La trappola di Oslo: come l’OLP firmò la propria condanna a morte

Raef Zreik

11 settembre 2023 – +972 Magazine

Dalle concessioni asimmetriche alla rinuncia alla lotta armata, il destino dei palestinesi era segnato prima ancora che Arafat e Rabin si stringessero la mano.

Gli Accordi di Oslo furono stipulati quando ero un giovane avvocato allinizio della carriera, dopo aver vissuto per anni come studente a Gerusalemme nel corso della Prima Intifada. Avevo lasciato la città nel 1990, profondamente logorato a causa della stessa Gerusalemme, della tensione costante e dellintensa attività politica contro loccupazione. Non c’è quindi da meravigliarsi che, nonostante la mia contrarietà nei confronti di Oslo, quei giorni mi abbiano comunque dato un piccolo barlume di speranza: forse, dopo tutto, stava nascendo qualcosa di nuovo. Ma per quanto volessi che laccordo funzionasse nel profondo della mia mente sapevo che non sarebbe stato così.

Allepoca lopinione pubblica palestinese comprendeva tutte le categorie di oppositori ad Oslo. Alcuni palestinesi non credettero fin dall’inizio alla soluzione dei due Stati e la consideravano una sconfitta per la causa palestinese. Io non ero uno di loro: piuttosto, la mia opposizione ad Oslo nasceva da una convinzione interiore che gli Accordi stessi non potessero effettivamente portare a una soluzione del genere. Non ero influenzato da ciò che veniva detto in televisione o nei dibattiti pubblici; preferii mettermi a sedere e leggere gli accordi attraverso gli occhi di un giovane avvocato. Dopotutto, un accordo politico deve contenere una propria logica contrattuale: stabilire una tempistica precisa, con delle regole in caso di violazione del contratto e così via. Ebbi l’impressione che i negoziatori palestinesi avrebbero potuto avvalersi di un minimo di consulenza legale.

Come si può ricavare dallo scambio di lettere tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dellOrganizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat che precedette la firma degli accordi sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993, nella formulazione degli accordi di Oslo sussistono tre problemi centrali.

Il primo è uno squilibrio nel riconoscimento, da parte delle due parti, della reciproca legittimità. LOLP riconosceva Israele e il suo diritto ad esistere, e riconosceva la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza (che chiedeva il ritiro dei soldati israeliani dai territori occupati e il riconoscimento della rivendicazione di sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ciascuno Stato della regione dopo la guerra del 1967) e 338 (che chiedeva un cessate il fuoco dopo la guerra del 1973). Ma, in cambio, Israele non riconosceva il diritto del popolo palestinese ad uno Stato o il suo diritto allautodeterminazione. Semplicemente riconosceva lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese.

Questa mancanza di equivalenza rese lOLP poco più che un vaso vuoto; dopo tutto, c’è una differenza tra riconoscere lesistenza dellOLP e riconoscere la legittimità delle sue richieste politiche. Inoltre, allepoca Israele aveva un interesse strategico nel riconoscere lOLP come unica rappresentante del popolo palestinese. Se Israele lo fece è perché il riconoscimento da parte dellOLP del diritto di Israele ad esistere avrebbe rappresentato la voce dellintera nazione palestinese. Il riconoscimento di Israele da parte dellOLP non avrebbe avuto senso se non fosse arrivato da un autentico rappresentante.

In quest’ottica, la natura strumentale dellOLP come organismo rappresentativo è chiara. Un rappresentante può agire nell’interesse o a scapito di chi rappresenta. Il rappresentante può avanzare richieste alla controparte, ma può anche fare concessioni a nome del popolo che rappresenta. Quando lOLP presentò delle chiare rivendicazioni e richieste Israele le respinse, ma quando riconobbe Israele e fece concessioni a nome dei palestinesi Israele non ebbe problemi nel trattare lOLP come portavoce dei palestinesi.

Di fatto lOLP ha sfruttato il capitale simbolico costituito dall’essere il rappresentante del popolo palestinese per emergere sulla scena mondiale e dichiarare lassenza del popolo cancellandone la narrazione. In effetti, questo fu lultimo atto significativo dellOLP nellarena politica. Israele voleva che il riconoscimento dellOLP fungesse da dichiarazione de facto del suo suicidio. Da allora lOLP ha cessato di essere un attore politico importante, e tutto ciò che ne rimane sul piano funzionale è lAutorità Nazionale Palestinese, che funge da subappaltatore di Israele per le violente repressioni in Cisgiordania.

Due anni dopo la firma degli Accordi lOLP si impegnò ad annullare le sezioni della Carta Nazionale Palestinese che non riconoscevano Israele. All’epoca mi sembrò una mossa sconsiderata; pubblicai un articolo su Haaretz dal titolo Non c’è compromesso senza riconoscimento”. Lannullamento delle dichiarazioni della Carta avvenne senza alcuna azione in cambio da parte di Israele, che continuò a rifiutare di impegnarsi a riconoscere uno Stato palestinese nei territori occupati o il diritto allautodeterminazione del popolo palestinese e altri diritti nazionali nella sua patria.

Questi fattori storici hanno contribuito a creare la situazione attuale, in cui Israele è un dato di fattoinamovibile e lambito di territorio sul tavolo delle trattative è stato ristretto dall’intera regione costituita da Israele e Palestina alla sola Cisgiordania, ora lunico territorio rimasto a malapena materia di discussione. Se la disputa riguardasse la Palestina nel suo insieme allora la divisione dellintero territorio dal fiume al mare in due entità sarebbe la soluzione ottimale. Ma se lintero problema si riduce ai territori occupati nel 1967 allora una soluzione ragionevole porterebbe alla divisione del territorio conteso tra coloni e palestinesi.

Questo restringimento del territorio oggetto del dibattito altera drasticamente il campo di gioco: se i palestinesi insisteranno nel volere il controllo della totalità dei territori occupati saranno percepiti come radicali ostinati che rivendicano tutto per sè stessi. Il fatto che i palestinesi abbiano già rinunciato al diritto su più di due terzi della loro patria prima ancora di sedersi al tavolo delle trattative non viene mai preso in considerazione. Questa è stata una trappola tesa ai palestinesi e fino ad oggi non sono riusciti a liberarsene. Sfortunatamente non è lunica trappola di questo tipo.

Autoproclamati terroristi”

Recentemente un crescente coro di voci critiche ha chiesto che lOLP ritiri il riconoscimento di Israele, dal momento che Israele non ha rispettato le condizioni degli Accordi di Oslo. Ma questa è unaffermazione pericolosa. Il riconoscimento, per sua stessa natura, è una tantum e non può essere revocato. Inoltre, il riconoscimento non è un bene tangibile e materiale: la sua importanza risiede nel suo simbolismo e, in assenza di tale simbolismo, è privo di significato.

Se i palestinesi volessero ritirare il loro riconoscimento non potrebbero mai più barattarlo con il ritiro di Israele dai territori sotto suo controllo poiché gli israeliani non crederanno mai che quel riconoscimento non verrebbe nuovamente revocato.

Lo scambio di lettere tra Arafat e Rabin conteneva anche una clausola in cui l’OLP si impegnava non solo a condannare il terrorismo ma anche a rinunciarvi. Per cui la stessa OLP accettò di chiamare la sua lotta fino a quel momento terrorismo”. Ciò ha posto diversi problemi, ma voglio soffermarmi su uno in particolare. Non ho intenzione di avviare un dibattito sulla definizione di terrorismo. Piuttosto il problema è riferito al futuro: cosa accadrà se Israele non accetterà il ritiro dai territori occupati o una soluzione a due Stati? Quali mezzi saranno a disposizione dei palestinesi nella loro lotta contro loccupazione?

La difficoltà di poter dare una risposta a queste domande divenne dolorosamente evidente alla fine degli anni 90. Israele bloccò il processo di Oslo e continuò ad espandere il progetto di colonizzazione. Non era affatto chiaro dove avrebbe portato il processo di Oslo e quale sarebbe stata in definitiva la soluzione permanente. Israele controllava la terra, laria, i confini, lacqua e tutte le risorse, e si limitò a cedere allAutorità Nazionale Palestinese la gestione di parti della popolazione sotto occupazione; in altre parole, Israele ha mantenuto il controllo effettivo, ma ha scaricato tutta la responsabilità sulle spalle dellAutorità Nazionale Palestinese. Inoltre, laccordo non conteneva una clausola esplicita che vietasse la continuazione della costruzione di insediamenti coloniali nei territori occupati.

In questa situazione i palestinesi non potevano né progredire verso [la costituzione di] uno Stato indipendente né ritornare alla logica della rivoluzione e della lotta armata. Non solo non hanno più il potere e lorganizzazione per farlo, ma sono anche formalmente intrappolati dagli Accordi di Oslo. Il mondo, soprattutto Israele, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ha riconosciuto lOLP sulla base della rinuncia al terrorismo e dellaccettazione di alcune regole del gioco. Pertanto, un ritorno alla lotta armata sarebbe inevitabilmente visto come un ritorno al terrorismo; solo che questa volta, sarebbero proprio i palestinesi ad aver dato un nome alla loro lotta avendola essi stessi chiamata terrorismo. Quindi anche il resto del mondo è abilitato a chiamarla terrorismo.

Il significato pubblico diterrorismosi è trasformato tra la Prima e la Seconda Intifada. La Prima Intifada ebbe inizio nel corso di una generazione dallinizio delloccupazione quindi il mondo vide in essa e nella più ampia lotta palestinese una risposta legittima al dominio militare. La Seconda Intifada, che giunse come risposta alla massiccia violenza israeliana in seguito alla visita del primo ministro israeliano Ariel Sharon allHaram al-Sharif/Monte del Tempio nel settembre 2000, avvenne sullo sfondo dei colloqui di pace di Oslo. Per la maggior parte, gli osservatori internazionali considerarono ogni pietra lanciata durante la Prima Intifada come lanciata contro loccupazione e a favore della liberazione nazionale, ma il lancio di pietre avvenuto dopo Oslo è stato visto come [atto di] terrorismo”.

Il contesto era cambiato, e con esso il significato della resistenza palestinese. Il risultato è stato che i colloqui di pace con Israele non sono riusciti a raggiungere alcun obiettivo, ma anche il ritorno alla lotta armata è problematico. I palestinesi sono in trappola.

Non ho intenzione di proporre un programma per il futuro, ma penso che qualsiasi proposito di tornare indietro, ricostituire lOLP e tornare ai principi su cui lorganizzazione è stata fondata 60 anni fa sarebbe ormai destinato ad un fallimento. Da qui possiamo solo andare avanti.

LOLP ha fatto il suo lavoro; ha impresso la parola Palestinanella coscienza del mondo e ha dimostrato che esiste qualcosa come il popolo palestinese. La generazione di oggi ha un ruolo diverso in una realtà diversa: redigere un nuovo programma con la consapevolezza che tra il mare e il fiume ci sono 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi, e che gli israeliani controllano i palestinesi e mantengono un regime di supremazia ebraica che ogni giorno espelle questi ultimi dalla loro terra. Questo è il nostro punto di partenza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Giovani contro la dittatura”: ecco la nuova categoria di obiettori di coscienza israeliani

Oren Ziv

5 settembre 2023, +972

Otto nuovi renitenti alla leva parlano dell’occupazione, delle proteste contro la riforma giudiziaria e dell’obiezione di coscienza come strumento di protesta.

Domenica pomeriggio centinaia di israeliani si sono riuniti davanti al liceo Herzliya Hebrew Gymnasium nel centro di Tel Aviv per pubblicizzare la nuova lettera dei giovani obiettori di coscienza sotto lo striscione “Giovani contro la dittatura”. Nonostante le pressioni dell’estrema destra e del Ministero dell’Istruzione, e nonostante la decisione del consiglio del liceo di annullare l’evento, centinaia di persone sono accorse per ascoltare la lettura della lettera, partecipare a seminari e sostenere i 230 giovani che hanno firmato la lettera e che intendono rifiutare l’arruolamento nell’esercito israeliano.

A differenza delle precedenti cosiddette “lettere refusenik” (della dissidenza), l’attuale lettera collega l’opposizione alla riforma giudiziaria del governo con l’obiezione di coscienza legata all’occupazione. Alcuni firmatari con cui +972 ha parlato hanno affermato di aver deciso di rifiutarsi di servire nell’esercito per protestare contro l’occupazione ancor prima che si formasse l’attuale governo.

