitto solo pochi giorni prima della guerra.”

Poi ho visto mia moglie e i miei bambini, per pochi minuti,” prosegue Musa. “Erano salvi, ma terrorizzati.”

Nonostante gli orrori che affrontano, Musa e Abu Khudair trovano un senso profondo nel loro lavoro. “Sentiamo che questi sono nostri figli, nostri fratelli, nostri familiari che stiamo salvando”, spiega Musa. “Proviamo un senso di vittoria quando riusciamo a tirar fuori dalle macerie qualcuno in sicurezza. Ma quando sentiamo le grida di aiuto dei bambini sotto le macerie, nessuno di noi può trattenere le lacrime.”

Ê il nostro lavoro”, dice Abu Khudair. “Anche se Israele non rispetta il diritto internazionale, la legge è dalla nostra parte e siamo protetti dalla volontà di Dio.”

Ruwaida Kamal Amer è una giornalista indipendente corrispondente da Khan Younis.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il mondo universitario israeliano si unisce alla repressione contro il dissenso

Mariam Farah 

3 dicembre 2023 – +972 magazine

Dal 7 ottobre nelle università israeliane gli studenti e i docenti palestinesi ed ebrei di sinistra sono stati sospesi, arrestati e intimiditi per le loro opinioni

L’8 ottobre, il giorno dopo che Hamas aveva lanciato un attacco di sorpresa su vasta scala nel sud di Israele, Bayan Khatib ha postato su Instagram un video in cui si vedeva una padella di shakshuka [uova al tegamino con pomodoro, ndt.] che aveva preparato. La ventitreenne palestinese con cittadinanza israeliana, studentessa dell’Istituto Technion di Haifa e per sua stessa ammissione pessima cuoca, ha orgogliosamente sottotitolato il post “Presto mangeremo shakshuka della vittoria,” insieme all’emoticon di una bandiera palestinese.

Interpretando l’uso della bandiera palestinese e la parola “vittoria” come un indicatore del sostegno ad Hamas, i compagni di università di Khatib hanno fatto circolare il post e chiesto che venisse punita sia dall’università che dalle autorità statali.

Le denunce sono state prese sul serio. Il 25 ottobre Khatib è stata arrestata per sospetto incitamento. Ha passato una notte in carcere, condividendo una cella per quattro persone con altre otto donne palestinesi, tutte arrestate dopo che colleghi ebrei israeliani le avevano denunciate alla polizia per sedizione. Il giorno dopo Khatib è stata inviata agli arresti domiciliari.

Una denuncia contro Khatib era stata presentata anche al Technion. La discussione sul suo caso si è tenuta il 9 novembre. Pur avendo chiesto assistenza a docenti dell’università via mail e telefonate, Khatib afferma di non aver ricevuto risposta. È stata sospesa dagli studi sebbene i procedimenti disciplinari nei suoi confronti siano in corso.

Khatid dice a +972 di non essersi mai sentita così a rischio come ora per la sua identità. “Solo essere palestinese e aver esibito simboli della mia origine è diventato causa di sospetto, facendomi sentire intrinsecamente colpevole,” afferma. “Le accuse contro di me sono assurde, solo in base a un video con la shakshuka.”

Studenti e professori palestinesi subiscono da molto tempo razzismo, discriminazioni e soprusi nelle università e nei college israeliani, ma le settimane successive al 7 ottobre hanno visto un significativo aumento dei casi. La repressione della libertà di espressione da parte delle autorità israeliane, che colpisce anche gli ebrei israeliani di sinistra, ha creato un’atmosfera di timore che intende far tacere ogni dissenso per i continui bombardamenti dell’esercito israeliano contro la Striscia di Gaza.

Secondo l’Unione degli Studenti Arabi, dal 7 ottobre circa 160 palestinesi che studiano nelle università e nei college israeliani hanno subito procedimenti disciplinari con l’accusa di sostenere il terrorismo, organizzazioni terroristiche o di incitare al terrorismo.

Nel contempo Adalah, centro legale palestinese con sede ad Haifa, informa di essere stato contattato in questo periodo da 113 studenti arabi e 33 diverse istituzioni accademiche israeliane per chiedere assistenza giuridica. Adalah inoltre nota che in circa metà dei casi di cui è a conoscenza alcuni studenti sono stati temporaneamente sospesi ancor prima che iniziassero i procedimenti disciplinari; in 8 casi gli studenti sono stati espulsi senza una discussione del caso.

L’Unione informa che studenti arabi sono stati arrestati semplicemente per aver scritto o “apprezzato” post innocui sulle reti sociali. Per esempio, secondo l’Unione l’arresto di quattro studenti al college della Galilea occidentale il 19 novembre è avvenuto in modo particolarmente “crudele”, con l’intenzione di umiliarli e perpetrare una politica di intimidazioni.

Forse ancora più allarmanti sono state le persecuzioni di studenti palestinesi da parte dei loro colleghi ebrei. Poco dopo l’inizio della guerra l’Unione Nazionale degli Studenti Israeliani ha chiesto l’immediata sospensione di chiunque abbia espresso adesione agli attacchi di Hamas e ha incoraggiato gli studenti a denunciare in modo anonimo i sospettati di appoggiare il terrorismo.

Questo invito ha aumentato terribilmente il rischio di violenza fisica. Il 28 ottobre una folla di ebrei israeliani estremisti si è riunita fuori dai dormitori degli studenti arabi nel college di Netanya gridando “morte agli arabi”. La polizia ha dovuto impedire alla folla di irrompere nell’edificio e alla fine gli studenti minacciati sono stati evacuati per la loro sicurezza.

Insieme ad Adalah l’Unione degli Studenti Arabi ha fatto pressioni per un’indagine sull’attacco al college di Netanya. Ha anche chiesto ai dirigenti delle università israeliane di fornire una maggiore protezione agli studenti palestinesi e di riaccogliere quelli che sono stati sospesi, incoraggiando docenti arabi ed ebrei progressisti a intervenire contro azioni punitive ingiustificate.

L’Unione ha anche preso un’iniziativa inconsueta per ottenere un intervento esterno, contattando università e donatori stranieri legati alle istituzioni israeliane sollecitandoli ad aiutare gli studenti palestinesi e anche chiedendo all’UE di riconsiderare la sua collaborazione con il ministero dell’Educazione israeliano.

Tossicità e persecuzione

La persecuzione dei palestinesi nelle università israeliane non si limita agli studenti. Anche il personale docente sta affrontando accuse simili. Il 9 ottobre 25 professori dell’università di Haifa, tra cui il vice-rettore, hanno inviato una lettera riservata al rettore, il professor Gur Alroey, manifestando preoccupazione riguardo alla sospensione di cinque studenti il giorno precedente. Hanno sostenuto che l’università non aveva seguito il suo regolamento amministrativo né spiegato le proprie decisioni.

In una lettera, che in seguito è stata resa pubblica, Alroey ha risposto ai docenti ammonendoli per il loro presunto sostegno agli studenti che ha accusato di appoggiare Hamas o il terrorismo. Il rettore ha persino chiesto le dimissioni del suo vice, ma in seguito ha ritirato la richiesta.

Ameed Saabneh, un importante studioso palestinese dell’università di Haifa e uno degli autori della lettera al rettore, dice a +972 che l’università non ha l’autorità di sospendere gli studenti dai loro corsi. “Solo le commissioni di controllo hanno il potere di prendere decisioni relative la sospensione degli studenti,” chiarisce.

Saabneh spiega che dopo che l’incidente è stato reso noto l’atmosfera all’università è diventata tesa. “I rapporti tra gli studenti si sono avvelenati, erodendo il tono in precedenza corretto delle discussioni,” afferma. “Sono stato informato dai miei studenti che si sentono perseguitati dai loro colleghi, dall’Unione degli Studenti e dall’amministrazione dell’università.”

La situazione ha creato una “crisi di fiducia” tra i professori e i loro studenti, continua Saabneh. “L’aspetto più preoccupante è che gli studenti hanno iniziato a mandare lettere al capo dipartimento minacciando di boicottare i docenti che hanno firmato la lettera al rettore,” afferma.

Secondo un recente rapporto dell’Accademia dell’Uguaglianza [associazione di base che promuove pari diritti tra le varie comunità nell’istruzione superiore israeliana, ndt.] dal 7 ottobre almeno sei professori e assistenti delle istituzioni accademiche israeliane hanno dovuto affrontare azioni disciplinari per presunto incitamento al terrorismo o appoggio a organizzazioni terroristiche. In seguito a ciò alcuni di loro sono stati licenziati.

Una degli accademici presi di mira è Nadera Shalhoub-Kevorkian, docente di criminologia alla facoltà di Legge dell’Università Ebraica e alla Queen Mary University di Londra. Il mese scorso, insieme ad altri 3.000 accademici e studenti di tutto il mondo specializzati nello studio dell’infanzia, ha firmato una petizione che critica l’aggressione israeliana contro i minori palestinesi, chiede un immediato cessate il fuoco e la fine del “genocidio” a Gaza.

Pochi giorni dopo ha ricevuto una lettera da Asher Cohen, il preside dell’Università Ebraica, che la accusa di “Incitamento contro lo Stato di Israele”, minacciandola di azioni legali e invitandola a dimettersi. Cohen ha condiviso la lettera con altri membri del personale dell’università ed è diventata popolare sulle reti sociali. Subito dopo Shalhoub-Kevorkian ha iniziato a ricevere minacce in rete.

Il suo avvocato, Alaa Mahajna, ha accusato Cohen di aver distorto i contenuti della petizione ed ha affermato che l’università avrebbe potuto essere perseguita per aver violato il diritto del lavoro e aver provocato minacce contro un membro del personale docente. Egli ritiene che l’università abbia chiesto le dimissioni di Shalhoub-Kevorkian solo sulla base delle sue opinioni politiche, cosa che ritiene una pericolosa fuga in avanti senza precedenti.

In risposta alla richiesta di un commento, il direttore delle comunicazioni internazionali dell’università ha affermato: “La lettera (del preside) parla da sé.” Finora Shalhoub-Kevorkian si è rifiutata di presentare le sue dimissioni.

Warda Sada, un’educatrice e pacifista, ha dovuto affrontare una persecuzione simile. È stata rimossa dal suo incarico presso il Kaye Academic College of Education a Be’er Sheva dopo che uno studente ha pubblicato alcuni dei suoi post sulle reti sociali prima e dopo la guerra. A quanto dice Sada, tutti questi post condannano la violenza da entrambe le parti e sono contro la guerra e l’uccisione di civili. Il Kaye College è generalmente noto per promuovere un contesto educativo multiculturale e multilinguistico e si vanta della diversità dei suoi studenti e docenti, che riflette la diversità etnica della regione del Naqb/Negev.

“Come educatrice con 30 anni di esperienza sul campo e 28 all’università non avrei mai pensato che la persecuzione accademica avrebbe raggiunto questi estremi,” dice Sada a +972. “La nostra responsabilità come docenti è promuovere il pensiero critico, incoraggiare la ricerca e mettere in pratica le teorie che insegniamo. Noi, come educatori, miriamo a trasmettere un messaggio al mondo, a sostenere i colleghi insegnanti ad esprimere liberamente le proprie idee.”

L’epurazione ha colpito anche gli accademici ebrei. Uri Horesh, docente di linguistica araba all’ Achva Academic College, nei pressi di Ashdod, dice a +972 che il 15 ottobre, mentre si trovava a New York, ha ricevuto una mail dal college con una contestazione riguardante un post di Facebook in cui compariva la frase “Liberare il ghetto di Gaza.” Horesh inizialmente aveva condiviso il post un mese prima, ma lo ha ripostato dopo l’inizio della guerra.

“Il college ha travisato il senso del mio post, affermando che ho apertamente appoggiato un’azione terroristica,” ha detto Horesh. “Mi hanno accusato di infangare la reputazione del college.”

Il 23 ottobre Horesh ha scoperto di non avere più accesso al collegamento in rete dell’università e che il suo nome era stato rimosso dal sito web del college. Non ha ricevuto alcuna comunicazione ufficiale di essere stato sospeso. Una settimana dopo gli è stato chiesto di assistere a un’audizione disciplinare. Si è rifiutato, affermando che il procedimento era illegittimo e che le sue opinioni politiche personali sono irrilevanti per il suo datore di lavoro. Qualche giorno dopo ha ricevuto una lettera dal college che confermava il suo licenziamento e che minacciava di trattenergli lo stipendio (anche se alla fine è stato pagato).

