Solo i palestinesi possono decidere se boicottare la Corte degli occupanti

Michael Sfard

10 maggio 2022 – +972 magazine

La Corte Suprema israeliana ha approvato l’espulsione forzata di Masafer Yatta, e si ripresenta la questione se “legittimare” i tribunali.

La sentenza della Corte Suprema israeliana della scorsa settimana, che consente al governo di trasferire con la forza la comunità palestinese della Zona di Tiro 918 nell’area di Masafer Yatta, nella Cisigordania occupata, ha riacceso l’annoso dibattito tra attivisti di sinistra e per i diritti umani in Israele: dobbiamo presentare ricorsi alla Corte Suprema sulle violazioni dei diritti dei palestinesi che vivono sotto occupazione?

Le considerazioni sulle reti sociali, anche da parte di avvocati che hanno rappresentato i palestinesi davanti alla Corte Suprema per molti anni, hanno suggerito che è giunto il momento (e forse avrebbe dovuto essere fatto prima) di boicottare i tribunali israeliani ed evitare di chiedere ai giudici di porre rimedio o tutelare dai danni ai palestinesi.

È un argomento ben noto, e la comunità di attivisti in Israele-Palestina non è la prima a sollevarlo. Questo dibattito ha avuto luogo per decenni tra i militanti per i diritti umani in tutto il mondo – nel Sudafrica dell’apartheid e negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, per esempio – e continua tuttora, dall’India alla Russia.

Gli attivisti che si oppongono allo status quo – soprattutto in regimi repressivi, occupanti, di apartheid, etnocratici o totalitari – quasi sempre devono lottare con una situazione di sistemi giudiziari accondiscendenti che collaborano, e a volte persino si identificano, con i crimini di quei regimi.

La questione politica se ricorrere al sistema giudiziario di un governo repressivo è pertanto importante e affascinante, benché emerga solo dove c’è una possibilità realistica che si possa ottenere qualcosa con un procedimento legale. Perché ci sia questo dubbio ci deve essere un sistema che ogni tanto conceda qualche forma di riparazione, e la domanda è quindi se sia opportuno continuare a impegnarvisi e pagare il prezzo di tale impegno o lasciar perdere del tutto.

Ad ogni modo ciò che si ottiene non è sempre una vittoria, cioè una vittoria totale in una causa. Un contenzioso può garantire quelli che si potrebbero definire “frutti secondari”: benefici collaterali che a lungo termine possono aiutare in maniera significativa la lotta contro una determinata politica, ma non sono il risarcimento diretto cercato avviando il procedimento giudiziario.

Ogni avvocato che abbia mai avuto a che fare con una causa le cui possibilità di successo sono esili conosce i benefici collaterali delle azioni giudiziarie per i diritti umani. Spesso la speranza, e persino la strategia, è che si ottengano proprio questi successi secondari. Per esempio: il tempo.

Il tempo è un vantaggio collaterale molto importante. Molte cause rimandano in modo significativo la messa in pratica di un’azione o una politica ingiuste. I processi contro l’espulsione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar, nella Cisgiordania occupata, è durato 11 anni, finché la Corte Suprema ha deliberato a favore dello Stato. A Susiya, sulle colline meridionali di Hebron, lo stesso procedimento è durato 17 anni. La causa riguardante la Zona di Tiro 918 ha portato a un’ingiunzione temporanea che ha consentito alle comunità di continuare a vivere sulle loro terre. L’ingiunzione è rimasta in vigore per 22 anni.

Questi lunghi periodi di tempo consentono di organizzarsi politicamente, l’attivazione di pressioni diplomatiche e la garanzia di una significativa copertura mediatica –niente di tutto ciò sarebbe stato possibile se i progetti dello Stato fossero attuati rapidamente. Susiya e Khan al-Ahmar sono esempi perfetti di come il tempo possa rendere possibili l’organizzazione e una opposizione efficace, rendendo particolarmente difficile portare a termine le espulsioni forzate previste persino ora che tutti i ricorsi sono stati rigettati.

Un altro esempio di prodotto collaterale delle cause è l’informazione. Un’azione legale può mettere in luce molti dettagli riguardo a una politica o una prassi, che possono invece essere utili in una lotta sociale o politica. A volte in queste lotte le informazioni possono valere quanto l’oro.

Le azioni giudiziarie possono portare altri risultati: un procedimento legale può spesso incrementare la consapevolezza pubblica e attirare l’attenzione dei media sull’argomento sottoposto a controllo giudiziario; è un processo che dà vita a dibattiti concreti contro lo status quo e le azioni progettate dal governo, formulando nel contempo l’alternativa che dovrebbe sostituirle, contribuendo a far conoscere la lotta; obbliga lo Stato a prendere una posizione chiara che spieghi e difenda le sue azioni, e a darne conto. Sono tutti strumenti importanti in una lotta e che di rado sono ottenuti fuori dalle aule dei tribunali.