Altri hanno deciso di farlo negli ultimi mesi, dicendo che è stato questo governo, il più estremista della storia israeliana, a far pendere l’ago della bilancia e spingerli al rifiuto. Alcuni di loro hanno spiegato che è stata la presenza del “blocco anti-occupazione” alle manifestazioni settimanali contro la riforma giudiziaria che li ha spinti a prendere la decisione, e che nel clima dell’opinione pubblica di oggi l’obiezione di coscienza è più accettata che in passato, soprattutto dopo il rifiuto di massa da parte dei riservisti dell’esercito seguìto alla riforma.

Nella dichiarazione si legge: “Come giovani donne e uomini che stanno per essere arruolati nel servizio militare israeliano diciamo NO alla dittatura in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Con la presente dichiariamo che ci rifiutiamo di arruolarci nell’esercito finché la democrazia non sarà assicurata a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano.”

Nonostante sei mesi di lotta ostinata per una vera democrazia condotta nelle strade quasi ogni giorno, il governo continua a perseguire il suo rovinoso programma. Temiamo davvero per il nostro futuro e per il futuro di tutti coloro che vivono qui. Alla luce di ciò non abbiamo altra scelta che adottare misure estreme e rifiutarci di prestare servizio nell’esercito. Un governo che distrugge la magistratura non è un governo per cui possiamo prestare servizio. Un esercito che occupa militarmente un altro popolo non è un esercito al quale possiamo unirci”.

Abbiamo intervistato otto adolescenti che hanno firmato la lettera e parlato della loro decisione di rifiutarsi di servire nell’esercito.

Nuri Magen, 17 anni

Nuri Magen. (Oren Ziv)

Anche dopo che il governo aveva iniziato ad approvare la legge sul principio di ragionevolezza [per cui le disposizioni di legge devono essere adeguate al fine limitando le scelte arbitrarie, ndt.] pensavo che mi sarei arruolato. Prima di allora ero contrario all’occupazione, ma pensavo che avrei prestato servizio in una posizione in cui non sarei stato direttamente coinvolto. Pensavo di prestare servizio in Marina e in un certo senso potevo giustificarlo. Questo prima che iniziassero ad approvare le leggi.

Soprattutto mi spaventavano gli orrori che avrebbero potuto accadere in uno, due anni, mentre sarei stato bloccato [nell’esercito]. Non voglio sentirmi parte di questa cosa. Man mano che la situazione si fa più grave, anche le persone senza opinioni politiche o coloro che sono su posizioni di centro si stanno aprendo a opinioni che fino a poco tempo fa erano considerate “estreme”. Due anni fa gli obiettori di coscienza erano una piccolissima minoranza. Ora abbiamo occupato la scuola e organizzato un evento con centinaia di persone e i media; non era mai successo.

Sofia Orr, 18 anni

Sofia Orr. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché mi oppongo alla dittatura e voglio lottare per una vera democrazia per tutti, sia in Israele che nei territori occupati. Per me è stato importante firmare questa lettera perché stabilisce questo collegamento, che per me è evidente, che la riforma e l’occupazione non possono essere separate.

Penso che questo evento e il numero dei firmatari dimostrino come queste opinioni stiano lentamente iniziando a diventare opinione pubblica, o almeno che la pubblica opinione è pronta ad ascoltarle e ad essere coivolta. Questa è davvero una benedizione. Mostra il cambiamento che sta ora accadendo. Dobbiamo andare avanti e non lasciare che ci zittiscano. Cercare di metterci a tacere fa parte di quella politica dittatoriale a cui ci opponiamo.

Itay Gavish, 17 anni

Itay Gavish. (Oren Ziv)

Durante le proteste mi sono imbattuto nel blocco anti-occupazione, e lì ho capito che non volevo prendere parte all’occupazione e che mi sarei rifiutato di arruolarmi nell’esercito. Ho firmato la lettera per dimostrare che io e centinaia di altri giovani non avremmo prestato servizio nell’esercito di occupazione. In queste manifestazioni ho sentito che era legittimo uscire allo scoperto per protestare.

Penso di aver avuto paura di essere troppo radicale, e il blocco anti-occupazione era un luogo dove potevi andare a manifestare con gli altri sionisti e poi fare qualcosa di più. La lotta contro la riforma giudiziaria è fatta anche da persone che non hanno per forza a che fare con l’occupazione e non si preoccupano necessariamente del fatto che il rifiuto alla leva sia un importante strumento di protesta.

Lily Hochfeld, 17 anni

Lily Hochfeld. (Oren Ziv)

Mi sono chiesta quale fosse il mio limite, se fossi disposta a prestare servizio in qualsiasi esercito di qualsiasi paese. Ho deciso che ci sono eserciti in cui voglio credere che non mi sarei arruolata. Per me dare pieno sostegno alla violenza dei coloni, a decenni di governo militare e alla riforma giudiziaria che dà tutto il potere a politici corrotti e clericali supera totalmente il mio limite. Non posso più arruolarmi in un tale esercito senza temere per il mio futuro e per quello del mio Paese.

Le proteste hanno aperto il vaso di Pandora. All’improvviso, una mattina ci siamo svegliati e al governo sedevano persone che un tempo erano fuori dalla legalità anche per la destra, come [Itamar] Ben Gvir, che continua sulle orme di [Meir] Kahane [rabbino ortodosso, scrittore e politico ultranazionalista già parlamentare poi condannato per atti di terrorismo, ndt.] Il nuovo governo ha reso tutto chiaro: abbiamo capito le loro vere intenzioni.

Tal Mitnick, 17 anni

Tal Mitnick. (Oren Ziv)

Io e altri giovani ci siamo resi conto che la dittatura che esiste in Israele e la dittatura che esiste da decenni nei territori occupati sono inseparabili. Il maggior obiettivo dei politici e dei coloni è quello di intensificare l’occupazione e l’oppressione di più popolazioni all’interno di Israele e nei territori occupati, e di annettere l’Area C della Cisgiordania [che è sotto il pieno controllo militare israeliano].

Per molti di noi queste manifestazioni sono state una rivelazione. Non ero politicamente attivo prima delle proteste. Mi hanno fatto capire cosa significa manifestare come coscritti con centinaia di altri prima di essere arruolati e dichiarare “non faremo il servizio militare”.

Ella Greenberg Keidar, 16 anni

Ella Greenberg Keidar. (Oren Ziv)

Siamo stati intervistati dai media prima dell’evento di oggi. In quasi tutte le interviste, gli intervistatori hanno cercato di cogliere l’attimo [e chiederci]: “Sei contro l’occupazione o sei contro la riforma?” Perché, dicono, opporsi all’occupazione è irrilevante: è una notizia vecchia. Ciò che ci interessa sono coloro che rifiutano la riforma giudiziaria. Cosa c’entra l’occupazione? Questo è il tipo di discorso che fanno i manifestanti che vengono al blocco anti-occupazione con le bandiere israeliane.

L’opposizione all’occupazione è incompleta senza l’opposizione alla riforma giudiziaria e viceversa. Le persone che promuovono la riforma – Simcha Rothman, Itamar Ben Gvir, Bezalel Smotrich, sono coloni. La loro agenda è quella dei coloni, che prevede l’espansione dell’occupazione, la pulizia etnica e le espulsioni. La riforma ha lo scopo di ripulire l’Area C dai palestinesi, legalizzare nuovi avamposti e garantire ancora più privilegi, sanciti per legge, agli insediamenti e ai coloni. Voglio dire ai media e al pubblico di Kaplan [arteria principale nel centro di Tel Aviv dove si sono svolte le manifestazioni, ndt.] che queste cose sono correlate.

Ayelet Kovo, 17 anni

Ayelet Kovo. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non sono pronto a far parte del braccio violento dello Stato, utilizzato per opprimere le persone. Non sono pronto per essere una persona che opprime i palestinesi nei territori occupati, né per essere quello che opprime il popolo ebraico e palestinese nelle manifestazioni in Israele. So che qui non c’è mai stata democrazia o parità di diritti, e non sono pronto ad arruolarmi per un paese che è fondamentalmente discriminatorio.

Iddo Elam, 17 anni

Iddo Elam. (Oren Ziv)

Ho firmato la lettera perché non accetterò di arruolarmi in questo esercito. È un esercito che occupa la Cisgiordania e milioni di palestinesi, l’esercito di un governo di estrema destra che cerca di portare la dittatura dai territori occupati in Israele. Lo vediamo bene in queste ultime settimane, con le minacce alla nostra manifestazione al liceo e con le violenze della polizia contro i manifestanti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I coloni volevano il potere supremo. Hanno invece avuto una ribellione

Meron Rapoport

15 agosto 2023 +972

Il movimento religioso sionista da due decenni è largamente penetrato nello Stato e nella società israeliani. La riforma giudiziaria potrebbe far crollare tutto.

Sembra strano se si pensa che alla vigilia delle ultime elezioni israeliane Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud non hanno dato molto peso alla riforma giudiziaria che sta ora dilaniando il Paese. In effetti, il partito non ha fatto campagna elettorale sulla riforma e il Primo Ministro vi ha appena fatto cenno nella prima riunione di governo dopo le elezioni.

Che il graduale disfacimento del sistema giudiziario sarebbe stato l’ultimo disperato tentativo di Netanyahu di evitare il possibile carcere per i suoi scandali di corruzione è ormai risaputo. Ma il vero motore dietro la riforma non è mai stato il Likud: era e rimane il progetto di punta del settore nazional-religioso, su cui si è concentrata l’agenda del Partito Religioso Sionista (PRS) che cerca di “riavviare il sistema legale”.

Nei giorni che hanno preceduto le elezioni il capo del PRS Bezalel Smotrich e il presidente del Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno resa nota quasi ogni singola clausola di quella che sarebbe diventata la riforma presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin. I due sono stati estremamente franchi sull’annullamento della clausola di ragionevolezza [conseguente al principio di uguaglianza impone che le disposizioni normative siano adeguate o congruenti al fine, ndt.], sulla politicizzazione dei consulenti legali del governo, sulla subordinazione del comitato per la nomina dei giudici ai capricci dei politici e, naturalmente, sulla clausola di deroga [in base alla quale una norma giuridica non trova applicazione oppure viene disapplicata in luogo di altra norma, ndt.]

Smotrich e Rothman non si sono preoccupati di nascondere i motivi razzisti e suprematisti della loro proposta di riforma. Attraverso la clausola di deroga, che consentirebbe alla Knesset di ribaltare con una maggioranza semplice qualsiasi decisione emessa dalla Corte Suprema, il governo potrà, secondo il suo programma, “rimandare gli intrusi [cioè i richiedenti asilo africani] al loro paesi di origine utilizzando il metodo della ‘selezione naturale’ [non si spiega cosa si intenda con questa asserzione biologica]; emanare una legge sulla coscrizione [per esentare gli ultra-ortodossi dal servizio militare]; rimettere in vigore la legge di regolarizzazione [emanata nel 2017 e revocata dalla Corte Suprema nel 2020, ndt.] che correggerà un’ingiustizia di lunga data e consentirà di legalizzare le colonie israeliane in Giudea e Samaria, stabilite in buona fede e con il coinvolgimento del Governo su terreni privati [palestinesi], fornendo un equo risarcimento a coloro che dimostrano dei diritti su quelle terre; emanare una legge di conversione di Stato [collegata alla legge sul ritorno per gli ebrei, ndt.] che impedirà l’assimilazione [agli ebrei] e la minaccia di una politica di immigrazione, e altro ancora “.

Contrariamente a quanto i suoi sostenitori possano affermare oggi, la riforma non riguarda ciò che Rothman ha chiamato in seguito “riparare le tubature”. È invece un’ambiziosa revisione che è stata progettata, prima di tutto, per stabilizzare l’apartheid nei territori occupati e sancire la supremazia religiosa e nazionale ebraica all’interno di Israele.

Proprio perché la riforma giudiziaria è in gran parte un progetto del movimento dei coloni – Rothman vive in un avamposto illegale a Gush Etzion e Smotrich a Kedumim nel nord della Cisgiordania – dovrebbe sorprendere che Makor Rishon, il giornale più identificato con la destra dei coloni, si sia espresso a favore di un blocco totale della riforma giudiziaria. “Con il consenso o senza il consenso, con la parola o con il silenzio, la riforma deve essere abbandonata”, ha scritto Hagai Segal, redattore del giornale e fino a poco tempo fa caporedattore. “Dobbiamo abbandonarla immediatamente e annunciare alla nazione: stiamo fermando tutto”.