Horesh nota che molti dei suoi studenti sono cittadini palestinesi di Israele e che il suo licenziamento non è stato solo un colpo per lui ma anche per loro, un messaggio intimidatorio che scoraggia dal condividere le loro opinioni. Benché avesse previsto il ritorno in Israele il giorno in cui ha ricevuto la prima contestazione, Horesh teme di essere arrestato all’arrivo e quindi ha rimandato il suo ritorno a tempo indeterminato.

Accuse collettive contro tutti gli arabi”

L’anno accademico in Israele avrebbe dovuto iniziare l’8 ottobre, ma lo scoppio della guerra il giorno prima ha comportato che i corsi sono stati posticipati e ripetutamente rinviati. Secondo una recente dichiarazione dell’Associazione dei Presidi delle Università il prossimo obiettivo è iniziare il 24 dicembre, ma farlo richiede prima la smobilitazione dei riservisti dell’esercito.

Mentre questa data si avvicina, ci sono timori riguardo a come sarà l’atmosfera, soprattutto per gli studenti e i docenti palestinesi. Una recente inchiesta ha rilevato che il 17% degli studenti arabi interpellati ha espresso dubbi se iniziare l’anno o di non aver intenzione di farlo, principalmente per ragioni economiche e legate alla sicurezza.

Tra queste crescenti pressioni la Commissione di Monitoraggio dell’Educazione Araba [creata dagli enti locali dei comuni arabo-israeliani, ndt.] ha manifestato timori riguardo all’imminente anno accademico. Il 27 novembre l’istituzione ha inviato una lettera a Varda Ben Shaul, direttore generale del Consiglio per l’Educazione Superiore in Israele, evidenziando i pressanti problemi psicologici, sociali ed economici sollevati da questa nuova situazione e chiedendo un immediato programma specifico per sostenere gli studenti arabi e favorire il loro impegno nell’educazione superiore. La lettera sottolinea anche la necessità di collaborare con le istituzioni educative e con importanti ministeri per affrontare i problemi di soprusi e razzismo e chiede formalmente un incontro con Shaul per risolvere in modo attivo le questioni attuali e future.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Una fabbrica di omicidi di massa”: sul bombardamento di Gaza pianificato da Israele

Yuval Abraham

30 novembre 2023 – +972 Magazine

Un’indagine di +972 e Local Call rivela come attacchi aerei senza freni su obiettivi non militari e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale abbiano consentito all’esercito israeliano di portare avanti la guerra più letale contro Gaza

Un’indagine di +972 Magazine e Local Call rivela come l’autorizzazione all’esercito israeliano di effettuare massicci bombardamenti di obiettivi non militari, l’allentamento dei vincoli riguardo alle possibili vittime civili e l’uso di un sistema di intelligenza artificiale per generare un numero senza precedenti di potenziali obiettivi sembrano aver contribuito alla natura distruttiva delle fasi iniziali dell’attuale guerra di Israele nella Striscia di Gaza. Questi fattori, come descritti da membri in servizio e in congedo dell’intelligence israeliana, hanno probabilmente avuto un ruolo nel produrre quella che è stata una delle campagne militari più letali contro i palestinesi dai tempi della Nakba del 1948.

L’indagine di +972 e Local Call si basa su conversazioni con sette membri in servizio e in congedo della comunità dell’intelligence israeliana – tra cui personale dell’intelligence militare e dell’aeronautica militare coinvolto nelle operazioni israeliane nella Striscia assediata – oltre a testimonianze, dati e documentazione palestinesi dalla Striscia di Gaza e dichiarazioni ufficiali del portavoce dell’IDF e di altre istituzioni statali israeliane.

Rispetto ai precedenti attacchi israeliani su Gaza, l’attuale guerra – che Israele ha chiamato “Operazione Spade di Ferro” e che è iniziata in seguito all’assalto guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre – ha visto l’esercito estendere in modo significativo i suoi bombardamenti su Gaza contro obiettivi di natura non prettamente militare. Questi includono abitazioni private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli che secondo le fonti l’esercito definisce “obiettivi di potere” (matarot otzem).

Secondo fonti di intelligence che ne hanno avuto esperienza diretta in passato a Gaza, gli obiettivi del bombardamento di potere mirano principalmente a danneggiare la società civile palestinese: “creare uno shock” che, tra le altre cose, avrà un potente impatto per “indurre i civili a esercitare pressioni su Hamas”, come lo ha descritto una fonte.

Molti degli informatori che hanno parlato con +972 e Local Call a condizione di rimanere anonimi hanno confermato che l’esercito israeliano ha una documentazione sulla stragrande maggioranza dei potenziali obiettivi a Gaza – comprese le case – che stabilisce il numero di civili che potrebbero essere uccisi in un attacco contro un determinato obiettivo. Questa cifra viene calcolata ed è nota in anticipo ai servizi segreti dell’esercito, che sanno anche, poco prima di un attacco, quanti civili verranno sicuramente uccisi.

In un caso di cui hanno parlato le fonti il comando militare israeliano ha consapevolmente approvato l’uccisione di centinaia di civili palestinesi nel tentativo di assassinare un unico importante comandante militare di Hamas. “I numeri sono aumentati da decine di morti civili [autorizzati] in operazioni precedenti a centinaia di morti civili come danno collaterale nell’attacco contro un importante dirigente [di Hamas] “, ha detto una fonte.

“Niente accade per caso”, ha detto un’altra fonte. “Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema che morisse, che era un prezzo che valeva la pena pagare per colpire [un altro] bersaglio. Non siamo Hamas. Questi non sono razzi lanciati a casaccio. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa”.

Secondo l’inchiesta, un altro motivo del gran numero di obiettivi e dei gravissimi danni alla vita civile a Gaza è l’uso diffuso di un sistema chiamato “Habsora” (“Il Vangelo”), basato in gran parte sull’intelligenza artificiale, e può “generare” obiettivi quasi automaticamente a una velocità che supera di gran lunga quanto era possibile fare in precedenza. Questo sistema di intelligenza artificiale, come descritto da un ex ufficiale dell’intelligence, consente essenzialmente di avere una “fabbrica di omicidi di massa”.

Secondo le fonti, il crescente utilizzo di sistemi come Habsora basati sull’intelligenza artificiale permette all’esercito di effettuare attacchi su vasta scala contro edifici residenziali in cui vive un solo membro di Hamas, anche quelli in cui ci siano miliziani poco importanti di Hamas. Eppure le testimonianze dei palestinesi a Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre l’esercito ha attaccato anche molte abitazioni private in cui non risiedeva alcun membro noto o presunto di Hamas o di qualsiasi altro gruppo armato. Tali attacchi, hanno confermato fonti a +972 e Local Call, possono uccidere consapevolmente intere famiglie.

Nella maggior parte dei casi, aggiungono le fonti, nessuna attività militare viene condotta dalle case prese di mira. “Ricordo di aver pensato che era come se (i miliziani palestinesi) bombardassero tutte le case private delle nostre famiglie quando (i soldati israeliani) tornano a dormire a casa nel fine settimana,” ha osservato una fonte, critica nei confronti di questa pratica.

Un’altra fonte ha affermato che dopo il 7 ottobre un alto funzionario dell’intelligence ha detto ai suoi ufficiali che l’obiettivo era “uccidere quanti più miliziani di Hamas possibile,” per cui i criteri relativi al danno ai civili palestinesi erano significativamente allentati. Pertanto, ci sono “casi in cui bombardiamo sulla base di una localizzazione cellulare ampia del punto in cui si trova l’obiettivo, uccidendo civili. Questo viene spesso fatto per risparmiare tempo, invece di fare un po’ di lavoro in più per ottenere una localizzazione più accurata”, ha detto la fonte.

Il risultato di queste politiche è l’incredibile perdita di vite umane a Gaza dal 7 ottobre. Oltre 300 famiglie hanno perso dieci o più membri a causa dei bombardamenti israeliani negli ultimi due mesi, un numero 15 volte superiore rispetto alla cifra registrata in precedenza nella guerra più mortale di Israele contro Gaza, nel 2014. Al momento in cui scrivo, circa 15.000 palestinesi sono stati uccisi nella guerra, e continuano ad aumentare.

“Tutto ciò avviene in contrasto con il protocollo utilizzato dall’IDF in passato”, ha spiegato una fonte. “C’è la sensazione che gli alti funzionari dell’esercito siano consapevoli del loro fallimento il 7 ottobre, e siano impegnati nel fornire all’opinione pubblica israeliana un’immagine [di vittoria] che salverà la loro reputazione”.

Una scusa per provocare distruzioni”

Israele ha scatenato il suo attacco contro Gaza subito dopo l’offensiva guidata da Hamas il 7 ottobre nel sud di Israele. Secondo un rapporto dell’Ong Medici per i Diritti Umani-Israele, durante quell’aggressione, sotto una pioggia di razzi, i miliziani palestinesi hanno massacrato più di 840 civili e ucciso 350 soldati e personale della sicurezza, rapendo circa 240 persone, civili e soldati, verso Gaza, e commesso violenze sessuali generalizzate, tra cui stupri.

In un primo momento dopo l’attacco del 7 ottobre i dirigenti politici israeliani hanno apertamente dichiarato che la risposta sarebbe stata di dimensioni totalmente diverse rispetto alle precedenti operazioni militari a Gaza, con l’esplicita intenzione di sradicare totalmente Hamas. “Il rilievo è dato ai danni e non all’accuratezza,” ha affermato il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari il 9 ottobre. L’esercito ha prontamente messo in pratica queste dichiarazioni.

Secondo le fonti che hanno parlato con +972 e Local Call, i bersagli colpiti dagli aerei israeliani a Gaza possono essere divisi all’incirca in quattro categorie. La prima sono gli “obiettivi tattici,” che includono consueti bersagli militari come cellule di miliziani, depositi di armi, lanciarazzi, lanciamissili anticarro, fosse di lancio, bombe di mortaio, centri di comando militari, posti di osservazione, e via di seguito.

La seconda sono gli “obiettivi sotterranei”, principalmente tunnel che Hamas ha scavato sotto i quartieri di Gaza, anche sotto abitazioni civili. Attacchi aerei contro questi bersagli possono portare al crollo delle case sopra o nei pressi dei tunnel.

La terza sono gli “obiettivi di potere”, che includono edifici alti e torri residenziali nel cuore delle città ed edifici pubblici come università, banche e uffici statali. L’idea che sta dietro al colpire tali bersagli, dicono tre fonti dell’intelligence che in passato sono stati coinvolti nella pianificazione o conduzione di attacchi contro obiettivi di potere, è che un attacco deliberato contro la società palestinese provocherà una “pressione dei civili” su Hamas.

L’ultima categoria consiste in “case private” o “case di miliziani”. L’intenzione dichiarata di questi attacchi è distruggere le abitazioni per assassinare un abitante sospettato di essere un membro operativo di Hamas o del Jihad Islamico. Tuttavia in questa guerra testimoni palestinesi affermano che alcune delle famiglie uccise non includevano alcun miliziano di quelle organizzazioni.

Nelle prime fasi dell’attuale guerra l’esercito israeliano sembra essersi occupato principalmente della terza e quarta categoria di bersagli. Secondo le affermazioni del portavoce dell’esercito l’11 ottobre, durante i primi cinque giorni di combattimenti metà degli obiettivi colpiti – 1.329 su un totale di 2.687 – erano definiti obiettivi di potere.

Ci veniva chiesto di cercare edifici alti con metà di un piano che potesse essere attribuito ad Hamas,” ha affermato una fonte che ha preso parte a precedenti offensive israeliane a Gaza. “A volte è l’ufficio di un portavoce di un gruppo di miliziani o dove si incontrano i membri operativi. Mi sono reso conto che il piano è una scusa per consentire all’esercito di provocare grandi distruzioni a Gaza. E’ quello che ci hanno detto. Se dicessero a tutto il mondo che gli uffici (del Jihad Islamico) al decimo piano non sono un obiettivo importante, ma che la sua esistenza è una giustificazione per radere al suolo l’intero grattacielo per spingere le famiglie di civili che vi vivono a far pressione sulle organizzazioni terroristiche, ciò verrebbe visto in sé come terrorismo. Quindi non lo dicono,” aggiunge la fonte.

Varie fonti che hanno prestato servizio nelle unità di intelligence dell’IDF hanno affermato che almeno fino alla guerra in corso le regole d’ingaggio dell’esercito consentivano di attaccare obiettivi di potere solo quando l’edificio era disabitato al momento dell’attacco. Tuttavia testimonianze e video da Gaza suggeriscono che dal 7 ottobre alcuni di questi bersagli sono stati attaccati senza informare in precedenza gli abitanti, uccidendo di conseguenza intere famiglie.

