Come l’Intelligenza Artificiale sta intensificando i bombardamenti israeliani su Gaza

Sophia Goodfriend

6 giugno 2023 – +972 Magazine

Con gli algoritmi che rendono più facile sostenere una guerra, le armi automatizzate hanno trasformato gli assalti israeliani contro i palestinesi assediati in un evento annuale.

“I cieli sopra Gaza sono pieni di bombe israeliane”, mi ha detto Anas Baba quando abbiamo discusso su WhatsApp qualche settimana fa, subito dopo che l’esercito israeliano e la Jihad islamica avevano raggiunto un labile cessate il fuoco successivamente all’ultima offensiva israeliana sulla Striscia bloccata, che ha ucciso 33 persone e ne ha ferite altre decine. Nonostante gli attacchi dei droni fossero cessati, persisteva il ronzio incessante degli UAV [droni, ndt.]. Il loro suono ricordava come ha detto Baba, un giornalista di Gaza che la guerra costituisce ormai un evento con cadenza annuale.

Nel corso dei 16 anni dall’inizio dell’assedio così tante famiglie palestinesi hanno perso la casa nei ripetuti bombardamenti della Striscia che la ricostruzione non ha mai fine ed è resa ancora più difficile dal coinvolgimento di numerose organizzazioni e governi che offrono una assistenza umanitaria limitata. E a causa dell’alto numero di persone interessate e della ingente quantità di fondi necessari per ricostruire, spiega Baba, le famiglie potrebbero trovarsi in lista d’attesa per anni.

I bombardamenti israeliani su Gaza stanno diventando più frequenti grazie alle innovazioni nell’intelligenza artificiale (AI) e a un esercito che si piega ai dettami di governi sempre più di destra. L’esercito si vanta che le unità di intelligence ora possono individuare obiettivi – un processo che richiedeva anni – in appena un mese. Anche se cresce il bilancio delle vittime nei territori occupati le evidenze di questa crisi umanitaria raramente fanno breccia nell’opinione pubblica ebraico-israeliana, barricata dietro censori militari, sistemi di difesa missilistica e semplice indifferenza. Invece, la violenza nella regione viene analizzata attraverso il linguaggio salvifico dell’innovazione tecnologica.

Sulla stampa israeliana queste guerre si svolgono secondo uno schema familiare. Nuove offensive militari su Gaza vengono annunciate come l’uscita di un tanto atteso videogioco della serie Call of Duty. L’esercito satura le pagine dei social media con immagini epiche di soldati armati, mentre nomi biblici evocano una potenza militare di proporzioni mitologiche. Poi i missili piovono su Gaza, spazzando via le infrastrutture, le case e le vite dei palestinesi, mentre le sirene d’allarme per i razzi invitano gli abitanti del sud di Israele a correre nei rifugi fortificati.

Nei giorni successivi all’accordo sul cessate il fuoco i generali fanno il loro giro dei media per parlare delle innovazioni nell’automazione, rivelate nel corso dell’ultimo assalto. Sciami di droni assassini diretti da algoritmi di supercalcolo, che possono sparare e uccidere con un minimo intervento umano, sono celebrati allo stesso modo in cui i CEO della Silicon Valley elogiano i chatbot [gli algoritmi alla base del funzionamento delle chat, ndt.]. Mentre il mondo fa i conti con gli sviluppi fuori controllo dell’AI, ogni guerra intrapresa contro Gaza dall’arsenale militare automatizzato di Israele illustra il costo umano di questi sistemi.

“Un moltiplicatore di forza”

La guerra è sempre stata un’occasione per i militari per il commercio di armi. Ma poiché i bombardamenti asimmetrici di Israele su Gaza sono diventati eventi con cadenza annuale l’esercito ha iniziato a definirsi una sorta di pioniere che esplora il territorio sconosciuto della guerra automatizzata. Le IDF [esercito israeliano,ndt.] hanno proclamato di aver condotto la “prima guerra AI al mondo” nel 2021 – l’offensiva di 11 giorni su Gaza denominata in codice Operation Guardian of the Walls” [Operazione Guardiano delle Mura, ndr.] che, secondo B’tselem, ha ucciso 261 palestinesi ferendone 2.200. I droni hanno spazzato via intere famiglie, danneggiato scuole e cliniche mediche e fatto esplodere grattacieli che ospitavano famiglie, aziende e uffici dei media lontani da qualsiasi obiettivo militare.

Mentre 72.000 palestinesi erano sfollati e altre migliaia piangevano i morti, i generali israeliani si vantavano di aver rivoluzionato la guerra. “L’intelligenza artificiale è stata un moltiplicatore di forza per le IDF”, si sono vantati gli ufficiali, descrivendo in dettaglio come sciami di droni robotici avessero accumulato dati di sorveglianza, individuato obiettivi e sganciato bombe con un intervento umano minimo.

Lo schema si è ripetuto poco più di un anno dopo. Nell’agosto 2022 le IDF hanno lanciato un’offensiva di cinque giorni contro Gaza, denominata “Operazione Breaking Dawn” [sorgere dell’alba, ndt.], che ha causato la morte di 49 palestinesi, inclusi 17 civili. Missili sono esplosi per le strade del campo profughi di Jabalia, uccidendo sette civili, fuori dalle loro case a causa delle interruzioni di corrente. I droni hanno colpito anche un vicino cimitero uccidendo dei bambini che giocavano in un raro lembo di spazio aperto.

Sulla scia della distruzione l’esercito ha lanciato un’altra curatissima campagna di pubbliche relazioni, infrangendo un divieto pluridecennale di discutere apertamente dell’uso nelle operazioni militari di droni basati sull’intelligenza artificiale. Il Brigadier Generale Omri Dor, comandante della base aerea di Palmachim, ha dichiarato al Times of Israel [quotidiano online israeliano, ndt.] che i droni dotati di intelligenza artificiale hanno conferito all’esercito una “precisione chirurgica” nell’assalto, consentendo alle truppe di ridurre al minimo “danni collaterali o danni a altre persone”.

Tuttavia, come tutte le autopromozioni, tali annunci sono un esercizio di autoesaltazione. Per cominciare, nel 2021 Israele non ha condotto la “prima guerra AI” al mondo. Droni, sistemi di difesa missilistica e guerra informatica sono stati usati per decenni in tutto il mondo e piuttosto che l’esercito israeliano sono gli Stati Uniti ad essere spesso considerati il vero pioniere.

Ad esempio in Vietnam sensori e centinaia di computer IBM hanno aiutato le truppe statunitensi a rintracciare, localizzare e uccidere i combattenti vietcong – e molti civili – in attacchi aerei letali. Quando i soldati statunitensi sono entrati in Iraq, lo stesso hanno fatto i robot armati di fucili e in grado di far saltare in aria esplosivi. Dalla fine degli anni 2000 la maggior parte dei governi ha incorporato nei propri arsenali militari e di sorveglianza sistemi di apprendimento automatico. Oggi sciami di droni automatizzati hanno ucciso militanti e civili nelle guerre in Libia e Ucraina.

È stato quindi un problema di saturazione del mercato a motivare l’esercito israeliano a trasformare gli attacchi contro Gaza in campagne pubblicitarie coordinate. Nel 2021 gli esperti di intelligenza artificiale hanno lanciato l’allarme sui droni assassini di fabbricazione turca che potrebbero sciamare e uccidere obiettivi senza intervento umano. La Cina è stata presa di mira per aver esportato sistemi d’arma automatizzati – da sottomarini robotici a droni invisibili – in Pakistan e Arabia Saudita.

Vedendo questo i trafficanti israeliani di armi hanno temuto che altri Paesi potessero eclissare il vantaggio competitivo della “nazione start-up” sulle esportazioni di armi a favore di regimi con sordidi primati a proposito di diritti umani. “E’ovvio che le cose sono cambiate e che Israele deve cambiare atteggiamento se non vuole perdere altri potenziali mercati”, ha detto un alto funzionario militare israeliano in una newsletter dell’industria della difesa dopo l’operazione dell’agosto 2022.

I loro sforzi sono stati ripagati: dopo Guardian of the Walls le esportazioni di armi di Israele hanno raggiunto nel 2021 il massimo storico. Tra i ripetuti bombardamenti su Gaza e con la guerra che infuria in Ucraina, quel numero probabilmente aumenterà.

Nuovi pericoli

L’ubiquità della guerra dell’IA non significa che questa tecnologia debba essere implementata senza salvaguardie e limitazioni. Gli algoritmi possono davvero rendere più efficienti molti aspetti della guerra, dalla guida dei missili all’esame delle informazioni al monitoraggio dei valichi di frontiera. Eppure gli esperti elencano una litania di pericoli posti da questi sistemi: dalla disumanizzazione digitale che riduce gli esseri umani a codici a barre per una macchina in grado di determinare chi dovrebbe vivere o morire, a un costo e una soglia ridotti per un sistema bellico che sostituisce le truppe di terra con algoritmi. Gran parte delle armi sul mercato sono piene di problemi tecnici, per cui si dice identifichino erroneamente gli obiettivi o siano pre-programmate per uccidere determinati gruppi demografici con maggiore frequenza. Anche se riducono il numero di civili uccisi in un singolo bombardamento, come affermano i loro sostenitori, i sistemi d’arma automatizzati rischiano di rendere le battaglie più frequenti e più facili da sostenere facendo sì che la guerra si trascini senza che se ne veda la fine.

Questo è il caso di Gaza. Come afferma Baba, il giornalista: Con una popolazione di 2,3 milioni di persone in un’area di meno di 45 chilometri, Gaza è uno dei luoghi più densamente popolati del mondo. Non importa quanto siano avanzate le tecnologie utilizzate, ogni bombardamento israeliano sulla Striscia uccide innumerevoli spettatori innocenti. “I civili sono spesso vittime del fuoco incrociato”, aggiunge.

Dal 2021, quando Israele ha iniziato a promuovere pubblicamente l’uso dell’intelligenza artificiale nelle operazioni militari, negli attacchi annuali di Israele oltre 300 palestinesi sono stati uccisi e altre migliaia sono stati feriti e sfollati; nei ripetuti assalti infrastrutture vitali come i sistemi fognari e le reti elettriche sono state irrimediabilmente danneggiate. L’automazione potrebbe aver consentito a Israele – se avesse potuto raccogliere le forze e il sostegno politico – di non inviare truppe di terra, impedendo perdite di vite umane dalla sua parte, ma soprattutto la tecnologia ha semplicemente reso più frequente la caduta delle bombe e l’uso di proiettili.

Gli esperti politici discutono spesso dei pericoli posti dai sistemi d’arma automatizzati nel futuro. Ma il costo umano è già evidente in tutta la Palestina. “Abbiamo assistito a lungo alle prove dell’uso da parte di Israele dei TPO [territori palestinesi occupati, ndt.], in particolare di Gaza, come laboratorio per testare e dispiegare tecnologie di armi sperimentali”, ha detto a +972 Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

Shakir sottolinea che tali armi utilizzate in Cisgiordania e a Gaza, dai droni alla biometria alle torrette potenziate dall’intelligenza artificiale, “servono ad automatizzare l’uso illegale della forza e dell’apartheid da parte di Israele contro i palestinesi”. Data la centralità di Israele nei mercati globali delle armi, Shakir ritiene che “è solo una questione di tempo prima che i sistemi d’arma schierati oggi da Israele finiscano negli angoli più remoti del globo”.

I sostenitori dei diritti digitali hanno anche avvertito che le armi sviluppate in Palestina causeranno il caos se esportate all’estero, sottolineando che questi sistemi provengono da contesti politici in cui il pregiudizio contro i palestinesi è fondamentale. Ad esempio, se l’esercito israeliano ha fornito agli operatori delle istruzioni secondo cui in attacchi con droni un certo numero di non combattenti potrebbe essere ucciso, come +972 ha riportato l’anno scorso, questo numero è replicato negli algoritmi che guidano i missili di precisione? Se i soldati israeliani che gestiscono posti di blocco hanno il compito di detenere temporaneamente uomini palestinesi di una certa età, i nuovi confini biometrici, come riportato di recente da Amnesty International, raccomanderanno la detenzione di tutti coloro che rientrano in questo gruppo demografico? Come ha spiegato Mona Shtaya, direttrice del sistema di patrocinio di 7amleh [associazione no profit che favorisce l’uso del digitale tra i palestinesi in particolare a sostegno dei loro diritti, ndt.]: “Se i dati sono distorti, il risultato finale del prodotto sarà sbilanciato contro i palestinesi”.

L’esercito israeliano non sembra preoccupato dal ritmo di tale sviluppo dell’IA. Cosa fa ChatGPT? Distilla la conoscenza, l’intuizione di cui hai bisogno “, ha affermato il colonnello Uri, comandante della nuova unità di ricerca e informazione sull’IA delle IDF, durante una rara intervista a febbraio. C’è un limite alle tue capacità come essere umano. Se stessi seduto una settimana per elaborare le informazioni potresti giungere alla stessa identica conclusione. Ma una macchina può fare in un minuto ciò che ti richiederebbe una settimana.

Questo tecno-ottimismo si ritrova in tutti i ranghi militari di Israele e lo ha aiutato a giustificare la guerra in corso. I comandanti delle unità di intelligence d’élite hanno volantini auto-pubblicati che esaltano una “sinergia uomo-macchina”. Altri occupano posizioni chiave in aziende di armi come Elbit Systems, desiderose di esportare sistemi d’arma automatizzati in tutto il mondo. Quando a febbraio 60 paesi, tra cui Cina e Stati Uniti, hanno stilato un “invito ad agire” in gran parte simbolico a sostegno dell’uso responsabile dell’IA militare Israele ha rifiutato di firmare la dichiarazione. Invece, i comandanti di alto rango paragonano i robot assassini alle chatbot, scimmiottando i dirigenti tecnologici della Silicon Valley che affermano che l’intelligenza artificiale potrà solo migliorare la vita umana.

