Khan al-Ahmar: peggio di un crimine di guerra

Nota redazionale: pubblichiamo solo ora questo articolo del 9 luglio 2018 relativo alla minaccia di demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’epoca la distruzione e la deportazione degli abitanti vennero bloccate da un ricorso all’Alta corte israeliana. Lo abbiamo tradotto ora, dopo che la corte ha deciso di dare il via libera alla demolizione, in quanto riteniamo che i punti affrontati nell’articolo siano molto utili per capire le ragioni di questo accanimento e perché l’UE si sia finora mobilitata in difesa del villaggio.

 

La demolizione di Khan al-Ahmar è più di un semplice crimine di guerra

Mentre l’imminente distruzione di Khan al-Ahmar è un gravissimo problema umanitario e molto probabilmente un crimine di guerra, molti hanno trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio per il futuro del conflitto israelo-palestinese

+972

 Edo Konrad – 9 luglio 2018

 

Gli abitanti di Khan al-Ahmar hanno passato le ultime settimane in attesa dell’arrivo dei bulldozer israeliani per demolire completamente il loro villaggio e deportare tutte le 170 persone che vi abitano, un’iniziativa che secondo organizzazioni dei diritti umani e qualche governo europeo rappresenterebbe un crimine di guerra.

Ma mentre la situazione umanitaria e la legalità della demolizione e della deportazione rappresentano un grave problema, la maggior parte delle informazioni mediatiche e dell’attivismo relativo a Khan al-Ahmar ha trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio.

Khan al-Ahmar si trova nella E1, nome di un’area di 12 km2  situata tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim, in Cisgiordania. Per decenni Israele ha sperato di costruire delle colonie in quell’area per collegare le due città. Così facendo dividerebbe in due la Cisgiordania, portando a quello che nel corso degli anni è stato descritto come il colpo di grazia alla soluzione dei due Stati.

In una dichiarazione pubblicata alla fine della scorsa settimana, la missione locale dell’Unione Europea ha condannato duramente i progetti israeliani di demolire Khan al-Ahmar, insieme alla progettata costruzione di una colonia nella E1, affermando che “aggravano le minacce per la praticabilità della soluzione dei due Stati e danneggiano ulteriormente le prospettive di una pace definitiva.”

“Questo è un campanello d’allarme per i membri più importanti dell’Unione Europea,” ha spiegato Daniel Seidemann, avvocato e attivista che dirige l’Ong israeliana “Gerusalemme terrestre”, e che ha passato gli ultimi 20 anni a monitorare come il cambiamento del paesaggio della città stia rendendo sempre più difficile una soluzione politica. “Se dovesse distruggere il villaggio nonostante l’impegno europeo, probabilmente Israele ne patirà le conseguenze.”

+972 ha parlato lunedì [9 luglio 2018, ndtr.] con Seidemann del perché Netanyahu voglia correre un tale rischio per un piccolo villaggio, delle implicazioni geopolitiche della E1 e di come probabilmente l’amministrazione Trump gestirà la crisi.

 

Nelle scorse settimane Khan al-Ahmar è stato la centro dell’attenzione mondiale. Perché il governo israeliano è così deciso a deportare una comunità talmente piccola?

“È una domanda da un milione di dollari. Khan al-Ahmar recentemente è finito sulle prime pagine dei giornali, ma è rimasto latente e oggetto di grande attenzione per molti anni, a tal punto che se svegli capi di Stato europei alle 3 del mattino e gli chiedi cos’è Khan al-Ahmar, sono in grado di risponderti. Quello che questi capi di Stato hanno continuato a dire ai dirigenti israeliani è che deportare con la forza la popolazione civile sotto occupazione è un crimine di guerra. Non lo avete ancora fatto, quindi non fatelo. Non vi possiamo difendere se lo fate, quindi lasciate stare.”

“La domanda è perché Israele voglia esporsi in questo modo. La scorsa settimana 12 consoli generali sono stati nel villaggio. Perché rischiare così tanto per un piccolo accampamento? È chiaro che si tratta di un’ossessione partita dai più alti livelli in Israele. Che viene da Netanyahu. [La minaccia di distruzione di] Khan al-Ahmar non avrebbe potuto avvenire senza il consenso e l’appoggio del primo ministro.”

 

Khan al-Ahmar si trova nell’area estremamente delicata nota come E1, tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim. Perché è così importante?

“Per quanto disperata e notevolmente problematica sia la situazione di Khan al-Ahmar, non avrebbe ricevuto l’attenzione che ha sollevato se non fosse nella E1, la zona che determinerà se potrà esistere o meno uno Stato palestinese sostenibile e con continuità territoriale. Khan al-Ahmar è diventato il problema umanitario del giorno. L’E1 è diventata il problema geopolitco degli ultimi 23 anni.

“Considera che Gerusalemme è al centro, e immediatamente a est di Gerusalemme, in Cisgiordania, a metà strada dal Mar Morto, c’è Ma’ale Adumim, la terza più grande colonia in Cisgiordania con circa 40.000 abitanti. Fin da metà degli anni ’90, quando Netanyahu è andato per la prima volta al potere, è stata intenzione del governo israeliano costruire un enorme collegamento verso Ma’ale Adumim con decine di migliaia di unità abitative. L’E1 è il settore tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim.

 

In un documento del 2012 la sua organizzazione ha affermato che l’E1, “se edificata, è un punto di svolta, forse il punto finale” per la soluzione dei due Stati. Ce lo può spiegare?

“Fin dal momento in cui Ma’ale Adumim è stata fondata, è stata vista come una colonia da giorno del giudizio, in quanto può distruggere la sostenibilità della soluzione dei due Stati, perché smembrerebbe, frammenterebbe e spezzerebbe qualunque possibile Stato palestinese, e dividerebbe la Cisgiordania in un cantone settentrionale di Ramallah e uno meridionale di Betlemme ed Hebron.

“C’è una ragione per cui ogni amministrazione prima di Trump si è opposta a edificare lì. Quando Ariel Sharon iniziò la costruzione nel 2004, il presidente Bush e la segretaria di Stato Condoleeza Rice lo bloccarono dopo un grave conflitto all’interno della Casa Bianca sulla scelta di intervenire.”

 

Qualche anno fa Netanyahu tentò di costruirvi ma si piegò alle pressioni internazionali. Ora che c’è Trump alla Casa Bianca il governo sta preparando il terreno per l’operazione?

“Netanyahu ha proceduto nella E1 dal 30 novembre 2012 come rappresaglia per l’accettazione della Palestina come Stato osservatore non-membro all’Assemblea Generale dell’ONU. Le pressioni internazionali sono riuscite a bloccare le costruzioni, e da allora non è andata avanti. Ora credo che ci siano pressioni da parte del suo governo per procedere nella E1, e quello a cui stiamo assistendo è che Netanyahu sta facendo di tutto tranne andare avanti. Invece stiamo vedendo ogni possibile fase preliminare.

“Dal punto di vista di Israele la E1 è un’importante terreno edificabile. Per i palestinesi è un terreno edificabile devastante. Ma a prescindere, è il terreno più conteso della Cisgiordania, soprattutto perché riguarda i confini di un futuro status permanente. Così quando gli americani sono intervenuti non hanno detto ‘Questo non è Palestina, giù le mani.’ Hanno detto: ‘Volete la E1? Bene. È una questione che riguarda lo status permanente, negoziatelo e non imponete il risultato finale.’”

“La gente di Khan al-Ahmar è finita nel mirino di Netanyahu in quanto si trova in un’area su cui c’è una disputa titanica. E’ anche la più evidente esemplificazione di un crimine di guerra, e c’è anche una popolazione particolarmente vulnerabile. Per cui prendi le implicazioni geopolitiche della E1 e le crude implicazioni umanitarie di Khan al-Ahmar, le metti insieme e hai la miscela perfetta per il BDS [movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndtr.].”

 

L’attuale iniziativa è il risultato della completa mancanza di impegno di Trump in merito? Cos’altro ci si può aspettare come conseguenza?

“Personalmente ho sentito dire due cose da membri di alto livello del governo. Un’opinione è che la E1 non preoccupa i palestinesi, possono aggirarla. La seconda è che Trump non ha cambiato la politica USA sulla E1.”