L’attacco su vasta scala contro edifici residenziali può essere rintracciato da informazioni pubbliche e ufficiali. Secondo l’ufficio stampa del governo a Gaza – che ha fornito il bilancio dei morti da quando ha smesso di farlo il Ministero della Sanità di Gaza l’11 novembre a causa del crollo dei servizi sanitari nella Striscia – al momento della tregua temporanea iniziata il 23 novembre Israele aveva ucciso 14.800 palestinesi a Gaza. Circa 6.000 di loro erano minorenni e 4.000 donne, che insieme costituiscono più del 67% del totale. I dati forniti dal Ministero della Sanità e dall’ufficio stampa del governo – entrambi sotto l’egida del governo di Hamas – non si differenziano significativamente dalle stime israeliane.

Peraltro il Ministero della Sanità di Gaza non specifica quanti morti facessero parte dell’ala militare di Hamas o del Jihad Islamico. L’esercito israeliano stima di aver ucciso tra i 1.000 e i 3.000 miliziani palestinesi. Secondo articoli dei mezzi di comunicazione israeliani alcuni dei miliziani morti sono rimasti sepolti sotto le macerie o nel sistema di tunnel sotterranei di Hamas, e di conseguenza non sono stati inclusi nei conteggi ufficiali.

Dati dell’ONU per il periodo fino all’11 novembre, secondo cui fino a quel momento Israele aveva ucciso 11.078 palestinesi a Gaza, sostengono che almeno 312 famiglie hanno perso 10 o più membri nell’attuale attacco israeliano; per fare un confronto, durante l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014 a Gaza 20 famiglie avevano perso 10 o più membri. Secondo i dati dell’ONU almeno 189 famiglie hanno perso tra i sei e i nove membri, mentre 549 famiglie hanno perso tra le due e le cinque persone. Nessuna disaggregazione aggiornata è stata ancora fornita per i dati delle vittime resi pubblici dall’11 novembre.

I massicci attacchi contro obiettivi di potere e abitazioni private sono avvenuti nello stesso momento in cui l’esercito israeliano, il 13 ottobre, ha invitato il milione e centomila abitanti del nord della Striscia di Gaza, molti dei quali residenti a Gaza City, di lasciare le proprie case e spostarsi nel sud della Striscia. A quella data un numero record di obiettivi di potere era già stato bombardato e più di 1.000 palestinesi erano già stati uccisi, tra cui centinaia di minorenni.

Secondo l’ONU dal 7 ottobre in totale un milione e settecentomila palestinesi, la grande maggioranza della popolazione della Striscia, è stato sfollato all’interno di Gaza. L’esercito ha sostenuto che la richiesta di evacuazione del nord della Striscia intendeva proteggere le vite dei civili. Tuttavia i palestinesi vedono questo spostamento di massa come parte di una “nuova Nakba”, un tentativo di pulizia etnica di parte o di tutto il territorio.

Hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo”

Secondo l’esercito israeliano durante i primi cinque giorni di combattimenti sono state lanciate 6.000 bombe sulla Striscia, per un peso totale di circa 4.000 tonnellate. I mezzi di informazione hanno riportato che l’esercito ha spazzato via interi quartieri. Secondo il Centro Al Mezan per i Diritti Umani, con sede a Gaza, questi attacchi hanno portato alla “completa distruzione di quartieri residenziali, di infrastrutture e l’uccisione in massa di abitanti.”

Come documentato da Al Mezan e da numerose immagini provenienti da Gaza, Israele ha bombardato l’Università Islamica di Gaza, la Palestinian Bar Association [associazione di avvocati palestinesi, ndt.], un edificio dell’ONU per programmi educativi per studenti d’eccellenza, un edificio dell’impresa di telecomunicazioni palestinese, il Ministero dell’Economia Nazionale, quello della Cultura, strade e decine di grattacieli e case, soprattutto nei quartieri settentrionali di Gaza.

Il quinto giorno del conflitto il portavoce dell’IDF ha distribuito ai reporter di guerra in Israele immagini satellitari “prima e dopo” dei quartieri a nord della Striscia, come Shuja’iyya e Al-Furqan (che prende il nome da una moschea della zona) a Gaza City, che mostrano decine di case ed edifici distrutti. L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito 182 obiettivi di potere a Shuja’iyya e 312 ad Al-Furqan.

Il capo di stato maggiore dell’aviazione israeliana Omer Tishler ha detto ai giornalisti di guerra che tutti questi attacchi sono un bersaglio militare legittimo, ma anche che interi quartieri sono stati attaccati “su larga scala e non in modo chirurgico”. Notando che metà degli obiettivi militari fino all’11 ottobre erano obiettivi di potere, il portavoce dell’IDF ha detto che “quartieri che servono come covi terroristici per Hamas” sono stati attaccati e che sono stati causati danni a “centri di comando operativi”, “strutture operative” e “strutture utilizzate da organizzazioni terroristiche all’interno di edifici residenziali.” Il 12 ottobre l’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso tre “importanti membri di Hamas”, due dei quali facevano parte dell’ala politica del gruppo.

Eppure, nonostante gli incontrollati bombardamenti israeliani, i danni per le infrastrutture militari di Hamas nel nord di Gaza durante i primi giorni di guerra sembrano essere stati molto ridotti. Di fatto fonti dell’intelligence hanno detto a +972 e Local Call che i bersagli militari che facevano parte di obiettivi di potere erano stati precedentemente utilizzati molte volte come foglie di fico per colpire la popolazione civile. “Hamas è ovunque a Gaza, non c’è edificio che non abbia al suo interno qualcosa di Hamas, così se vuoi trovare un modo per trasformare un grattacielo in bersaglio riuscirai a farlo,” ha detto un ex-ufficiale dell’intelligence.

Non colpiranno mai semplicemente un grattacielo che non abbia qualcosa che si possa definire obiettivo militare,” ha detto un’altra fonte dell’intelligence, che ha in precedenza effettuato attacchi contro obiettivi di potere. “Ci sarà sempre un piano (associato ad Hamas) in un edificio alto. Ma, quando si tratta di obiettivi di potere, per lo più è chiaro che il bersaglio non ha un valore militare che giustifichi un attacco che demolisce un intero edificio vuoto in mezzo a una città, con l’intervento di sei aerei e bombe che pesano parecchie tonnellate.”

In effetti, secondo fonti che sono state coinvolte nel designare obiettivi di potere in guerre precedenti, benché la documentazione sul bersaglio in genere contenga un qualche tipo di presunto rapporto con Hamas o altre organizzazioni di miliziani, colpire l’obiettivo funziona principalmente come un “mezzo che consente di danneggiare la società civile”. Le fonti si rendono conto, alcune esplicitamente e altre implicitamente, che il vero scopo di questi attacchi è danneggiare i civili.

Nel maggio 2021, per esempio, Israele è stato duramente criticato per aver bombardato la Torre Al-Jalaa, che ospitava importanti mezzi di informazione internazionali come Al Jazeera, AP e AFP [una agenzia di stampa statunitense e l’altra francese, ndt.]. L’esercito ha sostenuto che l’edificio era un obiettivo militare di Hamas; alcune fonti hanno detto a +972 e Local Call che di fatto si trattava di un obiettivo di potere.

La sensazione è che quando vengono demoliti grattacieli ciò colpisce realmente Hamas perché crea una reazione dell’opinione pubblica nella Striscia di Gaza e spaventa la popolazione,” ha affermato un’altra fonte. “Vogliono dare ai cittadini di Gaza la sensazione che Hamas non ha il controllo della situazione. A volte hanno demolito edifici, a volte il servizio postale ed edifici governativi.”

Benché attaccare più di 1.000 obiettivi di potere in cinque giorni non abbia precedenti per l’esercito israeliano, l’idea di provocare una massiccia devastazione di zone civili per obiettivi strategici era stata formulata in precedenti operazioni a Gaza, perfezionata dalla cosiddetta “Dottrina Dahiya” nella seconda guerra del Libano nel 2006. Secondo questa dottrina, sviluppata dall’ex-capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eizenkot, che ora è deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e fa parte dell’attuale gabinetto di guerra, in una guerra contro gruppi di guerriglieri come Hamas o Hezbollah Israele deve fare uso di una forza sproporzionata e schiacciante prendendo di mira infrastrutture civili e statali come deterrente per obbligare la popolazione civile a fare pressione sui gruppi armati perché pongano fine ai loro attacchi. Il concetto di “obiettivi di potere” sembra derivare proprio da questa logica.

La prima volta che l’esercito israeliano ha pubblicamente definito degli obiettivi di potere a Gaza è stato alla fine dell’operazione “Margine protettivo” nel 2014. L’esercito bombardò quattro edifici durante gli ultimi quattro giorni di guerra, tre residenziali a più piani a Gaza City e un grattacielo a Rafah. All’epoca l’apparato di sicurezza spiegò che gli attacchi intendevano comunicare ai palestinesi di Gaza che “niente è più immune,” e mettere pressione su Hamas perché accettasse il cessate il fuoco. “Le prove che abbiamo raccolto mostrano che la distruzione massiccia (degli edifici) venne realizzata deliberatamente e senza alcuna giustificazione militare,” affermò un rapporto di Amnesty alla fine del 2014.

Durante un’altra escalation di violenza iniziata nel novembre 2018 l’esercito attaccò di nuovo obiettivi di potere. Quella volta Israele bombardò grattacieli, centri commerciali ed edifici della stazione televisiva Al-Aqsa, affiliata ad Hamas. “Attaccare obiettivi di potere produce un effetto veramente notevole sull’avversario,” affermò all’epoca un ufficiale dell’aeronautica. “Lo abbiamo fatto senza uccidere nessuno e ci siamo accertati che l’edificio e i dintorni fossero stati evacuati.”

Precedenti operazioni hanno dimostrato anche come colpire questi bersagli intenda non solo danneggiare il morale dei palestinesi, ma anche alzare il morale in Israele. Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndt.] ha rivelato che durante l’operazione “Guardiano delle Mura” del 2021 l’unità portavoce dell’IDF ha condotto un’operazione psicologica sui cittadini israeliani per promuovere la consapevolezza delle operazioni dell’esercito a Gaza e il danno che avevano causato ai palestinesi. Soldati che utilizzavano falsi account sulle reti sociali per occultare l’origine della campagna pubblicarono immagini e brevi video degli attacchi dell’esercito a Gaza su Twitter, Facebook, Instagram e TikTok per dimostrare all’opinione pubblica israeliana la potenza dell’esercito.

Durante l’attacco del 2021 Israele colpì nove obiettivi definiti di potere, tutti edifici alti. “Lo scopo era di far crollare grattacieli per mettere Hamas sotto pressione anche in modo che l’opinione pubblica (israeliana) vedesse un’immagine di vittoria,” ha detto a +972 e Local Call una fonte della sicurezza.

Tuttavia, ha proseguito, “non ha funzionato. Essendo uno di quelli che ha perseguito Hamas, ho sentito personalmente quanto poco si preoccupino dei civili e degli edifici distrutti. A volte l’esercito ha trovato nei grattacieli qualcosa di relativo ad Hamas, ma sarebbe stato anche possibile colpire quel determinato bersaglio con armi più appropriate. Il risultato finale è che hanno raso al suolo un grattacielo per il gusto di farlo.”

Stavano tutti cercando i propri figli in quei mucchi”

Non solo l’attuale guerra ha visto Israele attaccare un numero senza precedenti di obiettivi di potere, ha anche visto l’esercito abbandonare precedenti politiche tese a evitare di danneggiare i civili. Mentre prima la procedura ufficiale dell’esercito era che si potevano attaccare obiettivi di potere solo dopo che tutti i civili erano scappati, testimonianze di abitanti palestinesi a Gaza indicano che dal 7 ottobre Israele ha attaccato grattacieli con dentro chi ci abitava o senza aver fatto significativi passi per evacuarli, determinando la morte di molti civili.

Molto spesso questi attacchi hanno come risultato l’uccisione di intere famiglie, come successo in precedenti offensive; secondo una ricerca dell’AP [Associated Press, agenzia di stampa USA, ndt.] condotta dopo la guerra del 2014, circa l’89% di quanti vennero uccisi dai bombardamenti aerei di abitazioni civili erano abitanti disarmati e molti di loro minori e donne.

Tishler, il capo di stato maggiore dell’Aviazione, ha confermato un cambiamento della politica, dicendo ai giornalisti che la politica dell’esercito di “bussare sul tetto” – in base alla quale avrebbe sparato un colpo di avvertimento iniziale sul tetto di un edificio per avvertire gli abitanti che stava per essere bombardato – non viene più utilizzata “dove c’è un nemico”. Bussare sul tetto, ha affermato Tishler, è “un termine importante in una serie (di scontri) e non per una guerra.”