La vastità della distruzione in una Gaza assediata rende sempre più difficile credere a tali affermazioni. Se l’ultimo bombardamento rivela qualcosa è che anche le armi tecnologicamente più avanzate non possono compensare il costo umano della guerra, non importa quanto sofisticati siano gli algoritmi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“L’anno più difficile della mia vita”: i pastori di Masafer Yatta soffrono sotto la minaccia di espulsione

Hamdan Mohammed Al-Huraini,

5 giugno 2023 – +972 Magazine

L’escalation della repressione da parte di Israele dopo la sentenza dell’Alta Corte dello scorso anno ha avuto un grave impatto sui pastori palestinesi, un pilastro della sopravvivenza delle loro comunità.

Per quanto ne ho memoria qui a Masafer Yatta, nella regione delle colline a sud di Hebron nella Cisgiordania occupata, i pastori hanno pascolato liberamente le loro pecore ogni primavera per migliaia di dunam [1 dunum equivale a 1000 mq, ndt.] di terra. Si spostavano tra pascoli abbondanti, senza bisogno di acquistare acqua o foraggio per i loro animali, perché l’approvvigionamento era abbondante. Fintanto che i nostri villaggi dipenderanno dall’agricoltura e dal bestiame [la pastorizia] è qualcosa di più di una forma di sussistenza: è il nostro modo di vivere tradizionale.

Ma un anno fa, tutto è cambiato. Nel maggio 2022 l’Alta Corte dell’occupazione israeliana si è pronunciata contro gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta e a favore dell’esercito israeliano che ha trasformato l’area in una “zona di tiro” per l’addestramento militare. In conseguenza della sentenza della corte, l’esercito ha intensificato la sua repressione contro i palestinesi della zona per cercare di espellerci con la forza dalla terra in cui i nostri antenati hanno vissuto per secoli. E queste politiche hanno avuto un impatto particolarmente grave sui pastori.

Tutto è proibito con il pretesto che viviamo in una zona di addestramento di tiro, anche pascolare le pecore”, spiega Issa Makhamra del villaggio di Jinba, accanto al quale in seguito alla decisione della corte l’esercito israeliano ha stabilito una nuova base. Ogni volta che andiamo da qualche parte istituiscono un posto di blocco. Quando voglio andare in città devo attraversare questo posto di blocco e vengo fermato e trattenuto per lunghe ore. Te lo giuro, se l’esercito riuscisse a tenerci lontano dalla luce del sole e dall’aria, lo farebbe.»

Muhammad Ayoub Abu Subha, un altro pastore del villaggio di Al-Fakheit, era solito pascolare il suo gregge di pecore attraverso i pascoli della sua terra. Ma nell’ultimo anno l’accesso a quella terra è diventato impossibile. “L’esercito ha chiuso le strade e istituito posti di blocco”, dice. I nostri raccolti agricoli sono stati distrutti da carri armati, bulldozer e veicoli militari, e ci è stato impedito di raggiungere i nostri pascoli con il pretesto che questa zona era diventata proprietà dell’esercito. Non avrei mai immaginato che la mia casa, che è di mia proprietà, sarebbe diventata un’area chiusa. Mi sento come se stessi impazzendo e perdendo la testa.

Poiché migliaia di dunam di pascoli naturali sono andati perduti i pastori di Masafer Yatta devono ora acquistare il foraggio da città vicine come Yatta e poi trasportarlo a prezzi esorbitanti. Sempre che siano in grado di trasportarlo, dato il forte dispiegamento dell’esercito in tutta l’area e il fatto che i soldati spesso confiscano le auto dei palestinesi e arrestano i conducenti con il pretesto che si trovano all’interno di una zona di addestramento militare.

Lo scorso inverno Makhamra è stato trattenuto presso un posto di blocco eretto dall’esercito all’ingresso di Jinba. Avevo bisogno di comprare il foraggio per le mie pecore, quindi sono andato con un trattore. Quando ho raggiunto il posto di blocco non hanno permesso all’autista di entrare e l’hanno costretto a mettere il foraggio a terra vicino al posto di blocco. Avevo paura che piovesse e che il foraggio si deteriorasse, così ho prelevato dal villaggio mio figlio insieme ad un gruppo per trasportare il foraggio sugli asini per oltre 500 metri. Questo è un semplice esempio di ciò che ci accade quotidianamente a causa del divieto di raggiungere i nostri pascoli, della confisca della nostra terra, della distruzione delle strade e dell’uso dei posti di blocco”.

“Volevo urlare e piangere”

La vita a Masafer Yatta non era certo facile prima della sentenza della corte dello scorso anno. I residenti sono stati a lungo esposti alla medesima violenza da parte dei coloni israeliani e alle restrizioni dell’esercito che hanno lo scopo di cacciare i palestinesi dalle loro case in gran parte delle zone agricole della Cisgiordania, in modo che la loro terra possa essere espropriata per ulteriori insediamenti coloniali ebraici.

Abu Subha, ad esempio, ha visto demolire la sua casa dall’esercito in quattro diverse occasioni perché l’aveva costruita senza permessi, che Israele rende per i palestinesi quasi impossibile da ottenere. Ora però l’intensificarsi della presenza dell’esercito sta causando ai pastori della regione gravi difficoltà economiche.

“Abbiamo sempre nutrito le nostre pecore grazie alla nostra terra, sia attraverso il pascolo diretto sia alimentandole con colture coltivate sulla nostra terra, a seconda della stagione”, spiega Abu Subha. A volte poteva capitare che comprassimo un po’ di foraggio in caso di carenza. Ho guadagnato abbastanza soldi per me e la mia famiglia. Ma poi la Corte dell’occupazione ha deciso di dare il via libera all’esercito per l’addestramento militare nel mezzo del nostro villaggio, proprio nel cuore della nostra terra e dei nostri pascoli naturali.

“Questo è stato l’anno più difficile della mia vita”, continua. Ho una famiglia e dei figli, alcuni dei quali vanno a scuola e alcuni sono ancora troppo piccoli. Ma hanno tutti delle necessità, come vestiti, cibo e materiale scolastico di base. Prima non mi preoccupavo di questi bisogni perché ero in grado di soddisfarli facilmente, ma oggi non posso.

Le difficoltà finanziarie hanno avuto un impatto profondamente emotivo su Abu Subha. Un giorno stavo uscendo per andare in città a comprare delle cose per la casa, e mio figlio, che non ha nemmeno quattro anni, mi ha detto: ‘Papà, ho bisogno di scarpe nuove, le mie scarpe sono rotte,’ e ho dovuto dirgli che non c’erano abbastanza soldi. Cosa dovrei fare? Volevo piangere. Volevo urlare. Cerco il più possibile di stare calmo di fronte alla mia famiglia in modo che possano trarre forza da me. Ma in realtà avrei voglia di piangere.

Un anno dopo la terribile sentenza è evidente quanto devastante sia già stato l’impatto sulla vita dei pastori palestinesi a Masafer Yatta, dove il bestiame è considerato un pilastro della vita e da cui dipende la stabilità economica delle famiglie. I cambiamenti che hanno avuto luogo nell’area, concedendo all’esercito israeliano il diritto di fare tutto ciò che vuole in mezzo ai nostri villaggi, sono una condanna a morte di civili. Rendono le nostre vite insostenibili; sono un crimine contro l’umanità. Questa sentenza deve essere abrogata e ai palestinesi deve essere concesso il diritto di vivere in sicurezza sulla loro terra e nelle loro case.

Hamdan Mohammed Al-Huraini è un attivista e difensore dei diritti umani di Susiya. Documenta gli abusi dell’occupazione contro i palestinesi a Masafer Yatta ed è membro del progetto Humans of Masafer Yatta. E’anche impegnato come ricercatore volontario sul campo con B’Tselem e altre organizzazioni per i diritti umani.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dopo proteste una conferenza rinuncia alla presenza di un archeologo israeliano per i legami della sua università con una colonia illegale

Oren Ziv

28 maggio 2023 – +972 Magazine

Data l’illegalità degli scavi in un territorio occupato, alcuni archeologi hanno criticato la partecipazione a un evento internazionale di due studiosi dell’Università di Ariel.

La scorsa settimana, in seguito alle pressioni di altri colleghi ricercatori, un convegno internazionale ha annullato la conferenza di un archeologo israeliano dell’università di Ariel, nella Cisgiordania occupata, mentre la presentazione di un dottorando della stessa università si è tenuta come previsto.

Diversamente da altri conferenzieri, la cui appartenenza a un’istituzione era elencata accanto ai loro nomi nel programma, il prof. David Ben Shlomo e Yair Elmakias, entrambi del Dipartimento del Territorio di Studi israeliani e archeologia, non avevano citato il loro rapporto con l’università di Ariel.

Il biennale Congresso Internazionale sull’Archeologia del Vicino Oriente Antico (ICAANE), considerato uno dei due simposi più prestigiosi sul tema, si è tenuto a Copenaghen dal 22 al 26 maggio. L’edizione di quest’anno, la tredicesima, vedeva circa 20 partecipanti di Israele, provenienti dall’Università ebraica di Gerusalemme, l’Università di Haifa, l’Università di Tel Aviv e l’Università Ben-Gurion nel Negev.

Il fatto che due studiosi dell’università-colonia fossero stati invitati è significativo sia perché l’istituzione è situata nel territorio occupato e sia perché scavare in aree occupate è considerata una violazione ai sensi del diritto internazionale.

Uno degli studiosi che si è opposto alla partecipazione di Ben Shlomo e Elmakias è Brian Boyd, co-direttore del Centro di Studi Palestinesi presso la Columbia University a New York. Boyd, in un post su Facebook, ha citato la decisione del 2013 del Congresso Archeologico Mondiale, secondo cui “non è etico per archeologi professionisti e istituzioni accademiche condurre lavori archeologici e scavi in aree occupate e governate con la forza.”

Sottolineando che “le attività delle colonie israeliane costituiscono un crimine di guerra per il diritto internazionale,” Boyd ha scritto che l’omissione dell’affiliazione istituzionale nel programma della conferenza di Ben Shlomo e Elmakias “sembra suggerire che erano bene al corrente della loro situazione legale e che l’hanno fatto per evitare critiche internazionali da parte della comunità archeologica.” Ha poi aggiornato il post con la notizia che l’intervento di Ben Shlomo era stato annullato. Boyd ha rifiutato di essere intervistato per questo articolo.

Secondo il programma originario della conferenza, Ben Shlomo avrebbe dovuto presentare la sua ricerca sui ritrovamenti dell’età del ferro nel sud della valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata. Dopo la cancellazione della sua presentazione, i dettagli del suo intervento sono stati rimossi dal sito web del simposio.

Violando gli accordi di Oslo e il diritto internazionale, Ben Shlomo ha confermato a +972 la sequenza degli eventi. Ha scritto che “(gli organizzatori della conferenza) hanno cancellato la mia conferenza sugli scavi a Khirbet ‘Aujah el-Foqa vicino a Gerico nell’Area C (che è sotto il completo controllo israeliano). All’inizio l’avevano confermata, ma poi varie persone hanno protestato, in Europa il tema è delicato. Immagino specialmente perché uno degli organizzatori del simposio proviene dall’Istituto di Archeologia a Damasco.”

Nell’aprile del 2022 Elmakias, che ha comunque fatto il suo intervento, ha partecipato a un progetto che ha rimosso cumuli di terra dal monte Ebal vicino a Nablus, dove era stato rinvenuto un amuleto con un’iscrizione in ebraico, apparentemente del XIII secolo a.C., la più antica mai scoperta, anche se altri ricercatori hanno messo in dubbio tale datazione.

Il terreno era stato asportato da un sito in Cisgiordania nell’Area B, su cui Israele ha il controllo della sicurezza e l’Autorità Palestinese il controllo amministrativo. In base agli accordi di Oslo e al diritto internazionale Israele non può rilasciare permessi di scavo in questo sito e non può asportare ritrovamenti senza tale permesso.

Come riferito da Nir Hasson ad Haaretz, nel 2019 un gruppo di ricercatori americani e israeliani è arrivato al sito del monte Ebal per collaborare con la Associates for Biblical Research [organizzazione di Ricerca Biblica, ente americano che opera per dimostrare la verità storica della Bibbia, ndt.] e sotto gli auspici del consiglio regionale di Samaria, un ente della colonizzazione [israeliana]. Con l’aiuto di volontari hanno rimosso dal sito tre grandi cumuli di terra che erano stati lasciati dopo gli scavi condotti negli anni ’80, e li hanno spostati per setacciarli nel centro accademico diretto da Elmakias, dove poi hanno scoperto l’amuleto.

Rispondendo a +972 Elmakias sostiene che la sua partecipazione a Copenaghen “non fa notizia”.

Dopotutto gli organizzatori hanno accettato tutte le nostre richieste, incluso che noi apparissimo con il nome dell’università di Ariel e che presentassimo le ricerche condotte in Samaria e nella valle del Giordano.” Elmakias non ha spiegato chi aveva chiesto che la sua affiliazione istituzionale fosse omessa dal programma e se ha ricevuto una richiesta degli organizzatori in seguito alle proteste contro la sua inclusione e quella di Ben Shlomo.

Una grave erosione”

Da parte loro gli organizzatori di ICAANE hanno comunicato a +972 che essi “non discutono con esterni le situazioni individuali,” ma che il congresso “rispetta le convenzioni dell’UNESCO e che, se avesse scoperto che una presentazione avrebbe violato convenzioni, l’avrebbe esclusa dalle presentazioni o dalle pubblicazioni. Ciò può avvenire prima o dopo il congresso.”

Gli organizzatori hanno inoltre dichiarato che non sono loro a invitare i ricercatori alla conferenza, ma sono piuttosto “gli studiosi a sottomettere un estratto e un comitato decide se rientra fra i temi del congresso.” A proposito dell’omissione nel programma dell’università di Ariel hanno detto: “Se alcuni studiosi non hanno affiliazione è molto probabilmente un errore. Normalmente gli studiosi sono ben conosciuti solo per via del loro nome.”