Le parole di Segal sono state riprese da altri giornalisti di Makor Rishon. Suo figlio, Amit Segal, uno dei giornalisti più influenti del Paese, è arrivato persino a scrivere che Netanyahu è stato “trascinato” nella riforma dal Ministro della Giustizia Levin. Nel frattempo, in seguito all’approvazione il mese scorso del disegno di legge che abolisce la clausola di ragionevolezza, la destra dei coloni ha lanciato una campagna di love bombing [bombardamento amoroso, tentativo di influenzare le persone con dimostrazioni di attenzione e affetto, possibile parte di un ciclo di abusi, ndt.] per cercare di riunire israeliani di fazioni politiche opposte in un dialogo.

Nel complesso è chiaro che la riforma giudiziaria è al centro di un fallimento nelle pubbliche relazioni anche all’interno dell’estrema destra israeliana.

L’elite isreliana nel 2023

Per essere chiari, la destra dei coloni non ha riserve sulla riforma stessa. Come ha scritto Hagai Segal, se combattere la “tirannia dell’Alta Corte” è una necessità, è più importante “l’armonia domestica”, in modo che la nazione possa dedicarsi a compiti altrettanto importanti come “la sorveglianza dell’Area C in Giudea e Samaria [la Cisgiordania] e mantenere la meshilut [gestione] all’interno della Linea Verde”. In altre parole, andare avanti con la riforma può effettivamente interferire con la continuazione dell’occupazione.

Questo è un punto chiave. Per il movimento dei coloni il trauma del disimpegno da Gaza nel 2005 è stato più grave della rimozione di 9.000 coloni e lo smantellamento delle loro colonie; la ferita che non si è mai rimarginata, ai loro occhi, è l’idea che il movimento delle colonie sia stato lasciato solo nella lotta per il “Grande Israele”. La società in generale, compresi i tradizionali elettori di destra del Likud, era sembrata abbastanza disinteressata al progetto.

Infatti la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana era favorevole al disimpegno, come fu manifesto nelle elezioni del 2006: i partiti di destra contrari al ritiro da Gaza registrarono un minimo storico di 32 seggi (di cui 12 per il partito Yisrael Beiteinu di Avigdor Liberman, i cui elettori non erano troppo coinvolti nella lotta). Oggi, in confronto, il Likud e il Partito Religioso Sionista hanno un totale di 46 seggi alla Knesset.

La lezione per il movimento nazional-religioso fu che per mantenere la sua iniziativa nei territori occupati avrebbe dovuto lasciare la Cisgiordania e “stabilirsi nei cuori” della società ebraica. Questo è stato il progetto principale negli ultimi 15 anni: normalizzare gli insediamenti e rendere invisibili la Linea Verde e l’occupazione.

Questa mossa si è manifestata con una sempre maggiore presenza di ufficiali nazional-religiosi nell’esercito, una presenza molto ampia nella funzione pubblica a tutti i livelli (l’attuale commissario della funzione pubblica e il supervisore dei conti, l’ex procuratore generale e l’ex commissario di polizia provengono tutti dal settore nazional-religioso, e questa è solo la punta dell’iceberg), un ingresso massiccio nel panorama dei media e la creazione di una rete di think tank di destra, il più noto dei quali è il Kohelet Forum, un artefice della riforma.

Difatto se c’è un gruppo omogeneo che può valere come élite israeliana nel 2023 sono i coloni e i nazional-religiosi. Sette dei 33 ministri del governo provengono da questo settore, più due ministri non religiosi che vivono in Cisgiordania. La loro egemonia è evidente anche nel discorso pubblico: oggi è impossibile trovare parole come “occupazione”, “Cisgiordania” o persino “hitnahlut” [comune termine ebraico per le colonie nei territori occupati] nei media più popolari in Israele.

Ma è proprio la riforma giudiziaria – che i coloni hanno concepito per le loro urgenze nazionaliste-religiose e che avrebbe dovuto portarli all’apice del potere – che minaccia di distruggere ciò che erano riusciti a ottenere dal disimpegno di Gaza.

Ciò che è iniziato a gennaio con le educate manifestazioni della classe medio-alta israeliana si è trasformato in una ribellione non solo contro la riforma e l’attuale governo ma contro l’intero regime di destra e contro il nazionalismo teo-etnocratico che ne è alla base.

Di fronte a questa ribellione il movimento dei coloni si trova in una situazione particolarmente vulnerabile. I partiti ultra ortodossi (Haredi), che sono stati partner a pieno titolo nella riforma, possono ancora chiedere di correggere la rotta e sognare di partecipare ad un potenziale futuro governo guidato da Benny Gantz. Anche il Likud può fantasticare di un governo di unità nazionale, in particolare se Netanyahu finirà per firmare un patteggiamento sui suoi casi di corruzione. I nazional-religiosi sono entrati così a fondo nella destra fascista che se cade l’attuale governo, cadranno anche loro.


Rompere i tabù

È difficile per i nazional-religiosi legarsi al discorso anti-élite che sentiamo arrivare da certe correnti del Likud per screditare i manifestanti. Se i piloti e i lavoratori tecnologici sono già etichettati come “privilegiati ashkenaziti [ebrei di provenienza europea, ndt.]”, come saranno etichettati i sionisti religiosi la cui leadership è chiaramente ashkenazita, che in realtà godono di privilegi che non ha nessun altro gruppo nella società israeliana e che sono stati parte integrante del governo sin dalla fondazione dello Stato?

Ma, anche più importante, i coloni hanno inconsapevolmente creato un collegamento diretto tra la sfacciata violenza contro i palestinesi in Cisgiordania e il colpo di stato giudiziario. Il pogrom di Huwara, seguito dall’appello di Smotrich a spazzare via la città, è stato uno spartiacque nel modo in cui il movimento di protesta si è rapportato all’estrema destra. Slogan come “Dov’eri a Huwara?” diretti agli agenti di polizia sono diventati parte del repertorio delle proteste, anche tra coloro che in precedenza non avevano mai pensato molto all’occupazione.

I pogrom che sono seguiti hanno ulteriormente rafforzato questo legame. Oggi è difficile trovare un solo oratore che salga sul palco delle proteste a Tel Aviv e non faccia un collegamento tra la riforma giudiziaria, i pogrom in Cisgiordania e la supremazia ebraica – un collegamento che fino a poco tempo fa era tracciato esclusivamente dalla sinistra radicale. Il velo con cui il sionismo religioso ha cercato di nascondere la realtà dell’occupazione e dell’oppressione dei palestinesi è stato strappato.

Mentre le proteste continuano a sfidare il dominio della destra e i politici di estrema destra iniziano a sostenere apertamente la violenza dei coloni, la destra stessa è diventata oggetto della rabbia dei manifestanti. L’uccisione all’inizio di questo mese da parte dei coloni di Qosai Jammal Mi’tan, un palestinese del villaggio di Burqa, ha portato questa connessione al culmine. “Falangi di ebrei fascisti intrisi di un falso senso di superiorità compiono pogrom nei villaggi arabi”, ha detto Shikma Bressler, leader de facto del movimento di protesta, sul palco di Tel Aviv. “Milizie assassine al servizio del governo che ci sta portando alla distruzione”.

Brothers in Arms, un’organizzazione di riservisti dell’esercito israeliano contrari alla riforma giudiziaria, di cui alcuni membri hanno attaccato il mese scorso gli attivisti del blocco anti-occupazione, ha definito i pogromisti a Burqa “braccio militare di Otzma Yehudit [partito politico di estrema destra, kahanista e anti-arabo, ndt.] – un corpo che dovrebbe essere dichiarato organizzazione terrorista.” Il generale di brigata Ilan Paz, ex capo dell’Amministrazione Civile, l’organo militare che sovrintende alla vita quotidiana in Cisgiordania, si è pubblicamente chiesto quando verrà il giorno in cui invocherà il rifiuto di massa a prestare servizio nei territori occupati.

E sebbene Hagai Segal abbia scritto il suo articolo prima dell’uccisione a Burqa, lui e altri nel campo nazional-religioso si rendono conto che il movimento di protesta non solo è molto più forte di quanto si rendessero conto all’inizio, ma che è disposto a infrangere tabù che nessuno immaginava si potessero infrangere, come l’obiezione di coscienza. Ai loro occhi, il mantenimento della riforma giudiziaria significa la continuazione delle proteste. E la continuazione delle proteste potrebbe erodere ulteriormente la volontà di molti nella società israeliana di continuare a finanziare il progetto delle colonie e rischiare la vita per difenderlo. Pertanto, è meglio rinviare le riforme fino a data da destinarsi.

Naturalmente i coloni sono tutt’altro che deboli. Smotrich sta rafforzando il suo controllo in Cisgiordania, la violenza dei coloni sta espellendo le comunità palestinesi e la probabilità che gli assassini di Mi’tan vengano processati è molto bassa. E nemmeno significa che vedremo un consenso, da Gantz a Bressler, per smantellare le colonie o un riconoscimento che l’obiettivo finale della riforma è preservare l’occupazione e l’apartheid – che devono essere entrambi smantellati per stabilire una vera democrazia tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo). Ma è possibile a questo punto affermare che il movimento dei coloni non può più “stabilirsi nei cuori” della società israeliana.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato in ebraico su Local Call. Meron Rapoport è redattore di Local Call.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




A Gaza il soddisfacimento dei bisogni primari è parte integrante della nostra liberazione

Mohammed R. Mhawish

11 agosto 2023 – +972 Magazine

Le proteste nella Striscia assediata evidenziano perché la leadership palestinese, pur sotto occupazione, deve curarsi sia della resistenza che della governance.

La scorsa settimana il governatorato meridionale di Khan Younis e altre aree al centro della Striscia di Gaza hanno assistito a scene di tensione quando diverse migliaia di palestinesi sono scesi in piazza per protestare contro le frequenti interruzioni di corrente, la scarsità di cibo e in generale la durezza delle condizioni di vita. Con la marcia al grido di “Bidna N’eesh” (“Vogliamo vivere”) le proteste di massa costituiscono un’espressione significativa del risentimento pubblico accumulato per anni tra la popolazione sotto assedio.

In risposta hanno sfilato dei cortei a sostegno di Hamas, il partito islamista che governa la Striscia, inneggiando al governo e aggredendo chi non esprimeva sostegno al movimento. Secondo quanto riferito, poco dopo è intervenuta la polizia che ha confiscato i telefoni cellulari ed effettuato numerosi arresti.

Le proteste sono seguite a giorni di intensa frustrazione e contrarietà nei confronti del governo di Hamas, dopo che un abitante di Khan Younis è rimasto ucciso in seguito al crollo di uno dei muri della sua casa mentre le autorità locali tentavano di demolirlo col pretesto che fosse stato costruito su una via pubblica. Le autorità hanno affermato che la morte dell’uomo sarebbe stata un tragico incidente e hanno licenziato il sindaco del Comune responsabile.

Sembra che le marce, per la loro dinamicità, brevità e impatto diretto, siano coordinate da movimenti di base attraverso piattaforme online e social media. Diversi palestinesi che erano tra la folla mi hanno detto che le loro proteste derivano da una richiesta fondamentale riguardante i loro diritti umani di base, che comprendono necessità come i servizi pubblici, occupazione, libertà di viaggiare e la possibilità di intraprendere attività commerciali fuori dalla Striscia. Al momento in cui scrivo il governo di Hamas non ha reso pubblica alcuna prospettiva di soluzione a nessuna di queste rimostranze, né di risposta alla rabbia della gente.

L’energia elettrica è al centro delle richieste dei manifestanti. Per quanto la crisi energetica di Gaza preceda le attuali proteste, le ondate di caldo torrido che quest’estate hanno investito la regione hanno portato le temperature nella Striscia oltre i 38 gradi. Il caldo non ha fatto che accentuare il crescente malcontento tra i 2,3 milioni di palestinesi che vivono nel territorio, confinati in una striscia di terra di circa 360 km2 che dal 2007 è stata tagliata fuori in seguito ad un blocco israeliano che colpisce ogni aspetto della vita quotidiana.

Questa frustrazione collettiva si è accumulata nell’arco di un considerevole periodo di tempo, poiché la popolazione di Gaza deve sopravvivere con razionamento che va dalle quattro alle sei ore di elettricità al giorno. Per far fronte alle prolungate interruzioni di corrente alcune abitazioni e aziende ricorrono a generatori privati o pannelli solari. Per altri che non possono permettersi apparecchiature così costose, modeste lampadine LED alimentate a batteria forniscono un’illuminazione improvvisata, mentre altri ancora cercano di combattere il caldo facendosi vento con vassoi di plastica.