Le fonti che hanno lavorato in precedenza sugli obiettivi di potere hanno affermato che questa strategia senza freni dell’attuale guerra potrebbe rappresentare uno sviluppo pericoloso, spiegando che attaccare obiettivi di potere in origine intendeva “scioccare” Gaza, ma non necessariamente uccidere un grande numero di civili. “I bersagli erano concepiti con l’assunto che i grattacieli sarebbero stati evacuati dalle persone, quindi quando ci lavoravamo (sulla compilazione dei bersagli) non c’erano preoccupazioni relative a quanti civili sarebbero stati colpiti; il presupposto era che non ce ne sarebbero stati,” ha detto una fonte esperta in questo tipo di azioni.

Ciò significava che c’era stata un’evacuazione totale (dell’edificio preso di mira), che implica due o tre ore di tempo, durante le quali agli abitanti viene chiesto (per telefono di andarsene), vengono lanciati missili di avvertimento; facevamo anche un controllo incrociato con riprese dai droni che le persone stessero effettivamente lasciando il grattacielo,” ha aggiunto la fonte.

Tuttavia prove da Gaza suggeriscono che alcuni grattacieli, che supponiamo siano stati obiettivi di potere, siano stati colpiti senza avvertimento. +972 e Local Call hanno individuato almeno due casi in cui durante l’attuale guerra interi grattacieli residenziali sono stati bombardati e distrutti senza avvertimento, e un caso in cui, in base a prove, un grattacielo è crollato sui civili che si trovavano all’interno.

Secondo la testimonianza di Bilal Abu Hatzira, che quella notte ha estratto corpi dalle rovine, il 10 ottobre Israele ha bombardato l’edificio Babel di Gaza. Nell’attacco contro l’edificio sono state uccise dieci persone, tra cui tre giornalisti.

Il 25 ottobre è stato raso al suolo senza avvertimento con le bombe l’edificio residenziale di 12 piani Al-Taj, uccidendo le famiglie che vi vivevano. Secondo le testimonianze degli abitanti circa 120 persone sono rimaste sepolte sotto le macerie dei loro appartamenti. Yousef Amar Sharaf, un abitante dell’Al-Taj, ha scritto su X che nell’attacco sono stati uccisi i 37 membri della sua famiglia che vivevano nell’edificio: “I miei cari genitori, la mia amata moglie, i miei figli e la maggioranza dei miei fratelli e delle loro famiglie.”

Gli abitanti affermano che sono state lanciate molte bombe, danneggiando e distruggendo appartamenti anche negli edifici vicini.

Sei giorni dopo, il 31 ottobre, l’edificio residenziale di otto piani Al-Mohandseen è stato bombardato senza preavviso. Il primo giorno sarebbero stati estratti dalle macerie tra i 30 e i 45 corpi. Un bambino è stato ritrovato vivo, senza i genitori. I giornalisti stimano che oltre 150 persone siano state uccise nell’attacco e che molte siano rimaste sepolte sotto le macerie.

Secondo testimonianze l’edificio sorgeva nel campo profughi di Nuseirat, a sud del Wadi Gaza, nella presunta “zona di sicurezza” in cui Israele ha indirizzato i palestinesi che scappavano dalle proprie case nella zona settentrionale e centrale di Gaza, e che pertanto serviva come rifugio temporaneo a persone espulse.

In base a un’indagine di Amnesty International il 9 ottobre Israele ha bombardato almeno tre edifici multipiano e anche un mercato dell’usato all’aperto in un’affollata strada del campo profughi di Jabaliya, uccidendo almeno 69 persone. “I corpi sono stati bruciati… Non volevo guardare, avevo paura di vedere il volto di Imad,” ha detto il padre di un bambino ucciso. “I corpi erano sparsi sul pavimento. Tutti cercavano i figli nei mucchi. Ho riconosciuto mio figlio solo dai suoi pantaloni. Volevo seppellirlo subito, così ho preso mio figlio e l’ho portato via.”

Secondo l’inchiesta di Amnesty l’esercito ha affermato che l’attacco contro la zona del mercato era diretto contro una moschea “in cui c’erano miliziani di Hamas.” Tuttavia in base alla stessa indagine le immagini satellitari non mostrano alcuna moschea nelle vicinanze.

Il portavoce dell’IDF non ha risposto alle domande di +972 e Local Call riguardo ad attacchi specifici, ma ha affermato più genericamente che “l’esercito israeliano avverte prima degli attacchi in vario modo, e quando le circostanze lo consentono invia avvertimenti individuali attraverso telefonate alle persone che si trovano negli obiettivi o nelle vicinanze (ci sono state più di 25.000 conversazioni dal vivo durante la guerra, insieme a milioni di conversazioni registrate, messaggi di testo e volantini lanciati dal cielo con l’intento di avvertire la popolazione). In generale l’IDF lavora per ridurre per quanto possibile i danni ai civili come parte degli attacchi, nonostante la difficoltà di combattere un’organizzazione terroristica che usa gli abitanti di Gaza come scudi umani.”

Il computer produce 100 bersagli in un giorno”

Secondo il portavoce dell’IDF, fino al 10 novembre, durante i primi 35 giorni di combattimenti, Israele ha attaccato un totale di 15.000 obiettivi a Gaza. In base a molteplici fonti è un numero molto alto rispetto alle quattro precedenti vaste operazioni nella Striscia. Durante “Guardiano delle Mura” nel 2021 Israele ha attaccato 1.500 obiettivi in 15 giorni. Durante “Margine Protettivo” nel 2014, durata 51 giorni, Israele colpì tra i 5.266 e i 6.231 bersagli. Durante “Pilastro di Difesa” nel 2012 in 8 giorni vennero colpiti circa 1.500 obiettivi. Durante “Piombo Fuso” nel 2008 Israele attaccò 3.4000 obiettivi in 22 giorni.

Fonti dell’intelligence in servizio nelle precedenti operazioni hanno anche detto a +972 e Local Call che per 10 giorni nel 2021 e tre settimane nel 2014 una media tra 100 e 200 obiettivi al giorno hanno portato a una situazione in cui all’aviazione israeliana non rimanevano bersagli di importanza militare. Perché allora dopo quasi due mesi dell’attuale guerra l’esercito israeliano non ha ancora esaurito gli obiettivi?

La risposta potrebbe trovarsi in una dichiarazione del portavoce militare del 2 novembre, secondo la quale si sta utilizzando il sistema di intelligenza artificiale Hasbsora (“Il Vangelo”), che secondo il portavoce “consente di utilizzare strumenti automatizzati per produrre obiettivi a ritmo serrato e funziona migliorando del materiale di intelligence accurato e di alta qualità in base alle necessità (operative).”

Nel comunicato viene citato un alto ufficiale dell’intelligence secondo cui grazie ad Habsora vengono creati obiettivi per attacchi di precisione “causando gravi danni al nemico e minimi danni ai non combattenti. I miliziani di Hamas non sono immuni, ovunque si nascondano.”

Secondo fonti dell’intelligence, Habsora genera, tra le altre cose, raccomandazioni automatiche di attaccare residenze private in cui vivrebbero persone sospettate di essere miliziani di Hamas o del Jihad Islamico. Israele poi mette in atto operazioni di uccisioni su vasta scala attraverso pesanti bombardamenti contro quelle abitazioni private.

Una delle fonti spiega che Habsora processa un’enorme quantità di dati che “decine di migliaia di militari dell’intelligence non potrebbero elaborare” e consiglia di bombardare siti in tempo reale. Dato che all’inizio di ogni operazione militare molti importanti comandanti di Hamas si dirigono nei tunnel sotterranei, secondo la fonte l’uso di sistemi come Habsora permette di individuare e attaccare le case di miliziani relativamente meno importanti.

Un ex-ufficiale dell’intelligence ha spiegato che il sistema Habsora consente all’esercito di gestire una “fabbrica di uccisioni di massa” in cui l’”enfasi è sulla quantità e non sulla qualità. “Un occhio umano “controlla gli obiettivi prima di ogni attacco, ma non ha bisogno di perdere molto tempo su di essi.” Dato che Israele stima che ci siano circa 30.000 membri di Hamas a Gaza e che sono tutti condannati a morte, il numero di potenziali bersagli è enorme.

Nel 2019 l’esercito israeliano ha creato un nuovo centro inteso a utilizzare l’Intelligenza Artificiale per accelerare la generazione di obiettivi. “La Divisione Amministrativa degli Obiettivi è un’unità che include centinaia di ufficiali e soldati e si basa sulle possibilità dell’IA,” ha affermato l’ex-capo di stato maggiore Aviv Kochavi in un’approfondita intervista con Ynet [sito di notizie israeliano, ndt.] all’inizio dell’anno.

Questo è un computer che, con l’aiuto dell’IA, processa un sacco di dati meglio e più rapidamente di qualunque essere umano e li trasforma in obiettivi da colpire,” ha continuato Kochavi. “Il risultato è che nell’operazione “Guardiano delle Mura” (del 2021) dal momento in cui questo computer è stato attivato ha generato 100 nuovi bersagli al giorno. Vedi, in passato ci sono stati momenti in cui creavamo 50 obiettivi all’anno a Gaza. E qui il computer ha prodotto 100 obiettivi in un giorno.

Prepariamo automaticamente gli obiettivi e lavoriamo in base a una lista di controllo,” ha detto a +972 e Local Call una delle fonti che lavora nella nuova Divisione Amministrativa degli Obiettivi. “E’ proprio come una fabbrica. Lavoriamo rapidamente e non c’è tempo per analizzare in profondità l’obiettivo. La prospettiva è di essere giudicati in base a quanti obiettivi riusciamo a generare.”

All’inizio dell’anno un importante ufficiale dell’esercito incaricato della banca dati degli obiettivi ha detto al Jerusalem Post che grazie al sistema di IA l’esercito per la prima volta può generare nuovi obiettivi più rapidamente di quelli che attacca. Un’altra fonte ha affermato che la spinta a generare automaticamente un gran numero di bersagli è la concretizzazione della Dottrina Dahiya.

Sistemi automatici come Habsora hanno quindi notevolmente facilitato il lavoro del personale dell’intelligence israeliana nel prendere decisioni durante le operazioni militari, compreso il calcolo delle potenziali vittime. Cinque diverse fonti hanno confermato che il numero di civili che possono essere uccisi in attacchi contro abitazioni private è noto in anticipo all’intelligence israeliana e compare chiaramente nei documenti sull’obiettivo sotto la categoria “danno collaterale”.

Secondo queste fonti ci sono diversi livelli di danni collaterali in base ai quali l’esercito decide se è possibile attaccare l’obiettivo all’interno di abitazioni private. “Quando la direttiva generale diventa ‘danno collaterale 5’ ciò significa che siamo autorizzati a colpire ogni obiettivo che ucciderà cinque civili o meno di cinque – possiamo operare su tutti gli obiettivi che hanno un documento da cinque in giù,” ha detto una delle fonti.

In passato non segnalavamo regolarmente le case di membri di Hamas poco importanti perché venissero bombardate,” ha detto un ufficiale della sicurezza che ha partecipato ad attacchi contro obiettivi durante precedenti operazioni. “Ai miei tempi se la casa su cui stavo lavorando era segnata danno collaterale 5 non veniva sempre approvata (per l’attacco).” Tale approvazione, ha affermato, si sarebbe avuta solo se era noto che nella casa abitava un importante comandante di Hamas.

Che io sappia oggi possono indicare tutte le case (di qualunque miliziano di Hamas indipendentemente dal rango),” ha continuato la fonte. “Ci sono un sacco di case. I membri di Hamas che non hanno alcuna importanza vivono in abitazioni in tutta Gaza. Quindi si indica la casa e la si bombarda e si uccide chiunque.”

Una politica concordata di bombardare case private

Il 22 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato la casa del giornalista palestinese Ahmed Alnaouq nella città di Deir al-Balah. Ahmed era un mio caro amico e collega: quattro anni fa abbiamo fondato una pagina Facebook in ebraico chiamata “Attraverso il muro”, con l’intento di portare voci palestinesi da Gaza all’opinione pubblica israeliana. L’attacco del 22 ottobre ha fatto crollare blocchi di cemento su tutta la famiglia di Ahmed, uccidendo suo padre, fratelli, sorelle e tutti i loro figli, anche neonati. Solo il nipote di 12 anni, Malak, è sopravvissuto ed è rimasto in condizioni critiche, il corpo è coperto di ustioni. Pochi giorni dopo Malak è morto.