“Riguardo a Khan al-Ahmar è impossibile sapere se la demolizione avrà luogo o no. Quello che posso dirti è il presentimento che in un modo o nell’altro Khan al-Ahmar stia per diventare un punto di svolta. Se la demolizione viene bloccata, è chiaro che l’unica ragione sarà il serio, conseguente, articolato impegno internazionale da parte delle principali capitali europee. Questa è una lezione che sarà presa in considerazione sia a Gerusalemme che in Europa. Per quanto possa essere un personaggio problematico, Netanyahu può essere affrontato e può essere dissuaso.

Il secondo scenario è che vada comunque avanti con la demolizione, nel cui caso il messaggio sarà forte e chiaro: ‘Chi ha bisogno di Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles quando abbiamo Varsavia e Budapest?’”

 

Perché è diverso da Susya, per esempio, il villaggio che è riuscito a evitare un’imminente demolizione con il sostegno della comunità internazionale?

“Penso che Susya fosse una prova generale per Khan al-Ahmar. Ma annettere Susya, cosa che in ogni caso non auspico, non avrebbe impedito la praticabilità di uno Stato palestinese. Con Khan al-Ahmar c’è l’alchimia di avere un problema umanitario molto grave, che ti obbliga a vedere le cose in bianco e nero, strettamente connesso al dramma geopolitico della E1, che sta chiaramente diventando uno dei problemi più controversi di qualunque futuro negoziato. Unire la questione geopolitica a quella umanitaria all’apice della loro gravità è un’atto da esplosione nucleare.”

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Politica estera UE e demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar

Il momento della verità per la politica UE su Israele/Palestina

Che gli Stati europei diano un seguito alle loro minacce ed ai loro avvertimenti in merito alla demolizione di Khan al-Ahmar oppure no definirà in notevole misura l’importanza dell’UE e la sua capacità di influire sulla politica israeliana nei confronti dei palestinesi

+972

 

Di Michael Schaeffer Omer-Man – 5 settembre 2018

 

Le potenze europee stanno per dover fare una scelta fondamentale nella prossima settimana. Due mesi dopo che cinque Stati europei pare abbiano messo in guardia Israele che la demolizione e la deportazione di Khan al-Ahmar avrebbe “innescato una reazione” da parte dei suoi alleati, mercoledì [5 settembre] la Corte Suprema israeliana ha dato il suo beneplacito definitivo al fatto che la demolizione prosegua.

  • Insieme al villaggio di Susya, a sud della Cisgiordania, l’UE ha dichiarato, apparentemente in modo arbitrario, Khan al-Ahmar come una delle poche linee da non superare nella pluridecennale politica israeliana di demolizione di case palestinesi ed espansione del suo piano di estensione delle colonie nei territori occupati (per una spiegazione del perché, vedi l’intervista di Edo Konrad con l’esperto di Gerusalemme Daniel Seidemann).
  • Ogni volta che piccoli e fatiscenti villaggi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.] stanno per essere distrutti, arrivano file di diplomatici. Dichiarazioni di condanna ed occasionali ammonizioni vengono diffuse nell’etere.

Finora questo approccio ha funzionato parzialmente. Ma le cose sono cambiate negli ultimi due anni: la principale differenza è che l’attuale Casa Bianca – la cui politica in Medio Oriente è guidata da personaggi sfacciatamente di destra e a favore dei coloni come Jared Kushner [genero e consigliere per il Medio Oriente di Trump, ndtr.] e David Friedman [attuale ambasciatore USA in Israele e proprietario di una casa in una colonia, ndtr.]  – non si preoccupa più di quello che Israele fa ai palestinesi. E se le importa, non è disposta a mormorare neppure un minimo segno di disapprovazione.

Ciò significa che le potenze europee, per dirla senza mezzi termini, dovranno decidere se opporsi o stare zitte riguardo al loro impegno nei confronti di Khan al-Ahmar. Anche se dovessero agire, è improbabile che lo facciano come blocco unitario, data la nascente amicizia di Israele con governi di estrema destra europei, che detengono il potere di veto effettivo nel sistema di politica estera consensuale dell’UE. I governi dovrebbero quindi intervenire singolarmente.

Tenendo conto su quante poche questioni la comunità internazionale ha intenzione di prendere una posizione nei confronti di Israele, e che i dirigenti dell’UE si sono assunti la responsabilità di tracciare una linea rossa più o meno coerente su Khan al-Ahmar, le risposte di Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia saranno fondamentali per determinare il destino dell’impegno internazionale sulla questione palestinese.

Con gli Stati Uniti non più interessati ad applicare neppure pressioni simboliche su Israele, le potenze europee, che detengono leve economiche significative, dovranno dimostrare se i loro avvertimenti sono effettivamente serie minacce o parole vuote. Se non reagiscono con una qualche sorta di sanzioni o di misure punitive, avranno perso quel poco che è rimasto della loro deterrenza per porre fine alla continua campagna del governo israeliano per rendere la soluzione dei due Stati (sostenuta dall’UE) un’idea obsoleta.

Ma è improbabile che simili punizioni vengano imposte. Le minacce diplomatiche non sono quasi mai fatte con l’intenzione di darvi seguito; per questo le conseguenze non sono mai specificate o accennate. Israele crede da tempo che sia così, ed ora comincia a mettere ulteriormente alla prova i confini della sua impunità – una cosa che ha fatto sempre più audacemente negli ultimi anni.

La conseguenza è che l’attuale governo israeliano, e i governi futuri, saranno incoraggiati a diventare ancora più aggressivi nel riscrivere le norme che governano il proprio comportamento: in questo caso, quelle che regolano con quanta rapidità può portare avanti la sua silenziosa annessione, un pezzo alla volta, della Palestina nei prossimi anni.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Con le nuove leggi, Netanyahu sta sequestrando l’ebraismo che conosciamo

David Sarna Galdi

22 luglio 2018 , +972

Il leader della più grande popolazione ebraica del mondo sta abbandonando consapevolmente l’identità ebraica moderna per inaugurare un nuovo ebraismo. Quale? Basta guardare alle leggi dello Stato Nazionale Ebraico e sull’olocausto.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha suscitato le ire del mondo ebraico all’inizio di questo mese quando è apparso alla televisione nazionale per annunciare il suo sostegno a una versione modificata della controversa legge sull’olocausto polacca, una trovata inventata dal governo anti-democratico della Polonia per ottenere il favore della sua base di destra.

La legge mette in serio pericolo la libera discussione sull’Olocausto e presenta una narrazione ripulita del comportamento polacco durante la seconda guerra mondiale: le autorità polacche e la maggior parte dei civili avrebbero fatto di tutto per salvare gli ebrei e il tradimento di un ebreo da parte di un polacco sarebbe una rara anomalia.

I politici di tutto l’arco parlamentare israeliano hanno attaccato il primo ministro. Lo Yad Vashem, il Museo israeliano dell’Olocausto, ha espresso un ufficiale dissenso, mentre lo storico dell’Olocausto Yehuda Bauer, vincitore di un premio Israele, ha lanciato l’accusa più grave, definendo la legge un “tradimento” e una “completa menzogna”.

Poche settimane dopo, Netanyahu ha spinto per l’approvazione alla Knesset della controversa Legge dello Stato Nazionale Ebraico, nonostante le accese e negative reazioni pubblica e istituzionale. La legge è di buon senso in superficie, riaffermando il carattere ebraico di Israele. Lascia subdolamente fuori, tuttavia, qualsiasi impegno alla parità dei diritti, legalizza la preferenza per gli insediamenti ebraici e declassifica lo status dell’arabo da lingua ufficiale dello stato. 

In parole povere, è un gratuito attacco ultranazionalista – una legge razziale che istituzionalizza la discriminazione contro le minoranze di Israele, in particolare gli arabi, che costituiscono il 20% della popolazione. Prima che passasse, migliaia di manifestanti si sono radunati a Tel Aviv per protestare. Un’associazione di 14 organizzazioni ebraiche americane ha ufficialmente espresso la propria disapprovazione e personalità politiche di tutti i partiti si sono opposte alla legge.

La tempistica di queste due leggi apparentemente non correlate esprime il silenzioso colpo di stato di Netanyahu: la revisione calcolata e radicale di ciò che significa essere ebreo.