Un rapporto pubblicato nel 2017 da Emek Shaveh e Yesh Din, gruppi per i diritti umani israeliani, afferma: “Dal punto di vista del diritto internazionale i siti archeologici e le antichità sono risorse culturali e di conseguenza appartengono ai territori occupati.” Come tali, continua il rapporto, “le attività permesse al Comandante Militare e a coloro che agiscono in suo nome sono limitate ad azioni intese a salvare o preservare antichità. Israele però interpreta in senso ampio i suoi obblighi di proteggere il patrimonio archeologico, e le sue attività archeologiche si discostano dalle restrizioni su di esso imposte in quanto potenza occupante, determinando violazioni del diritto internazionale.”

Al momento l’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) è tecnicamente responsabile degli scavi nelle zone entro i confini ufficiali di Israele, mentre gli scavi in Cisgiordania sono sotto la responsabilità della Divisione delle Antichità dell’Amministrazione Civile. Tuttavia l’attuale governo di Israele vuole trasferire la responsabilità degli scavi in Cisgiordania alla IAA, sotto l’autorità del Ministero degli Affari e del Patrimonio di Gerusalemme ora guidato da Amichai Eliyahu, del partito di estrema destra Otzma Yehudit.

Alon Arad, direttore di Emek Shaveh, [un gruppo di archeologi di sinistra che criticano gli scavi, ndt.] ha detto a +972 che “se i membri della comunità archeologica di Israele vogliono far parte della comunità professionale internazionale devono farlo secondo le regole e l’etica dell’archeologia. Sfortunatamente assistiamo a una grave erosione di tutto ciò che è relativo all’idea di Israele che la Cisgiordania non è un sito legittimo per le attività accademiche di archeologia israeliana.”

Arad ha aggiunto che in anni recenti c’è stato crescente numero di casi in cui Israele sta tentando di “applicare la sua sovranità indirettamente tramite scavi condotti da università israeliane, o più direttamente tramite IAA.” Ha avvertito che se Israele continua a ignorare il diritto internazionale a questo riguardo, “I’archeologia israeliana sarà danneggiata e gli archeologi israeliani saranno emarginati dalla comunità mondiale.”

Oren Ziv è fotogiornalista, reporter di Local Call e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il raduno filogovernativo evidenzia le divisioni interne della destra israeliana

Meron Rapoport

2 maggio 2023 – +972 Magazine

Gli alleati di estrema destra di Netanyahu sopravvalutano la loro possibilità di proseguire con la riforma giudiziaria. Ora stanno rivolgendo la pressione contro il primo ministro.

Lo scorso giovedì di fronte alla Knesset 200.000 israeliani di destra hanno chiesto al governo di proseguire con i progetti di riforma giudiziaria e di indebolimento della Corte Suprema. Uno dopo l’altro, leader dell’estrema destra, dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir a quello delle Finanze Bezalel Smotrich, si sono impegnati a non “cedere” alle proteste antigovernative che da gennaio scuotono il Paese.

Ma la manifestazione della destra, denominata la “Marcia del Milione”, riguardava molto più che i tribunali: è stata in primo luogo e soprattutto una protesta contro Benjamin Netanyahu e i suoi tentativi di congelare i progetti del governo. Ed essa dovrebbe preoccupare il primo ministro.

Il 4 gennaio il ministro della Giustizia Yariv Levin e il presidente della commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno lanciato un attacco a sorpresa per eliminare le isole di liberalismo della società israeliana. Non è del tutto chiaro quanto Netanyahu sia stato coinvolto nella pianificazione di questo violento attacco, ma dal momento in cui è stato lanciato non ha avuto altra scelta che presentarlo come suo.

Abbiamo già visto in precedenza situazioni politiche simili nella storia di Israele. Oggi sappiamo che nel 1982 il primo ministro Menachem Begin non era al corrente del fatto che il ministro della Difesa Ariel Sharon e il capo di stato maggiore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] Rafael Eitan avevano da tempo stilato piani d’emergenza per invadere il Libano. Ma ciò non impedì a Begin di approvare l’operazione o di fare nelle prime fasi della guerra tour della vittoria nel Libano occupato.

È molto probabile che la dinamica tra Netanyahu, Levin e Rothman sia simile a quella tra Begin, Sharon ed Eitan. Sia nella riforma giudiziaria che nella prima guerra del Libano l’attacco era basato sulla convinzione che l’altra parte fosse troppo debole e divisa per opporre resistenza. Ma questa convinzione si è molto presto dimostrata errata, o quanto meno non ha preso in considerazione le conseguenze a vasto raggio che avrebbe avuto un simile attacco. E appena esso ha incontrato difficoltà, anche la posizione del governo è stata danneggiata.

Levin e Rothman credevano che il destino della riforma giudiziaria sarebbe rimasto circoscritto alla Knesset e che di conseguenza una maggioranza di 64 deputati sarebbe stata sufficiente per far approvare qualunque cosa volessero. Non avevano previsto le massicce manifestazioni e la mobilitazione dell’industria dell’innovazione tecnologica e dei leader dell’economia contro la riforma giudiziaria. Sicuramente non avevano previsto che l’opposizione avrebbe incluso il rifiuto di massa dell’élite militare, compresi piloti, forze speciali e unità cibernetiche. E sicuramente non immaginavano che il presidente USA si sarebbe messo davanti alle telecamere e avrebbe detto che Israele “sta andando nella direzione sbagliata”, e che quindi non aveva intenzione di incontrare Netanyahu nel prossimo futuro. In breve, hanno sottostimato sia il potere della società civile che l’importanza della legittimazione internazionale ed hanno scoperto in carne propria che queste forze sono molto più forti di quanto pensassero inizialmente.

Cosa altrettanto importante, Levin e Rothman hanno sovrastimato il proprio potere. Nel loro attacco violento hanno scoperto che la loro coalizione era molto più debole di quanto pensassero. Parti consistenti della classe media mizrahi [ebrei israeliani originari dei Paesi arabi o musulmani, ndt.], che rappresenta un settore significativo della base elettorale del Likud, sono titubanti o persino contrarie alla riforma, come evidenziato dalle manifestazioni antigovernative in bastioni della destra come Netanya o Be’er Sheva. Persino gli haredim [ebrei religiosi ultraortodossi, ndt.], che per ragioni loro vogliono annientare il potere della Corte Suprema, hanno scelto di tenere una posizione neutrale ora che il progetto di riforna giudiziaria ha incontrato difficoltà.

Quindi non è un caso che alla “Marcia del Milione di Persone” non non abbiano partecipato quasi per nulla haredim o sostenitori del Likud. Si è trattato principalmente di una manifestazione della destra dei coloni religiosi, dei kahanisti [sostenitori del defunto rabbino di estrema destra Meir Kahane, ndt.] e di elementi fascisti nel Likud che, secondo un sondaggio di Canale 12 [canale televisivo israeliano privato, ndt.], rappresentano una minoranza nel partito.

I risultati sono difficilmente discutibili. La sessione invernale della Knesset si è conclusa senza che neppure una delle riforme di Levin venisse approvata. L’attacco di sorpresa è stato sconfitto alla prima battaglia. Ed è qui che Netanyahu è entrato in campo. Dal momento in cui ha capito che l’assalto aveva perso impeto e che ciò avrebbe potuto provocare enormi danni a Israele, alla stabilità della coalizione e, ovviamente, a lui stesso, ha iniziato a cercare di congelarlo. Levin e Rothman, che sono stati obbligati a passare dalla loro euforia ad affrontare la realtà, hanno dovuto accettare. Questo naturalmente non significa che Netanyahu pianifichi di accantonare totalmente la riforma – appoggia ancora l’indebolimento del sistema giudiziario e il rafforzamento del potere esecutivo – ma sa di avere, almeno a questo punto, la strada bloccata.

Una lotta tutt’altro che finita

Netanyahu vuole piuttosto che il governo ritorni alla guerra di trincea, aspettando il momento giusto per colpire. Per anni la guerra di posizione, quello che alcuni definiscono come “status quo”, è stata la specialità di Netanyahu. Attaccherà le “élite”, abbracciando nel contempo l’industria tecnologicamente avanzata. Dirà che “la sinistra ha dimenticato cosa significhi essere ebreo”, glorificando nel contempo la liberale Tel Aviv e le libertà per la comunità LGBTQ. Parlerà apertamente della soluzione a due Stati, cancellando nel contempo la Linea Verde e annientando l’Autorità Nazionale Palestinese. Venderà Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, dimostrando nel contempo un palese disprezzo per le leggi internazionali.

Nel 1982 Ariel Sharon parlò di “pace in Galilea”, il macabro nome dato a una guerra che intendeva porre il chiodo finale sulla bara del nazionalismo palestinese con l’occupazione di Beirut e l’installazione di un regime filo-israeliano in Libano. Nel 2023 Levin e i suoi amici parlano di “riforma giudiziaria”, ma di fatto intendono formalizzare in pieno la supremazia ebraica tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

È così che i leader della riforma, come molti dell’opposizione, vedono il concetto di “democrazia ebraica”: un Paese governato solo dagli ebrei e che si preoccupa solo di loro. La recente proposta da parte di membri del [partito] kahanista Otzma Jehudit [Potere Ebraico], in base alla quale i cosiddetti “valori del sionismo guideranno” lo Stato, è emblematico di questa visione. Distruggere il sistema giudiziario ed eliminare il potere dei settori liberali della società ebraica è un semplice danno collaterale lungo la strada di questo obiettivo.

La comprensione, conscia o inconscia, che questo è il reale obiettivo della riforma può spiegare la generale assenza dalla manifestazione di giovedì della base del Likud, a buona parte della quale importano i valori “liberali”, e degli haredim, molti dei quali non sono ossessionati dalla distruzione del nazionalismo palestinese.

Proprio perché Levin, Rothman e i loro amici vedono sé stessi come rivoluzionari, essi considerano Netanyahu un residuo dell’“Ancien Régime”. Come tale gli propongono una scelta praticamente impossibile: o mettersi l’uniforme da guerra e attaccare insieme la Corte in quella che attualmente appare una battaglia persa, o rischiare di far cadere il suo governo, il che potrebbe aumentare le possibilità che venga condannato e spedito in carcere con accuse di corruzione. La manifestazione di giovedì intendeva ricordargli questa amara verità.

Il fatto che la guerra lampo di Levin e Rothman abbia fallito non significa che rinuncino alla lotta. Al contrario, sembrano ancor più determinati a far approvare la riforma. Quello che complica ulteriormente la situazione è il fatto che neppure il movimento di protesta israeliano sa cosa fare del suo sorprendente successo nel respingere la destra. Sembra che le parti più conservatrici del movimento siano pronte ad accettare l’idea di una guerra di trincea, del ritorno allo status quo e della preservazione delle loro significative posizioni di potere nella società, nell’economia e nell’esercito israeliani.

Eppure pare che ci sia anche una parte del movimento di protesta che intende approfittare di questo momento per cambiare radicalmente le regole del gioco e spingere Israele a diventare una vera democrazia, attraverso la stesura di una costituzione oppure con l’approvazione di una Legge Fondamentale che sancisca l’uguaglianza per tutti. Questo segmento è in sintonia con le richieste di non tornare al “vecchio ordine”, sia che si tratti dei rapporti tra ashkenaziti e mizrahi o tra ebrei e arabi, o dell’occupazione. Ma questa parte del movimento è ancora debole e non ha un vero piano su come realizzare questo cambiamento radicale.

Proprio come la “Marcia del Milione”, nonostante il suo relativamente grande numero di partecipanti, non è riuscita a nascondere le crepe all’interno del campo della destra, così il successo del movimento di protesta non è riuscito a nascondere le sue divisioni o il fatto che non ha una visione condivisa su come agire. Una cosa è certa: questa lotta è tutt’altro che finita.

Meron Rapoport è un editorialista di Local Call [l’edizione in ebraico di +972 Magazine, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una tragedia anglo-israeliana nata dall’occupazione

Ben Reiff

11 aprile 2023 – +972 Magazine

Omettere il contesto violento in cui sono avvenute le uccisioni della famiglia Dee equivarrebbe a condannare innumerevoli altri palestinesi e israeliani allo stesso destino.

Tributi sono giunti ai notiziari tv e ai social media per Rina e Maia Dee,15 e 20 anni, le sorelle anglo-israeliane uccise lo scorso venerdì in attacco con armi da fuoco nella Cisgiordania occupata, e per la loro madre Lucy morta all’inizio della settimana in seguito alle ferite subite. Le tre viaggiavano in un’auto nelle vicinanze dello svincolo di Hamra nella valle del Giordano quando sarebbero state colpite da una violenta scarica di proiettili. L’esercito israeliano sta ora conducendo una caccia all’uomo per trovare i sospettati palestinesi. 

La famiglia Dee era emigrata nove anni fa dal Regno Unito nella colonia cisgiordana di Efrat: Leo, il padre delle ragazze e marito di Lucy, era stato in precedenza rabbino in due congregazioni ortodosse nel nord di Londra. “Non ci sono parole per descrivere la profondità del nostro sgomento e dolore nel ricevere la notizia dell’omicidio,” ha twittato il rabbino capo britannico Ephraim Mervis all’annuncio delle morte delle sorelle, aggiungendo che erano “molto amate” nel Regno Unito e in Israele. Alla notizia che anche Lucy era morta ha twittato: “Il nostro dolore indescrivibile è ancora più profondo.” 

Lunedì il rabbino Dee in lacrime ha detto ai media che “la nostra famiglia di sette persone si è ridotta a quattro,” dopo che Lucy, Maia, e Rina sono state sepolte nel cimitero regionale di Gush Etzion nella colonia di Kfar Etzion. Perdere un membro della famiglia, specie se giovane, è una tragedia insopportabile, non si può immaginare il dolore che il rabbino Dee e i figli rimasti stanno sopportando dopo averne persi tre in una volta. 