Secondo gli enti energetici locali durante la stagione estiva Gaza necessita di circa 500 megawatt di energia elettrica al giorno. Tuttavia attualmente riceve da Israele solo 120 megawatt, con l’ulteriore contributo di 60 megawatt proveniente dall’unica centrale elettrica dell’enclave, ripetutamente danneggiata dagli attacchi militari israeliani e indebolita dalle restrizioni sull’importazione di materiali edili. Ultimamente i filmati dei social media hanno mostrato Gaza avvolta nell’oscurità notturna con poche luci nelle sue città.

Mentre l’opinione pubblica e l’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania attribuiscono le proteste di Gaza prevalentemente all’occupazione israeliana, molte persone credono che Hamas abbia ancora una certa possibilità, e l’obbligo, di avviare misure efficaci, anche aumentando la produzione e il funzionamento della centrale al massimo della potenza, soprattutto durante l’estate.

Sopportare il peso

Negli ultimi 16 anni Gaza è diventata un coacervo di avversità umanitarie, economiche e politiche. L’enclave ha vissuto diverse ondate di guerre mortali con Israele, la più devastante nell’estate del 2014. La chiusura imposta a tutti i valichi di Gaza ha fatto precipitare l’economia fino ad una condizione di degrado, portando a un forte aumento della disoccupazione e con conseguente grave scarsità di beni di prima necessità e altre risorse.

I palestinesi hanno dovuto attraversare divisioni significative all’interno della loro leadership politica, la più evidente delle quali rappresentata dagli scontri armati tra Fatah e Hamas nel 2007. Nelle elezioni parlamentari del 2006 Hamas assicurò la vittoria nei confronti delle altre fazioni arrivando a controllare la maggioranza in parlamento e la carica di primo ministro, mentre il leader di Fatah Mahmoud Abbas venne eletto alla presidenza.

Il governo palestinese venne subito sottoposto a sanzioni da parte di Israele, Stati Uniti e Paesi europei, con conseguente esacerbazione della rivalità tra fazioni che portò Hamas a conquistare Gaza. Da allora il territorio è sprofondato sotto il peso del rigido assedio israeliano.

Tuttavia le attuali manifestazioni a Gaza si distinguono per l’elevato livello di impegno pubblico e per il numero di manifestanti coinvolti. La gravità della situazione comprende molteplici aspetti e le condizioni di vita della popolazione stanno diventando sempre più difficili.

I palestinesi chiedono da tempo nuove elezioni generali esprimendo un’intensa richiesta di cambiamento. Eppure il sostegno pubblico ad Hamas a Gaza persiste e cresce la preoccupazione che le voci di coloro che cercano una qualche forma di cambiamento e ripristino dei propri diritti vengano soffocate, sia dalle autorità israeliane che da quelle palestinesi.

Ci sono diversi aspetti delle complessità in evoluzione tra gli attori politici palestinesi. Fatah e Hamas sono coinvolti in un continuo gioco di accuse reciproche, in quanto l’una attribuisce i problemi di Gaza all’altra. L’ANP sollecita Hamas a prendere iniziative, anche se ritiene principalmente responsabile Israele (con cui l’ANP collabora in base agli Accordi di Oslo) in quanto potenza occupante. Nel frattempo sono le persone a scontare le conseguenze e ad affrontare le deleterie ripercussioni, mentre continua la debole ricerca di una riconciliazione.

Ultimo ma non meno importante, il Jihad islamico, un tempo movimento marginale, è recentemente emerso come un attore significativo nel panorama geopolitico palestinese. Durante le ultime due guerre israeliane contro Gaza nell’agosto 2022 e nel maggio 2023 il Jihad islamico ha mostrato una capacità decisionale relativamente indipendente ed efficace sul fronte militare, sebbene cerchi ancora l’appoggio politico e militare di Hamas come autorità dominante.

Al di là della frammentazione sociale a Gaza e in Cisgiordania, un vincitore sta attualmente prendendo tutto: l’estrema destra israeliana, che mina incessantemente le fondamenta della lotta palestinese e porta avanti il suo progetto di disperdere permanentemente la popolazione palestinese in differenti enclave territoriali e politiche.

Sotto la guida di Benjamin Netanyahu l’attuale governo sta cogliendo ogni opportunità per consolidare la sua presenza in Cisgiordania. Ciò comprende la costruzione di insediamenti illegali, l’annientamento di qualsiasi tentativo di resistenza armata o popolare e l’annessione di terre e risorse palestinesi, indebolendo ulteriormente le basi di qualsiasi processo politico palestinese.

Un fronte unito per la liberazione

Le attuali proteste a Gaza riprendono indubbiamente le legittime richieste del popolo palestinese, meritevole e capace di forgiare un nuovo fronte unito verso la libertà e la dignità. Ma resta la domanda più importante: i leader palestinesi hanno la volontà di ascoltare queste richieste e di adottare misure efficaci per soddisfarle?

Sia gli osservatori esterni che quelli interni spesso attribuiscono le divisioni tra le fazioni palestinesi a contrastanti interessi politici e ideologici. Eppure tali differenze dovrebbero semmai gettare le basi e lo slancio per un’ampia coalizione politica che possa armonizzare i bisogni comuni con l’obiettivo della liberazione. Mentre alcuni sostengono che le fazioni palestinesi si stiano gradualmente riallineando contro Israele e non l’una contro l’altra, molti nutrono ancora un sentimento di perdita di speranza sulla possibilità di vedere un giorno una leadership unificata che comprenda le variabili della guerra e della pace, della resistenza e della governance, e che riunisca tutti i palestinesi sotto un’amministrazione unica.

A Gaza c’è una forte convinzione che avere una presenza armata che salvaguardi il diritto dei palestinesi all’autodifesa contro l’aggressione militare israeliana non dovrebbe mettere in secondo piano l’aspirazione delle persone a vivere con quel tanto di autonomia e agiatezza possibile sotto l’occupazione. L’obiettivo di rompere il blocco israeliano, un tempo il principale faro di speranza per la libertà a Gaza, si intreccia con la ricerca di soddisfare i bisogni di base all’interno dei confini di Gaza, come ad esempio altre due ore al giorno di accesso all’acqua potabile o all’elettricità.

Ciò è accompagnato dall’opinione diffusa che Hamas, come altre fazioni palestinesi, stia cercando di controllare e mettere a tacere l’attivismo e il dissenso di base, suscitando ulteriore irritazione nell’opinione pubblica. L’accoglimento a parole dell’idea di cambiamento da parte dei leader palestinesi non dovrebbe solo significare riconciliare le loro visioni contrastanti, ma anche smettere di nascondere sotto il tappeto le richieste collettive della gente per un futuro migliore.

In effetti l’intensificarsi degli attacchi israeliani contro tutti i palestinesi nell’intero Paese e l’obiettivo di disgregare la sfera pubblica a Gaza rendono queste proteste un momento ideale per riaffermare la necessità di una leadership palestinese unificata che possa progredire, dare priorità alla difesa dei valori umani e alle esigenze fondamentali della vita sotto occupazione e non tentennare tra rapidi mutamenti del panorama regionale e internazionale, che hanno messo in disparte le richieste di libertà e nel contempo di condizioni di vita dignitose dei palestinesi.

È ancora più importante che le attuali leadership, sia a Gaza che in Cisgiordania, si astengano dal governare con diktat e rispettino invece la volontà della maggioranza, osservando quadri normativi del Paese e la prospettiva della liberazione. È improbabile che il tentativo di forzare il cambiamento attraverso un conflitto aperto con una opinione pubblica scontenta abbia successo. Non è mai stato un metodo giusto o di successo per raggiungere l’autodeterminazione, specialmente sotto la guida di fazioni minoritarie frammentate, ognuna delle quali scandisce uno slogan diverso ed è apparentemente indifferente alla rappresentanza democratica. Ogni leader finisce per aggrapparsi al potere senza alcuna reale intenzione di migliorare e salvaguardare la vita dei propri elettori.

Per superare queste sfide i palestinesi devono essere in grado di esprimere critiche in consonanza coi simpatizzanti di ciascuna delle parti, dimostrando così la possibilità di essere uniti, piuttosto che limitarsi a dimostrare che i loro leader hanno torto. Le attuali proteste a Gaza e l’Intifada Unitaria scoppiata in tutta la Palestina due anni fa indicano la necessità di un tale percorso comune. Una volta che sarà stato veramente raggiunto, nessuna influenza esterna potrà impedire, ignorare o frammentare la sostanziale maggioranza delle persone che vogliono liberarsi dalla spirale dell’esclusione.

Fino ad allora il popolo palestinese merita la possibilità di affrontare il fondamentale dibattito su una tanto necessaria tabella di marcia politica in grado di determinare il destino della sua lotta. Mettendo da parte gli argomenti divergenti della realpolitik sul campo di battaglia interno e facendo ciò che può essere fatto per le persone con gli strumenti disponibili, solo allora i palestinesi potranno continuare ad essere saldi e fiduciosi di fronte ad una forza di occupazione.

Mohammed R. Mhawish è un giornalista e scrittore palestinese che vive a Gaza. È uno degli autori del libro “A Land With A People – Palestines and Jews Confront Zionism” [Una terra con un popolo – palestinesi ed ebrei di fronte al sionismo, ndt.] (Monthly Review Press Publication, 2021).

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché i pogrom dei coloni stanno squassando la Cisgiordania proprio ora

Menachem Klein 

26 giugno 2023 +972

Frustrati dalle reazioni armate ai loro pogrom, i coloni continueranno a propugnare la supremazia ebraica con ogni mezzo necessario.

A volte un evento è così estremo da strappare il paraocchi della deliberata ignoranza alla società ebraico-israeliana. Il pogrom di Huwara lo scorso febbraio in cui centinaia di coloni hanno incendiato la città palestinese nella Cisgiordania occupata è stato un evento del genere. I pogrom della scorsa settimana a Turmus Ayya, Urif e Umm Safa hanno aperto ulteriormente il quadro, costringendo molti israeliani a guardare in faccia a una realtà presente da tempo e che senza dubbio può peggiorare.

Il problema principale non è però nel sottoprodotto dell’occupazione – il terrorismo dei coloni ebrei – ma nell’attività di routine di Israele nei territori. In effetti, la decisione dei dirigenti della sicurezza israeliana di etichettare i pogrom come “terrorismo” indica che il paraocchi è stato levato solo in parte: semplicemente non vogliono che il terrorismo ebraico interferisca o metta in imbarazzo l’autorità di esercito, Shin Bet e polizia.

L’insediamento coloniale è di per sé un atto violento, che sia fatto in accordo con la legge israeliana o con una legge che lo legittima retroattivamente. È violento perché i coloni impongono la loro presenza agli abitanti autoctoni e li privano della terra, dell’acqua, della libertà di movimento e dei diritti umani fondamentali. È un sistema organizzato di violenza per conto dello Stato.

La simbiosi tra esercito e coloni non si limita alla violenza; esiste anche nella concezione che hanno della loro missione. I coloni definiscono esplicitamente la loro missione come l’ebraizzazione dell’area, e lo fanno in modo efficace e coerente. La missione dell’esercito non è garantire la sicurezza a tutti i residenti nei territori – come il diritto internazionale richiede alla potenza occupante – ma piuttosto proteggere i coloni dalle reazioni dei nativi palestinesi, ai quali non è permesso difendersi, né con l’aiuto delle forze di sicurezza palestinesi, né istituendo una propria guardia nazionale.

Il fattore che determina se la vita e la proprietà di un residente della Cisgiordania saranno protette è se è ebreo o meno.

Anche l’espansione delle colonie in risposta all’assassinio di israeliani – come alte cariche del governo si sono impegnate a fare la scorsa settimana – non è un’innocua azione civile. È una violenza senza immediato spargimento di sangue, ma che inevitabilmente genererà una resistenza palestinese seguita da una sanguinosa repressione dell’esercito.

I palestinesi sono tollerati solo se si annullano nel paesaggio, diventando oggetti inanimati che rinunciano alla loro identità collettiva. Ma finché mantengono quell’identità sono per definizione il nemico. L’esercito e lo Shin Bet continueranno a controllarli con dati biometrici ed elettromagnetici che tracciano la loro posizione, le loro azioni e i pensieri espressi nelle telefonate e sui social media. La completa dipendenza dei palestinesi da Israele per i permessi rende facile per le autorità israeliane raccogliere informazioni sulla loro famiglia e le condizioni mediche, le tendenze sessuali, le debolezze personali e l’inquadramento sociale e utilizzare tali informazioni come arma per costringerli a collaborare.