Abbandonare l’Ebraismo

L’identità ebraica è drasticamente cambiata due volte nella storia. Una prima volta, quando l’esilio trasformò la nazione ebraica in una minoranza dispersa e frantumata, suscettibile sia all’antisemitismo che alla riuscita assimilazione nella diaspora. Gli ebrei cominciarono a guardare, parlare e pensare in modo diverso, in base alla cultura ospite. Alla fine, gli ebrei yemeniti sembravano yemeniti e gli ebrei polacchi, polacchi.

Il progetto sionista ha ridefinito l’ebraismo ancora una volta. Ha cancellato l’immagine dell’ebreo come vittima indebolita e curva nel ghetto, imbastardita dall’esilio. Ha cercato di trasformare ebrei profondamente diversi e lontani in una potente nazione di forti lavoratori / combattenti che parlano una sola lingua.

Dopo l’Olocausto, Israele fu naturalmente ritenuto garante della sicurezza ebraica e rappresentante dei valori ebraici. I leader israeliani della Diaspora, come Moshe Dayan, emblematico generale e ministro, hanno detto chiaramente che il loro governo “non dovrebbe rappresentare solo il popolo di Israele, ma gli interessi di tutti gli ebrei”.

Ma con Netanyahu al timone, Israele ha ripetutamente e intenzionalmente sputato sull’ebraismo mondiale e sulla sua sensibilità. Il risultato? A cinquant’anni dall’euforia che seguì la Guerra dei Sei Giorni, il lontano sionismo idealistico degli ebrei della diaspora zoppica come un cane a tre zampe. Un recente studio del ‘Pew Research Center’ ha rilevato che solo il 35% degli ebrei americani tra il 18 e il 50 anni ha identificato Israele come parte fondamentale della propria identità ebraica.

Un’identità mutata

Non è una coincidenza. Netanyahu ha gettato i dadi e preso la calcolata decisione di abbandonare non solo gli ebrei americani in disaccordo con l’agenda populista in ascesa in Israele, ma proprio l’ebraismo stesso.

Cioè, l’ebraismo come lo conosciamo: ebraismo progressista, erudito, in dialogo con il mondo esterno per migliaia di anni. L’ebraismo le cui maggiori opere e innovazioni si sono sviluppate a Babilonia, in Spagna e in Polonia. L’ebraismo intellettuale che ha assorbito e impollinato l’Illuminismo (Mendelssohn); la filosofia (Buber, Scholem, Marx, Frankl, Arendt); i movimenti americani per l’uguaglianza dei diritti (Steinem, Friedan, Milk); e la cultura (Gershwin, Berlin, Streisand, Mailer, Allen, Marx, Polanski). Un ebraismo tollerante con la sensibilità dello straniero che “ama lo straniero”, come raccomandato 36 volte nella Torah.

Netanyahu vuole buttare tutto questo nel cestino della storia. Vuole mutare l’identità ebraica in hubris ebraica e trasformare Israele nella fortezza murata di una etnocrazia illiberale.

Come altro spiegare l’approvazione di Netanyahu per una maligna legge polacca che dissacra l’Olocausto? Come capire il tradimento di Netanyahu nei confronti degli ebrei riformisti e conservatori nel più sacro spazio comunitario dell’ebraismo? Come spiegare che nel 2016 Netanyahu ha ignorato le lodi del presidente Trump per i neo-nazisti americani e le oltre 190 minacce e attacchi antisemiti negli Stati Uniti? Queste domande hanno acquistato ulteriore rilievo in questa settimana, in cui Netanyahu ha dato il benvenuto al primo ministro ungherese Viktor Orban in visita ufficiale, nonostante la sua retorica antisemita e il suo apprezzamento per politici alleati dei nazisti.

Solo l’anti-ebraismo di Netanyahu può spiegare il nuovo fenomeno di leader come John Hagee, Richard Spencer o per l’appunto Orban, che sono pro-Israele e contemporaneamente denunciati come antisemiti.

Ci sono voci secondo cui la resa di Netanyahu alla legge sull’olocausto fa parte di un quid-pro-quo ideato per trasferire le ambasciate dell’Europa orientale a Gerusalemme. Ci sono ragioni diplomatiche e politiche per tutte le azioni di Netanyahu – ma c’è anche un quadro più ampio. Il leader della più grande popolazione ebraica del mondo sta abbandonando consapevolmente – se non attaccando – l’identità ebraica moderna per inaugurare un nuovo ebraismo. Di che tipo? Basta guardare alle leggi dello stato- nazione ebraico e sull’Olocausto.

Lo stop all’ebraismo di Netanyahu legalizza il furto di terra, limita la libertà di parola della sua stessa gente, maltratta i rifugiati africani, demolisce le comunità israeliane-beduine, discrimina le coppie omosessuali, esclude gli ebrei di sinistra dall’entrare in Israele e mitizza un soldato condannato di omicidio colposo. Non rispetta la lingua delle minoranze native perché è razzista. Demonizza la stampa perché teme la verità. Finanzia la giudaizzazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania perché è avido e deve cancellare le tracce di qualsiasi narrativa in competizione. Si oppone ai matrimoni LGBT o a qualsiasi matrimonio civile perché è governato da un’intollerante egemonia ortodossa.

Netanyahu immagina il futuro dell’ebraismo non come una piazza con molte differenze, influenze e dibattiti, ma piuttosto come un uccello raro e feroce che sopravvive in gabbia ed è estinto ovunque al di fuori di essa.

David Sarna Galdi è stato redattore del quotidiano Haaretz. Lavora a Tel Aviv per un’organizzazione senza scopo di lucro.

(traduzione di Luciana Galliano)

 




I cambiamenti nei rapporti tra palestinesi dalle due parti del muro

Rami Younis

15 luglio 2018, +972

Nonostante la separazione fisica e le divisioni interne, i palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde stanno nuovamente parlando del futuro della loro lotta e del ruolo che i palestinesi cittadini di Israele vi possono giocare.

Lontano dagli occhi dell’opinione pubblica israeliana, anche se sotto lo sguardo attento del governo, si è scatenato un dibattito interno alla società palestinese sugli effetti devastanti della separazione fisica e delle divisioni interne che l’affliggono.

Due recenti proteste, una ad Haifa in solidarietà con Gaza e un’altra – a cui hanno partecipato anche palestinesi cittadini di Israele – a Ramallah contro il ruolo giocato dall’Autorità Nazionale Palestinese nell’assedio [di Gaza] hanno contribuito a rafforzare il confronto sul rapporto tra palestinesi dei due lati del muro di separazione e sul ruolo dei palestinesi cittadini di Israele nella lotta contro l’occupazione.

La dottoressa Huneida Ghanem, che dirige “Madar” – il Centro Palestinese di Studi Israeliani -, ha studiato questo problema per anni. Nelle sue ricerche Ghanem, che divide il suo tempo tra Israele e Ramallah, ha scoperto che, nonostante le divisioni, la maggioranza dei palestinesi concorda su una serie di punti fondamentali: che la divisione è stata loro imposta, che li indebolisce e che consente ad Israele di controllarli più facilmente.

Le divisioni non iniziano e finiscono con il muro e l’occupazione. Per anni Fatah e Hamas sono stati incapaci di riconciliarsi, nonostante le esortazioni del loro popolo. I palestinesi all’interno di Israele affrontano divisioni al proprio interno, per cause anche religiose, dispute politiche e differenze geografiche che generano divari culturali.

Nel corso degli anni tutti questi fattori hanno creato in ogni comunità situazioni politiche, sociali ed economiche diverse, portando a differenti necessità e problemi che richiedono differenti approcci e politiche. In seguito a ciò, secondo Ghanem, ogni gruppo ha sviluppato un proprio programma politico per affrontare l’occupazione.

Nei territori occupati la lotta si concentra sulla fondazione di uno Stato attraverso mezzi sia violenti che non violenti, compresi la lotta popolare e il movimento BDS. Quella in Cisgiordania si concentra sulle colonie e l’apartheid; a Gaza il fulcro è sulle difficoltà create dall’assedio, così come sulla violenza e sulle distruzioni causate dalle guerre con Israele ogni paio d’anni e sulla ricostruzione tra uno scoppio di violenza e l’altro.

I palestinesi cittadini di Israele stanno lottando per una cittadinanza uguale attraverso partiti politici e organizzazioni extraparlamentari, concentrandosi soprattutto sulla discriminazione e sulle leggi [israeliane] razziste. E fuori dalla Palestina milioni di rifugiati stanno lottando per il diritto al ritorno nelle proprie terre.