In totale ventuno membri della famiglia di Ahmed sono morti sepolti sotto la loro casa. Nessuno di loro era un miliziano. Il più giovane aveva 2 anni, il maggiore, suo padre, ne aveva 75. Ahmed, che attualmente vive in Gran Bretagna, ora è l’unico [sopravvissuto] di tutta la famiglia.

Il Gruppo WhatsApp della famiglia di Ahmed si chiamava “Meglio insieme”. L’ultimo messaggio che vi compare era stato inviato da lui, poco dopo mezzanotte nella notte in cui ha perso la sua famiglia. “Qualcuno mi ha fatto sapere che è tutto a posto,” aveva scritto. Nessuno ha risposto. Si è addormentato, ma si è alzano terrorizzato alle 4 del mattino. In un bagno di sudore, ha controllato di nuovo il suo telefono. Silenzio. Poi ha ricevuto un messaggio da un amico con la terribile notizia.

Il caso di Ahmed a Gaza è comune in questi giorni. In interviste alla stampa i responsabili di ospedali di Gaza hanno ripetuto le stesse descrizioni: in ospedale entrano famiglie come serie di corpi, un bambino seguito dal padre seguito dal nonno. I corpi sono tutti coperti di polvere e sangue.

Secondo ex-ufficiali dell’intelligence israeliana in molti casi in cui un’abitazione privata viene bombardata lo scopo è “l’uccisione di miliziani di Hamas o del Jihad”, e tali obiettivi sono attaccati quando un miliziano entra nella casa. I ricercatori dell’intelligence sanno se i membri della famiglia o i vicini del miliziano possono morire in un attacco e sanno come calcolare quanti di loro potrebbero morire. Ogni fonte ha affermato che sono abitazioni private in cui nella maggioranza dei casi non si svolge alcuna attività militare.

+972 e Local Call non hanno dati relativi al numero di miliziani che sono stati uccisi o feriti da attacchi aerei in abitazioni private durante la guerra in corso, ma ci sono svariate prove che, in molti casi, nessuno [dei morti] era un membro militare o politico di Hamas o del Jihad Islamico.

Il 10 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato un edificio residenziale nel quartiere di Sheikh Radwan a Gaza, uccidendo 40 persone, in maggioranza donne e bambini. In uno dei filmati scioccanti girati dopo l’attacco si vede gente gridare, portare quella che sembra essere una bambola dalle rovine della casa e passarla di mano in mano. Quando la camera da presa la ingrandisce si può vedere che non si tratta di una bambola ma del corpo di un neonato.

Uno degli abitanti ha detto che 19 membri della sua famiglia sono stati uccisi nell’attacco. Un altro sopravvissuto ha scritto su Facebook di aver trovato nelle macerie solo la spalla del figlio. Amnesty ha indagato sull’attacco ed ha scoperto che un membro di Hamas viveva in uno dei piani superiori dell’edificio, ma non era presente al momento dell’attacco.

Il bombardamento di case private in cui si presume vivano miliziani di Hamas o del Jihad Islamico è diventato una politica condivisa dell’esercito israeliano durante l’operazione “Margine Protettivo” del 2014. All’epoca 606 palestinesi, circa un quarto dei morti civili durante i 51 giorni di combattimenti, erano membri di famiglie la cui casa era stata bombardata. Un rapporto dell’ONU nel 2015 lo definì sia come un possibile crimine di guerra e “una nuova modalità” di azione che “ha portato alla morte di intere famiglie.”

Nel 2014 vennero uccisi in seguito al bombardamento israeliano di case private 93 bambini piccoli, di cui 13 avevano meno di un anno. Un mese fa a Gaza 286 bambini da un anno in giù erano già stati identificati come vittime secondo una dettagliata lista con il numero di carta d’identità e l’età delle vittime pubblicata dal Ministero della Sanità di Gaza il 26 ottobre. Il numero da allora è probabilmente raddoppiato o triplicato.

Tuttavia in molti casi, soprattutto durante l’attuale attacco contro Gaza, l’esercito israeliano ha condotto attacchi che hanno colpito abitazioni private persino quando non c’erano obiettivi militari noti o evidenti. Per esempio, secondo la Commissione per la Protezione dei Giornalisti, al 29 novembre Israele aveva ucciso a Gaza 50 giornalisti palestinesi, alcuni dei quali in casa con le loro famiglie.

Roshdi Sarraj, 31 anni, un giornalista di Gaza nato in Gran Bretagna, aveva fondato una testata con il nome di “Ain Media”. Il 22 ottobre una bomba israeliana ha colpito la casa dei suoi genitori mentre stava dormendo, uccidendolo. Anche la giornalista Salam Mema è morta sotto le macerie della sua casa dopo che è stata bombardata; dei suoi tre figli Hadi, 7 anni, è morto, mentre Sham, 3 anni, non è ancora stato trovato sotto le macerie. Altre due giornaliste, Duaa Shafar e Salma Makhaimer, sono state uccise insieme ai figli nelle loro case.

Analisti israeliani hanno ammesso che l’efficacia militare di questo tipo di sproporzionati attacchi aerei è ridotta. Due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti contro Gaza (e prima dell’invasione di terra), dopo che nella Striscia di Gaza sono stati contati i corpi di 1.903 minori, circa 1.000 donne e 187 anziani, il commentatore israeliano Avi Issacharoff ha twittato: “Per quanto sia duro sentirlo dire nel quattordicesimo giorno di combattimenti non pare che l’ala militare di Hamas sia stata significativamente colpita. Il danno più significativo alla dirigenza militare è stato l’assassinio di Aymar Nofal (comandante di Hamas).”

Combattere animali umani”

I miliziani di Hamas operano regolarmente grazie a un’intricata rete di tunnel costruiti sotto vaste aree della Striscia di Gaza. Questi tunnel, come confermato da ex-ufficiali dell’intelligence israeliana con cui abbiamo parlato, passano anche sotto case e strade. Di conseguenza i tentativi israeliani di distruggerli con attacchi aerei probabilmente portano in molti casi all’uccisione di civili. Questa potrebbe essere un’altra delle ragioni dell’alto numero di famiglie palestinesi spazzate via nell’attuale offensiva.

Gli ufficiali dell’intelligence intervistati per questo articolo hanno affermato che il modo in cui Hamas ha progettato la rete di tunnel a Gaza sfrutta consapevolmente la popolazione civile e le infrastrutture in superficie. Queste affermazioni sono state anche la base della campagna mediatica che Israele ha condotto riguardo agli attacchi e incursioni contro l’ospedale Al-Shifa e i tunnel che sono stati scoperti sotto di esso.

Israele ha attaccato anche un grande numero di obiettivi militari: miliziani armati di Hamas, luoghi per il lancio di razzi, cecchini, squadre anticarro, centri di comando militari, basi, posti di osservazione, e altri. Dall’inizio dell’invasione di terra i bombardamenti aerei e un pesante fuoco di artiglieria sono stati utilizzati per fornire supporto alle truppe israeliane sul terreno. Esperti di leggi internazionali affermano che questi obiettivi sono legittimi finché gli attacchi rispettano il principio di proporzionalità.

Rispondendo a una domanda di +972 e Local Call per questo articolo il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato: “L’IDF rispetta le leggi internazionali e agisce in base ad esse, e così facendo attacca obiettivi militari e non civili. L’organizzazione terroristica Hamas schiera i suoi miliziani e infrastrutture militari in mezzo alla popolazione civile. Hamas usa sistematicamente la popolazione civile come scudo umano e combatte da edifici civili, compresi luoghi sensibili come ospedali, moschee, scuole e strutture dell’ONU.

Allo stesso modo fonti dell’intelligence che hanno parlato a +972 e Local Call hanno sostenuto che in molti casi Hamas “danneggia deliberatamente la popolazione civile a Gaza e cerca di impedire con la forza ai civili di andarsene.” Due fonti hanno affermato che i dirigenti di Hamas “ritengono che i danni di Israele contro i civili legittimano la loro lotta.”

Allo stesso tempo, anche se ora è difficile immaginarlo, l’idea che lanciare una bomba di una tonnellata per uccidere un miliziano di Hamas finisca per uccidere un’intera famiglia come “danno collaterale” non è mai stata così facilmente accettata da una larga parte della società israeliana. Nel 2002, per esempio, l’aeronautica israeliana bombardò la casa di Salah Mustafa Muhammad Shehade, allora capo delle brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. La bomba uccise lui, sua moglie, Eman, la figlia quattordicenne Laila e altri 14 civili, compresi 11 minorenni. L’uccisione provocò una protesta pubblica sia in Israele che nel resto del mondo, e Israele venne accusato di commettere crimini di guerra.

Queste critiche portarono alla decisione da parte dell’esercito israeliano nel 2003 di lanciare una bomba più piccola, di 25 quintali, contro un incontro di importanti dirigenti di Hamas, tra cui lo sfuggente capo delle brigate Al-Qassam Mohammed Deif, che si svolgeva in un edificio residenziale a Gaza, nonostante il timore che non fosse sufficientemente potente da ucciderli. Nel suo libro “Per conoscere Hamas” il noto giornalista israeliano Shlomi Eldar scrive che la decisione di utilizzare una bomba relativamente piccola era dovuta al precedente di Shehade e al timore che una bomba da una tonnellata avrebbe ucciso anche i civili nell’edificio. L’attacco fallì e gli importanti ufficiali dell’ala militare scapparono da quel luogo.

Nel dicembre 2008, durante la prima importante guerra condotta da Israele contro Hamas dopo che prese il potere a Gaza, Yoav Gallant, all’epoca alla guida del comando meridionale dell’esercito israeliano, affermò che per la prima volta Israele aveva “colpito le abitazioni private” di importanti capi di Hamas con l’intenzione di distruggerli, ma non di colpire le loro famiglie. Galland sottolineò che le case erano state attaccate dopo che le famiglie erano state avvertite “bussando sul tetto”, oltre che con una telefonata quando era chiaro che l’attività militare di Hamas si svolgeva all’interno della casa.

Dopo l’operazione “Margine Protettivo” nel 2014, durante la quale Israele iniziò a colpire sistematicamente dal cielo le abitazioni private, associazioni per i diritti umani come B’Tselem raccolsero testimonianze di palestinesi sopravvissuti a quegli attacchi. Essi affermarono che le case crollavano su se stesse, le schegge di vetro tagliavano i corpi di chi vi si trovava, le macerie “puzzavano di sangue” e le persone vennero sepolte vive.

Oggi la politica mortale continua, grazie in parte all’uso di armamenti distruttivi e di una tecnologia sofisticata come Habsora, ma anche a istituzioni politiche e della sicurezza che hanno allentato le redini del meccanismo militare israeliano. Quindi anni dopo aver insistito che l’esercito si preoccupava di minimizzare i danni per i civili, Galland, ora ministro della Difesa, ha chiaramente cambiato tono. “Stiamo combattendo animali umani e agiamo di conseguenza,” ha detto dopo il 7 ottobre.

Yuval Abraham è giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano e Amedeo Rossi)




Quello che gli israeliani non vogliono credere sui palestinesi liberati in cambio degli ostaggi

Orly Noy

23 novembre 2023 – +972 Magazine

La lista dei palestinesi destinati a essere scambiati con israeliani dovrebbe far riflettere sul ruolo degli arresti di massa nell’occupazione.

Stamattina Israele e Hamas hanno definito i dettagli di un accordo per sospendere le ostilità nella Striscia di Gaza a quasi sette settimane dall’inizio della guerra. L’accordo include un cessate il fuoco di quattro giorni e lo scambio di 50 ostaggi israeliani con 150 “prigionieri di sicurezza” palestinesi con la possibilità di altri scambi in un secondo tempo. Questi sono i termini che Hamas avrebbe offerto a Israele settimane fa nelle prime fasi della guerra, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu ha preferito lanciarsi in una guerra totale contro la Striscia assediata, uccidendo oltre 14.000 palestinesi, anche a scapito della salvezza e del benessere degli ostaggi israeliani, prima di prendere in considerazione un accordo. 

Israele ha pubblicato i nomi dei 300 prigionieri palestinesi che intende liberare come parte dell’accordo o in seguito alla liberazione di altri ostaggi israeliani, per permettere la presentazione di ricorsi nei tribunali israeliani contro il rilascio di specifici individui. Per il momento tutti gli ostaggi e i prigionieri da scambiare sono donne e minori. Tuttavia molti della destra israeliana e forse nell’opinione pubblica credono che il governo stia facendo una significativa concessione liberando pericolosi “terroristi” per il bene di pochi ostaggi.