Il predominio ebraico è chiaro come il sole e il popolo palestinese sta sanguinando fisicamente e politicamente. Tuttavia, man mano che le colonie si espandono e l’esercito interviene aumenta l’attrito, e così anche la motivazione palestinese a reagire. Oggi la violenza palestinese ha poca speranza di liberare la Cisgiordania la disparità di potere tra le parti è fin troppo evidente. Piuttosto, intende far pagare un prezzo, un qualsiasi prezzo, ai colonizzatori.

Una frustrazione pericolosa

Questa reazione frustra i coloni. Com’è possibile che tutto il loro potere e la loro supremazia non abbiano ancora cancellato l’identità e la resistenza palestinese? Questa frustrazione è ciò che muove i pogrom, come quelli che abbiamo visto la scorsa settimana, che poi spingono l’esercito e il governo a usare ancora più forza nell’espandere il progetto di insediamento coloniale. Solo pochi giorni fa, il Col. (Forze di Riserva) Moshe Hagar, capo dell’accademia premilitare nella colonia di Beit Yatir, ha invocato la distruzione di una città o di un villaggio palestinesi per dare una lezione ai palestinesi. Nel frattempo Bezalel Smotrich che funge sia da Ministro delle Finanze che come Ministro incaricato degli Affari Civili in Cisgiordania, ha definito “sbagliato e pericoloso” qualsiasi paragone tra ciò che ha definito “terrore arabo” e le “contro-operazioni di civili”.

La loro frustrazione oggi è maggiore di quanto non fosse in passato. Negli anni ’80 e ’90 i coloni nei territori occupati si sono trasformati da movimento civile sostenuto dalla classe dirigente in classe dirigente essi stessi. Si sono fatti strada nei livelli esecutivi degli ambiti governativi di amministrazione e sicurezza che controllano la popolazione palestinese e la sua terra. Oggi, sotto l’attuale governo di estrema destra, hanno raggiunto l’apice del potere. Non pensano affatto a riconoscere dei limiti al proprio potere, perché la direzione delle loro ambizioni politiche è diretta e inequivocabile. Non devono ritrarsi.

L’idea di contenere il conflitto per non perdere il controllo – come sperano di fare esercito, Shin Bet e polizia – è per loro inaccettabile, poiché la loro frustrazione è pari al loro estremismo politico e teologico. I coloni stanno spingendo i dirigenti della sicurezza ad agire secondo la visione di Hagar. A differenza dell'”Operazione Scudo Difensivo” – quando l’esercito israeliano distrusse fisicamente e politicamente l’Autorità Nazionale Palestinese nel 2002 attraverso devastanti invasioni urbane – oggi non c’è più una leadership da decimare. L’ANP sotto il presidente Mahmoud Abbas l’ha già fatto per Israele. L’appello della destra israeliana a lanciare “Scudo Difensivo II” è invece un invito a porre i civili palestinesi come obiettivo centrale piuttosto che come semplice e accettabile effetto collaterale.

La fine del conflitto e la soluzione dei due Stati non sono più interessanti per l’opinione pubblica israeliana e per la comunità internazionale. In mancanza di una soluzione – o più precisamente, della volontà di perseguirne una – i governi stranieri, compresi gli Stati arabi, hanno permesso a Israele di creare un regime unico nell’intera area compresa tra il fiume e il mare senza dover dichiarare ufficialmente l’annessione.

Il fatto che due popoli diversi vivano sotto due sistemi di leggi e un unico potere significa che Israele sta attuando pratiche di apartheid, supremazia razziale e governo militare non come una questione di politica estera, ma piuttosto come politica interna.

Questo è il motivo per cui, ad esempio, il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir sta cercando di istituire una propria milizia privata, per avere il potere di sottoporre i cittadini palestinesi di Israele alla detenzione amministrativa e per approfondire la penetrazione dello Shin Bet nella vita dei cittadini palestinesi di Israele. E, sulla scia degli eventi del maggio 2021 [grave esplosione di violenza iniziata il 10 maggio 2021 e continuata fino all’entrata in vigore del cessate il fuoco il 21 maggio, ndt.] l’esercito israeliano ha ora elaborato piani per agire contro i cittadini palestinesi in caso di conflitto.

I dirigenti di Israele si stanno rendendo conto che devono piegare ulteriormente la legge alla loro volontà, altrimenti l’identità dell’intera area tra il fiume e il mare non sarà mai esclusivamente ebraica. E, sfortunatamente, la sinistra ebraica sionista non ha né la visione né il coraggio per impedire questa tendenza.

Menachem Klein è professore di Scienze Politiche all’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 ed è stato uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Come l’Intelligenza Artificiale sta intensificando i bombardamenti israeliani su Gaza

Sophia Goodfriend

6 giugno 2023 – +972 Magazine

Con gli algoritmi che rendono più facile sostenere una guerra, le armi automatizzate hanno trasformato gli assalti israeliani contro i palestinesi assediati in un evento annuale.

“I cieli sopra Gaza sono pieni di bombe israeliane”, mi ha detto Anas Baba quando abbiamo discusso su WhatsApp qualche settimana fa, subito dopo che l’esercito israeliano e la Jihad islamica avevano raggiunto un labile cessate il fuoco successivamente all’ultima offensiva israeliana sulla Striscia bloccata, che ha ucciso 33 persone e ne ha ferite altre decine. Nonostante gli attacchi dei droni fossero cessati, persisteva il ronzio incessante degli UAV [droni, ndt.]. Il loro suono ricordava come ha detto Baba, un giornalista di Gaza che la guerra costituisce ormai un evento con cadenza annuale.

Nel corso dei 16 anni dall’inizio dell’assedio così tante famiglie palestinesi hanno perso la casa nei ripetuti bombardamenti della Striscia che la ricostruzione non ha mai fine ed è resa ancora più difficile dal coinvolgimento di numerose organizzazioni e governi che offrono una assistenza umanitaria limitata. E a causa dell’alto numero di persone interessate e della ingente quantità di fondi necessari per ricostruire, spiega Baba, le famiglie potrebbero trovarsi in lista d’attesa per anni.

I bombardamenti israeliani su Gaza stanno diventando più frequenti grazie alle innovazioni nell’intelligenza artificiale (AI) e a un esercito che si piega ai dettami di governi sempre più di destra. L’esercito si vanta che le unità di intelligence ora possono individuare obiettivi – un processo che richiedeva anni – in appena un mese. Anche se cresce il bilancio delle vittime nei territori occupati le evidenze di questa crisi umanitaria raramente fanno breccia nell’opinione pubblica ebraico-israeliana, barricata dietro censori militari, sistemi di difesa missilistica e semplice indifferenza. Invece, la violenza nella regione viene analizzata attraverso il linguaggio salvifico dell’innovazione tecnologica.

Sulla stampa israeliana queste guerre si svolgono secondo uno schema familiare. Nuove offensive militari su Gaza vengono annunciate come l’uscita di un tanto atteso videogioco della serie Call of Duty. L’esercito satura le pagine dei social media con immagini epiche di soldati armati, mentre nomi biblici evocano una potenza militare di proporzioni mitologiche. Poi i missili piovono su Gaza, spazzando via le infrastrutture, le case e le vite dei palestinesi, mentre le sirene d’allarme per i razzi invitano gli abitanti del sud di Israele a correre nei rifugi fortificati.

Nei giorni successivi all’accordo sul cessate il fuoco i generali fanno il loro giro dei media per parlare delle innovazioni nell’automazione, rivelate nel corso dell’ultimo assalto. Sciami di droni assassini diretti da algoritmi di supercalcolo, che possono sparare e uccidere con un minimo intervento umano, sono celebrati allo stesso modo in cui i CEO della Silicon Valley elogiano i chatbot [gli algoritmi alla base del funzionamento delle chat, ndt.]. Mentre il mondo fa i conti con gli sviluppi fuori controllo dell’AI, ogni guerra intrapresa contro Gaza dall’arsenale militare automatizzato di Israele illustra il costo umano di questi sistemi.

“Un moltiplicatore di forza”

La guerra è sempre stata un’occasione per i militari per il commercio di armi. Ma poiché i bombardamenti asimmetrici di Israele su Gaza sono diventati eventi con cadenza annuale l’esercito ha iniziato a definirsi una sorta di pioniere che esplora il territorio sconosciuto della guerra automatizzata. Le IDF [esercito israeliano,ndt.] hanno proclamato di aver condotto la “prima guerra AI al mondo” nel 2021 – l’offensiva di 11 giorni su Gaza denominata in codice Operation Guardian of the Walls” [Operazione Guardiano delle Mura, ndr.] che, secondo B’tselem, ha ucciso 261 palestinesi ferendone 2.200. I droni hanno spazzato via intere famiglie, danneggiato scuole e cliniche mediche e fatto esplodere grattacieli che ospitavano famiglie, aziende e uffici dei media lontani da qualsiasi obiettivo militare.

Mentre 72.000 palestinesi erano sfollati e altre migliaia piangevano i morti, i generali israeliani si vantavano di aver rivoluzionato la guerra. “L’intelligenza artificiale è stata un moltiplicatore di forza per le IDF”, si sono vantati gli ufficiali, descrivendo in dettaglio come sciami di droni robotici avessero accumulato dati di sorveglianza, individuato obiettivi e sganciato bombe con un intervento umano minimo.

Lo schema si è ripetuto poco più di un anno dopo. Nell’agosto 2022 le IDF hanno lanciato un’offensiva di cinque giorni contro Gaza, denominata “Operazione Breaking Dawn” [sorgere dell’alba, ndt.], che ha causato la morte di 49 palestinesi, inclusi 17 civili. Missili sono esplosi per le strade del campo profughi di Jabalia, uccidendo sette civili, fuori dalle loro case a causa delle interruzioni di corrente. I droni hanno colpito anche un vicino cimitero uccidendo dei bambini che giocavano in un raro lembo di spazio aperto.

Sulla scia della distruzione l’esercito ha lanciato un’altra curatissima campagna di pubbliche relazioni, infrangendo un divieto pluridecennale di discutere apertamente dell’uso nelle operazioni militari di droni basati sull’intelligenza artificiale. Il Brigadier Generale Omri Dor, comandante della base aerea di Palmachim, ha dichiarato al Times of Israel [quotidiano online israeliano, ndt.] che i droni dotati di intelligenza artificiale hanno conferito all’esercito una “precisione chirurgica” nell’assalto, consentendo alle truppe di ridurre al minimo “danni collaterali o danni a altre persone”.

Tuttavia, come tutte le autopromozioni, tali annunci sono un esercizio di autoesaltazione. Per cominciare, nel 2021 Israele non ha condotto la “prima guerra AI” al mondo. Droni, sistemi di difesa missilistica e guerra informatica sono stati usati per decenni in tutto il mondo e piuttosto che l’esercito israeliano sono gli Stati Uniti ad essere spesso considerati il vero pioniere.

Ad esempio in Vietnam sensori e centinaia di computer IBM hanno aiutato le truppe statunitensi a rintracciare, localizzare e uccidere i combattenti vietcong – e molti civili – in attacchi aerei letali. Quando i soldati statunitensi sono entrati in Iraq, lo stesso hanno fatto i robot armati di fucili e in grado di far saltare in aria esplosivi. Dalla fine degli anni 2000 la maggior parte dei governi ha incorporato nei propri arsenali militari e di sorveglianza sistemi di apprendimento automatico. Oggi sciami di droni automatizzati hanno ucciso militanti e civili nelle guerre in Libia e Ucraina.

È stato quindi un problema di saturazione del mercato a motivare l’esercito israeliano a trasformare gli attacchi contro Gaza in campagne pubblicitarie coordinate. Nel 2021 gli esperti di intelligenza artificiale hanno lanciato l’allarme sui droni assassini di fabbricazione turca che potrebbero sciamare e uccidere obiettivi senza intervento umano. La Cina è stata presa di mira per aver esportato sistemi d’arma automatizzati – da sottomarini robotici a droni invisibili – in Pakistan e Arabia Saudita.

Vedendo questo i trafficanti israeliani di armi hanno temuto che altri Paesi potessero eclissare il vantaggio competitivo della “nazione start-up” sulle esportazioni di armi a favore di regimi con sordidi primati a proposito di diritti umani. “E’ovvio che le cose sono cambiate e che Israele deve cambiare atteggiamento se non vuole perdere altri potenziali mercati”, ha detto un alto funzionario militare israeliano in una newsletter dell’industria della difesa dopo l’operazione dell’agosto 2022.

I loro sforzi sono stati ripagati: dopo Guardian of the Walls le esportazioni di armi di Israele hanno raggiunto nel 2021 il massimo storico. Tra i ripetuti bombardamenti su Gaza e con la guerra che infuria in Ucraina, quel numero probabilmente aumenterà.