Secondo Ghanem, le due Intifada hanno rappresentato un cambiamento per i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di confine tra il territorio israeliano e la Cisgiordania e Gaza, ndtr.]. Durante la Prima Intifada, nel corso della quale centinaia di migliaia di palestinesi nei territori occupati protestarono contro l’occupazione, i palestinesi all’interno di Israele tennero manifestazioni non violente di solidarietà, chiedendo al contempo uguaglianza per tutti i cittadini israeliani. La Seconda Intifada, tuttavia, fu un punto di svolta: intere comunità palestinesi vennero coinvolte indipendentemente dalla loro collocazione geografica, e i palestinesi improvvisamente in quel momento percepirono che il destino di Giaffa [in Israele, ndtr.] era legato a quello di Gerusalemme e di Jenin [nei territori occupati, ndtr.].

Arabi o palestinesi?

Nonostante la separazione fisica e le varie divisioni, sempre più arabi in Israele si definiscono come palestinesi. Più Israele insiste a utilizzare il termine “arabi israeliani” e cerca di imporre loro un’identità, più essi dimostrano orgoglio per la propria identità nazionale. Dopotutto, l’identità è parte della lotta.

Un anno e mezzo fa ho pubblicato una serie di video reportage su Social TV relativi alla storia dell’identità nazionale tra gli arabi cittadini di Israele, e soprattutto su come il “Giorno della Terra” del 1976 [in cui 6 palestinesi cittadini israeliani vennero uccisi durante proteste contro l’esproprio di terre, ndtr.] e gli avvenimenti dell’ottobre 2000 [quando durante proteste e scontri con civili ebrei la polizia israeliana uccise 13 dimostranti palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] furono cruciali nello spingerli ad adottare un’identità palestinese.

Una delle persone da me intervistate, il dottor Marwan Darweish, docente di Studi per la Pace all’università di Coventry in Gran Bretagna, spiegò il fenomeno:

Le divisioni interne palestinesi, l’assedio, le colonie, il muro – tutto ciò ha creato diverse situazioni e divisioni tra i vari gruppi di adolescenti palestinesi. Penso sia uno degli obiettivi della politica israeliana: che le persone si definiscano palestinesi, ma che ci siano divisioni interne e differenze e in qualche modo un conflitto tra di loro, creando differenti rappresentazioni l’una dell’altra. Come i palestinesi di Gaza vedono i palestinesi di Gerusalemme o all’interno di Israele. Queste rappresentazioni e la creazione di identità differenti in un certo senso sono funzionali allo Stato, all’occupazione e al controllo israeliano sui palestinesi.

L’attivista Qamer Taha all’epoca disse: “Ci sono vari studi che mostrano come negli ultimi anni tra il 30 e il 40% degli adolescenti si sia autodefinito “palestinese” senza comprendere veramente la complessità della situazione.” Taha ha sostenuto che la generazione più giovane potrebbe aver adottato un’identità palestinese in risposta alle divisioni etniche all’interno della società palestinese in Israele. Invece che musulmani o cristiani, ci sono soltanto palestinesi.

L’uovo e la gallina

Tuttavia, nonostante il senso e l’orgoglio della loro identità palestinese, negli ultimi anni sempre meno cittadini palestinesi hanno inscenato proteste, e in qualche modo sono molto meno coinvolti politicamente.

Ci sono varie ragioni per cui meno palestinesi sono scesi in piazza. Una delle principali è la mancanza di una visione politica e di una strategia chiare,” ha detto Muhammad Younis, un attivista che vive ad Haifa. (Nessun rapporto con chi scrive). Younis è uno dei fondatori di un nuovo movimento che appoggia la costituzione di un unico Stato democratico in Israele-Palestina sulla base dell’uguaglianza tra arabi ed ebrei.

Aggiungi a ciò quello che sta succedendo in Siria e ti renderai conto della disperazione e della frustrazione collettive,” ha continuato Younis. “C’è frustrazione anche nei confronti dei nostri dirigenti – la “Lista Unitaria” [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] e l’“Alta Commissione Araba di Monitoraggio” [composto da rappresentanti politici palestinesi sia locali che nazionali cittadini israeliani, ndtr.]. Quest’ultima ha completamente perso la fiducia dell’opinione pubblica.”

Recenti sondaggi mostrano che i cittadini palestinesi di Israele si concentrano sulle violenze (intercomunali) che infuriano nelle nostre strade, e ben a ragione. Ci stiamo concentrando sui nostri problemi immediati, per cui come possiamo portare migliaia di persone a protestare per Gaza? Ciò pone un dilemma strategico: occuparci della violenza o continuare ad opporci all’occupazione, dato che (quest’ultima) consente e trae beneficio dalla violenza? È una situazione da uovo e gallina. Cosa viene prima, la violenza o l’occupazione?

Younis dice di credere che i cittadini palestinesi di Israele si stiano allontanando dai palestinesi della Cisgiordania, catalizzati sia dagli avvenimenti nel mondo arabo, che dall’effetto a valanga della hasbara israeliana. “I palestinesi guardano alla Primavera Araba e dicono ‘forse le cose vanno meglio in Israele’. Alcuni di loro stanno iniziando a recepire gli ingannevoli discorsi sionisti contro la “Lista Unitaria”, che non farebbe niente per affrontare i problemi della società araba all’interno di Israele. Ovviamente succede a causa della violenza incontrollata. Gran parte della nostra opinione pubblica sta iniziando a fare una distinzione tra l’occupazione ed i problemi della nostra società, senza comprendere come l’occupazione approfitti di questi problemi.”

Un anno e mezzo fa ero seduto nell’ufficio della dottoressa Ghanem a Ramallah, proprio mentre l’ANP aveva iniziato a imporre sanzioni contro gli abitanti di Gaza bloccando il pagamento della loro elettricità. “La gente è terrorizzata,” ha detto Ghanem, spiegando perché praticamente nessuno fosse sceso in piazza. “Non è che gli piacciano (le politiche dell’ANP), o che non stiano male. Sono feriti e frustrati, eppure non protestano perché vedono cosa sta succedendo in Siria. In un certo modo la mancanza di opposizione ad Abbas è simile all’accettazione del male minore.”

Forse le cose comunque stanno cambiando. Negli ultimi mesi ci sono state manifestazioni di alto profilo ad Haifa (nonostante il numero relativamente basso di partecipanti) e a Ramallah (nonostante il timore a protestare contro l’ANP). È possibile che i manifestanti di Ramallah fossero ispirati da quelli di Haifa e dalle recenti proteste antigovernative in Giordania? Il fatto che attivisti di Haifa si siano uniti alle manifestazioni a Ramallah è foriero di una cooperazione da entrambi i lati del muro? Può essere che a Ramallah i timori di una Primavera Araba stiano iniziando a svanire? Il tempo lo dirà.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local call” [sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’

Edo Konrad

2 Luglio 2018, +972

Bradley Burston ribadisce che le sue opinioni su Israele non sono cambiate da quando si è trasferito qui negli anni ’70. È Israele che è cambiato. ‘Mi piacerebbe avere due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non puoi averli’, e loro governano il Paese’, dice in un’ intervista ad ampio raggio su Israele, sulla Nakba e sulle trasformazioni nella comunità ebraica americana.

Tra gli ebrei americani ci sono sempre state correnti di dissenso a proposito di Israele. Dopotutto, sono stati gli ebrei americani progressisti, radicalizzati dalla nuova sinistra degli anni ’60, che sono diventati l’avanguardia della sinistra ebraica americana, che chiedeva che il governo di Israele tenesse colloqui con l’OLP, decenni prima che questo divenisse la politica israeliana. Sono stati gli ebrei americani che, dieci anni dopo aver manifestato contro la guerra in Vietnam, hanno incominciato a protestare di fronte alle ambasciate e ai consolati israeliani durante la prima guerra del Libano.

Decenni dopo, stiamo sentendo parlare spesso dei mutati rapporti tra gli ebrei americani ed Israele, sia da parte di chi si sente deluso, tradito dalle storie e mitologie diffuse dalle proprie stesse comunità, sia da parte di chi semplicemente si allontana del tutto dallo Stato ebraico.

Ciò di cui sentiamo parlare molto meno sono gli ebrei americani progressisti che hanno scelto di vivere in Israele. Cosa provano oggi riguardo a Israele gli americani con cittadinanza israeliana, soprattutto quegli influenti intellettuali che hanno contribuito ad informare molta gente sui cambiamenti che ribollono tra i loro parenti rimasti negli USA?