Leggendo la lista dei prigionieri palestinesi scelti per il rilascio la prima cosa che colpisce è la loro età. La gran maggioranza, 287, ha 18 anni o meno, compresi cinque quattordicenni, cosa che solleva la domanda: come può un quattordicenne essere un “prigioniero di sicurezza?”

I nomi sulla lista includono persone che apparterrebbero a fazioni politiche palestinesi come Hamas, Fatah, Jihad Islamica e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e anche molti che non sono affiliati ad alcun gruppo. Nessuno è stato condannato per omicidio. Alcuni sono stati condannati per tentato omicidio mentre la maggioranza è stata accusata di reati minori, fra cui molti arrestati per il lancio di pietre. Uno di loro, un diciassettenne, è stato dietro le sbarre per due anni per aver gettato pietre contro un veicolo militare israeliano a Gerusalemme, la stessa città dove i coloni ebrei possono scatenare disordini contro i palestinesi che raramente finiscono con indagini, men che meno arresti.

Ma soprattutto la lista è una sorprendente testimonianza di come arresti e incarcerazioni siano centrali nell’occupazione e nel controllo israeliano sui palestinesi. Secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, nel novembre 2023 Israele detiene 6.809 “prigionieri di sicurezza.” Di questi 2.313 stanno scontando una pena, 2.321 non sono ancora stati condannati dal tribunale, 2.070 sono in detenzione amministrativa (incarcerazione indefinita senza prove o giusto processo) e 105 sono “combattenti illegali” arrestati durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele.

Quasi tutti i 300 palestinesi destinati al rilascio sono prigionieri relativamente recenti, arrestati negli ultimi due anni. Fanno eccezione 10 donne di Gerusalemme e Cisgiordania che sono in prigione dal 2015-17, in maggioranza con l’accusa di aver commesso o tentato di commettere attacchi all’arma bianca contro soldati israeliani, alcuni senza aver causato alcun danno, mentre altri hanno provocato lesioni da lievi a moderate.

Va ricordato che tutto ciò è supervisionato dallo stesso sistema giuridico che, fra innumerevoli altri esempi, ha deciso di chiudere il caso contro un colono israeliano che ha accoltellato a morte un giovane palestinese nel maggio 2022 perché “non è possibile escludere la versione [del sospettato] di aver agito per legittima difesa.” È lo stesso sistema che a luglio di quest’anno ha assolto un poliziotto israeliano che ha ucciso Iyad al-Hallaq, un palestinese affetto da autismo, nonostante chiare testimonianze e video che provavano che era disarmato e non rappresentava un pericolo di alcun genere. 

Ciò va ad aggiungersi al fatto che i “prigionieri di sicurezza” sono giudicati da un sistema separato di tribunali militari che vanta un tasso di condanne tra il 95 e il 99%. Agli occhi del regime di apartheid israeliano la tolleranza è un diritto riservato solo agli ebrei.

Mentre gli ebrei che causano disordini, che attaccano e persino uccidono palestinesi godono dell’immunità, la lista dei prigionieri ci ricorda che i palestinesi possono essere arrestati in massa solo in base alle “intenzioni” di compiere un atto violento. Uno di quelli sulla lista, una donna di 45 anni di Gerusalemme, è stata in carcere per oltre due anni perché “è stata colta nella Città Vecchi con un coltello in mano,” e “ha detto che intendeva compiere un attacco.” Intanto il ministro kahanista [dell’estrema destra che si ispira al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.] della Sicurezza Nazionale israeliana incita gli ebrei ad armarsi mentre distribuisce armi come caramelle e molti israeliani di destra stanno scrivendo innumerevoli messaggi, pubblici e privati, annunciando allegramente la loro intenzione di “ammazzare quanti più arabi possibile.”

Talvolta sul capo d’accusa non appare neanche “l’intenzione”. Un diciottenne di Gerusalemme è stato “arrestato con altri perché gridava ‘Allahu Akbar.” Una diciottenne della Cisgiordania è stata imprigionata per mesi per “incitamento su Instagram.” Fra gli israeliani, per contro, espliciti inviti al genocidio sono considerati un modo legittimo per sollevare il morale nazionale, mentre i palestinesi con cittadinanza israeliana possono essere arrestati per aver semplicemente postato la foto di una shakshuka [uova speziate, piatto magrebino poi introdotto in Israele e nord-Africa,] accanto a una bandiera palestinese.

Delle accuse elencate solo poche sono relative all’uso di armi e di aver sparato contro l’esercito israeliano (e persino in questi casi, non ci sono state vittime). La grande maggioranza degli episodi riguarda il lancio di pietre o molotov, lanciare fuochi di artificio e causare “disturbo alla quiete pubblica.” È valsa la pena di lasciar languire a Gaza gli ostaggi israeliani, donne e bambini, per alcune settimane per poter continuare a tenere in prigione un ragazzo che ha osato gridare “Dio è grande?”

Naturalmente questa lista è composta da prigionieri “deboli”, che non solleveranno molta opposizione pubblica, mentre i prigionieri palestinesi che sono stati accusati di reati ben più gravi e di omicidio restano nelle carceri israeliane. Ma i 300 nomi che Israele è riuscito a mettere insieme, quasi tutti giovani, arrestati negli ultimi due anni e imprigionati per qualche forma di resistenza popolare, dovrebbero indurre gli israeliani alla riflessione. 

Dopo tutto, c’è un chiaro legame fra la mano pesante usata per reprimere ogni espressione di opposizione da parte palestinese e il rafforzarsi dei gruppi armati che vedono la violenza come l’unico modo di sfidare seriamente gli occupanti. Ma questo richiederebbe che l’opinione pubblica israeliana finalmente cogliesse il fatto fondamentale che se l’oppressione continua, inevitabilmente, continuerà anche la resistenza.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La raccomandazione di un ministero del governo israeliano: espellere tutti i palestinesi da Gaza

Yuval Abraham

30 ottobre 2023 – +972 Magazine

Un documento del ministero israeliano dell’Intelligence reso pubblico da Local Call e +972 mostra come l’idea di un trasferimento della popolazione nel Sinai stia raggiungendo il dibattito a livello ufficiale.

Secondo un documento ufficiale rivelato integralmente per la prima volta ieri da Local Call, sito partner di +972, il ministero israeliano dell’Intelligence propone il trasferimento forzato e permanente nella penisola del Sinai, Egitto, dei 2,2 milioni di palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza

Il documento di 10 pagine datato 13 ottobre 2023 reca il logo del ministero dell’Intelligence, un piccolo organismo governativo che sforna ricerche politiche e condivide le sue proposte con agenzie di intelligence, esercito e altri ministeri. Esso valuta tre alternative riguardanti il futuro dei palestinesi della Striscia nel quadro della guerra in corso e raccomanda un trasferimento totale della popolazione quale linea d’azione da privilegiare. Sollecita anche Israele a coinvolgere a sostegno dell’impresa la comunità internazionale. Il documento, la cui autenticità è stata confermata dal ministero, è stato tradotto in inglese e si trova integralmente sul sito di +972.

L’esistenza del documento non indica necessariamente che le sue raccomandazioni verranno prese in considerazione dalle istituzioni militari di Israele. Nonostante il suo nome, il ministero dell’Intelligence non è direttamente responsabile di nessun ente di intelligence, ma piuttosto prepara in modo indipendente studi e documenti programmatici che sono sottoposti all’esame di organismi governativi e di sicurezza israeliani, senza essere vincolanti. Il suo budget annuale è di 25 milioni di shekel (circa 5 milioni di euro) e la sua influenza è considerata relativamente limitata. È attualmente guidato da Gila Gamliel del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Comunque il fatto che un ministero del governo israeliano abbia preparato una proposta così dettagliata nel corso di un’offensiva militare su larga scala contro Gaza, in seguito all’assalto mortale di Hamas e ai massacri nelle comunità nel sud di Israele il 7 ottobre, riflette come l’idea di un trasferimento forzato di popolazione abbia raggiunto il livello del dibattito politico ufficiale. Timori di un piano simile, che costituirebbe un grave crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale, sono cresciuti nelle ultime settimane, specialmente dopo che l’esercito israeliano ha ordinato a circa 1 milione di palestinesi di evacuare la parte settentrionale della Striscia in previsione dell’escalation di bombardamenti e crescenti incursioni di terra.

Il documento raccomanda ad Israele di agire per “evacuare la popolazione civile nel Sinai” durante la guerra, di erigere tendopoli temporanee e in seguito città più permanenti nel Sinai settentrionale che assorbiranno la popolazione espulsa e poi creare “una zona cuscinetto di parecchi chilometri… in Egitto e [di impedire] il ritorno della popolazione ad attività/residenza vicino al confine con Israele.” Allo stesso tempo i vari governi nel mondo, capeggiati dagli Stati Uniti, devono essere mobilitati per realizzare lo spostamento.

Una fonte del ministero dell’Intelligence ha confermato a Local Call/+972 che il documento è autentico, che era stato distribuito ai settori della difesa da parte della divisione per le politiche del ministero e che “non sarebbe dovuto arrivare ai media.”

Chiarite che non c’è speranza di ritornare’

Il documento raccomanda inequivocabilmente ed esplicitamente il trasferimento di civili palestinesi da Gaza come risultato auspicato della guerra. L’esistenza del piano è stata per la prima volta riportata la scorsa settimana dal quotidiano di affari israeliano Calcalist e il testo completo del documento vi è pubblicato e tradotto.

Il piano di trasferimento consta di parecchi stadi. Nel primo stadio l’azione deve essere condotta in modo tale che la popolazione di Gaza “evacui verso sud,” mentre gli attacchi aerei si concentrano nella parte settentrionale della Striscia. Il secondo comincerà un’incursione via terra che porterà all’occupazione di tutta la Striscia da nord a sud, e la “pulizia dei bunker sotterranei dei combattenti di Hamas.”

Contemporaneamente alla rioccupazione di Gaza i civili palestinesi saranno spostati in territorio egiziano senza possibilità di ritorno. “È importante lasciare aperte le strade per raggiungere il sud e permettere l’evacuazione della popolazione civile verso Rafah,” afferma il documento.

Secondo un funzionario del ministero dell’Intelligence, dietro a tali raccomandazioni ci sarebbe il personale del ministero. La fonte sottolinea che la ricerca del ministero “non si fonda sull’intelligence militare” e serve solo come base per discussioni all’interno del governo.

Il documento propone di promuovere una campagna rivolta ai civili palestinesi a Gaza che “li motiverà ad accettare questo piano” e li porterà a rinunciare alla propria terra. “I messaggi dovrebbero essere incentrati sulla perdita di terra, chiarendo che non ci sarà speranza di ritornare nei territori che Israele presto occuperà, che questo sia vero o meno. Il messaggio deve essere: ‘Allah ha voluto che perdeste questa terra a causa dei leader di Hamas, non c’è altra scelta che trasferirsi in un altro posto con l’aiuto dei vostri fratelli mussulmani,’” dice il documento.

Inoltre esso invita il governo a condurre una campagna pubblica nel mondo occidentale per promuovere il piano di trasferimento “in modo che non inciti a denigrare Israele.” Per ottenere il sostegno internazionale ciò verrà fatto presentando l’espulsione come una necessità umanitaria e sostenendo che il trasferimento darà come risultato “un numero di vittime civili minore rispetto a quelle che ci sarebbero se la popolazione rimanesse.”

Il documento dice anche che gli Stati Uniti dovrebbero essere coinvolti nel processo per imporre una pressione sull’Egitto affinché accolga gli abitanti palestinesi di Gaza e che altri Paesi europei — in particolare Grecia e Spagna— ma anche Canada, dovrebbero contribuire ad accogliere e insediare i rifugiati palestinesi. il ministero dell’Intelligence ha detto che il documento non era ancora stato ufficialmente distribuito a funzionari USA, ma solo al governo e enti di sicurezza israeliani.

Una discussione politica più ampia

La scorsa settimana l’Istituto Misgav, un think tank di destra guidata da Meir Ben-Shabbat, stretto collaboratore del primo ministro Netanyahu ed ex direttore del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele, ha pubblicato una memoria ufficiale che suggeriva un simile trasferimento forzato della popolazione di Gaza nel Sinai. L’istituto ha recentemente rimosso il post da Twitter e dal suo sito web in seguito a una forte condanna internazionale.