Pur riconoscendo tale perdita straziante, da quasi tutti questi tributi e racconti manca un dettaglio importante: l’occupazione militare israeliana. Inserire questo elemento non vuole giustificare l’assassinio delle Dee, al contrario. Ma ignorarlo significherebbe fraintendere il contesto in cui sono vissute e sono state uccise, e così condannare molti altri allo stesso destino.

Come centinaia di migliaia di israeliani che abitano in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, i Dee sono diventati parte integrante del progetto israeliano di espansione coloniale nei territori occupati. Colonie come Efrat, che sembra una normale cittadina o sobborgo israeliano serve ad ammassare i palestinesi in bantustan sempre più piccoli per massimizzare il territorio a disposizione degli ebrei, inclusi quelli che arrivano dall’estero. 

Dal 1967 Israele ha rubato oltre 2 milioni di dunam (200.000 ettari) di terre di proprietà privata palestinese in Cisgiordania per fondare centinaia di colonie e avamposti esclusivamente per ebrei, oltre alle infrastrutture necessarie per collegarli fra di loro e con il resto dello Stato. Ognuna di queste colonie è illegale ai sensi del diritto internazionale e viola la Quarta Convenzione di Ginevra che vieta esplicitamente alla potenza occupante di trasferire la propria popolazione civile nei territori occupati. 

Successivi governi israeliani hanno incoraggiato attivamente i propri cittadini a trasferirsi in queste zone offrendo ogni tipo di incentivi finanziari: edilizia sovvenzionata, scuole e trasporti, sgravi fiscali e persino stipendi più alti nel settore pubblico. Tutto ciò va ad aggiungersi a radicate ideologie religiose e suprematiste che ispirano i settori più radicali del movimento dei coloni, sebbene non sia un segreto che tali opinioni sono in molti casi concretamente indotte o facilitate dallo Stato. 

In Israele queste colonie illegali sono totalmente normalizzate e si sono espanse per ospitare circa tre quarti del milione dei suoi cittadini ebrei. Ma l’esistenza stessa delle colonie, oltre all’esteso furto di terre che ha reso possibile la loro costruzione ed espansione, richiede la costante sottomissione della popolazione palestinese dei territori. 

Questa violenza assume varie forme: un esercito che, dall’inizio dell’anno, ha già ucciso circa 90 palestinesi in Cisgiordania, compresi 18 minori, una vasta rete di checkpoint militari che limitano pesantemente la libertà di movimento dei palestinesi e un muro di separazione che penetra profondamente nella Cisgiordania, confiscando altre terre, una misura definita illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia. 

Che un’oppressione di tal sorta generi resistenza, anche scoppi violenti, non dovrebbe sorprendere: è una verità vecchia come la storia che popoli sottomessi lottino contro le società che le opprimono mentre combattono per la libertà. In una pubblicità profetica pubblicata da Haaretz nel settembre 1967, solo pochi mesi dopo l’inizio dell’occupazione, attivisti israeliani affiliati al gruppo radicale di sinistra Matzpen si metteva in guardia: “Tenere i territori occupati ci trasformerà in una Nazione di assassini e vittime di assassini.” 

Quella frase sarebbe suonata vera anche due decenni prima, quando, durante la Nakba del 1948, forze sioniste espulsero oltre 750.000 palestinesi il cui ritorno Israele ha continuato a impedire con la forza sin d’allora costruendo città ebraiche sulle macerie dei villaggi palestinesi. L’obiettivo allora era lo stesso di oggi: mantenere la supremazia ebraica sulla terra.

È possibile ripudiare atti di violenza senza negare le condizioni che rendono tale violenza inevitabile. Eppure è esattamente quello che moltissime reazioni all’uccisione delle Dee stanno facendo, omettendo il brutale sistema di dominio imposto ai palestinesi e perciò rendendo le loro azioni incomprensibili, motivate esclusivamente da sete antisemita di sangue. Evitando di fare i conti direttamente con quel sistema, garantiscono che niente cambierà prima che il prossimo attacco faccia altre vittime.

Mantenere l’occupazione è una semplice questione di scelta, nonostante i complessi meccanismi e la burocrazia. Quante altre persone moriranno prima che Israele scelga di porvi fine?

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’economia israeliana era il fiore all’occhiello di Netanyahu. L’apartheid può sopravvivere senza?

Nimrod Flaschenberg

27 marzo 2023 – +972 Magazine

Il primo ministro non prevedeva che il colpo di stato giudiziario avrebbe minato uno degli elementi fondamentali a tutela del regime di apartheid israeliano.

La combinazione finora riuscita di neoliberismo e apartheid in Israele sta finalmente incontrando degli ostacoli interni.

Dopo mesi di proteste e pressioni economiche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato lunedì che avrebbe temporaneamente interrotto la fase successiva della sua riforma giudiziaria. L’annuncio è arrivato di notte, dopo che centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il Paese in seguito al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu, e dopo un’azione congiunta – lunedì mattina – delle grandi imprese e dell’Histadrut, il più grande sindacato israeliano, che era stato riluttante ad aderire alla protesta contro la riforma giudiziaria.

Questa crisi rappresenta il culmine di diversi mesi di guerra economica intrapresa contro il governo da ampie fasce della società israeliana, e in particolare dalle sue élite. E questo scontro interno sta mettendo in luce una sorprendente debolezza nell’economia israeliana guidata dalla tecnologia, seppure in forte espansione. Ora resta la domanda: questa debolezza potrebbe anche segnare una breccia nella lotta contro l’occupazione e l’apartheid?

In tutti gli anni trascorsi nella veste di primo ministro israeliano, il risultato più significativo di Benjamin Netanyahu è stato quello di far sembrare l’occupazione indolore, o almeno senza costi. Sotto il suo regno, l’economia israeliana è esplosa, in gran parte grazie al fiorente settore dell’high-tech. Lo Stato ha migliorato e ampliato le sue relazioni diplomatiche, aprendo nuovi mercati per l’esportazione di software e sicurezza informatica, sviluppando legami di sicurezza con partner regionali e rendendo la sua tecnologia militare indispensabile per molti Paesi in tutto il mondo.

Il modello economico israeliano dall’inizio degli anni 2000 è stato interpretato dallo storico economico Arie Krampf come un neoliberismo isolazionista. Questo è il progetto di Netanyahu: un’economia orientata all’esportazione che dovrebbe costruire resilienza geopolitica attraverso una strategia di commercio diversificato, un basso rapporto debito/PIL e grandi riserve di valuta estera. Questo modello richiede anche una deregolamentazione aggressiva e tagli alla spesa sociale, che portano a sconcertanti disuguaglianze e ad un aumento della povertà. Il sistema di welfare si è sgretolato ma sono aumentati gli investimenti esteri; le nuove ricchezze di Israele non sono state divise equamente, ma l’élite economica è soddisfatta.

Attraverso questo modello Israele ha potuto diversificare i suoi rischi e interessi economici in tutto il mondo e diminuire in qualche modo la sua dipendenza dagli Stati Uniti. Le relazioni di Netanyahu con leader mondiali come Vladimir Putin e Narendra Modi si sono basate non solo sulla predilezione per nazionalisti aggressivi che la pensano allo stesso modo, ma su una strategia di riequilibrio della posizione di Israele nella sfera globale, che lo ha reso un ambìto partner commerciale e militare.

Sebbene la campagna internazionale per la liberazione della Palestina abbia avuto un impatto sull’opinione pubblica globale, non è stata in grado di sfidare veramente questo modello economico. Il movimento BDS ha in gran parte fallito nel far crescere il costo economico per il governo e la popolazione israeliana nel sostenere e radicare l’occupazione, ed è invece diventato un parafulmine per la delegittimazione delle voci pro-palestinesi da parte di ben finanziate organizzazioni di hasbara [propaganda per la diffusione di una immagine positiva di Israele all’estero, ndt.].

L’Autorità Nazionale Palestinese, da parte sua, non ha promosso misure economiche contro Israele a causa della dipendenza della Cisgiordania dall’economia israeliana e della morsa dell’occupazione militare israeliana. Quindi, mentre i governi israeliani si sono spostati nell’arco dei decenni verso destra, intensificando l’occupazione e consolidando il regime di apartheid, lo Stato non è stato danneggiato economicamente e la sua posizione diplomatica si è solo rafforzata.

Ironia della sorte, ciò che la campagna del BDS finora non è riuscita a ottenere è ora promosso dagli ebrei israeliani: le élite che si stanno rapidamente radicalizzando nello scontro contro il tentativo di revisione giuridica del governo israeliano. Gli inevitabili impatti economici della riforma minacciano il modello neoliberista isolazionista, che è stato a lungo basato su una forte industria di esportazione e sull’impunità internazionale. Netanyahu ha vaccinato con successo l’economia israeliana contro le pressioni esterne, ma nemmeno lui è in grado di affrontare l’attuale conflitto interno.

Pericoli reali

Martedì scorso Shira Greenberg, capo economista del ministero delle Finanze israeliano, ha pubblicato un rapporto in cui suggerisce che se la riforma legale venisse approvata nella sua interezza il PIL di Israele potrebbe diminuire fino a 270 miliardi di shekel [69 miliardi di euro, ndt.] nei prossimi cinque anni. Altre stime di funzionari dello stesso ministero, presentate al ministro delle finanze Bezalel Smotrich all’inizio di questa settimana, accennavano ad una perdita annua di 100 miliardi di shekel [26 miliardi di euro, ndt.]. Smotrich ha cercato di confondere i dati dicendo che nell’incontro sono stati presentati sia opportunità che rischi, ma fonti del ministero lo hanno contraddetto, dichiarando a Calcalist [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.]: Non è chiaro di quali opportunità stia parlando il ministro. C’era accordo fra i convenuti sul fatto che queste iniziative potrebbero causare gravi danni all’economia israeliana”.

Da mesi le istituzioni finanziarie internazionali suonano campanelli d’allarme sulla proposta di riforma. L’agenzia di rating del credito Moody’s ha avvertito che la riforma potrebbe impedire l’aumento del rating del credito di Israele, indicando che i cambiamenti pianificati “potrebbero anche comportare rischi a lungo termine per le prospettive economiche di Israele, in particolare l’afflusso di capitali nell’importante settore high-tech”. The Economist, il principale quotidiano economico mondiale e barometro per le posizioni dell’élite degli affari globali, ha recentemente pubblicato una notizia di copertina intitolata: “Bibi distruggerà Israele?” Sta emergendo un consenso internazionale sul fatto che il nuovo governo potrebbe alterare in modo significativo la traiettoria del capitalismo israeliano.

Il presupposto alla base del ministero delle Finanze israeliano, di Moody’s e dell’Economist è che gli Stati non democratici non sono in grado di fare buoni affari. Questo, tuttavia, è un mito liberista: molti Paesi non democratici sono enormi poli commerciali. I migliori esempi sono i nuovi alleati di Israele nel Golfo; per molti aspetti, l’autoritarismo può servire bene il capitalismo.

Inoltre, lo stesso Israele non può attualmente essere definito una democrazia in quanto tiene milioni di persone sotto controllo militare negando loro i diritti fondamentali. Ma gli investitori non hanno mai dimostrato di avere problemi reali con l’occupazione. L’atteso rallentamento economico, quindi, non sarà una semplice reazione al restringimento dello spazio democratico in Israele ma piuttosto il risultato di una profonda lotta sociale all’interno di Israele che espone il rischio economico allo sguardo degli osservatori esterni.

L’evoluzione del panico negli ultimi mesi è una profezia che si autoavvera. Molti membri dell’élite israeliana sono pronti a combattere, e in testa c’è il settore dell’alta tecnologia. I lavoratori della tecnologia, dai manager e dipendenti agli investitori, sono profondamente coinvolti nelle proteste contro il governo. Parlano di fine della democrazia israeliana e sono disposti a fare di tutto per fermare i piani del governo.

Allo stesso tempo, si stanno salvaguardando dai rischi prendendo in considerazione destinazioni dove migrare o la possibilità di spostare i loro soldi all’estero. Rapporti recenti suggeriscono un esodo di aziende high-tech in Grecia, Cipro o Albania, dove la scorsa settimana 80 aziende tecnologiche israeliane hanno tenuto un incontro per esaminare un possibile trasloco. Ricchi lavoratori high-tech stanno acquistando proprietà in Portogallo, temendo che la riforma vada a buon fine. Questi movimenti interni inviano al sistema finanziario internazionale un messaggio secondo cui la crisi è reale e Israele non costituisce una piazza sicura.

Gli investitori capitalisti non hanno necessariamente bisogno della democrazia. Hanno bisogno di stabilità e prevedibilità, beni che in Israele sono attualmente molto scarsi.

È anche l’occupazione

La prevista revisione giuridica fa parte di un più ampio passaggio al dominio dell’estrema destra nella politica israeliana. Tra le altre cose, la riforma è progettata per legalizzare l’annessione della Cisgiordania e consentire l’ulteriore persecuzione dei cittadini palestinesi, così come degli israeliani di sinistra. Una strategia politica più calcolata per il governo di Netanyahu sarebbe stata quella di raffreddare il più possibile la questione palestinese mentre veniva portato avanti il progetto giuridico. Separando le questioni della democrazia interna” israeliana dalla questione palestinese forse sarebbe stato più facile contrastare il movimento di protesta e la pressione internazionale.

Ma i membri della coalizione di Netanyahu si rifiutano di separare questi temi: stanno chiarendo che la loro preoccupazione principale nel portare avanti la riforma è perseguire i palestinesi in modo più brutale, lamentandosi del fatto che la Corte Suprema renda troppo difficile demolire le case o deportare i palestinesi. La retorica razzista pronunciata ogni giorno dai ministri del governo, l’intensificarsi della violenza di Stato in Cisgiordania che ha ucciso circa 80 palestinesi dall’inizio dell’anno, e il pogrom dei coloni a Huwara elogiato dai ministri del governo sono tutti segnali che questo è un governo di fanatici, determinato a dare fuoco alla regione. Questo, a sua volta, sminuisce la reputazione di Netanyahu come efficace leader neoliberista orientato al business. Non ha il controllo e le forze destabilizzanti su tutti i fronti – economico, sociale e militare – sembrano inarrestabili.