Per Bradley Burston, far sentire la propria voce ebraica americana è diventata una specie di missione – anche quando nessuno la ascoltava veramente. Burston è diventato una delle voci più importanti del sionismo progressista (lui rifiuta questo termine, definendosi “qualcosa di più di un personaggio-etichetta”), attraverso la sua rubrica su Haaretz, “Un posto speciale all’inferno”. Molto prima che ‘SeNonOra, Voci ebraiche per la pace’, J Street e Peter Beinart [giornalista liberal americano, ndtr.] sollevassero il coperchio di una crisi latente tra gli ebrei americani e Israele, i suoi scritti sono stati un rifugio per chi si sentiva preso in mezzo tra i propri valori e Israele.

Più la dittatura militare sui palestinesi si consolidava, più le rubriche di Burston diventavano taglienti, mettendo in guardia gli israeliani – ed i loro paladini ebrei americani – sulle sue tragiche conseguenze. Perciò è piuttosto incredibile sentire Burston dichiarare che le sue opinioni riguardo a Israele non sono cambiate dal 1971. Dopotutto, soprattutto per la sua indignazione, il suo nome è diventato sinonimo di una tendenza di sionismo liberale che ha lottato per continuare ad essere significativo nell’era Natanyahu – che crede nella soluzione di due Stati, in uno Stato ebraico che rispetti e dia importanza alle sue minoranze, e in un sano rapporto con il resto del mondo.

Nonostante le sconfitte politiche e le speranze svanite per i due Stati, Burston crede comunque che, in fondo, la maggioranza degli ebrei americani sia d’accordo con quell’ipotesi.

La maggioranza degli ebrei americani vuole vedere una democrazia qui, e sono terribilmente a disagio per come stanno andando le cose”, dice l’originario di Los Angeles, mentre siamo seduti per un’intervista a Giaffa, dove vive. “Sono preoccupati per la questione dei richiedenti asilo e per il rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana. Per molti giovani ebrei americani, se non per la maggioranza, l’asse Trump-Bibi è davvero il loro nemico.”

Eppure, sulla questione palestinese, Burston crede che la maggior parte degli ebrei americani abbia ancora una strada da percorrere. E’ un processo lento, dice, ma è solo questione di tempo. “(Gli ebrei americani) hanno subito il lavaggio del cervello in modo da credere che gli israeliani sappiano qual è la cosa migliore. Ma è solo una questione di tempo. Se Netanyahu si aliena gli ebrei americani su una questione dopo l’altra, le cose cambieranno. Io spero che stiamo andando verso una situazione migliore – più sostenibile.”

Questo Paese è enormemente cambiato da quando ci sono arrivato a metà degli anni ‘70”, dice, lisciandosi la barba sale e pepe, come usa fare quando è immerso nei pensieri. “Eppure credo ancora in ciò in cui ho sempre creduto: che la soluzione migliore al conflitto israelo-palestinese sia quella dei due Stati, uno accanto all’altro. Il problema è che non penso sia più possibile.”

Come sei arrivato a renderti conto che non ci sarà una soluzione dei due Stati?

Mi piacerebbe che ci fossero due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non può essere’, e loro governano il Paese. Quando Netanyahu vinse le elezioni nel 2015 dopo una campagna razzista – è stato allora che ho capito che era finita. Ma non sarà per sempre.”

L’idea di uno Stato ebraico e democratico è sostenibile nel lungo termine?

Credo che ci possa essere una confederazione che renda possibile uno Stato ebraico e democratico. Non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca, ma ritengo che ci sia qualcosa di positivo nella cultura ebraica e nel suo rinnovamento.

Bisogna ricordare che sta accadendo qualcosa agli ebrei in Israele – che vengano a viverci o no –  che è estremamente potente. Non si tratta dell’acqua sporca. L’acqua sporca è fascismo, è il dominio su un altro popolo. Per Netanyahu l’acqua sporca è l’essenza di questo Paese.”

Hai scritto che l’ideologia dominante del Paese è diventata simile al razzismo. Ti identifichi ancora come sionista?

Non sono sicuro di averlo mai fatto. Non ho alcun problema rispetto all’esistenza di uno Stato ebraico. Ho problemi con uno Stato ebraico oppressivo. Ho problemi con uno Stato ebraico che sopprime i propri tratti democratici. Ho problemi con uno Stato ebraico che è esclusivamente per ebrei di ogni genere. Se sionismo equivale al sostegno alle colonie o all’espulsione dei richiedenti asilo, diventa estremamente facile per me rispondere alla domanda. Se ciò è quello che [il sionismo] è, allora non sono sionista.”

Gli ebrei americani sono più che mai propensi a parlare della Nakba e dell’espulsione dei palestinesi. Come si possono conciliare idee progressiste come l’uguaglianza con la storia di come è stato fondato questo Paese?

La verità è che si tratta di un’incredibile confusione. Benny Morris ha condotto un immane studio su ciò che accadde nel 1948 e ciò che si capisce leggendolo è che ci furono circostanze di vera nobiltà e circostanze di tremende atrocità. Improvvisamente la gente ha avuto l’opportunità di essere sé stessa ed in molti casi questo ha portato ad un risultato terribile, in altri casi no.

È la tempesta perfetta. Gli ebrei erano legittimamente preoccupati di essere nuovamente sterminati. Se sono convinto che tutti stanno cercando di uccidermi, divento tremendo nei loro confronti. Ci sono abbastanza persone propense a dire che vogliono uccidere gli ebrei e che noi non abbiamo il diritto di stare qui, da fornire agli israeliani la giustificazione per usare modi terribili verso di loro.”

Questa mentalità è rimasta tale dal 1948?

Sì, e questo spiega perché oggi agli israeliani non importa nulla dei palestinesi uccisi al confine con Gaza. È stata l’idea geniale di tagliare ogni contatto tra israeliani e palestinesi, perché se davvero vuoi che la gente detesti e tema il campo avverso, allora devi assicurarti che non vi siano contatti. Ora noi non vediamo mai l’altra parte. Se io penso che l’altra parte mi vuole morto, farò cose terribili.

Nel bene o nel male, molti degli ebrei che sono venuti qui lo hanno fatto perché credevano profondamente in questo posto, di appartenere a questo posto, anche se non lo avevano mai visto. Proprio come i palestinesi che conservano le loro chiavi, che sono anch’essi di qui. L’ebreo estone che non poteva essere apertamente ebreo nell’Unione Sovietica – era di qui. Era disposto ad andare in prigione per vivere qui.”

Ma perché questo dovrebbe importare al palestinese che conserva la sua chiave?

L’unica cosa che non possiamo fare è rimuovere ingiustamente la portata del coinvolgimento totale ed emotivo di entrambe le parti rispetto a questo luogo. È il loro luogo, per entrambe le parti. E questo è il problema. Deve esserci qualche ragione per cui questo è il luogo più terribile del mondo eppure ha presa su di noi. In parte è una sorta di lavaggio del cervello che fa parte della cultura israeliana, ma non si tratta solo di questo. C’è qualche elemento mistico qui, a cui la popolazione è indissolubilmente legata. Il governo non può rovinare tutto.”

* * *

Alcune settimane dopo la nostra prima intervista, in un solo giorno i cecchini israeliani sul confine di Gaza hanno ucciso oltre 60 manifestanti che chiedevano il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e ne hanno feriti altri mille. Sono tornato ed ho chiesto a Burston se la carneficina avesse cambiato qualcosa per lui.

Non so come conviviamo con noi stessi, sapendo quello che sta accadendo a persone che sono praticamente vicine di casa. Non sto parlando in particolare dei morti e feriti nelle proteste della ‘Marcia del Ritorno’. Sto parlando di anni e anni che le hanno precedute. L’assedio di Gaza è stato ed è un terribile errore, il peggior errore che Israele ha fatto negli ultimi 12 anni, non solo in termini morali, ma anche tattici e strategici, per il futuro di Israele e dei palestinesi. Il governo lo sa.