Lo studio rimosso è stato scritto da Amir Weitmann, un attivista del Likud e, secondo fonti a lui vicine, uno stretto collaboratore della ministra dell’intelligence Gila Gamliel. La scorsa settimana, su una pagina Facebook intitolata “Il piano per reinserire Gaza in Egitto,” Weitmann ha intervistato il parlamentare del Likud Ariel Kallner che gli ha detto che “la soluzione che proponi di spostare la popolazione in Egitto è logica e necessaria.”

Questo non è il solo legame fra Likud, il ministero dell’Intelligence e il think tank di destra. Circa un mese fa il ministero dell’Intelligence ha promesso un trasferimento di circa 1 milione di shekel dal suo bilancio all’Istituto Misgav per condurre ricerche nei Paesi arabi. Che l’Istituto Misgav sia stato in un modo o in un altro coinvolto nella bozza delle raccomandazioni del ministero per il trasferimento dei gazawi, il suo logo comunque non appare sul documento.

Fonti presso il ministero dell’Intelligence dicono che il rapporto su Gaza è uno studio indipendente condotto dalla divisione delle politiche ministeriali senza un contributo esterno, ma non hanno confermato che recentemente il ministero abbia iniziato a lavorare con l’Istituto Misgav, sottolineando che l’ente governativo collabora con vari gruppi di ricerca con programmi politici diversi. L’Istituto Misgav non ha ancora risposto alle nostre domande per questo articolo.

Inoltre il documento è prima stato fatto trapelare a un piccolo gruppo interno WhatsApp di attivisti di destra che, insieme al sostenitore del Likud Whiteman, promuove il reinsediamento delle colonie israeliane nella Striscia di Gaza e il trasferimento dei palestinesi che ci vivono.

Secondo uno di questi attivisti il documento del ministero dell’Intelligence è arrivato a loro tramite la mediazione di una “fonte del Likud,” e la sua distribuzione pubblica è legata al tentativo di scoprire se “l’opinione pubblica israeliana è pronta ad accettare l’idea del trasferimento da Gaza.”

L’opzione preferita

Le possibilità di implementare completamente tale piano, che costituirebbe una totale pulizia etnica della Striscia di Gaza, sono molto scarse sotto molti aspetti. Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha dichiarato di opporsi fermamente all’apertura del valico di Rafah per assorbire la popolazione palestinese di Gaza. Ha affermato che il trasferimento dei palestinesi nel Sinai minaccerebbe la pace fra Israele ed Egitto e ha ammonito che porterebbe i palestinesi a usare il territorio egiziano come base per continuare gli scontri armati contro Israele. Un piano simile era stato presentato in passato da funzionari israeliani e, fino ad ora, non si è mai sviluppato in una seria discussione politica.

Inoltre, dopo settimane di segnalazioni che gli Stati Uniti stavano cercando di sollevare l’idea di spostare i palestinesi in Egitto quale parte di un “corridoio umanitario,” ieri Joe Biden ha affermato che lui e Sisi erano impegnati a “garantire che i palestinesi di Gaza non fossero evacuati in Egitto o in nessuna altra Nazione.”

Il documento del ministero afferma che l’Egitto avrà l’“obbligo ai sensi del diritto internazionale di permettere il passaggio della popolazione,” e che gli Stati Uniti possono contribuire al processo “esercitando una pressione su Egitto, Turchia, Qatar, Arabia Saudita, e gli EAU perché contribuiscano all’iniziativa, o con risorse o assorbendo rifugiati.” Propone anche di condurre una campagna pubblica specifica mirata al mondo arabo “che si concentri sul messaggio di assistere i fratelli palestinesi e di reinserirli, anche al costo di usare un tono che incolpi o persino danneggi Israele.”

In conclusione il documento evidenzia che “la migrazione su larga scala” di non combattenti da zone di combattimento è un “esito naturale e ambito” che si è anche verificato in Siria, Afghanistan e Ucraina, per poi concludere che solo l’espulsione della popolazione palestinese costituirà “una risposta appropriata [che] permetterà la creazione di una deterrenza significativa nell’intera regione.”

Il documento offre altre due opzioni su cosa fare degli abitanti di Gaza alla fine della guerra. La prima permette all’Autorità Palestinese (AP), guidata dal partito Fatah della Cisgiordania occupata, di governare Gaza sotto l’egida di Israele. La seconda è di far nascere un’altra “autorità locale araba” come alternativa ad Hamas. Entrambe le alternative, afferma il documento, per Israele sono indesiderabili da una prospettiva strategica e di sicurezza e non costituiranno un sufficiente messaggio di deterrenza, specialmente per Hezbollah in Libano.

Gli autori dello studio precisano inoltre che delle tre alternative quella di portare a Gaza l’AP sarebbe la più pericolosa, perché potrebbe portare all’insediamento di uno Stato palestinese. “La divisione tra la popolazione palestinese in Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania, ndt.] e quella di Gaza è oggi uno degli ostacoli principali alla formazione di uno Stato palestinese. È inconcepibile che il risultato di questo attacco [i massacri di Hamas del 7ottobre] sia una vittoria senza precedenti del movimento nazionale palestinese e un percorso per la creazione di uno Stato palestinese,” precisa il documento.

Esso continua affermando che un modello di governo militare israeliano e uno civile dell’AP, come in Cisgiordania, probabilmente a Gaza fallirebbe. “Non si può mantenere un’efficace occupazione militare a Gaza solo sulla base di una presenza militare senza colonie [israeliane] ed entro un breve lasso di tempo nascerebbe una pressione interna israeliana e una internazionale per il ritiro.”

Gli autori aggiungono che in tale situazione lo Stato di Israele “sarebbe considerato una potenza coloniale con un esercito di occupazione—simile alla presente situazione in Giudea e Samaria, o anche peggio.” Essi osservano che l’AP ha una scarsa legittimità presso l’opinione pubblica palestinese e che, basandosi sulla precedente esperienza di Israele, nel passaggio del controllo di Gaza all’AP l’eventuale presa di potere di Hamas, Israele non dovrebbe “ripetere lo stesso errore che ha portato alla situazione attuale.”

L’altra alternativa, la formazione di una leadership araba locale per rimpiazzare Hamas, secondo il documento non è desiderabile, perché non c’è un movimento locale di opposizione ad Hamas ed è possibile che una nuova leadership sarebbe più radicale. “Lo scenario più plausibile non è … uno spostamento ideologico ma piuttosto l’emergere di movimenti islamisti nuovi e forse persino più estremisti,” si dice. Gli autori menzionano la necessità di “creare un cambiamento ideologico” nella popolazione palestinese tramite un processo che paragona alla “denazificazione,” che richiederebbe che Israele “scrivesse i programmi scolastici e ne imponesse l’uso a un’intera generazione.”

In conclusione il documento sostiene che se la popolazione di Gaza rimanesse nella Striscia ci sarebbero “molte vittime arabe” durante la prevista rioccupazione del territorio, cosa che danneggerebbe l’immagine internazionale di Israele persino più dell’espulsione della popolazione. Per tutte queste ragioni, la raccomandazione del ministero dell’Intelligence è di promuovere il trasferimento permanente di tutti i civili palestinesi da Gaza al Sinai.

Al momento della pubblicazione di questo articolo né il ministero della Difesa, né l’ufficio del portavoce dell’esercito e neppure l’Istituto Misgav avevano ancora risposto alle richieste da parte di +972 di un commento. Ogni risposta ricevuta verrà aggiunta qui.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista residente a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I coloni approfittano della guerra di Gaza per lanciare pogrom in Cisgiordania

Yuval Abraham

13 ottobre 2023 – +972 Magazine

Coloni e soldati israeliani hanno ucciso 51 palestinesi [questo numero è in costante aumento, ndt.] in Cisgiordania la scorsa settimana, con due villaggi completamente spopolati dopo gli attacchi

Questo articolo è stato prodotto in collaborazione con Local Call e The Intercept.

Mentre il mondo si concentra sul massacro di Hamas nel sud di Israele e sul massiccio bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, i coloni nella Cisgiordania occupata stanno approfittando del caos per attaccare ed espellere i palestinesi da una serie di piccoli villaggi.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese a Ramallah da sabato soldati e coloni israeliani hanno ucciso 51 palestinesi in Cisgiordania. Almeno due villaggi, Al-Qanub e Wadi Al-Sik, sono stati completamente spopolati a causa delle violenze dei coloni israeliani.

Un palestinese di At-Tuwani, villaggio nella regione di Masafer Yatta sulle colline a sud di Hebron, è in condizioni critiche dopo che un colono, accompagnato da un soldato israeliano, ha invaso la comunità venerdì e gli ha sparato a bruciapelo. L’attacco è stato documentato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

I soldati israeliani stanno istituendo nuovi posti di blocco per bloccare i movimenti degli abitanti dei villaggi palestinesi. Giovedì sera, vicino a Yabrud, a nord-est di Ramallah i soldati hanno sparato contro un veicolo che trasportava una famiglia palestinese, secondo i membri della famiglia. Randa Abdullah Abdul Aziz Ajaj, 37 anni, è stata uccisa e suo figlio, Ismail Ajaj, è stato colpito a un piede e a una spalla. A bordo del veicolo c’erano anche il marito e un altro bambino, ma non sono rimasti feriti. Un portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che i soldati hanno aperto il fuoco perché l’auto “guidava all’impazzata” e i soldati si sentivano minacciati.

In tutta la Cisgiordania gli abitanti palestinesi stanno assistendo a una crescente presenza di coloni armati intorno ai loro villaggi, a più blocchi stradali militari e a restrizioni di movimento più severe. Un residente del villaggio di Qaryut ha riferito: “In questo momento viviamo effettivamente sotto assedio. La maggior parte dei villaggi in Cisgiordania sono chiusi da cumuli di terra ed è impossibile uscirne”. “Ci sono coloni ovunque. Ogni volta che ci avviciniamo alle case vicine a un insediamento ci sparano. Stanno approfittando della situazione della sicurezza a Gaza per vendicarsi sulla Cisgiordania. Perché nessuno ora fa attenzione alla Cisgiordania”.

Mercoledì, nel villaggio di Qusra vicino a Nablus, tre palestinesi – Moa’th Odeh, Musab Abu Rida e Obida Abu Sarur – sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, mentre una bambina di 6 anni è stata ferita alla parte superiore del corpo. Non è chiaro chi abbia aperto il fuoco su di loro. Secondo tre testimoni oculari e il personale medico che ha curato i feriti sul posto l’attacco è iniziato con coloni mascherati che sparavano contro le case del villaggio. Le riprese video mostrano sei uomini mascherati, armati di pistole e fucili M-16, che aprono il fuoco all’interno del villaggio. Più tardi quello stesso giorno, secondo testimoni oculari, anche un altro abitante, Hassan Abu Sarur, 13 anni, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco quando i soldati sono entrati dopo che i coloni si erano ritirati dal villaggio.

I media palestinesi hanno riferito giovedì che i coloni hanno attaccato i funerali dei quattro residenti di Qusra che erano stati uccisi il giorno prima. Secondo il Ministero della Sanità palestinese i coloni hanno ucciso a colpi di arma da fuoco padre e figlio, Ibrahim e Ahmed Wadi.

Nei due giorni precedenti i coloni di Esh Kodesh e dell’area circostante avevano inviato messaggi di avvertimento agli abitanti di Qusra in cui minacciavano di vendicarsi in risposta all’assalto di Hamas nel sud di Israele. In una foto, inviata agli abitanti pochi giorni fa, si vede un gruppo di uomini mascherati con in mano serbatoi di carburante, una sega elettrica e asce, con una didascalia in ebraico e arabo: “A tutti i topi di fogna del villaggio Qusra, vi stiamo aspettando e non ci dispiacerà per voi. Il giorno della vendetta sta arrivando”.

Secondo un abitante di Qusra, che ha chiesto di essere identificato solo con il suo nome, Abed, “Tutto è iniziato a mezzogiorno, quando 20 uomini mascherati hanno invaso il villaggio e hanno preso a sassate le case delle famiglie che vivevano ai margini del villaggio. Provenivano dall’avamposto di Esh Kodesh. Siamo corsi lì per far uscire le famiglie dalle loro case, perché i coloni hanno cercato di dare fuoco a una delle case. Dentro c’erano una madre, un padre e una ragazza. Mentre cercavamo di far uscire di casa la bambina, hanno iniziato a spararci addosso colpendo la bambina. Hanno ucciso tre persone”.

Secondo testimoni oculari, almeno 15 palestinesi sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco. Il personale medico che ha curato i feriti ha affermato che le condizioni di alcuni di loro erano critiche.