Sembra che le proteste interne e la pressione internazionale siano riuscite a congelare, anche se solo temporaneamente, l’ondata di modifiche nel campo giudiziario. Tuttavia, secondo molti analisti economici, gran parte del danno è già stato fatto. L’instabilità degli ultimi mesi e l’estremismo del governo hanno già spaventato molti investitori qualificando come rischiosa l’economia israeliana. Anche se la riforma è sospesa, Israele è sulla buona strada per una significativa recessione economica.

In pratica, stiamo assistendo alla frattura dell’alleanza egemonica tra il neoliberismo in stile Netanyahu e il capitale israeliano. Per anni, il progetto di neoliberismo isolazionista di Netanyahu si è basato sul fatto che Israele fosse un investimento troppo buono per mancarlo. La potenza economica e strategica di Israele avrebbe dovuto contrastare il consenso internazionale contro gli insediamenti coloniali e a favore di una soluzione a due Stati. Quindi Il capitale globale che ha permesso all’economia israeliana di prosperare è stato un elemento centrale nella lotta diplomatica contro la causa palestinese e per lungo tempo ha avuto successo.

Se l’economia dovesse subire una grave recessione, ciò potrebbe avere ripercussioni sull’apartheid israeliano. Con il conseguente caos sociale ed economico, potremmo assistere alla formazione delle prime crepe nell’impunità di Israele sulla scena mondiale.

Nimrod Flaschenberg è ex consigliere parlamentare del partito Hadash [partito politico israeliano di sinistra, ndt.]. Ora studia storia a Berlino.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il pericolo di trattare Smotrich come un’anomalia

Edo Konrad

9 Marzo 2023 +972

Segnalando come inaccettabile il politico israeliano gli ebrei statunitensi eludono la necessità di fare i conti con il sistema più ampio che consente le sue opinioni genocide.

Due settimane dopo aver invocato un’azione genocida contro i palestinesi, uno dei più potenti ministri del governo israeliano sbarcherà negli Stati Uniti dove è destinato a imbattersi in grandi proteste e affrontare quello che probabilmente sarà un rifiuto senza precedenti da parte dei funzionari statunitensi. Bezalel Smotrich, Ministro delle Finanze israeliano e sorvegliante de facto dei territori occupati, ha espresso pubblicamente la convinzione che la città di Huwara in Cisgiordania dovrebbe essere “spazzata via” dopo che due coloni vi sono stati uccisi mentre percorrevano in auto la strada principale. Smotrich ha fatto questi commenti pochi giorni dopo che più di 400 coloni, appoggiati dai soldati israeliani, hanno condotto un pogrom su Huwara e il vicino villaggio di Za’atara dando fuoco a case, attività commerciali e veicoli palestinesi e ucciso il 37enne Sameh Aqtesh.

La dichiarazione di Smotrich è stata ampiamente condannata dai leader dell’opposizione israeliana, dai giornalisti e persino dal Dipartimento di Stato americano, che ha descritto le sue affermazioni come “irresponsabili” e “ripugnanti”. Percependo la furia crescente, e dopo essere stato rimproverato pubblicamente dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, Smotrich ha provato spudoratamente due volte a ritrattare il suo commento, sostenendo che quando ha insistito esplicitamente che Huwara fosse spazzata via, in qualche modo non stava davvero chiedendo che fosse cancellata.

Con l’annuncio del suo arrivo il 12 marzo per una conferenza sugli Israel Bonds [sottoscrizione statunitense di titoli emessi dallo Stato di Israele, ndt.] a Washington D.C., le organizzazioni dell’establishment ebraico americano così come importanti gruppi sionisti liberali sono entrati in azione chiedendo che il Ministro delle Finanze israeliano fosse trattato come persona non grata. Oltre 120 leader ebrei americani hanno firmato una petizione chiedendo alle comunità ebraiche di boicottare la visita di Smotrich. Il gruppo di pressione J Street [gruppo liberale senza scopo di lucro per la leadership americana nel porre fine diplomaticamente ai conflitti arabo-israeliani, ndt.]. ha chiesto all’amministrazione Biden di “assicurarsi che nessun funzionario del governo degli Stati Uniti legittimerà incontrandolo l’estremismo [di Smotrich]” e che bisognerebbe interpretare quelle affermazioni come “motivi per il riesame di un visto per l’ingresso negli Stati Uniti.” Gruppi come T’ruah [organizzazione senza scopo di lucro di rabbini che si richiamano all’imperativo ebraico di rispettare e proteggere i diritti umani in Nord America, Israele e Territori palestinesi, ndt.] e Americans for Peace Now [organizzazione statunitense non-profit per la risoluzione politica globale del conflitto israelo-palestinese, ndt.] hanno chiesto apertamente la revoca del visto di Smotrich.

Nel frattempo organizzazioni tradizionali come l’Anti-Defamation League [organizzazione statunitense contro l’antisemitismo, ndt.] hanno affermato che “è imperdonabile che [Smotrich] inciti alla violenza di massa contro i palestinesi come forma di punizione collettiva”. William Daroff, l’amministratore delegato della Conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane, ha fatto eco alle parole del Dipartimento di Stato definendo i commenti di Smotrich “irresponsabili, ripugnanti e disgustosi”. Nonostante l’indignazione, Smotrich dovrebbe ancora parlare alla conferenza.

Va da sé che a Smotrich – un uomo che si definisce da sé “omofobo fascista” e ha una storia ben documentata di commenti chiaramente odiosi sui palestinesi, la comunità LGBTQ e altri gruppi – dovrebbe essere categoricamente condannato e vedersi negato l’ingresso negli Stati Uniti.

Questo è vero non solo per il puro sadismo genocida dei suoi commenti su Huwara, o per il fatto che Smotrich è diventato ufficialmente quello che lo studioso di diritto Eliav Leiblich ha soprannominato il “signore supremo della Cisgiordania”. Lo è anche perché, in un momento in cui l’incitamento all’omicidio contro i palestinesi continua a dare frutti mortali, la posizione degli ebrei americani sta dimostrando che ci sono passi reali che si possono fare contro un governo che sembra si dedichi oscenamente a bruciare tutto ciò che lo circonda per riconfigurare il paese a sua immagine e somiglianza.

Eppure ci si dovrebbe fermare e meravigliarsi dell’occasione singolarmente rara in cui le principali organizzazioni americane, da sinistra a destra, si uniscono per condannare e mettere in discussione la legittimità di un importante politico israeliano. Non c’è bisogno di sforzarsi per trovare altri funzionari israeliani che hanno analogamente invocato o giustificato retroattivamente massicce violenze contro i palestinesi. E questo è in parte dovuto al fatto che, a differenza di Smotrich, icona dell’estrema destra fondamentalista ebraica, molti di quei politici provengono in realtà dal centro israeliano e dalla sinistra sionista.

Ad esempio Benny Gantz, ex capo di Stato Maggiore dell’Esercito israeliano e poi Ministro della Difesa, ha lanciato la sua campagna elettorale del 2019 come sfida centrista a Netanyahu vantandosi di quanti palestinesi avesse ucciso e di come avesse riportato Gaza “all’età della pietra”. Oppure prendiamo Matan Vilnai del partito laburista, ex viceministro della Difesa, che all’inizio del 2008 avvertì che i palestinesi a Gaza avrebbero dovuto affrontare un “olocausto” meno di un anno prima che Israele lanciasse l’Operazione Piombo Fuso che uccise quasi 1.400 palestinesi in tre settimane.

C’è anche Mordechai Gur, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito israeliano diventato Ministro della Difesa, anche lui laburista, che nel 1978 disse al quotidiano israeliano Al HaMishmar di aver fatto bombardare dalle sue forze quattro villaggi nel sud del Libano “senza autorizzazione” e senza fare distinzioni tra civili e combattenti; Gur ha inoltre affermato di “non aver mai avuto dubbi” sul fatto che i civili palestinesi in quelle aree dovessero essere puniti, dicendo al giornale “sapevo esattamente cosa stavo facendo”. Oppure prendiamo David Ben-Gurion, il primo Primo Ministro israeliano e artefice della Nakba, che quando nel 1948 gli fu chiesto cosa fare dei palestinesi di Lydd e Ramle dopo che le città erano state conquistate dalle milizie sioniste, fece il famigerato cenno con la mano per ordinare loro espulsione (decenni dopo Smotrich si sarebbe rammaricato pubblicamente che Ben-Gurion non avesse “finito il lavoro”).

Come non debellare la piaga

Non si tratta di grandi rivelazioni. La sinistra sionista (e quella parte che è diventata gran parte del centro) ha sempre chiamato in causa le proprie credenziali militariste contro la destra sionista. Il punto, quindi, non è costringere le organizzazioni a prendere posizioni retroattive su azioni passate, ma piuttosto capire che l’indignazione selettiva su Smotrich, sebbene giustificata, rischia di oscurare il fatto che è il prodotto di un sistema più ampio di espropriazione e sottomissione. Come Meir Kahane, che è stato trattato come inaccettabile e isolato nella società israeliana e in gran parte della comunità ebraica americana per il suo sfacciato fascismo, Smotrich viene presentato come un paria ma con l’effetto di legittimare l’apparato di apartheid che ha ereditato dai suoi predecessori .

Raffigurando uno o due politici estremisti come inaccettabili, le comunità ebraiche possono eludere la necessità di fare i conti con il modo in cui Smotrich e Kahane realizzano gli impulsi più profondi del progetto sionista. La stessa elusione si sta operando in luoghi come il Regno Unito, dove il Consiglio dei Deputati degli ebrei britannici, uno dei principali organi della classe dirigente della comunità ha apertamente respinto Smotrich ma continua a incontrare altri estremisti di estrema destra come l’ambasciatrice Tzipi Hotovely o il Ministro degli Affari della Diaspora Amichai Chikly.

In questo modo Smotrich diventa il cattivo contro cui gli ebrei americani possono mobilitarsi: messianico, razzista, impenitente. Personaggi come Ben-Gurion e Gur, nel frattempo, rimangono eroi piuttosto che uomini che hanno soppresso un numero incalcolabile di vite. E mentre i gruppi ebraici americani possono fare i picchetti contro Smotrich alla conferenza degli Israel Bonds di questo mese, nessuno ha chiesto agli Stati Uniti di revocare il visto a Benny Gantz che ha visitato la Casa Bianca l’anno scorso, pochi mesi dopo aver messo fuori legge sei importanti gruppi palestinesi per i diritti umani come “organizzazioni terroriste”. Per le istituzioni pubbliche ebraiche iniziare a mettere in discussione chi rappresenta il “buon Israele” rischia di sgretolare l’intero edificio psicologico del sostegno allo Stato.

Anche Washington, da parte sua, ha interesse a trasformare Smotrich in un evento anomalo. Nell’ambito della sua politica di pacificazione nei confronti del nuovo governo israeliano, l’amministrazione Biden sta cercando di esercitare una certa pressione su Netanyahu almeno per tenere in riga la sua coalizione. Ma in un momento in cui Israele è pervaso dall’instabilità – per la combinazione di un tentativo di colpo di stato giudiziario, incursioni dell’esercito israeliano nelle città palestinesi, violenza sfrenata dei coloni e attacchi palestinesi a soldati e civili – il meglio che la Casa Bianca può sperare è di convincere Israele ad allontanarsi dall’orlo dell’abisso in cui sembra desideroso di buttarsi a capofitto.

Per i funzionari statunitensi si tratta di uno specchietto per le allodole: operare accordi con leader israeliani come Netanyahu o il ministro della Difesa Yoav Galant ed evitare quelli “ripugnanti” come Smotrich o il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, tutto nell’interesse di “stabilizzare” la situazione – un compito che questo governo sta rendendo sempre più irrealizzabile ogni giorno che passa.

In un momento di grave crisi dello Stato israeliano sia gli ebrei americani che l’amministrazione Biden sperano che la loro strategia di controllo dei danni contro lo smotrichismo possa ricondurre Israele verso una versione più accettabile dell’apartheid israeliano. Una in cui l’esercito è legittimato a fare irruzione e uccidere i palestinesi nei campi profughi in cui Israele li ha segregati, ma in cui i massimi ministri non invitino attivamente i vigilantes dei coloni a “prendere in mano la situazione”. Una che mantenga la facciata di una magistratura indipendente, ma distolga lo sguardo quando i tribunali approvano quasi tutte le leggi discriminatorie e le politiche coloniali. Una in cui c’è sempre un individuo anomalo da incolpare, ma non il regime coloniale stesso.

Eppure il miope tentativo di categorizzare gli estremisti israeliani – di trattarli come intrinsecamente più ripugnanti dei falchi e dei nazionalisti “mainstream” – non è semplicemente destinato a fallire. In effetti, consentirà solo più violenza. La società israeliana ha rifiutato di ammettere che il kahanismo attinge dai fiumi del sionismo (e non il contrario) solo per scoprire che è tornato a dominare la vita pubblica. Le organizzazioni ebraiche americane stanno ora commettendo lo stesso errore.

Sperano che in qualche modo, con richiami minimi e forti condanne, sconfiggeranno il flagello Smotrich – senza affrontare l’ideologia e le strutture statali che sostengono la sua richiesta di genocidio e danno a lui e ai suoi successori il potere di realizzarlo. Si sbagliano tragicamente.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché l’opposizione israeliana non vuole parlare del vero obiettivo della riforma giudiziaria

Michael Schaeffer Omer-Man

21 febbraio 2023 – +972 Magazine

Politici del governo hanno esplicitamente affermato che la riforma giudiziaria riguarda l’annessione. Gli oppositori non vogliono ammetterlo perché condividono lo stesso progetto.