Ma il governo ha troppa paura per fare qualcosa in proposito. L’esercito fa continue pressioni su Netanyahu per promuovere gli aiuti umanitari e lavorare con la cooperazione internazionale per ricostruire le infrastrutture essenziali che abbiamo bombardato fino a distruggerle, impianti energetici, impianti di depurazione, il sistema di acqua potabile. Ma Netanyahu ha troppa paura. È troppo occupato a guardarsi le spalle e a cercare di dimostrare che ha più testosterone di Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], il quale cerca di dimostrare la stessa cosa riguardo alla propria virilità rispetto a Lieberman [ministro della Difesa e leader di un altro partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndtr.].”

C’è un’altra cosa per cui mi dispero. Per alcuni leader della destra israeliana un alto numero di vittime palestinesi può in realtà essere considerato come una risorsa politica. Un sondaggio condotto dopo il massacro delle prime marce ha mostrato che il 100% degli intervistati che ha votato per il partito ‘Ysrael Beiteinu’ [‘Israele casa nostra’, ndtr.] del ministro della Difesa Lieberman approvava le azioni dell’esercito. Il cento per cento.”

* * *

Non pensi mai di tornare in America?

C’è stato un periodo durante la seconda Intifada in cui eravamo terrorizzati per la nostra personale incolumità o di lasciare che nostra figlia prendesse l’autobus a Gerusalemme. Ma penso che ci sia qualcosa che ci trattiene qui. Chiunque sia qui e sia un progressista deve essere un rivoluzionario completamente matto, perché altrimenti come potrebbe sopportarlo?”

Eppure la sensazione è che le cose stiano andando peggio.

Io spero ancora in qualcosa di meglio. Quando sono venuto in Israele ho detto ‘ci vado per un anno e poi vedo che cosa succede’.”

E hai continuato a dirlo da allora.

Esattamente. Ogni anno, più o meno ad ottobre, dico ‘E va bene, gli concedo ancora un anno’, ed eccomi qui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




‘Ringraziate di non essere gay a Gaza’

Noa Bassel

(tradotto in inglese Si Berrebi)

7 giugno 2018,  +972

Visto che i palestinesi sono privati dall’occupazione dei loro diritti, non si possono considerare le conquiste della comunità LGBTQ israeliana come un indice di tolleranza. Il nostro compito è di contrastare queste opinioni e continuare a chiedere eguali diritti per tutti.

Ogni anno a giugno, durante il “Mese dell’Orgoglio Gay”, il paradosso insito costruito all’interno del discorso politico israeliano raggiunge un’altissima intensità: più un gruppo sociale è oppresso, più ci si aspetta che sia grato per quello che è dato per scontato dal resto della popolazione.

I palestinesi dovrebbero essere grati di poter frequentare l’università, le femministe dovrebbero ringraziare Israele perché non vivono in Iran, gli immigrati ebrei dall’Etiopia dovrebbero essere felici di non trovarsi nella loro patria e le persone LGBTQ dovrebbero ringraziare di poter camminare per strada.

Questi gruppi sono sistematicamente attaccati o discriminati dalla polizia, dal sistema giuridico, dalle istituzioni statali e dal mercato del lavoro. Eppure si chiede loro di essere grati per la loro situazione, non fosse altro che per il confronto con scenari immaginari se fossimo nati in altri luoghi, tutto ciò al contempo mantenendo lo stigma che ci condanna all’ inferiorità.

Il discorso “di dover essere grati” viene diffuso da internet, da membri del parlamento, da giudici della Corte Suprema e da alcuni membri della comunità LGBTQ, e si basa su alcune significative contraddizioni. Primo, in ogni lotta ci si chiede di smettere di combattere e di essere grati per ciò che abbiamo già ottenuto – che in primo luogo non avremmo ottenuto se all’epoca non avessimo smesso di dire grazie. Sono sicura che i gay negli anni ’70 avrebbero potuto essere contenti che non fosse stata applicata la legge che puniva il sesso tra uomini, che si potesse sempre ingannare il proprio capo ed avere una relazione omosessuale dopo aver messo al mondo dei figli all’interno delle comodità del matrimonio.

Negli ultimi due anni abbiamo dovuto spiegare perché non possiamo essere gay solo nel privato delle nostre case, e la settimana scorsa nella città di Kfar Saba [nella zona centrale del Paese, ndt.] la polizia ha chiesto agli organizzatori del corteo dell’“Orgoglio Gay” di pagare per la costruzione di un muro intorno ai manifestanti “per proteggerli”. Fortunatamente in ognuna di queste circostanze ci sono state persone coraggiose che dissentivano; grazie a loro adesso ci mostriamo orgogliosamente di fronte a uomini in giacca e cravatta che ci chiedono di ringraziarli.

Una contraddizione più complessa è data dal raffronto tra i diritti LGBTQ in Israele, in Cisgiordania e a Gaza. Anzitutto perché chi solleva la questione non deve mai provare le proprie affermazioni: tutti sostengono che gli omosessuali vengono buttati giù dai tetti. Ma se si prova a calcolare soltanto quante persone gay sono state assassinate a Gaza, ed in quali circostanze, ciò risulta molto difficile. La posizione ufficiale di Israele è che le persone LGBTQ non subiscono sistematiche persecuzioni in Cisgiordania.

Lo status della popolazione LGBTQ nella società palestinese è tutt’altro che perfetto, ma dirlo non è compito di chi solleva la questione come mezzo per tacitare le critiche alle azioni di Israele. Inoltre, se la vediamo dal punto di vista degli LGBTQ israeliani, l’accusa che la società palestinese o musulmana sia intrinsecamente più omofoba di quella ebrea appare una volgare generalizzazione. In entrambe le società si possono trovare soggetti che accettano gli LGBTQ ed altri che li contrastano. Da entrambe le parti vi sono organizzazioni che lottano per i diritti LGBTQ.

Esponenti religiosi minacciano la comunità da entrambe le parti. Il movimento LGBTQ in Israele ha subito violenza, resistenza e difficoltà – proprio come la sua controparte palestinese.

Purtroppo i genitori israeliani cacciano ancora di casa i loro figli gay e le persone LGBTQ e i loro sostenitori vengono ancora attaccati. La violenta aggressione contro una transessuale a Tel Aviv, i due accoltellamenti da parte di Yishai Schlissel [estremista religioso, ndt.] alla “Marcia dell’Orgoglio Gay” a Gerusalemme e la sparatoria mortale al centro giovanile LGBTQ [2 morti e 15 feriti nel 2009, delitto rimasto tuttora impunito, ndt.], sono solo alcuni esempi (altri non trovano spazio nei media).

Ogni membro della comunità ha subito un attacco violento, o almeno una aggressione verbale per la strada. I minori israeliani sono tuttora mandati in terapia di conversione [dell’orientamento sessuale, ndtr.] (l’anno scorso la Knesset ha votato contro una legge che intendeva vietare questa pericolosa pratica). Solo la settimana scorsa il vicepresidente della Liberia – che ha proposto una legge per rendere le relazioni omosessuali un reato di primo grado punibile con 10 anni di prigione – ha visitato Israele come ospite del ministero degli Esteri.

I giovani israeliani piangono l’israeliana Shira Banki, che è stata assassinata da un ultra- ortodosso alla “Marcia dell’Orgoglio Gay” di Gerusalemme, il 2 agosto 2015. L’aggressore, Yishai Schlissel, accoltellò sei persone. (Yotam Ronen/Activestills.org). La relativa apertura che riscontriamo oggi nell’opinione pubblica israeliana è il risultato di una continua lotta da parte dei membri della nostra comunità. Ma vi è anche una fondamentale differenza tra la situazione delle persone LGBTQ dai due lati della barriera: chi è dal lato di Israele gode di libertà di movimento, di maggior tempo libero e reddito ed anche di miglior accesso all’istruzione superiore e all’informazione, che consente di proseguire la lotta. Di questi diritti gli LGBTQ palestinesi sono privati dallo Stato di Israele.

Perciò non si possono considerare le conquiste della comunità in Israele – che sono state ottenute in assenza dell’oppressione che subiscono i palestinesi LGBTQ in Cisgiordania e a Gaza – come un indice di tolleranza e pluralismo di Israele. Il nostro impegno come comunità inclusiva è di resistere a queste opinioni e continuare a chiedere niente di meno che eguali diritti per tutti.

Noa Bassel è studentessa di lingue e attivista sociale. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su ‘Haokets’ [rivista progressista israeliana online, ndtr.].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Cos’ha da nascondere l’IDF sulle uccisioni a Gaza?