Nuovi pericoli

L’ubiquità della guerra dell’IA non significa che questa tecnologia debba essere implementata senza salvaguardie e limitazioni. Gli algoritmi possono davvero rendere più efficienti molti aspetti della guerra, dalla guida dei missili all’esame delle informazioni al monitoraggio dei valichi di frontiera. Eppure gli esperti elencano una litania di pericoli posti da questi sistemi: dalla disumanizzazione digitale che riduce gli esseri umani a codici a barre per una macchina in grado di determinare chi dovrebbe vivere o morire, a un costo e una soglia ridotti per un sistema bellico che sostituisce le truppe di terra con algoritmi. Gran parte delle armi sul mercato sono piene di problemi tecnici, per cui si dice identifichino erroneamente gli obiettivi o siano pre-programmate per uccidere determinati gruppi demografici con maggiore frequenza. Anche se riducono il numero di civili uccisi in un singolo bombardamento, come affermano i loro sostenitori, i sistemi d’arma automatizzati rischiano di rendere le battaglie più frequenti e più facili da sostenere facendo sì che la guerra si trascini senza che se ne veda la fine.

Questo è il caso di Gaza. Come afferma Baba, il giornalista: Con una popolazione di 2,3 milioni di persone in un’area di meno di 45 chilometri, Gaza è uno dei luoghi più densamente popolati del mondo. Non importa quanto siano avanzate le tecnologie utilizzate, ogni bombardamento israeliano sulla Striscia uccide innumerevoli spettatori innocenti. “I civili sono spesso vittime del fuoco incrociato”, aggiunge.

Dal 2021, quando Israele ha iniziato a promuovere pubblicamente l’uso dell’intelligenza artificiale nelle operazioni militari, negli attacchi annuali di Israele oltre 300 palestinesi sono stati uccisi e altre migliaia sono stati feriti e sfollati; nei ripetuti assalti infrastrutture vitali come i sistemi fognari e le reti elettriche sono state irrimediabilmente danneggiate. L’automazione potrebbe aver consentito a Israele – se avesse potuto raccogliere le forze e il sostegno politico – di non inviare truppe di terra, impedendo perdite di vite umane dalla sua parte, ma soprattutto la tecnologia ha semplicemente reso più frequente la caduta delle bombe e l’uso di proiettili.

Gli esperti politici discutono spesso dei pericoli posti dai sistemi d’arma automatizzati nel futuro. Ma il costo umano è già evidente in tutta la Palestina. “Abbiamo assistito a lungo alle prove dell’uso da parte di Israele dei TPO [territori palestinesi occupati, ndt.], in particolare di Gaza, come laboratorio per testare e dispiegare tecnologie di armi sperimentali”, ha detto a +972 Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

Shakir sottolinea che tali armi utilizzate in Cisgiordania e a Gaza, dai droni alla biometria alle torrette potenziate dall’intelligenza artificiale, “servono ad automatizzare l’uso illegale della forza e dell’apartheid da parte di Israele contro i palestinesi”. Data la centralità di Israele nei mercati globali delle armi, Shakir ritiene che “è solo una questione di tempo prima che i sistemi d’arma schierati oggi da Israele finiscano negli angoli più remoti del globo”.

I sostenitori dei diritti digitali hanno anche avvertito che le armi sviluppate in Palestina causeranno il caos se esportate all’estero, sottolineando che questi sistemi provengono da contesti politici in cui il pregiudizio contro i palestinesi è fondamentale. Ad esempio, se l’esercito israeliano ha fornito agli operatori delle istruzioni secondo cui in attacchi con droni un certo numero di non combattenti potrebbe essere ucciso, come +972 ha riportato l’anno scorso, questo numero è replicato negli algoritmi che guidano i missili di precisione? Se i soldati israeliani che gestiscono posti di blocco hanno il compito di detenere temporaneamente uomini palestinesi di una certa età, i nuovi confini biometrici, come riportato di recente da Amnesty International, raccomanderanno la detenzione di tutti coloro che rientrano in questo gruppo demografico? Come ha spiegato Mona Shtaya, direttrice del sistema di patrocinio di 7amleh [associazione no profit che favorisce l’uso del digitale tra i palestinesi in particolare a sostegno dei loro diritti, ndt.]: “Se i dati sono distorti, il risultato finale del prodotto sarà sbilanciato contro i palestinesi”.

L’esercito israeliano non sembra preoccupato dal ritmo di tale sviluppo dell’IA. Cosa fa ChatGPT? Distilla la conoscenza, l’intuizione di cui hai bisogno “, ha affermato il colonnello Uri, comandante della nuova unità di ricerca e informazione sull’IA delle IDF, durante una rara intervista a febbraio. C’è un limite alle tue capacità come essere umano. Se stessi seduto una settimana per elaborare le informazioni potresti giungere alla stessa identica conclusione. Ma una macchina può fare in un minuto ciò che ti richiederebbe una settimana.

Questo tecno-ottimismo si ritrova in tutti i ranghi militari di Israele e lo ha aiutato a giustificare la guerra in corso. I comandanti delle unità di intelligence d’élite hanno volantini auto-pubblicati che esaltano una “sinergia uomo-macchina”. Altri occupano posizioni chiave in aziende di armi come Elbit Systems, desiderose di esportare sistemi d’arma automatizzati in tutto il mondo. Quando a febbraio 60 paesi, tra cui Cina e Stati Uniti, hanno stilato un “invito ad agire” in gran parte simbolico a sostegno dell’uso responsabile dell’IA militare Israele ha rifiutato di firmare la dichiarazione. Invece, i comandanti di alto rango paragonano i robot assassini alle chatbot, scimmiottando i dirigenti tecnologici della Silicon Valley che affermano che l’intelligenza artificiale potrà solo migliorare la vita umana.

La vastità della distruzione in una Gaza assediata rende sempre più difficile credere a tali affermazioni. Se l’ultimo bombardamento rivela qualcosa è che anche le armi tecnologicamente più avanzate non possono compensare il costo umano della guerra, non importa quanto sofisticati siano gli algoritmi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“L’anno più difficile della mia vita”: i pastori di Masafer Yatta soffrono sotto la minaccia di espulsione

Hamdan Mohammed Al-Huraini,

5 giugno 2023 – +972 Magazine

L’escalation della repressione da parte di Israele dopo la sentenza dell’Alta Corte dello scorso anno ha avuto un grave impatto sui pastori palestinesi, un pilastro della sopravvivenza delle loro comunità.

Per quanto ne ho memoria qui a Masafer Yatta, nella regione delle colline a sud di Hebron nella Cisgiordania occupata, i pastori hanno pascolato liberamente le loro pecore ogni primavera per migliaia di dunam [1 dunum equivale a 1000 mq, ndt.] di terra. Si spostavano tra pascoli abbondanti, senza bisogno di acquistare acqua o foraggio per i loro animali, perché l’approvvigionamento era abbondante. Fintanto che i nostri villaggi dipenderanno dall’agricoltura e dal bestiame [la pastorizia] è qualcosa di più di una forma di sussistenza: è il nostro modo di vivere tradizionale.

Ma un anno fa, tutto è cambiato. Nel maggio 2022 l’Alta Corte dell’occupazione israeliana si è pronunciata contro gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta e a favore dell’esercito israeliano che ha trasformato l’area in una “zona di tiro” per l’addestramento militare. In conseguenza della sentenza della corte, l’esercito ha intensificato la sua repressione contro i palestinesi della zona per cercare di espellerci con la forza dalla terra in cui i nostri antenati hanno vissuto per secoli. E queste politiche hanno avuto un impatto particolarmente grave sui pastori.

Tutto è proibito con il pretesto che viviamo in una zona di addestramento di tiro, anche pascolare le pecore”, spiega Issa Makhamra del villaggio di Jinba, accanto al quale in seguito alla decisione della corte l’esercito israeliano ha stabilito una nuova base. Ogni volta che andiamo da qualche parte istituiscono un posto di blocco. Quando voglio andare in città devo attraversare questo posto di blocco e vengo fermato e trattenuto per lunghe ore. Te lo giuro, se l’esercito riuscisse a tenerci lontano dalla luce del sole e dall’aria, lo farebbe.»

Muhammad Ayoub Abu Subha, un altro pastore del villaggio di Al-Fakheit, era solito pascolare il suo gregge di pecore attraverso i pascoli della sua terra. Ma nell’ultimo anno l’accesso a quella terra è diventato impossibile. “L’esercito ha chiuso le strade e istituito posti di blocco”, dice. I nostri raccolti agricoli sono stati distrutti da carri armati, bulldozer e veicoli militari, e ci è stato impedito di raggiungere i nostri pascoli con il pretesto che questa zona era diventata proprietà dell’esercito. Non avrei mai immaginato che la mia casa, che è di mia proprietà, sarebbe diventata un’area chiusa. Mi sento come se stessi impazzendo e perdendo la testa.

Poiché migliaia di dunam di pascoli naturali sono andati perduti i pastori di Masafer Yatta devono ora acquistare il foraggio da città vicine come Yatta e poi trasportarlo a prezzi esorbitanti. Sempre che siano in grado di trasportarlo, dato il forte dispiegamento dell’esercito in tutta l’area e il fatto che i soldati spesso confiscano le auto dei palestinesi e arrestano i conducenti con il pretesto che si trovano all’interno di una zona di addestramento militare.

Lo scorso inverno Makhamra è stato trattenuto presso un posto di blocco eretto dall’esercito all’ingresso di Jinba. Avevo bisogno di comprare il foraggio per le mie pecore, quindi sono andato con un trattore. Quando ho raggiunto il posto di blocco non hanno permesso all’autista di entrare e l’hanno costretto a mettere il foraggio a terra vicino al posto di blocco. Avevo paura che piovesse e che il foraggio si deteriorasse, così ho prelevato dal villaggio mio figlio insieme ad un gruppo per trasportare il foraggio sugli asini per oltre 500 metri. Questo è un semplice esempio di ciò che ci accade quotidianamente a causa del divieto di raggiungere i nostri pascoli, della confisca della nostra terra, della distruzione delle strade e dell’uso dei posti di blocco”.

“Volevo urlare e piangere”

La vita a Masafer Yatta non era certo facile prima della sentenza della corte dello scorso anno. I residenti sono stati a lungo esposti alla medesima violenza da parte dei coloni israeliani e alle restrizioni dell’esercito che hanno lo scopo di cacciare i palestinesi dalle loro case in gran parte delle zone agricole della Cisgiordania, in modo che la loro terra possa essere espropriata per ulteriori insediamenti coloniali ebraici.

Abu Subha, ad esempio, ha visto demolire la sua casa dall’esercito in quattro diverse occasioni perché l’aveva costruita senza permessi, che Israele rende per i palestinesi quasi impossibile da ottenere. Ora però l’intensificarsi della presenza dell’esercito sta causando ai pastori della regione gravi difficoltà economiche.

“Abbiamo sempre nutrito le nostre pecore grazie alla nostra terra, sia attraverso il pascolo diretto sia alimentandole con colture coltivate sulla nostra terra, a seconda della stagione”, spiega Abu Subha. A volte poteva capitare che comprassimo un po’ di foraggio in caso di carenza. Ho guadagnato abbastanza soldi per me e la mia famiglia. Ma poi la Corte dell’occupazione ha deciso di dare il via libera all’esercito per l’addestramento militare nel mezzo del nostro villaggio, proprio nel cuore della nostra terra e dei nostri pascoli naturali.

“Questo è stato l’anno più difficile della mia vita”, continua. Ho una famiglia e dei figli, alcuni dei quali vanno a scuola e alcuni sono ancora troppo piccoli. Ma hanno tutti delle necessità, come vestiti, cibo e materiale scolastico di base. Prima non mi preoccupavo di questi bisogni perché ero in grado di soddisfarli facilmente, ma oggi non posso.

Le difficoltà finanziarie hanno avuto un impatto profondamente emotivo su Abu Subha. Un giorno stavo uscendo per andare in città a comprare delle cose per la casa, e mio figlio, che non ha nemmeno quattro anni, mi ha detto: ‘Papà, ho bisogno di scarpe nuove, le mie scarpe sono rotte,’ e ho dovuto dirgli che non c’erano abbastanza soldi. Cosa dovrei fare? Volevo piangere. Volevo urlare. Cerco il più possibile di stare calmo di fronte alla mia famiglia in modo che possano trarre forza da me. Ma in realtà avrei voglia di piangere.