Quasi esattamente 10 anni fa il ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin, allora giovane stella nascente nel partito di Netanyahu, il Likud, parlò a una conferenza organizzata dal Movimento Israeliano per la Sovranità, sostenitore della totale annessione da parte di Israele dei territori palestinesi occupati. Prima di esporre un piano di quattro fasi per quello che molti hanno definito una “annessione strisciante” attraverso piccoli passi successivi nell’applicare la legge israeliana alla Cisgiordania, Levin mise in guardia il suo pubblico di ideologi.

Non ho dubbi che tra non molto riusciremo ad estendere la sovranità su tutta la Terra di Israele,” rassicurò i presenti. “È importante avere questo progetto perché a volte esso contrasta con le tattiche e i compromessi che devono essere fatti lungo il percorso. Dobbiamo attenerci a questo obiettivo in modo intelligente giorno dopo giorno, potrei persino dire talvolta con raffinatezza, per raggiungere alla fine il nostro obiettivo.”

Un anno dopo Levin parlò di nuovo alla conferenza. Oltre ai passi discreti e implacabili che aveva presentato nella sua precedente apparizione, il politico del Likud aggiunse due importanti prerequisiti per una totale annessione. Il primo, ammonì, era una lenta e paziente campagna per cambiare il modo in cui l’opinione pubblica israeliana, compresa la destra annessionista, pensava e parlava della questione palestinese dopo decenni in cui gli Accordi di Oslo e la soluzione a due Stati avevano caratterizzato il discorso.

La seconda condizione imprescindibile per l’annessione di cui parlò fu molto più audace: una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario israeliano. “Non possiamo accettare l’attuale situazione in cui il sistema giudiziario è controllato da estremisti di sinistra, una minoranza post-sionista che si auto-nomina a porte chiuse, imponendoci i suoi valori, non solo sull’(annessione), ma anche su altre questioni,” spiegò Levin. “Un cambiamento del sistema giudiziario è essenziale perché ci consentirà e ci faciliterà il fatto di intraprendere passi concreti sul terreno che rafforzino il processo di promozione della sovranità.”

Molti nella destra israeliana vedono il sistema giudiziario del Paese, che in realtà ha appoggiato e consentito l’esistenza stessa e l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, come ostile al movimento dei coloni. Vedono gli occasionali vincoli che la Corte ha introdotto, in particolare il fatto che essa abbia bocciato una legge che avrebbe legalizzato colonie costruite su proprietà privata palestinese rubata, come il principale impedimento alla possibilità di realizzare i sogni annessionisti, che per loro sono una combinazione di imperativi messianici e ideologici.

Passano 10 anni e Levin diventa il nuovo ministro della Giustizia di Israele, accelerando una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario del Paese, in un processo che molti all’interno di Israele definiscono un tentativo di colpo di stato. La proposta di legge ha scatenato in Israele un massiccio movimento di protesta che ha visto manifestazioni settimanali, scioperi generali, minacce di fuga di capitali e importanti personalità che invocano la disobbedienza civile.

Nonostante la crescente rivolta, lunedì notte la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in prima lettura una legge che darebbe al governo un notevole controllo sulla commissione per la selezione dei giudici israeliani e impedirebbe alla Corte Suprema di esercitare il controllo giudiziario sulle Leggi Fondamentali del Paese. La proposta richiede altre due letture perché venga convertita in legge.

In un Paese con un ordine costituzionale caratterizzato dalle innumerevoli decisioni dei suoi leader di non prendere decisioni, la prospettiva di un risoluto governo di estrema destra che consolidi il potere e sovverta l’unico controllo istituzionale sulle sue pretese è indubbiamente terrificante. Quindi molti israeliani pensano di lottare per salvare la democrazia, le libertà e i diritti che hanno sperimentato nel loro Paese per più di 70 anni.

Ma ciò sollecita una domanda cruciale: perché il latente obiettivo ideologico e politico che promuove questa riforma dell’intero sistema di governo israeliano da parte dell’estrema destra, cioè l’annessione unilaterale dei territori occupati, è così assente dal discorso pubblico e dalle proteste nelle piazze?

Non è un progetto degli estremisti

Non c’è bisogno di vedere i video di 10 anni fa su YouTube per capire l’ossessione fanatica che la destra israeliana ha riguardo all’annessione. Solo qualche anno fa, in un governo non diverso da quello di oggi, Netanyahu disse che entro breve avrebbe ufficialmente annesso vaste aree della Cisgiordania occupata, un piano poi congelato in cambio della normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, seguiti dal Bahrein, dal Marocco e dal Sudan.

In seguito a quel disastro per la destra annessionista, nel 2020 l’allora presidente della Knesset Yariv Levin, insieme all’attuale ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, fondò il “Comitato per la Terra di Israele”. Pur mettendo in guardia i suoi sodali ideologici che come presidente della Knesset avrebbe dovuto parlare in “termini istituzionali”, durante il primo incontro Levin rassicurò i suoi alleati del comitato che avrebbe comunque lavorato per procedere verso l’annessione. “La sovranità su tutta la terra di Israele,” affermò, “è l’irrevocabile diritto del popolo ebraico. È nostro dovere, e non una questione di scelta, realizzarlo.”

È importante analizzare la leadership di Levin a favore dell’annessione per due ragioni. La prima è che egli si trova ora nella posizione di mettere le basi giuridiche per la sua realizzazione. La seconda è che i progetti annessionisti di questo governo, sia all’interno di Israele che a livello internazionale, tendono ad essere liquidati come un progetto di politici e partiti dei coloni estremisti che sono arrivati al governo e grazie ai quali Netanyahu è stato in grado di riprendere il potere dopo quattro elezioni inconcludenti e un breve periodo all’opposizione.

Il Comitato per la Terra di Israele, che Levin ha co-fondato per portare avanti strategie legislative e alleanze trasversali tra i partiti finalizzate all’annessione, è sempre stato dominato dal Likud. Nella 23esima Knesset, quando il comitato è stato fondato, i parlamentari del Likud rappresentavano il 44% dei membri, più di metà degli eletti del partito. Da allora nella 24esima Knesset, sciolta lo scorso novembre, l’87% dei deputati del Likud faceva parte del comitato ed essi rappresentavano il 57% di esso. Pochi anni prima il comitato centrale del Likud aveva votato per sostenere l’annessione come parte del proprio programma.

Nonostante la loro esplicita agenda, nel più vasto dibattito pubblico Netanyahu e il Likud sono percepiti come intenzionati a riformare il sistema di governo israeliano per ragioni diverse, di megalomania e corruzione. Il primo ministro, si afferma, attualmente è sotto processo per corruzione, la principale ragione citata dai suoi alleati storici per abbandonarlo, e l’unico modo per lui di garantirsi di non finire in galera è attraverso il controllo del potere giudiziario. All’interno di questa narrazione la riforma governativa è stata definita semplicemente come un abuso di potere, benché con conseguenze di vasta portata per l’economia, la posizione diplomatica, i diritti civili e per una delle linee di faglia più spinose di Israele: i rapporti tra Stato e religione.

Generalmente si attribuisce ai partiti più piccoli e radicali dell’ultimo governo Netanyahu, guidati da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, l’uso della riforma giudiziaria per raggiungere finalmente il loro sogno di annessione, sfrenata espansione delle colonie ed espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Per gran parte dell’opposizione essi sono tutt’al più degli opportunisti che hanno individuato il momento in cui le loro fantasie messianiche convergono con gli interessi personali di Netanyahu e in cui finalmente hanno influenza perché senza di loro il governo crollerebbe.

Di conseguenza la lotta per salvare la democrazia israeliana dipinge la propria distopia in parallelo con la caduta nell’autoritarismo vista in Ungheria e in Polonia nello scorso decennio. Quindi bloccare l’“orbanizzazione” di Israele è diventata una sorta di parola d’ordine dell’opposizione.

Un ethos colonialista unificante

La ragione di questa dissonanza tra la narrazione dell’opposizione e il vero progetto del Likud è duplice. Primo, perché in parte è vera: in effetti Netanyahu ha bisogno di questi alleati di coalizione proprio per la sua stessa sopravvivenza politica e la sua libertà personale. La seconda ragione si riduce al fatto che l’opposizione israeliana e Netanyahu condividono la stessa ideologia, il sionismo, il cui fondamento è la convinzione che dio abbia dato la Terra di Israele al popolo ebraico, che gli ebrei abbiano il diritto di stanziarsi su ogni parte di quella terra e che la sopravvivenza del popolo ebraico dipenda dalla estrinsecazione fisica e politica di tale dottrina.

L’unica seria sfida a questo progetto, il fallito processo di Oslo che prevedeva la partizione e diversi livelli di limitata autonomia palestinese, non ha mai contrastato la fondamentale convinzione sionista che tutta la Terra di Israele sia del popolo ebraico. Quello su cui leader come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon dissentivano riguardava il compromesso strategico, non l’ideologia. Loro e gli israeliani che ne seguivano i rispettivi percorsi non hanno mai visto la rinuncia alla piena applicazione di quello che è noto come sionismo massimalista o espansionista come una sua negazione.

Questo caposaldo del sionismo è la ragione per cui Rabin, Sharon, Shimon Peres, Ehud Olmert, Tzipi Livni e qualunque altro importante politico israeliano che ha proposto o inteso fare concessioni territoriali non si è mai sognato di rinunciare a tutte le colonie israeliane al di là della Linea Verde. A un decennio dall’ultimo processo di pace credibile, in Israele il sostegno persino a una limitata concessione territoriale è praticamente sparito.

A prescindere dalla sua veridicità storica, l’idea della sinistra israeliana di terra in cambio di pace è stata screditata dalla maggioranza degli israeliani sionisti come un errore comprovato. Persino quei partiti politici che ancora sostengono una soluzione a due Stati, anche solo in teoria, hanno interiorizzato da molto tempo l’inutilità di perseguirla. Un recente sondaggio ha rilevato che il sostegno degli ebrei israeliani a un regime di apartheid permanente, in cui Israele controlli tutto il territorio dal fiume Giordano al Mediterraneo ma non conceda pari diritti ai palestinesi, è raddoppiato negli ultimi due anni dal 15 al 29%. Nello stesso periodo il numero di ebrei israeliani che appoggiano i due Stati è sceso dal 43 al 34 %.

Cosa ancora più grave, una significativa sezione trasversale di quanti protestano contro il piano Netanyahu-Levin-Smotrich-Ben Gvir, e stanno anche avvertendo di un possibile spargimento di sangue nelle piazze, condivide il latente insieme di principi ideologici e obiettivi politici che il quel progetto intende raggiungere.

Per alcuni israeliani l’opposizione è personale: aborrono l’idea che governi il loro Paese qualcuno sotto processo per corruzione. Per altri, come Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista laico, ndt.] e molti israeliani laici preoccupati dalle imposizioni religiose, si tratta dell’alleanza di Netanyahu con partiti religiosi ebraici. Per quanti sono più vicini al centro-sinistra, le differenze riguardano il prezzo per il vissuto ebraico democratico e quasi liberale di Israele.

Molti economisti e importanti uomini d’affari sono semplicemente terrorizzati dai previsti danni per l’economia israeliana derivanti dall’erosione dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.

Il problema con la “democrazia israeliana”

Dato che queste differenze non sono ideologiche, praticamente nessuno sta facendo i conti con la dissonanza tra la propria concezione della democrazia israeliana che starebbe cercando di salvare e l’intrinsecamente antidemocratico e illiberale regime di apartheid su cui la “sovranità ebraica” si è sempre fondata.

Il centro e buona parte della destra israeliani si oppongono all’annessione a breve termine della Cisgiordania perché pensano che in base alle attuali circostanze lo status quo di una “temporanea” occupazione militare di più di 55 anni sia più prudente dal punto di vista strategico. Secondo loro cancellare formalmente la distinzione tra i territori occupati e il vero e proprio territorio riconosciuto di Israele renderebbe troppo difficile convincere il mondo che Israele non è un regime di apartheid in cui a metà della popolazione, palestinese, vengono negati fondamentali diritti democratici, civili e umani.

Tale dissonanza risulta evidente se si considera che l’opposizione al piano di Netanyahu non sta offrendo un progetto alternativo. Non stanno suggerendo che Israele adotti una costituzione con garanzie formali di uguaglianza, diritti civili, democrazia o chiarezza sulla questione dei rapporti tra Stato e religione. Non hanno intenzione di denunciare le mire espansionistiche di Levin, Smotrich e Ben Gvir perché tali mire e la convinzione che la Terra di Israele sia del popolo ebraico è intrinseca all’ethos sionista. Non sono in grado di definire cosa effettivamente ne sia della democrazia israeliana se continua a governare in modo antidemocratico milioni di palestinesi senza concedere loro pari diritti.

Tuttavia il baratro che, come avvertono alcuni, potrebbe portare Israele a una guerra civile non riguarda visioni contrapposte del Paese. Il fatto è che un gruppo non si accontenta più di aspettare le “giuste condizioni” per realizzare il sogno sionista della sovranità ebraica su tutta la Terra di Israele, mentre l’altro preferisce attenersi alla tradizione politica di guadagnare tempo decidendo di non decidere.

Per Netanyahu, Levin, Smotrich e Ben Gvir le conseguenze della formalizzazione di un regime di apartheid che mini la nozione di Israele come una democrazia, e alcuni dei privilegi e vantaggi che questa definizione offre loro, valgono il costo, se pure il mondo è intenzionato a imporne uno. E proporre una vera visione alternativa richiederebbe all’opposizione un livello di riflessione su se stessa e una sfida a convinzioni fondamentali che praticamente nessuno intraprenderebbe volontariamente.