Haggai Matar

16 maggio 2018, +972

L’esercito israeliano sostiene che almeno 12 dei 60 palestinesi che ha ucciso a Gaza lunedì stavano attaccando soldati quando sono stati colpiti, ma rifiuta di rispondere alla ragione per cui ha ucciso gli altri 48. (aggiornamento in fondo all’articolo)

Lunedì i soldati israeliani hanno ucciso 60 manifestanti palestinesi durante il giorno più sanguinoso per Gaza dalla guerra del 2014. Nel corso dell’ultimo mese e mezzo l’IDF [l’esercito israeliano] ha ucciso altri 49 manifestanti palestinesi a Gaza e ne ha feriti a migliaia con pallottole vere.

Nell’ultima marcia, poche ore dopo che i cecchini israeliani avevano ucciso 17 dimostranti nel primo giorno della “Marcia del Ritorno” di Gaza, il portavoce dell’esercito israeliano ha twittato: “Niente è stato fatto in modo incontrollato; tutto è stato accurato e misurato e sappiamo dov’è finito ogni proiettile.”

In seguito il tweet è stato rimosso, forse a causa delle domande da parte di giornalisti affinché l’esercito spiegasse [dove sono finite] alcune specifiche pallottole – per esempio quella che ha colpito ed ucciso un uomo disarmato che stava scappando dalla barriera di confine, o l’uccisione dei giornalisti Yaser Murtaja e Ahmed Abu Hussein — che l’esercito non avrebbe potuto, o voluto, spiegare.

Passiamo a questa settimana. Dopo i 60 uccisi lunedì, l’esercito ha emesso una serie di messaggi drammatici sul fatto di aver bloccato “terroristi”.

Lunedì il portavoce dell’esercito ha sostenuto che esso ha ucciso 12 persone che avrebbero sparato contro soldati israeliani da Gaza o tentato di piazzare ordigni esplosivi lungo la linea di confine – ma non ha detto niente riguardo la ragione per cui ha ucciso gli altri 48 palestinesi e ha ferito altre migliaia di persone.

Martedì l’esercito ha inviato il seguente messaggio ai giornalisti (traduzione mia [dall’ebraico, ndt.]):

Dopo la più recente indagine dell’esercito e del Servizio Generale di Sicurezza (lo Shin Bet), il 14 maggio almeno 25 terroristi con un passato in attività terroristiche organizzate sono stati uccisi durante violenti disordini. La maggioranza delle vittime era di Hamas o del gruppo terroristico Jihad islamica.”

Questo messaggio nasconde più di quanto chiarisce. Solleva due grandi domande.

Primo, l’esercito sostiene che le persone uccise rappresentavano una minaccia immediata nel momento in cui sono state colpite o che erano solo iscritte a un’organizzazione terroristica, che l’IDF non avrebbe potuto riconoscere nel momento in cui i soldati hanno aperto il fuoco, e che questo solo fatto non avrebbe giustificato la loro uccisione?

Secondo, se l’esercito sa che 25 palestinesi che ha ucciso erano terroristi, cosa dice delle altre 35 persone che ha ucciso? Come giustifica queste morti?

Ho fatto queste due domande ai portavoce dell’IDF. Hanno risposto semplicemente che non hanno intenzione di rispondere a queste domande. Anche “Seventh Eye” [“Il Settimo Occhio”, ndt.], un sito giornalistico [israeliano] d’inchiesta, ha chiesto al portavoce dell’IDF in merito all’uccisione e al ferimento di giornalisti a Gaza: non ha ancora ricevuto una risposta.

La zona di confine di Gaza è massicciamente controllata da telecamere israeliane. Droni militari inviano altre foto aeree dell’area. Sessanta palestinesi sono morti. Dove sono le immagini che mostrano la minaccia che ognuno di loro costituiva? Dove sono le foto dei terroristi armati e pericolosi a cui i soldati israeliani non avevano altra scelta che sparare? In genere, quando l’IDF ha delle immagini che evidenziano le loro [dei “terroristi”, ndt.] responsabilità, non esita a pubblicarle.

Queste domande esigono risposte, ma l’esercito non sente la necessità di darle. La ragione, almeno parziale, potrebbe essere il fatto che non c’è una richiesta abbastanza pressante da parte dell’opinione pubblica. Molti media israeliani non mettono mai in discussione la necessità delle uccisioni e accettano come un dato di fatto la necessità di sparare – e uccidere – manifestanti disarmati. Sembra che l’opinione pubblica sia dello stesso avviso. Ed è proprio questo il problema.

Aggiornamento (16 maggio 2018)

Martedì un funzionario di Hamas ha sostenuto che 50 delle persone uccise lunedì dall’esercito israeliano a Gaza erano membri dell’organizzazione islamista. Ciò non cambia nulla. La rivelazione a posteriori che una grande maggioranza dei morti erano membri di Hamas – informazione di cui i soldati che hanno premuto il grilletto non erano al corrente e neppure il resto dell’esercito né lo Shin Bet – non cambia la questione su se avrebbero dovuto essere uccisi. Se un membro di Hamas si è avvicinato alla barriera e non era armato e non rappresentava una minaccia per nessuno, allora non è giustificato ucciderlo. La scoperta successiva che era un membro di Hamas non cambia le cose di una virgola.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Una fucilazione di massa sponsorizzata dallo Stato

Michael Schaeffer Omer-Man

7 aprile 2018, +972

Nel giorno in cui cecchini dell’esercito sparano a centinaia di manifestanti disarmati, l’esercito dichiara che “le circostanze in cui dei giornalisti sono stati feriti sono ignote.” Le circostanze non potrebbero essere più chiare.

La scorsa settimana tiratori scelti e cecchini dell’esercito israeliano hanno sparato a oltre 1.000 dimostranti palestinesi disarmati all’interno della Striscia di Gaza, uccidendo più di 30 persone. Lo scorso venerdì almeno sei giornalisti palestinesi sarebbero stati tra le persone colpite durante la “Grande Marcia del Ritorno”. Uno di loro, Yasser Murtaja, un fotografo di “Ain Media”[una televisione locale, ndt.], che a quanto si dice aveva un elmetto e un giubbotto che indicava chiaramente “Stampa” quando è stato colpito, è morto in seguito per le ferite riportate.

L’esercito israeliano non prende di mira i giornalisti,” ha affermato sabato un portavoce israeliano, citato da numerose pubblicazioni, aggiungendo che “le circostanze in cui giornalisti sono stati feriti, apparentemente da fuoco dell’esercito israeliano, sono sconosciute e sono in via di accertamento.”

Fermiamoci proprio su questo punto.

Le circostanze in cui i giornalisti palestinesi sono stati colpiti dal fuoco dell’esercito israeliano non potrebbero essere più chiare. Le circostanze sono che l’esercito israeliano ha sparato contro 1.000 manifestanti disarmati nell’arco di una settimana.

Le circostanze sono che l’esercito israeliano, che insiste nel dire di non prendere di mira giornalisti, ha un record veramente scoraggiante nel non rendere responsabili i suoi soldati, piloti e generali del fatto di aver colpito ed ucciso giornalisti a Gaza. Ciò include l’assassinio nel 2012 di due giornalisti che stavano viaggiando in un’auto su cui c’era chiaramente scritto “TV”, numerosi attacchi aerei contro media e sedi informative, ed altro.

Le circostanze sono che, una settimana dopo l’altra, le forze di sicurezza israeliane in modo sistematico non hanno fatto nessuna differenza tra i giornalisti palestinesi e le proteste e gli avvenimenti su cui stavano informando, utilizzando indistintamente la violenza contro entrambi. In innumerevoli casi, sia documentati che no, dei giornalisti sono stati chiaramente presi di mira dalle truppe – e l’esercito spesso difende sfacciatamente questa violenza.

In genere esito a fare qualunque tipo di previsione, ma ecco come vedo quello che succederà. L’esercito israeliano alla fine se ne uscirà con un comunicato in merito a come non possa arrivare a alcuna conclusione definitiva su chi abbia sparato a Yasser Murtaja, o sul perché sia stato colpito, ma sarà in grado di concludere in modo definitivo che l’esercito israeliano non prende di mira giornalisti – per cui è stato sicuramente colpito per errore. Una tragedia che può essere interamente attribuita ad Hamas (la colpa è sempre di Hamas).