Un anno dopo la terribile sentenza è evidente quanto devastante sia già stato l’impatto sulla vita dei pastori palestinesi a Masafer Yatta, dove il bestiame è considerato un pilastro della vita e da cui dipende la stabilità economica delle famiglie. I cambiamenti che hanno avuto luogo nell’area, concedendo all’esercito israeliano il diritto di fare tutto ciò che vuole in mezzo ai nostri villaggi, sono una condanna a morte di civili. Rendono le nostre vite insostenibili; sono un crimine contro l’umanità. Questa sentenza deve essere abrogata e ai palestinesi deve essere concesso il diritto di vivere in sicurezza sulla loro terra e nelle loro case.

Hamdan Mohammed Al-Huraini è un attivista e difensore dei diritti umani di Susiya. Documenta gli abusi dell’occupazione contro i palestinesi a Masafer Yatta ed è membro del progetto Humans of Masafer Yatta. E’anche impegnato come ricercatore volontario sul campo con B’Tselem e altre organizzazioni per i diritti umani.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dopo proteste una conferenza rinuncia alla presenza di un archeologo israeliano per i legami della sua università con una colonia illegale

Oren Ziv

28 maggio 2023 – +972 Magazine

Data l’illegalità degli scavi in un territorio occupato, alcuni archeologi hanno criticato la partecipazione a un evento internazionale di due studiosi dell’Università di Ariel.

La scorsa settimana, in seguito alle pressioni di altri colleghi ricercatori, un convegno internazionale ha annullato la conferenza di un archeologo israeliano dell’università di Ariel, nella Cisgiordania occupata, mentre la presentazione di un dottorando della stessa università si è tenuta come previsto.

Diversamente da altri conferenzieri, la cui appartenenza a un’istituzione era elencata accanto ai loro nomi nel programma, il prof. David Ben Shlomo e Yair Elmakias, entrambi del Dipartimento del Territorio di Studi israeliani e archeologia, non avevano citato il loro rapporto con l’università di Ariel.

Il biennale Congresso Internazionale sull’Archeologia del Vicino Oriente Antico (ICAANE), considerato uno dei due simposi più prestigiosi sul tema, si è tenuto a Copenaghen dal 22 al 26 maggio. L’edizione di quest’anno, la tredicesima, vedeva circa 20 partecipanti di Israele, provenienti dall’Università ebraica di Gerusalemme, l’Università di Haifa, l’Università di Tel Aviv e l’Università Ben-Gurion nel Negev.

Il fatto che due studiosi dell’università-colonia fossero stati invitati è significativo sia perché l’istituzione è situata nel territorio occupato e sia perché scavare in aree occupate è considerata una violazione ai sensi del diritto internazionale.

Uno degli studiosi che si è opposto alla partecipazione di Ben Shlomo e Elmakias è Brian Boyd, co-direttore del Centro di Studi Palestinesi presso la Columbia University a New York. Boyd, in un post su Facebook, ha citato la decisione del 2013 del Congresso Archeologico Mondiale, secondo cui “non è etico per archeologi professionisti e istituzioni accademiche condurre lavori archeologici e scavi in aree occupate e governate con la forza.”

Sottolineando che “le attività delle colonie israeliane costituiscono un crimine di guerra per il diritto internazionale,” Boyd ha scritto che l’omissione dell’affiliazione istituzionale nel programma della conferenza di Ben Shlomo e Elmakias “sembra suggerire che erano bene al corrente della loro situazione legale e che l’hanno fatto per evitare critiche internazionali da parte della comunità archeologica.” Ha poi aggiornato il post con la notizia che l’intervento di Ben Shlomo era stato annullato. Boyd ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo.

Secondo il programma originario della conferenza, Ben Shlomo avrebbe dovuto presentare la sua ricerca sui ritrovamenti dell’età del ferro nel sud della valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata. Dopo la cancellazione della sua presentazione, i dettagli del suo intervento sono stati rimossi dal sito web del simposio.

Violando gli accordi di Oslo e il diritto internazionale, Ben Shlomo ha confermato a +972 la sequenza degli eventi. Ha scritto che “(gli organizzatori della conferenza) hanno cancellato la mia conferenza sugli scavi a Khirbet ‘Aujah el-Foqa vicino a Gerico nell’Area C (che è sotto il completo controllo israeliano). All’inizio l’avevano confermata, ma poi varie persone hanno protestato, in Europa il tema è delicato. Immagino specialmente perché uno degli organizzatori del simposio proviene dall’Istituto di Archeologia a Damasco.”

Nell’aprile del 2022 Elmakias, che ha comunque fatto il suo intervento, ha partecipato a un progetto che ha rimosso cumuli di terra dal monte Ebal vicino a Nablus, dove era stato rinvenuto un amuleto con un’iscrizione in ebraico, apparentemente del XIII secolo a.C., la più antica mai scoperta, anche se altri ricercatori hanno messo in dubbio tale datazione.

Il terreno era stato asportato da un sito in Cisgiordania nell’Area B, su cui Israele ha il controllo della sicurezza e l’Autorità Palestinese il controllo amministrativo. In base agli accordi di Oslo e al diritto internazionale Israele non può rilasciare permessi di scavo in questo sito e non può asportare ritrovamenti senza tale permesso.

Come riferito da Nir Hasson ad Haaretz, nel 2019 un gruppo di ricercatori americani e israeliani è arrivato al sito del monte Ebal per collaborare con la Associates for Biblical Research [organizzazione di Ricerca Biblica, ente americano che opera per dimostrare la verità storica della Bibbia, ndt.] e sotto gli auspici del consiglio regionale di Samaria, un ente della colonizzazione [israeliana]. Con l’aiuto di volontari hanno rimosso dal sito tre grandi cumuli di terra che erano stati lasciati dopo gli scavi condotti negli anni ’80, e li hanno spostati per setacciarli nel centro accademico diretto da Elmakias, dove poi hanno scoperto l’amuleto.

Rispondendo a +972 Elmakias sostiene che la sua partecipazione a Copenaghen “non fa notizia”.

Dopotutto gli organizzatori hanno accettato tutte le nostre richieste, incluso che noi apparissimo con il nome dell’università di Ariel e che presentassimo le ricerche condotte in Samaria e nella valle del Giordano.” Elmakias non ha spiegato chi aveva chiesto che la sua affiliazione istituzionale fosse omessa dal programma e se ha ricevuto una richiesta degli organizzatori in seguito alle proteste contro la sua inclusione e quella di Ben Shlomo.

Una grave erosione”

Da parte loro gli organizzatori di ICAANE hanno comunicato a +972 che essi “non discutono con esterni le situazioni individuali,” ma che il congresso “rispetta le convenzioni dell’UNESCO e che, se avesse scoperto che una presentazione avrebbe violato convenzioni, l’avrebbe esclusa dalle presentazioni o dalle pubblicazioni. Ciò può avvenire prima o dopo il congresso.”

Gli organizzatori hanno inoltre dichiarato che non sono loro a invitare i ricercatori alla conferenza, ma sono piuttosto “gli studiosi a sottomettere un estratto e un comitato decide se rientra fra i temi del congresso.” A proposito dell’omissione nel programma dell’università di Ariel hanno detto: “Se alcuni studiosi non hanno affiliazione è molto probabilmente un errore. Normalmente gli studiosi sono ben conosciuti solo per via del loro nome.”

Un rapporto pubblicato nel 2017 da Emek Shaveh e Yesh Din, gruppi per i diritti umani israeliani, afferma: “Dal punto di vista del diritto internazionale i siti archeologici e le antichità sono risorse culturali e di conseguenza appartengono ai territori occupati.” Come tali, continua il rapporto, “le attività permesse al Comandante Militare e a coloro che agiscono in suo nome sono limitate ad azioni intese a salvare o preservare antichità. Israele però interpreta in senso ampio i suoi obblighi di proteggere il patrimonio archeologico, e le sue attività archeologiche si discostano dalle restrizioni su di esso imposte in quanto potenza occupante, determinando violazioni del diritto internazionale.”

Al momento l’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) è tecnicamente responsabile degli scavi nelle zone entro i confini ufficiali di Israele, mentre gli scavi in Cisgiordania sono sotto la responsabilità della Divisione delle Antichità dell’Amministrazione Civile. Tuttavia l’attuale governo di Israele vuole trasferire la responsabilità degli scavi in Cisgiordania alla IAA, sotto l’autorità del Ministero degli Affari e del Patrimonio di Gerusalemme ora guidato da Amichai Eliyahu, del partito di estrema destra Otzma Yehudit.

Alon Arad, direttore di Emek Shaveh, [un gruppo di archeologi di sinistra che criticano gli scavi, ndt.] ha detto a +972 che “se i membri della comunità archeologica di Israele vogliono far parte della comunità professionale internazionale devono farlo secondo le regole e l’etica dell’archeologia. Sfortunatamente assistiamo a una grave erosione di tutto ciò che è relativo all’idea di Israele che la Cisgiordania non è un sito legittimo per le attività accademiche di archeologia israeliana.”

Arad ha aggiunto che in anni recenti c’è stato crescente numero di casi in cui Israele sta tentando di “applicare la sua sovranità indirettamente tramite scavi condotti da università israeliane, o più direttamente tramite IAA.” Ha avvertito che se Israele continua a ignorare il diritto internazionale a questo riguardo, “I’archeologia israeliana sarà danneggiata e gli archeologi israeliani saranno emarginati dalla comunità mondiale.”

Oren Ziv è fotogiornalista, reporter di Local Call e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il raduno filogovernativo evidenzia le divisioni interne della destra israeliana

Meron Rapoport

2 maggio 2023 – +972 Magazine

Gli alleati di estrema destra di Netanyahu sopravvalutano la loro possibilità di proseguire con la riforma giudiziaria. Ora stanno rivolgendo la pressione contro il primo ministro.

Lo scorso giovedì di fronte alla Knesset 200.000 israeliani di destra hanno chiesto al governo di proseguire con i progetti di riforma giudiziaria e di indebolimento della Corte Suprema. Uno dopo l’altro, leader dell’estrema destra, dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir a quello delle Finanze Bezalel Smotrich, si sono impegnati a non “cedere” alle proteste antigovernative che da gennaio scuotono il Paese.

Ma la manifestazione della destra, denominata la “Marcia del Milione”, riguardava molto più che i tribunali: è stata in primo luogo e soprattutto una protesta contro Benjamin Netanyahu e i suoi tentativi di congelare i progetti del governo. Ed essa dovrebbe preoccupare il primo ministro.

Il 4 gennaio il ministro della Giustizia Yariv Levin e il presidente della commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno lanciato un attacco a sorpresa per eliminare le isole di liberalismo della società israeliana. Non è del tutto chiaro quanto Netanyahu sia stato coinvolto nella pianificazione di questo violento attacco, ma dal momento in cui è stato lanciato non ha avuto altra scelta che presentarlo come suo.

Abbiamo già visto in precedenza situazioni politiche simili nella storia di Israele. Oggi sappiamo che nel 1982 il primo ministro Menachem Begin non era al corrente del fatto che il ministro della Difesa Ariel Sharon e il capo di stato maggiore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] Rafael Eitan avevano da tempo stilato piani d’emergenza per invadere il Libano. Ma ciò non impedì a Begin di approvare l’operazione o di fare nelle prime fasi della guerra tour della vittoria nel Libano occupato.

È molto probabile che la dinamica tra Netanyahu, Levin e Rothman sia simile a quella tra Begin, Sharon ed Eitan. Sia nella riforma giudiziaria che nella prima guerra del Libano l’attacco era basato sulla convinzione che l’altra parte fosse troppo debole e divisa per opporre resistenza. Ma questa convinzione si è molto presto dimostrata errata, o quanto meno non ha preso in considerazione le conseguenze a vasto raggio che avrebbe avuto un simile attacco. E appena esso ha incontrato difficoltà, anche la posizione del governo è stata danneggiata.

Levin e Rothman credevano che il destino della riforma giudiziaria sarebbe rimasto circoscritto alla Knesset e che di conseguenza una maggioranza di 64 deputati sarebbe stata sufficiente per far approvare qualunque cosa volessero. Non avevano previsto le massicce manifestazioni e la mobilitazione dell’industria dell’innovazione tecnologica e dei leader dell’economia contro la riforma giudiziaria. Sicuramente non avevano previsto che l’opposizione avrebbe incluso il rifiuto di massa dell’élite militare, compresi piloti, forze speciali e unità cibernetiche. E sicuramente non immaginavano che il presidente USA si sarebbe messo davanti alle telecamere e avrebbe detto che Israele “sta andando nella direzione sbagliata”, e che quindi non aveva intenzione di incontrare Netanyahu nel prossimo futuro. In breve, hanno sottostimato sia il potere della società civile che l’importanza della legittimazione internazionale ed hanno scoperto in carne propria che queste forze sono molto più forti di quanto pensassero inizialmente.