Michael Schaeffer Omer-Man è direttore di ricerca per Israele-Palestina al DAWN [Democracy for the Arab World Now, istituto di ricerca statunitense, ndt.]. Fino al 2019 è stato direttore di +972 Magazine. Ha lavorato anche con agenzie internazionali umanitarie e per i rifugiati nel contesto Israele/Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La bolla dell’hasbara israeliana sta per scoppiare? [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt]

Meron Rapoport

13 febbraio 2023 – +972 Magazine

Per decenni gli alleati occidentali di Israele hanno hanno annuito quando si autodefiniva “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Cosa succederà se ci ripensano?

“Perché le nostre nazioni condividono un’alleanza così stretta?” si è chiesto ad alta voce il primo ministro Benjamin Netanyahu davanti al presidente francese Emmanuel Macron a Parigi nel 2018, durante un evento in occasione dei 70 anni dalla fondazione di Israele. “Suppongo che la risposta possa essere riassunta in tre parole – parole che tutti voi conoscete: Libertè, egalitè, fraternitè!” Netanyahu ha continuato. Come la Francia, Israele è una democrazia orgogliosa, orgogliosa del nostro primato nel preservare la libertà nel cuore del Medio Oriente. Questo è davvero un risultato notevole perché in questi 70 anni non c’è stato un solo momento, nemmeno un secondo, in cui la democrazia di Israele sia stata messa in discussione».

Eppure per Macron sembra essere arrivato il momento in cui potrebbe porre in discussione la democrazia di Israele. Secondo “Le Monde”, durante il loro ultimo incontro a Parigi all’inizio di questo mese Macron ha detto a Netanyahu che se il programma del governo di estrema destra sulla revisione del sistema giudiziario andrà a buon fine la Francia sarà “costretta a concludere che Israele ha abbandonato il concetto dominante di democrazia”. Cioè, se Netanyahu ha propagandato Israele come un bastione della “libertà in Medio Oriente” per dimostrare a Paesi come la Francia di avere “valori condivisi”, sembra che oggi meno persone stiano abboccando a quanto il primo ministro sta spacciando.

Naturalmente, per quanto riguarda i palestinesi Israele non è mai stato una democrazia – dall’espulsione di 750.000 palestinesi durante la Nakba e la negazione del loro diritto al ritorno, attraverso il governo militare sui cittadini palestinesi di Israele durato fino al 1966, all’occupazione del 1967 e la sua sistematica violazione dei diritti dei palestinesi fino ad oggi. Macron, come altri leader mondiali, ne è sicuramente consapevole. Ma fintanto che lo Stato di Israele operava più o meno con tutti gli orpelli della democrazia era conveniente per il leader francese e altri nel cosiddetto mondo occidentale chiudere un occhio su ciò che stava accadendo oltre la Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 ndt] e vedere l’occupazione israeliana e l’apartheid nei territori come un’anomalia, piuttosto che una caratteristica della democrazia israeliana.

La sua sedicente immagine di “unica democrazia in Medio Oriente” è stata per decenni, non solo durante l’era Netanyahu, la risorsa strategica di Israele, ed è una delle numerose ragioni che spiegano come Israele abbia goduto dell’immunità internazionale rispetto all’occupazione. Il suo sistema giudiziario relativamente indipendente, l’immagine di una stampa libera, le politiche apparentemente liberali nei confronti della sua comunità LGBTQ e il marketing aggressivo di Tel Aviv come una delle città più alla moda del mondo sono tutti serviti a questa immagine. Anche il concetto di “Start-Up Nation” ha contribuito a dipingere Israele come un Paese libero e creativo, parte integrante dell’Occidente.

Subito dopo il rapporto di Le Monde una fonte vicina a Netanyahu si è affrettata a chiarire ai giornalisti israeliani che Netanyahu ha avuto l’impressione che Macron non conoscesse tutti i dettagli della riforma. Ma si tratta di un’affermazione discutibile, dato che la riforma – la cui prima parte è stata approvata lunedì dalla Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] e la prossima settimana potrebbe approdare alla Knesset in seduta plenaria per un voto preliminare – non è così complessa.

Quando un mese fa il ministro della Giustizia Yariv Levin l’ha annunciata ha impiegato esattamente tre minuti e mezzo per spiegarla: una clausola di annullamento che consentirebbe a 61 membri della Knesset di ribaltare le sentenze della Corte Suprema, accentuando il ruolo dei membri della Knesset nella proclamazione dei giudici della Corte Suprema, in modo tale che sia il governo a nominare i giudici, e rendendo le nomine dei consulenti legali “ad personam”. Sono convinto che la riforma avrebbe potuto essere spiegata a Macron in ancor meno tempo con una semplice frase: d’ora in poi il governo israeliano farà quello che vuole e nessun tribunale potrà fermarlo.

Macron è stato uno dei leader europei più importanti a parlare contro la rivoluzione antidemocratica di Viktor Orbán in Ungheria. Quando la Francia ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione europea nel 2022 Macron ha spiegato che il suo compito principale sarebbe stato promuovere lo “stato di diritto” in Europa. “Siamo una generazione che sta scoprendo di nuovo come la democrazia e lo stato di diritto possono essere resi fragili”, ha affermato. Lo stato di diritto, ha aggiunto Macron, non è una “invenzione di Bruxelles”, ma parte della storia europea. “La fine dello stato di diritto è l’inizio dell’autoritarismo”.

Sebbene non esplicitamente menzionato, il governo ungherese ha capito molto bene di chi stesse parlando il presidente. “Ci aspettiamo che la presidenza francese di turno del Consiglio (europeo) smetta di applicare doppi standard e ricatti politici”, ha dichiarato Tamás Deutsch, membro del Parlamento europeo per il partito Fidesz di Orbán, in risposta al blocco dell’UE sul trasferimento di miliardi di euro all’Ungheria, non essendo riuscita ad attuare le riforme democratiche. Nel dicembre 2022 l’UE ha accettato di sbloccare parte del denaro, ma questi pagamenti sono ancora subordinati a ulteriori riforme.

Israele non è un membro dell’UE, e quindi Macron non può esercitare su Netanyahu lo stesso tipo di pressione che esercita su Orbán. Ma questo confronto in corso tra Macron in particolare, e l’Unione Europea in generale, da un lato, e l’Ungheria dall’altro, mostra l’importanza di quelli che un tempo erano considerati affari strettamente interni, come lo stato di diritto o la qualità della democrazia in un determinato Paese, in Paesi che apparentemente hanno “valori condivisi”.

“La prima linea dell’Occidente in Oriente”

Come altre colonie di insediamento, come gli Stati Uniti, il Canada e il Sud Africa, il sionismo si è vantata di aver stabilito in Palestina una “società modello” – per i coloni, ovviamente, non per la popolazione indigena. Una delle manifestazioni di questa società modello” è stata la democrazia interna che il movimento sionista ha stabilito tra il fiume e il mare [tra il Giordano e il Mediterraneo, ndt.]. Incluse procedure democratiche all’interno dei partiti sionisti, elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti, l’organo legislativo che ha preceduto la Knesset e ha rappresentato la comunità dei coloni ebrei in Palestina durante il mandato britannico, elezioni nell’Organizzazione sionista mondiale e, naturalmente, elezioni per la Knesset dopo il 1948. Lo Stato di dirittoe l’indipendenza della corte erano, e sono rimaste, parte di questo pacchettodemocratico per gli ebrei.

Questa “società modello” è stata uno strumento importante per creare una coesione tra i coloni ebrei sotto il mandato britannico, e successivamente in Israele. Ma fin dal primo momento fu di enorme importanza anche per le relazioni tra la comunità ebraica in Israele e l'”Occidente”. Il fatto che il sionismo abbia stabilito una società libera e democratica nella Terra d’Israele è servito come prova che essa fa parte dell’Occidente, che rappresenta l’Occidente e che è portatrice di “libertà, uguaglianza, fratellanza” nel selvaggio e pericoloso Medio Oriente, come ha spiegato Netanyahu a Macron.

Questa visione è particolarmente profonda nella famiglia Netanayhu. Il sionismo è sempre stato la prima linea dell’Occidente in Oriente, ha detto Benzion Netanyahu, padre del primo ministro, in un’intervista ad Haaretz nel 1998. “Oggi è lo stesso: ha contrastato le tendenze naturali dell’Est a penetrare l’Occidente e schiavizzarlo”. Suo figlio Benjamin ha detto cose sorprendentemente simili nel 2017 durante un incontro con i capi del Gruppo Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. L’Europa finisce in Israele. A est di Israele, non c’è più Europa”, avrebbe detto Netanyahu durante una conversazione a porte chiuse con i leader.

Una delle affermazioni centrali degli oppositori dell’attuale tentativo di riforma giudiziaria è che la comunità degli affari non può operare in un Paese in cui il governo è forte e i tribunali sono deboli, e quindi le società lasceranno Israele e gli investitori saranno cauti nel mettere i loro soldi nell’economia israeliana. D’altra parte, i sostenitori della riforma affermano che in realtà essa incoraggerà la “libertà economica” – e non hanno necessariamente torto; in Cile il capitalismo è fiorito dopo che la democrazia è stata uccisa dal regime di Pinochet, mentre in Cina il capitalismo prospera anche in mancanza di un minimo di democrazia. Quando il governo non ha limiti può sopprimere i sindacati e far prosperare il capitale senza fastidiose questioni come i diritti umani o la libertà di sciopero.

Ma i valori condivisi, in nome dei quali Paesi come Francia e Stati Uniti hanno chiuso un occhio davanti all’occupazione israeliana e alla sistematica violazione dei diritti dei palestinesi, vanno ben oltre il liberalismo economico. Riguardano la capacità stessa dei Paesi occidentali di vedere Israele come uno di loro. Quando il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha incontrato Netanyahu durante la sua visita nel Paese a fine gennaio ha spiegato quali sono gli interessi e valori condivisidi Israele e Stati Uniti: Il rispetto dei diritti umani, l’eguale amministrazione della giustizia per tutti, la parità di diritti delle minoranze, lo stato di diritto, la libertà di stampa e una solida società civile”.

È vero che sia le osservazioni di Blinken che quelle di Macron dovrebbero essere prese con le pinze. Gli Stati Uniti mantengono la loro “relazione speciale” con Israele, anche se non c’è stato quasi un solo giorno nella storia di Israele in cui abbia rispettato i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato anche citato dopo l’incontro con Macron per aver detto che le lamentele sulla mancanza di democrazia in Israele diventeranno un “mantra” come le lamentele su Israele che non riesce a portare avanti una soluzione a due Stati.

Ci troviamo in un momento senza precedenti, in cui Levin, Netanyahu e il Presidente del Comitato per la costituzione, il diritto e la giustizia della Knesset, Simcha Rothman, sono determinati ad approvare la riforma ad ogni costo, mentre centinaia di migliaia di manifestanti, il procuratore generale, il presidente e [tutta, ndt.] la Corte Suprema sono determinati a opporsi. Se la Corte Suprema dovesse dichiarare incostituzionali le riforme potremmo andare incontro a uno scontro violento con dichiarazione di uno stato di emergenza, chiusura per decreto della Corte Suprema e arresto in massa dei leader della protesta.

Se questo accadesse, e il governo andasse contro i tribunali e i pochi rimasugli di valori liberali che ancora esistono in Israele, forse allora i Paesi occidentali farebbero un ulteriore passo avanti nelle loro critiche. E se lo facessero anche l’immunità dalle critiche all’occupazione di cui Israele ha goduto per decenni potrebbe cominciare a incrinarsi. Dopodiché, si giocherebbe una partita completamente nuova.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il piano per mettere dietro le sbarre un israeliano antisionista

Oren Ziv

9 febbraio 2023 – +972 Magazine

La collusione tra la polizia e le organizzazioni di destra per incriminare lo storico attivista Jonathan Pollak è un allarmante inasprimento che minaccia tutti gli ebrei dissidenti.

Venerdì scorso i palestinesi della città cisgiordana di Beita, vicino Nablus, hanno fatto la loro manifestazione settimanale contro un avamposto di coloni israeliani costruito sulla loro terra circa due anni fa. In un clima tempestoso, mentre alcuni manifestanti bruciavano copertoni, altri esibivano le foto di un prigioniero politico, una scena consueta nelle proteste palestinesi. Ma questa volta l’immagine sui poster non era quella di un palestinese, ma di Jonathan Pollak, un attivista ebreo israeliano antisionista che è stato arrestato dai soldati israeliani durante la protesta della settimana precedente.

Pollak è stato attivo nella lotta palestinese per gran parte della sua vita ed è uno dei pochi israeliani che si unisce regolarmente alle manifestazioni popolari settimanali guidate dai palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e in Israele. Il quarantenne è stato arrestato una decina di volte nel passato e per quattro volte condannato; di norma si rifiuta di collaborare con i procedimenti giudiziari relativi alle denunce penali e alle accuse contro di lui, considerandole illegittime.

Ora Pollak si trova in un carcere israeliano da quasi due settimane. Il 27 gennaio, quattro giorni dopo il suo arresto, è stato incriminato con l’accusa di aver lanciato pietre contro una jeep della polizia di frontiera. A parte un piccolo numero di attivisti che appoggiano Pollak, e le organizzazioni di destra che hanno colto l’occasione per rafforzare la loro campagna contro gli attivisti israeliani anti-apartheid, il suo arresto non ha provocato molta sensazione – nonostante il fatto che la polizia abbia chiesto la sua detenzione fino al termine del processo, cosa molto rara quando si tratta di attivisti israeliani.

Ma il recente arresto di Pollak dovrebbe interessare ad ogni attivista, compresi quelli che sono scesi in piazza ogni sabato sera nell’ultimo mese per protestare contro il governo di estrema destra. La possibilità che quei manifestanti siano continuamente arrestati e subiscano false accuse può essere minima, ma c’è comunque molto da imparare da questa vicenda.