Ma Murtaja non è stato l’unico giornalista a cui quel giorno i cecchini israeliani hanno sparato. Sparare alla persona sbagliata potrebbe ragionevolmente essere un caso. Sei giornalisti colpiti lo stesso giorno suggeriscono qualcosa di più sinistro.

Sappiamo già che nelle precedenti proteste a Gaza ai soldati non sono state praticamente fornite linee guida riguardo a chi colpire – solo di sparare alla gente. Sappiamo anche che nel passato importanti fonti ufficiali israeliane hanno giustificato il fatto di prendere di mira giornalisti palestinesi (puntualmente, sabato notte il ministro della Difesa israeliano ha pubblicamente giustificato l’uccisione di Murtaja). Sappiamo anche che raramente i soldati sono chiamati a rispondere per aver ferito giornalisti, soprattutto se palestinesi. E poi ci sono casi come le uccisioni del “Giorno della Nakba” nel 2014, quando uno scellerato cecchino in divisa semplicemente decise di iniziare ad uccidere persone.

Probabilmente non sapremo mai chi ha ucciso Yasser Murtaja.

La verità in merito è che, mentre è particolarmente vergognoso quando le forze di sicurezza colpiscono giornalisti, soprattutto se si è giornalisti, l’uso arbitrario di proiettili letali contro persone disarmate che manifestano dall’altro lato di un confine fortificato, indipendentemente da quello che stanno facendo in quel momento e da quale sia la loro professione o affiliazione politica, è semplicemente indifendibile.

È tempo di iniziare a chiamare tutto ciò per quello che è: una serie di fucilazioni di massa sponsorizzate dallo Stato, che ci possiamo aspettare si ripeteranno nelle prossime cinque settimane. Chiedere che l’esercito faccia un’indagine per l’uccisione di un giornalista non è abbastanza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come soldati, anche a noi è stato detto di aprire il fuoco contro i manifestanti a Gaza

Shai Eluk

2 aprile 2018,+972 Magazine

Sei anni fa ero sul confine con Gaza. Gli stessi dimostranti, le stesse proteste. Anche gli ordini di aprire il fuoco contro assembramenti di persone sono rimasti gli stessi

Sei anni fa ero là. Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro: se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle gambe dei “principali sobillatori”.

Questo ordine, che non ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti, all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.

Cosa sarebbe successo se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16 manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.

Sono certo che se fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato. Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno sbarbatello diciottenne.

Ma qualunque soldato che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che ci deve essere un’altra soluzione.

Uno dei miei amici ha ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che porta sulle proprie spalle questa morte. L’unica differenza tra me e il mio amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.

Ogni anno è nuovo, e sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta.

I soldati hanno un privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a Hebron, Ramallah e Nablus.

Il soldato picchia alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.

Gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è permanente.

Shai Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in ebraico].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Questa è la giustizia per chi uccide palestinesi

Yael Marom

22 marzo 2018, +972 Magazine

Ahed Tamimi è stata condannata a otto mesi di reclusione per avere schiaffeggiato un soldato. Il colonnello Israel Shomer, che ha sparato a un adolescente palestinese tre colpi alla schiena non ha passato neanche un giorno in prigione.

Fin da quando è stata arrestata in piena notte alla fine dello scorso dicembre, la diciassettenne Ahed Tamimi è stata tenuta in una prigione israeliana. Mercoledì Tamimi ha firmato un patteggiamento con il tribunale militare israeliano e sconterà otto mesi di prigione, compresi i tre mesi già passati in carcere. Anche sua madre, Nariman, e sua cugina, Nur, hanno firmato un patteggiamento. Nariman sconterà otto mesi e Nur è stata condannata ad una detenzione che corrisponde al tempo già passato in prigione.

Il sistema giudiziario militare israeliano utilizza spesso il sistema del patteggiamento. Circa il 70% delle condanne di minori nei tribunali militari israeliani si conclude con un patteggiamento, portando la percentuale totale dei minori condannati nei tribunali militari a uno sconcertante 95%. Per gli adolescenti palestinesi è evidente che se firmano un patteggiamento ci sono molte probabilità di tornare a casa dalle loro famiglie e dai loro amici più rapidamente che se insistono a voler andare a processo – anche quando hanno qualche possibilità di vincere. Spesso le cause penali possono persino durare più a lungo della pena a cui verrebbero condannati con un patteggiamento.

Nel caso della famiglia Tamimi, si potrebbe supporre che avessero ben chiaro che ciò che era iniziato come un “processo spettacolare” sarebbe prima o poi finito con la prigione. Quindi il cammino verso il patteggiamento era già stato aperto. L’insistenza del tribunale militare nel tenere il processo ad Ahed a porte chiuse, in modo che rimanesse nascosto al pubblico, non ha lasciato alla famiglia alcuna ragione per confidare neppure in quel poco di giustizia che l’occupante avrebbe potuto garantire.

La condanna di Ahed a otto mesi giunge in un momento particolare. È sufficiente che una ragazzina palestinese umili un soldato israeliano perché tutto il sistema venga coinvolto per garantire che lei e i suoi familiari finiscano in galera. Eppure non è mai capitato che un soldato sia stato giudicato per aver spintonato o insultato un palestinese.

Ma andiamo anche oltre nel confronto – per averlo ucciso.

Proprio questa settimana la commissione per la libertà condizionata dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha deciso di ridurre di un terzo la condanna di Elor Azaria, che in precedenza era già stata ridotta dal capo di stato maggiore dell’IDF. Al momento è stato rilasciato, e sconterà un totale di 9 mesi in prigione. Azaria non ha schiaffeggiato nessuno, ma ha sparato ed ucciso Abedel Fattah Sharif, un palestinese colpito e ferito a terra, che non rappresentava un pericolo per nessuno, dopo che, pochi minuti prima, aveva aggredito un soldato con un coltello nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron. Se non ci fosse stato sul posto un volontario di B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndt.] a riprendere la scena in un video, Azaria sarebbe stato acclamato come un eroe che “ha neutralizzato un terrorista”.

Oppure, che dire del caso di Amir Awad, un adolescente palestinese che nel 2013 è stato colpito alla schiena da due soldati dell’IDF durante una protesta nel villaggio cisgiordano di Budrus? I soldati spararono otto proiettili nella schiena di Awad, uccidendo il sedicenne mentre cercava di scappare. In seguito a un’inchiesta fasulla i due soldati sono stati processati per uso incauto e negligente di un’arma da fuoco, eppure i loro legali non hanno accettato un patteggiamento della pena a tre mesi di servizi sociali. Durante un’udienza tenutasi la scorsa settimana, gli avvocati hanno presentato alla corte dati dell’esercito che mostrano come negli ultimi sette anni su 114 casi in cui dei soldati hanno sparato ed ucciso palestinesi sono stati presentati solo 4 atti di accusa. Ora il pubblico ministero sta prendendo in considerazione di ritirare tutti i capi d’imputazione.

Come se non bastasse, c’è il caso del colonnello Israel Shomer. Nel luglio 2015 Shomer, che all’epoca era comandante di brigata in Cisgiordania, ha sparato e ucciso il diciassettenne Muhammad al-Kasba. L’adolescente aveva lanciato pietre contro la jeep blindata di Shomer, dopodiché l’ufficiale è uscito dalla vettura e, insieme ad un altro soldato, si è messo ad inseguirlo. A un certo punto Shomer ha aperto il fuoco. Due proiettili hanno colpito il ragazzo alla schiena e un altro alla testa. Shomer non era in pericolo; forse voleva solo impartire una lezione al ragazzo. Un anno dopo l’accaduto il pubblico ministero militare ha chiuso il caso ed ha deciso che Shomer non sarebbe stato processato.

Le donne della famiglia Tamimi, che hanno osato resistere solo con pugni e parole ai soldati occupanti nel loro cortile, rimarranno in carcere per un tempo più lungo di Shomer, dei soldati che hanno ucciso Samir Awad e solo poco meno tempo di Elor Azaria. Questa è la giustizia del regime giudiziario dell’occupazione.

Yael Marom è gestore per il coinvolgimento del pubblico di “Just Vision” [organizzazione no profit che si occupa dei movimenti di base contrari all’occupazione israeliana, con sedi a Gerusalemme est e negli USA, ndt.] in Israele e co-redattore di “Local Call” [sito israeliano indipendente di informazione in ebraico, ndt.], su cui questo articolo è stato originariamente pubblicato in ebraico.

(traduzione di Amedeo Rossi)