Bashar al-Kariyuti, un autista di ambulanza palestinese arrivato sul posto durante l’attacco ha riferito: “Ho evacuato una ragazza a cui hanno sparato; è rimasta ferita all’interno della sua casa e stava sanguinando, anche il padre della ragazza è stato colpito in faccia. Era impossibile riconoscerlo”.

Ahmed, un terzo testimone oculare dell’incidente che ha chiesto che il suo cognome fosse omesso per motivi di sicurezza, ha raccontato che i militari sono rimasti all’interno del loro posto di osservazione mentre i coloni aprivano il fuoco contro i residenti di Qusra. Ha affermato: “Mio cugino è stato colpito alla testa, mio fratello è stato colpito proprio all’ingresso di casa sua, poi i soldati hanno preso il [videoregistratore digitale] che registrava tutto; un’ora dopo l’evento sono entrati e hanno confiscato le telecamere. Sono sicuro che lo hanno fatto per cancellare le prove”.

Gli abitanti di Qusra hanno riferito che un piccolo numero di soldati ha accompagnato i coloni durante l’attacco. Secondo loro quando gli abitanti del villaggio hanno lanciato pietre contro i coloni per respingerli i soldati hanno sostenuto i coloni con le armi da fuoco.

Commentando l’attacco un portavoce militare israeliano ha detto: “Una forza dell’esercito che operava alla periferia di Qusra ha riferito di aver sentito degli spari. Si sta indagando sulla denuncia secondo cui i palestinesi sarebbero stati colpiti da colpi di arma da fuoco”.

Secondo Yesh Din, un gruppo israeliano per i diritti umani, oltre a Qusra dall’assalto di Hamas di sabato i coloni hanno attaccato almeno 18 villaggi palestinesi in tutta la Cisgiordania. L’esercito ha annunciato che, a causa della situazione di sicurezza, la polizia distribuirà fucili M-16 ai coloni in Cisgiordania. Le organizzazioni mediatiche affiliate ai gruppi di coloni estremisti della zona hanno invitato i coloni a prepararsi a “conquistare i villaggi vicino a voi” e a “distruggere chiunque si unisca al nemico”.

Lunedì la violenza dei coloni ha portato all’espulsione di tutti gli abitanti di Al-Qanub: un piccolo villaggio a nord di Hebron che comprende otto famiglie e che si trova vicino agli insediamenti di Ma’ale Amos e Asfar. Gli abitanti del villaggio hanno detto che i coloni hanno bruciato tre case – fatte di tondini di ferro ricoperti di panno spesso – con tutti i loro averi all’interno.

“[I coloni] sono venuti da noi, mi hanno afferrato e hanno detto che avevamo un’ora per lasciare il villaggio”, ha detto Abu Jamal, un abitante di Al-Qanub. “Poi sono arrivati circa 10 coloni, hanno versato benzina e hanno dato fuoco alla mia casa. Là vivevano sette persone. Gli armadi, il cibo, tutto ha preso fuoco. Hanno anche bruciato la casa di mio figlio e hanno rubato tutte le mie pecore e i miei mezzi di sostentamento. Non torneremo lì. Ho 67 anni e i miei figli sono psicologicamente traumatizzati”.

Wa’ed, un’abitante del villaggio, ha preso i suoi figli e si è nascosta in una valle vicina. Ha riferito: “Ho dei figli, un bambino di 6 mesi, uno di 2 anni e uno di 5 anni, sono corsa a nascondermi con loro nella valle quando sono entrati i coloni. Ho sentito il rumore delle esplosioni e ho pensato che avessero ucciso mio marito. Quando se ne sono andati ho visto che avevano bruciato tutte le nostre cose”.

Le famiglie che vivono alla periferia di Turmus Ayya, vicino all’insediamento di Shiloh, hanno affermato che otto coloni armati e parzialmente vestiti con uniformi militari hanno ordinato loro di lasciare le loro case; hanno anche istituito una sorta di checkpoint che presidiano da quel momento. Abdullah, un abitante del posto, ha detto: “Il primo giorno di guerra un gruppo di coloni ha costruito una postazione a pochi metri dalle nostre case, ha chiuso la strada di accesso alle case e da allora è sempre stato lì. Siamo 25 persone, molti bambini e donne, che non possono uscire né entrare nel villaggio. Raggiungiamo le nostre case attraverso gli uliveti. Chiunque esce di casa, comprese le donne, viene fermato e perquisito”.

Martedì in una zona montuosa nel sud di Hebron i coloni hanno attaccato violentemente i residenti di due minuscoli villaggi e i coloni hanno demolito due case nel villaggio di Simri precedentemente abbandonato dai suoi abitanti a causa della violenza dei coloni.

Tre coloni sono venuti per i miei figli. Uno con un’arma dell’esercito, il secondo con una pistola, il terzo con un coltello”, ha detto un anziano residente ricoverato in ospedale con ferite alla schiena e alle gambe, che ha chiesto di rimanere anonimo per paura che i coloni si vendicassero di lui. “Mi hanno detto di stare zitto e hanno iniziato a picchiarmi con il calcio di un fucile. Mi hanno buttato a terra, hanno chiuso la porta di casa ai bambini e hanno picchiato anche mia moglie al petto. Hanno detto che ormai è una guerra e che se dico qualcosa ai media torneranno di notte e bruceranno la mia famiglia. Ho gridato loro che sono un pastore e che non sono collegato alla guerra di Gaza”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Calano gli interventi delle FDI [esercito israeliano, ndt] sui media, ma rimane in vigore una notevole autocensura

Haggai Matar

18 settembre 2023 – +972 Magazine

Anche se è scesa al minimo in 12 anni, la censura militare israeliana viola ancora la libertà di stampa e impedisce a informazioni fondamentali di raggiungere il pubblico.

L’anno scorso la censura militare israeliana ha bloccato la pubblicazione di 159 articoli sui mezzi di comunicazione israeliani e ne ha censurati parzialmente altri 990. In totale l’esercito ha impedito all’informazione di arrivare al pubblico con una media di tre volte al giorno, oltre all’effetto dissuasivo che la sola esistenza della censura impone sul giornalismo indipendente che cerca di svelare gli errori del governo. I dati sulla censura sono stati forniti dal censore militare in risposta a una richiesta presentata da +972 Magazine e dal Movimento per la Libertà di Informazione in Israele sulla base della legge sulla libertà di informazione.

Nel 2022, per il quarto anno di fila, la percentuale di interventi del censore militare israeliano è scesa al livello più basso dal 2011, quando +972 ha cominciato a raccogliere dati sulle attività del censore. Nell’ultimo decennio ci sono un minimo di 2.358 interventi l’anno nei rapporti sui media del censore, ma normalmente sono molto di più: le cifre del 2022 sono “solo” di 1.149 articoli censurati, un calo del 20% dal 2021.

Secondo Or Sadan, un giurista del Movimento per la Libertà di Informazione in Israele, la sola esistenza di questa censura ha un effetto dissuasivo, una delle principali ragioni del calo di quest’anno. Un altro possibile fattore è stato il cambio al vertice dell’unità di censura: Ariella Ben Avraham, la direttrice della censura durante i suoi anni di picco e che ora lavora presso il NSO Group, ha lasciato il suo posto nel 2022 e la carica è ora coperta da Kobi Mandelblit.

C’è anche stato un notevole calo del numero di articoli che i vari media hanno presentato all’esame del censore. Negli ultimi dieci anni sono stati presentati 11–14.000 articoli all’anno, mentre l’anno scorso sono stati 5.916. Questa diminuzione può forse essere spiegata con un minore interesse in delicate questioni legate alla sicurezza o come risposta al ridotto intervento del censore e al calo delle proibizioni di pubblicazione di articoli. 

La legge israeliana che obbliga i giornalisti a sottomettere al censore militare tutti gli articoli se parlano di temi legati alla sicurezza comprende sei pagine fitte di sotto-argomenti ed è quindi molto ampia. I media dibattono ogni giorno su cosa mandare al censore, una decisione che alla fine spetta al direttore.

Il censore può anche prendere l’iniziativa di rimuovere informazioni che sono già uscite sui vari media o sui social e Ben Avraham ha persino tentato di costringere noti blogger e autori in rete che non sono giornalisti a mandarle i testi prima della pubblicazione. Comunque, a differenza degli anni precedenti, quest’anno il censore militare ha respinto la nostra richiesta di classificare in categorie le sue statistiche per chiarire se ha censurato testi che erano stati presentati o se è intervenuto per rimuovere informazioni già pubblicate.

Il censore non ha fornito altre statistiche che avevamo richiesto, tra cui i dettagli delle sue attività mese per mese, i motivi dell’intervento o i mezzi di comunicazione coinvolti. Non abbiamo neanche ricevuto dati su quanti articoli negli archivi nazionali israeliani che non erano originalmente nell’ambito del censore sono stati rimossi dall’accesso pubblico o secretati. Il censore ha solo confermato che l’anno scorso gli sono stati sottoposti per il controllo 2.670 documenti presenti negli archivi e che “la stragrande maggioranza” sono stati resi pubblici senza tagli, il che svela poco sulle attività del censore negli archivi.

Nonostante il calo riportato dalle statistiche che il censore ha condiviso, la sola esistenza di un censore militare resta un enorme scostamento dalle norme democratiche basilari. Israele è il solo Paese che si vanta della sua appartenenza al circolo delle democrazie occidentali che esercita una censura così aggressiva contro giornalisti, scoraggiando nei fatti i redattori dall’affrontare tematiche fondamentali per le vite dei cittadini.

L’opinione pubblica deve sapere che ci sono parti delle informazioni che i giornalisti vorrebbero divulgare ma che sono bloccate dal censore,” dice Sadan. Per arrivare a tale scopo Sadan, il Movimento per la Libertà di Informazione in Israele, e +972 hanno collaborato per “sensibilizzare l’opinione pubblica sul numero di casi in cui è stato violato il diritto del dell’opinione pubblica a sapere,” continua Sadan. Così facendo, aggiunge, le richieste di informazioni sulle attività del censore “permette controlli a lungo termine che riducono il timore di abusi da parte di questa autorità.”

Anche se il censore militare continua a violare la libertà di stampa, le sue attività sono diventate sempre di più superflue, persino assurde, in un’era in cui chiunque può postare informazioni online e ottenere una vasta circolazione o accedere a informazioni pubblicate altrove per bypassare la censura. Per esempio, quando ai mezzi di informazione israeliani era stato inizialmente impedito di rivelare che un ex agente del Mossad, Erez Shimoni, era uno dei morti in un incidente in barca in Italia lo scorso maggio, la notizia aveva fatto il giro del mondo. Alla fine, come avvenuto in altri casi simili, la realtà ha scavalcato gli apparati di sicurezza costringendoli a cedere e permettere alla stampa israeliana di parlare di quello che era già diventata universalmente noto. 

Quest’anno Israele è sceso di 11 posti nell’indice mondiale sulla libertà di stampa compilato da Reporter Senza Frontiere (RSF) dalll’86esimo (su 180) nel 2022 al 97esimo posto nel 2023. Le attività militari del censore sono citate nel documento di RSF su Israele, e le politiche e proposte del nuovo governo sono presentate come la ragione del peggioramento della sua posizione quest’anno. 

In una recente audizione presso il comitato della Knesset sulla censura militare Anat Saragusti, il direttore della Libertà di stampa del sindacato dei giornalisti in Israele, ha segnalato la posizione di Israele nell’indice [stilato da RSF] e, citando i continui reportage di +972, ha evidenziando la crescita dell’uso di ordinanze restrittive in Israele, emanate unilateralmente da giudici su impulso delle istituzioni della sicurezza senza che i giornalisti vi vengano rappresentati. Tale tendenza, ha aggiunto Saragusti, sta causando un significativo incremento nel numero di argomenti che la stampa non può affrontare.

Tuttavia, anche se il lavoro del censore militare continua, esso non interviene nella pubblicazione di articoli sulle attività dell’esercito e dei coloni nei territori occupati, sulla creazione e mantenimento da parte del governo di due sistemi giudiziari separati per ebrei e palestinesi in Cisgiordania, sulla repressione di legittime proteste palestinesi, sui casi penali sorti a causa delle uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito su cui normalmente non si fanno indagini, sull’incarcerazione e uccisione di giornalisti palestinesi, nostri colleghi, e così via. La maggior parte dei principali media non parla di questi temi o li tratta in modo fazioso e distorto, non per le restrizioni governative, ma a causa dell’autocensura. 

Haggai Matar è un pluripremiato giornalista israeliano e un attivista politico, oltre ad essere direttore esecutivo di +972 Magazine

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)