Persecuzione politica’

I palestinesi manifestano regolarmente nella cittadina di Beita dal maggio 2021, quando i coloni hanno insediato l’avamposto di Eviatar sul Monte Sabih con l’appoggio dello Stato che ha preso possesso delle terre appartenenti a palestinesi a Beita, Qabalan e Yatma. Beita è diventata il fulcro della resistenza all’ avamposto, con gli abitanti e gli attivisti accampati sul Monte Sabih per oltre 100 giorni consecutivi, prima che le manifestazioni divenissero settimanali. Dall’inizio delle proteste sono stati uccisi dall’esercito israeliano 10 palestinesi, e più di mille sono stati feriti da proiettili di metallo ricoperti di gomma, in spugna, di piccolo calibro e proiettili veri. Migliaia hanno anche inalato gas lacrimogeni.

Il 27 gennaio, il giorno in cui Pollak è stato arrestato, la protesta a Beita si è svolta non solo di fronte a Eviatar, ma anche all’ingresso della città vicino all’autostrada 60. A mezzogiorno una jeep della polizia di frontiera ha caricato i manifestanti e i poliziotti hanno arrestato Pollak. In tribunale la sua avvocata, Riham Nasra, ha detto che Pollak aveva sentito due poliziotti che concordavano la loro versione della vicenda del suo arresto.

Pollak è stato anche interrogato in merito ad una denuncia sporta contro di lui dall’organizzazione di destra Ad Kan, che ha precedentemente avviato un’azione legale contro Pollak; la denuncia lo accusava di aver intralciato un poliziotto durante il suo servizio e di uso pericoloso del fuoco (copertoni in fiamme) durante una manifestazione nel villaggio di Burqa, sempre vicino a Nablus, nel 2019. Il 30 gennaio Ad Kan si è vantata su Twitter del fatto che la polizia l’aveva contattata dopo l’arresto di Pollak, a quanto pare per richiedere prove incriminanti.

La polizia non lo ha negato e ha detto a +972: “La polizia di Israele ha condotto un’indagine nei confronti di parecchi sospettati in seguito a disturbo dell’ordine pubblico pubblico avvenuto nell’area della Samaria (Cisgiordania settentrionale). Al termine dell’indagine è stato deciso dall’ufficio del procuratore di inoltrare un esposto del procuratore contro uno dei sospettati.” Questo strumento legale consente alla polizia di tenere un indiziato in custodia per parecchi giorni dopo la conclusione di un’indagine e prima che venga formulata un’incriminazione. Solo Pollak è stato arrestato in quell’occasione.

In seguito Liran Baruch del ‘Disabled Forum for Israel’s Security’ dell’esercito (collegato con l’organizzazione di destra Im Tirtzu) ha inoltrato alla polizia un’altra denuncia contro Pollak per un discorso da lui tenuto quando ha ricevuto il Premio Yeshayahu Leibowitz nel 2021 – un premio assegnato ogni anno dal movimento di obiettori di coscienza Yesh Gvul ad un attivista israeliano per il suo impegno contro l’occupazione. Nel suo discorso di accettazione Pollak ha ripetuto le parole che aveva scritto in un articolo su Haaretz dopo il suo arresto nel 2020, che invitavano gli israeliani a “marciare accanto ai ragazzi delle pietre e delle bottiglie molotov.” Pollak è già stato interrogato a questo proposito quando è stato arrestato nel 2021 e non è ancora chiaro se verrà incriminato per questo fatto.

Giovedì scorso, circa 24 ore dopo la denuncia di Baruch, Pollak è stato portato in una cella ed interrogato dalla polizia distrettuale di Tel Aviv. “La polizia mi ha assicurato che rimarrà sotto custodia fino alla fine del procedimento”, ha poi affermato Baruch su Twitter, aggiungendo: “Le accuse consistevano nell’attacco e lancio di pietre contro le forze di sicurezza, anche venerdì scorso, e nell’incitamento all’uccisione di ebrei nel suo famoso discorso ‘Unitevi ai ragazzi della generazione delle pietre e delle bottiglie molotov.’ Facciamo in modo che ogni anarchico che alzi la mano contro le forze di sicurezza e lo Stato di Israele sappia che prima o poi faremo i conti con lui.” La polizia non ha negato quanto riferito da Baruch.

Questa è persecuzione politica”, ha affermato Nasra, avvocata di Pollak. “In passato sono state sporte denunce contro Pollak, ma chiedere la detenzione fino al termine del processo è una nuova escalation. Non vediamo molte richieste come questa in casi riguardanti attivisti di sinistra ebrei”.

Le autorità sanno (che manifesta là ogni settimana) e non ha condanne per incidenti violenti”, continua Nasra. “Quando hanno arrestato Pollak uno dei poliziotti gli ha detto: ‘Ti conosco, sei qui per provocare’. La denuncia è debole e basata su tre testimonianze di poliziotti che, secondo Pollak, fin dall’inizio dell’indagine erano concordate.” A parte questo, Pollak ha rivendicato il suo diritto a non rispondere.

Un vero sostenitore della lotta palestinese’

Storico attivista antisionista, Pollak all’inizio degli anni 2000 fu co-fondatore di ‘Una sola lotta’, un gruppo anarchico che sottolineava i legami tra i diritti degli animali e altre forme di oppressione, compresa l’occupazione. E’ anche membro fondatore di ‘Anarchici contro il muro’, i cui attivisti si unirono alla lotta popolare nei villaggi palestinesi, tra cui Mas’ha, Budrus, Bil’in, Nil’in e decine di altri in Cisgiordania, contro la costruzione della barriera di separazione di Israele sulle loro terre da quasi dieci anni. Nel 2005 fu ricoverato in ospedale dopo essere stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato da un soldato israeliano durante una protesta a Bil’in.

Dopo il completamento da parte di Israele del muro nelle aree rurali palestinesi della Cisgiordania, Pollak fu tra i pochi attivisti israeliani che si unirono alle proteste nel villaggio di Nabi Saleh, dove i palestinesi facevano manifestazioni fin dal 2009 contro l’appropriazione di una sorgente del villaggio da parte di coloni israeliani. Partecipa anche regolarmente alle dimostrazioni contro le appropriazioni dei coloni nel quartiere di Gerusalemme di Sheikh Jarrah e contro la gentrificazione che spinge gli abitanti palestinesi fuori dalle loro case a Giaffa. Nell’ultimo anno e mezzo si è recato quasi ogni settimana a Beita.

Pollak, che non si copre il volto durante le manifestazioni a cui partecipa, da parecchi anni è diventato un bersaglio delle organizzazioni israeliane di destra. Esse hanno pubblicato un filmato in cui partecipa alle manifestazioni, aiuta a bloccare le strade per impedire le incursioni dell’esercito, porta ai palestinesi copertoni da bruciare – ma non hanno mai prodotto prove che sia ricorso ad alcun tipo di violenza. Nel 2019 fu aggredito da due israeliani mentre lasciava gli uffici del quotidiano Haaretz, dove lavora. Uno di loro cercò di accoltellarlo e lo ferì al viso; un altro gridò anche che lui era un “pazzo sinistrorso”.

Nel 2018 Ad Kan sporse una denuncia penale contro Pollak e altri due attivisti israeliani, Kobi Snitz e Ilan Shalif, per la loro partecipazione ad una manifestazione contro il muro in Cisgiordania. Nel processo, il primo del genere contro attivisti anti-occupazione, Ad Kan sostenne che “insieme ad altri rivoltosi essi hanno attaccato illegalmente soldati dell’esercito israeliano e agenti della polizia di frontiera.” Le diverse autorità non ritennero opportuno incriminare i tre attivisti.

Pollak rifiutò di assistere al procedimento giudiziario e in seguito fu raggiunto da un mandato di arresto. Dopo essere riuscito ad evitare numerosi tentativi di detenzione, fu arrestato nel gennaio 2020 e incarcerato per un mese e mezzo, fino a quando il pubblico ministero comunicò che stava rinviando le procedure nel processo di denuncia penale. Così facendo la causa contro Pollak e i due altri attivisti fu di fatto chiusa.

L’ultima condanna per Pollak è stata nel 2021: è stato accusato di intralcio ad un agente di polizia in servizio durante una manifestazione vicino al muro a Betlemme nel 2017. È stato condannato a 30 giorni di prigione e altri due mesi di libertà condizionale nei due anni seguenti. Come nel procedimento per la denuncia fatta da Ad Kan, Pollak ha scelto ancora una volta di non collaborare. Il giudice, Eitan Cohen, ha scritto nella sentenza che il rifiuto di Pollak di collaborare ha contribuito alla decisione di condannarlo. Il giudice ha deliberato che la risposta di Pollak nelle udienze relative all’accusa di aver intralciato un agente di polizia – “Non li ho intralciati abbastanza” – si configurava come “ammissione di colpevolezza”.

Khaled Abu-Qare, un attivista che ha partecipato all’ultima protesta di venerdì a Beita, ha detto a +972: “I palestinesi a Beita la scorsa settimana hanno esibito orgogliosamente la foto di Jonathan Pollak per esprimere il loro sostegno alla sua causa, che è direttamente legata alla causa palestinese. Il suo caso è stato citato dall’imam durante le preghiere del venerdì di fronte a centinaia di persone, perché lui è un vero sostenitore della lotta palestinese per la decolonizzazione dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo). La presenza di Jonathan sul campo è ciò che lo pone nel cuore dei palestinesi. Lui chiama le cose con il loro nome: apartheid. È stato leale con la lotta palestinese, perciò i suoi compagni sono leali verso di lui e noi chiediamo il suo immediato rilascio.”

Pagare il prezzo

Dal momento in cui la polizia ha arrestato Pollak, molte istituzioni israeliane – compresa la polizia, l’ufficio del procuratore e le organizzazioni di destra – si sono mobilitate per fargli pagare un alto prezzo per le sue attività politiche. Perché per loro sia facile farlo non è un mistero: alla luce delle sue esplicite opinioni politiche e della documentazione delle sue proteste (che l’esercito e la destra amano definire “terrorismo popolare”), il suo arresto non provocherà proteste nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] come nel caso degli arresti di coloni del movimento “hilltop youth” [I giovani della cima della collina] che aggrediscono i palestinesi.

La velocità e l’efficienza con cui le incriminazioni, che comprendono gravi accuse, sono state disposte contro di lui meno di una settimana dopo il suo arresto e la collaborazione tra la polizia e i gruppi di destra dovrebbero mettere in allarme chiunque scenda in strada per protestare – anche se ha opinioni opposte a quelle di Pollak. Fatta eccezione per le testimonianze dei tre agenti e un rapporto segreto, la polizia non ha presentato finora alcuna prova reale. Ma in tribunale è la loro parola contro quella di Pollak. E su loro richiesta, salvo una nuova decisione, non verrà rilasciato fino alla prossima udienza il 13 febbraio.

Gli arresti arbitrari durante le proteste e la rapida formulazione di incriminazioni basate su scarse prove, mentre sono un’anomalia per gli israeliani, sono la realtà per migliaia di palestinesi ogni anno, oltre alle centinaia di prigionieri in detenzione amministrativa senza accuse. I pochi attivisti israeliani che si sono uniti alle proteste in Cisgiordania negli ultimi anni sono stati normalmente protetti rispetto a queste prassi perché erano ebrei; anche quando sono stati arrestati sono stati rilasciati entro un giorno e di norma non vi è stata alcuna incriminazione nei loro confronti. Ma con il nuovo governo di estrema destra e l’attuale clima politico anche questo potrebbe cambiare – e non solo per i pochi che vanno a manifestare a Masafer Yatta, Sheikh Jarrah o nella Valle del Giordano, che da anni subiscono violenze e aggressioni da parte dei soldati e dei coloni.

Durante le manifestazioni “Balfour” [dal nome della via in cui risiede il premier, ndt.] contro il precedente governo di Benjamin Netanyahu, che si sono svolte per gran parte del 2020 fino all’inizio del 2021, la polizia israeliana ha arrestato centinaia di manifestanti e in seguito ha elevato denunce contro parecchi di loro. Ed è stato là che, per la prima volta, ha usato misure che fino ad allora erano state largamente riservate ai palestinesi, agli haredim [ultraortodossi, ndt.] e agli ebrei etiopi che protestavano. Se le manifestazioni di massa contro l’attuale governo e la sua proposta di riforma giudiziaria diventerà la “disobbedienza civile” che i leader della protesta invocano, i manifestanti di centro sinistra potrebbero trovarsi anch’essi a subire arresti arbitrari e incriminazioni come Pollak.

Nel suo discorso di accettazione nel ricevere il Premio Yeshayahu Leibowitz nel 2021, Pollak ha detto: “Tra il fiume e il mare c’è un solo regime colonialista che è del tutto illegittimo. E quando il regime è illegittimo qual è il ruolo dei membri della società coloniale che lo rifiutano? Qual è il nostro ruolo?”

La lotta per la liberazione deve essere condotta da coloro che cercano di liberarsi, non da noi”, ha continuato. “Quando i sudafricani bianchi si opposero all’apartheid…si unirono come minoranza all’ANC [African National Congress, il partito di Mandela, ndt.] – alcuni di loro hanno anche imbracciato le armi – nella lotta per cacciare il regime di apartheid e il colonialismo. È lo stesso qui in Palestina: per unirsi davvero alla lotta per eliminare l’apartheid i pochi coloni ebrei che sono interessati a questo devono levarsi contro l’essenza del regime coloniale, non contro questa o quella manifestazione di esso.”

Ed ha concluso: “Dobbiamo cercare e trovare la nostra strada all’interno del movimento di liberazione palestinese, tenendo conto che gli ebrei devono essere una minoranza (in esso) e che solo in questo modo…attraverso un ribaltamento consistente degli equilibri di potere, possiamo lavorare per la vera uguaglianza e la liberazione.”

Oren Ziv è un fotoreporter, corrispondente di Local Call [versione in ebraico di +972], e membro fondatore del collettivo di fotografi Activestills.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)