Cosa altrettanto importante, Levin e Rothman hanno sovrastimato il proprio potere. Nel loro attacco violento hanno scoperto che la loro coalizione era molto più debole di quanto pensassero. Parti consistenti della classe media mizrahi [ebrei israeliani originari dei Paesi arabi o musulmani, ndt.], che rappresenta un settore significativo della base elettorale del Likud, sono titubanti o persino contrarie alla riforma, come evidenziato dalle manifestazioni antigovernative in bastioni della destra come Netanya o Be’er Sheva. Persino gli haredim [ebrei religiosi ultraortodossi, ndt.], che per ragioni loro vogliono annientare il potere della Corte Suprema, hanno scelto di tenere una posizione neutrale ora che il progetto di riforna giudiziaria ha incontrato difficoltà.

Quindi non è un caso che alla “Marcia del Milione di Persone” non non abbiano partecipato quasi per nulla haredim o sostenitori del Likud. Si è trattato principalmente di una manifestazione della destra dei coloni religiosi, dei kahanisti [sostenitori del defunto rabbino di estrema destra Meir Kahane, ndt.] e di elementi fascisti nel Likud che, secondo un sondaggio di Canale 12 [canale televisivo israeliano privato, ndt.], rappresentano una minoranza nel partito.

I risultati sono difficilmente discutibili. La sessione invernale della Knesset si è conclusa senza che neppure una delle riforme di Levin venisse approvata. L’attacco di sorpresa è stato sconfitto alla prima battaglia. Ed è qui che Netanyahu è entrato in campo. Dal momento in cui ha capito che l’assalto aveva perso impeto e che ciò avrebbe potuto provocare enormi danni a Israele, alla stabilità della coalizione e, ovviamente, a lui stesso, ha iniziato a cercare di congelarlo. Levin e Rothman, che sono stati obbligati a passare dalla loro euforia ad affrontare la realtà, hanno dovuto accettare. Questo naturalmente non significa che Netanyahu pianifichi di accantonare totalmente la riforma – appoggia ancora l’indebolimento del sistema giudiziario e il rafforzamento del potere esecutivo – ma sa di avere, almeno a questo punto, la strada bloccata.

Una lotta tutt’altro che finita

Netanyahu vuole piuttosto che il governo ritorni alla guerra di trincea, aspettando il momento giusto per colpire. Per anni la guerra di posizione, quello che alcuni definiscono come “status quo”, è stata la specialità di Netanyahu. Attaccherà le “élite”, abbracciando nel contempo l’industria tecnologicamente avanzata. Dirà che “la sinistra ha dimenticato cosa significhi essere ebreo”, glorificando nel contempo la liberale Tel Aviv e le libertà per la comunità LGBTQ. Parlerà apertamente della soluzione a due Stati, cancellando nel contempo la Linea Verde e annientando l’Autorità Nazionale Palestinese. Venderà Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, dimostrando nel contempo un palese disprezzo per le leggi internazionali.

Nel 1982 Ariel Sharon parlò di “pace in Galilea”, il macabro nome dato a una guerra che intendeva porre il chiodo finale sulla bara del nazionalismo palestinese con l’occupazione di Beirut e l’installazione di un regime filo-israeliano in Libano. Nel 2023 Levin e i suoi amici parlano di “riforma giudiziaria”, ma di fatto intendono formalizzare in pieno la supremazia ebraica tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

È così che i leader della riforma, come molti dell’opposizione, vedono il concetto di “democrazia ebraica”: un Paese governato solo dagli ebrei e che si preoccupa solo di loro. La recente proposta da parte di membri del [partito] kahanista Otzma Jehudit [Potere Ebraico], in base alla quale i cosiddetti “valori del sionismo guideranno” lo Stato, è emblematico di questa visione. Distruggere il sistema giudiziario ed eliminare il potere dei settori liberali della società ebraica è un semplice danno collaterale lungo la strada di questo obiettivo.

La comprensione, conscia o inconscia, che questo è il reale obiettivo della riforma può spiegare la generale assenza dalla manifestazione di giovedì della base del Likud, a buona parte della quale importano i valori “liberali”, e degli haredim, molti dei quali non sono ossessionati dalla distruzione del nazionalismo palestinese.

Proprio perché Levin, Rothman e i loro amici vedono sé stessi come rivoluzionari, essi considerano Netanyahu un residuo dell’“Ancien Régime”. Come tale gli propongono una scelta praticamente impossibile: o mettersi l’uniforme da guerra e attaccare insieme la Corte in quella che attualmente appare una battaglia persa, o rischiare di far cadere il suo governo, il che potrebbe aumentare le possibilità che venga condannato e spedito in carcere con accuse di corruzione. La manifestazione di giovedì intendeva ricordargli questa amara verità.

Il fatto che la guerra lampo di Levin e Rothman abbia fallito non significa che rinuncino alla lotta. Al contrario, sembrano ancor più determinati a far approvare la riforma. Quello che complica ulteriormente la situazione è il fatto che neppure il movimento di protesta israeliano sa cosa fare del suo sorprendente successo nel respingere la destra. Sembra che le parti più conservatrici del movimento siano pronte ad accettare l’idea di una guerra di trincea, del ritorno allo status quo e della preservazione delle loro significative posizioni di potere nella società, nell’economia e nell’esercito israeliani.

Eppure pare che ci sia anche una parte del movimento di protesta che intende approfittare di questo momento per cambiare radicalmente le regole del gioco e spingere Israele a diventare una vera democrazia, attraverso la stesura di una costituzione oppure con l’approvazione di una Legge Fondamentale che sancisca l’uguaglianza per tutti. Questo segmento è in sintonia con le richieste di non tornare al “vecchio ordine”, sia che si tratti dei rapporti tra ashkenaziti e mizrahi o tra ebrei e arabi, o dell’occupazione. Ma questa parte del movimento è ancora debole e non ha un vero piano su come realizzare questo cambiamento radicale.

Proprio come la “Marcia del Milione”, nonostante il suo relativamente grande numero di partecipanti, non è riuscita a nascondere le crepe all’interno del campo della destra, così il successo del movimento di protesta non è riuscito a nascondere le sue divisioni o il fatto che non ha una visione condivisa su come agire. Una cosa è certa: questa lotta è tutt’altro che finita.

Meron Rapoport è un editorialista di Local Call [l’edizione in ebraico di +972 Magazine, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una tragedia anglo-israeliana nata dall’occupazione

Ben Reiff

11 aprile 2023 – +972 Magazine

Omettere il contesto violento in cui sono avvenute le uccisioni della famiglia Dee equivarrebbe a condannare innumerevoli altri palestinesi e israeliani allo stesso destino.

Tributi sono giunti ai notiziari tv e ai social media per Rina e Maia Dee,15 e 20 anni, le sorelle anglo-israeliane uccise lo scorso venerdì in attacco con armi da fuoco nella Cisgiordania occupata, e per la loro madre Lucy morta all’inizio della settimana in seguito alle ferite subite. Le tre viaggiavano in un’auto nelle vicinanze dello svincolo di Hamra nella valle del Giordano quando sarebbero state colpite da una violenta scarica di proiettili. L’esercito israeliano sta ora conducendo una caccia all’uomo per trovare i sospettati palestinesi. 

La famiglia Dee era emigrata nove anni fa dal Regno Unito nella colonia cisgiordana di Efrat: Leo, il padre delle ragazze e marito di Lucy, era stato in precedenza rabbino in due congregazioni ortodosse nel nord di Londra. “Non ci sono parole per descrivere la profondità del nostro sgomento e dolore nel ricevere la notizia dell’omicidio,” ha twittato il rabbino capo britannico Ephraim Mervis all’annuncio delle morte delle sorelle, aggiungendo che erano “molto amate” nel Regno Unito e in Israele. Alla notizia che anche Lucy era morta ha twittato: “Il nostro dolore indescrivibile è ancora più profondo.” 

Lunedì il rabbino Dee in lacrime ha detto ai media che “la nostra famiglia di sette persone si è ridotta a quattro,” dopo che Lucy, Maia, e Rina sono state sepolte nel cimitero regionale di Gush Etzion nella colonia di Kfar Etzion. Perdere un membro della famiglia, specie se giovane, è una tragedia insopportabile, non si può immaginare il dolore che il rabbino Dee e i figli rimasti stanno sopportando dopo averne persi tre in una volta. 

Pur riconoscendo tale perdita straziante, da quasi tutti questi tributi e racconti manca un dettaglio importante: l’occupazione militare israeliana. Inserire questo elemento non vuole giustificare l’assassinio delle Dee, al contrario. Ma ignorarlo significherebbe fraintendere il contesto in cui sono vissute e sono state uccise, e così condannare molti altri allo stesso destino.

Come centinaia di migliaia di israeliani che abitano in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, i Dee sono diventati parte integrante del progetto israeliano di espansione coloniale nei territori occupati. Colonie come Efrat, che sembra una normale cittadina o sobborgo israeliano serve ad ammassare i palestinesi in bantustan sempre più piccoli per massimizzare il territorio a disposizione degli ebrei, inclusi quelli che arrivano dall’estero. 

Dal 1967 Israele ha rubato oltre 2 milioni di dunam (200.000 ettari) di terre di proprietà privata palestinese in Cisgiordania per fondare centinaia di colonie e avamposti esclusivamente per ebrei, oltre alle infrastrutture necessarie per collegarli fra di loro e con il resto dello Stato. Ognuna di queste colonie è illegale ai sensi del diritto internazionale e viola la Quarta Convenzione di Ginevra che vieta esplicitamente alla potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nei territori occupati. 

Successivi governi israeliani hanno incoraggiato attivamente i propri cittadini a trasferirsi in queste zone offrendo ogni tipo di incentivi finanziari: edilizia sovvenzionata, scuole e trasporti, sgravi fiscali e persino stipendi più alti nel settore pubblico. Tutto ciò va ad aggiungersi a radicate ideologie religiose e suprematiste che ispirano i settori più radicali del movimento dei coloni, sebbene non sia un segreto che tali opinioni sono in molti casi concretamente indotte o facilitate dallo Stato. 

In Israele queste colonie illegali sono totalmente normalizzate e si sono espanse per ospitare circa tre quarti del milione dei suoi cittadini ebrei. Ma l’esistenza stessa delle colonie, oltre all’esteso furto di terre che ha reso possibile la loro costruzione ed espansione, richiede la costante sottomissione della popolazione palestinese dei territori. 

Questa violenza assume varie forme: un esercito che, dall’inizio dell’anno, ha già ucciso circa 90 palestinesi in Cisgiordania, compresi 18 minori, una vasta rete di checkpoint militari che limitano pesantemente la libertà di movimento dei palestinesi e un muro di separazione che penetra profondamente nella Cisgiordania, confiscando altre terre, una misura definita illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia. 

Che un’oppressione di tal sorta generi resistenza, anche scoppi violenti, non dovrebbe sorprendere: è una verità vecchia come la storia che popoli sottomessi lottino contro le società che le opprimono mentre combattono per la libertà. In una pubblicità profetica pubblicata da Haaretz nel settembre 1967, solo pochi mesi dopo l’inizio dell’occupazione, attivisti israeliani affiliati al gruppo radicale di sinistra Matzpen si metteva in guardia: “Tenere i territori occupati ci trasformerà in una Nazione di assassini e vittime di assassini.” 

Quella frase sarebbe suonata vera anche due decenni prima, quando, durante la Nakba del 1948, forze sioniste espulsero oltre 750.000 palestinesi il cui ritorno Israele ha continuato a impedire con la forza sin d’allora costruendo città ebraiche sulle macerie dei villaggi palestinesi. L’obiettivo allora era lo stesso di oggi: mantenere la supremazia ebraica sulla terra.

È possibile ripudiare atti di violenza senza negare le condizioni che rendono tale violenza inevitabile. Eppure è esattamente quello che moltissime reazioni all’uccisione delle Dee stanno facendo, omettendo il brutale sistema di dominio imposto ai palestinesi e perciò rendendo le loro azioni incomprensibili, motivate esclusivamente da sete antisemita di sangue. Evitando di fare i conti direttamente con quel sistema, garantiscono che niente cambierà prima che il prossimo attacco faccia altre vittime.

Mantenere l’occupazione è una semplice questione di scelta, nonostante i complessi meccanismi e la burocrazia. Quante altre persone moriranno prima che Israele scelga di porvi fine?

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)