Fare ricorso o non fare ricorso

Di fronte a tutto ciò quelli che si oppongono alle azioni legali sono per lo più preoccupati dell’effetto di legittimazione di sentenze negative;, dell’inganno di una parvenza di processo equo e non di parte a favore dell’uso della forza coercitiva da parte del governo; l’impegno in queste cause di energie e risorse che potrebbero essere investite altrove. Questi sono i costi politici dei procedimenti giudiziari.

Quindi, cosa si conclude se si soppesano costi e benefici? Qual è il bilancio finale? Ricorrere o meno ai tribunali? Forse il prezzo maggiore sempre citato in questo contesto è che i procedimenti giudiziari possono portare a sentenze che legittimano i crimini. Ciò evidenzia un paradosso: più il tribunale è progressista – cioè, più è disponibile ad opporsi alle autorità e interviene a favore delle vittime delle violazioni dei diritti umani – maggiore è il costo in termini della legittimazione nel caso in cui caso si perda.

D’altro canto, più il sistema giudiziario è sottomesso, più sentenzia regolarmente a favore delle autorità e adotta la loro posizione, più si riduce il prezzo in termini di legittimazione.

Questa è una conclusione importante: il pericolo di legittimare le politiche (e il regime) è particolarmente alto nei sistemi giudiziari in cui è alta la possibilità di garantirsi delle vittorie significative. Non mi pare che questa sia la situazione in Israele. Anche se la Corte è stata tenuta tradizionalmente in grande considerazione, quell’epoca è passata sia in Israele che all’estero, sicuramente in quei contesti sociali che costituiscono il bacino di potenziali reclute e sostenitori nella lotta per porre fine all’occupazione.

Riguardo al molto tempo e alle molte energie che le cause richiedono, è chiaro che, se ci fossero mezzi alternativi di resistenza che potrebbero portare a risultati e soluzioni positive migliori dei tribunali israeliani sarebbe giusto spostare risorse su quei mezzi. Mi pare che in molti casi non ci siano alternative più efficaci ai procedimenti giudiziari.

Dall’altra parte ci sono esseri umani che sono vittime delle azioni che queste istanze cercano di impedire. Dal loro punto di vista c’è poco da perdere nel ricorrere ai tribunali. Se un’istanza fallisce, quello che succede sarebbe successo comunque, solo molto prima. In questo modo c’è almeno la speranza di garantirsi il tempo necessario per organizzare una lotta, per sfruttare l’attenzione data ai procedimenti giudiziari e per utilizzare le informazioni – parte delle quali possono essere importanti – che i processi mettono in luce.

E a volte, solo a volte, i ricorrenti ottengono una vera e propria vittoria, parziale o – in rare occasioni – totale, che impedisce un’ingiustizia: annullando la proibizione di viaggiare all’estero; limitando il furto di terre; garantendo l’accesso a terreni agricoli; cancellando la “legge sulle regolarizzazioni” [degli avamposti israeliani illegali, ndt.]; cacciando coloni da terre di proprietari privati palestinesi, come nel caso degli avamposti di Amona e di Migron.

La lealtà ai diritti umani ci autorizza a sacrificare la possibilità per una persona di evitare l’espulsione, la perdita di reddito o lo smantellamento di una comunità sull’altare di un calcolo dell’eventuali scotto di legittimare un regime repressivo?

Dopo tutte le considerazioni e valutazioni, in definitiva non sta agli avvocati o alle Ong decidere. La decisione spetta ai palestinesi. Sono loro che devono scegliere se ricorrere ai tribunali dell’occupante o boicottarli. Nel frattempo ogni anno migliaia di palestinesi optano per correre il rischio. Che sia per mancanza di alternative o per le sofferenze, questa è la scelta che stanno facendo.

Michael Sfard è avvocato specializzato in leggi sui diritti umani e umanitarie internazionali ed autore di “The Wall and The Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights [Il muro e la porta: Israele, Palestina e la battaglia giuridica per i diritti umani].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché una portavoce israeliana per la lotta all’antisemitismo diffonde la documentazione delle indagini contro un bambino palestinese?

Oren Ziv

26 aprile 2022 – +972 Magazine

La celebre attivista israeliana Noa Tishby ha diffuso foto inedite di un’indagine dell’esercito per giustificare l’arresto di un palestinese di 14 anni.

Le autorità responsabili della sicurezza israeliane stanno consegnando il materiale investigativo alle personalità di spicco online della hasbara [parola ebraica che indica la propaganda a favore dello Stato di Israele attraverso la diffusione di informazioni positive, ndtr.] per guadagnare consensi sui social media? Sembra proprio di sì.

Venerdì scorso l’attrice israeliana Noa Tishby, che questo mese è stata nominata prima portavoce speciale di Israele per la lotta all’antisemitismo e alla delegittimazione di Israele, ha pubblicato un video sulla sua pagina personale di Instagram in risposta a un post della top model palestinese-americana Bella Hadid. Hadid aveva condiviso una testimonianza su Athal al-Azzeh, un ragazzo palestinese di 14 anni arrestato due settimane fa dall’esercito israeliano con l’accusa di aver lanciato pietre, un’accusa che Athal ha categoricamente negato.

Nel suo video di risposta Tishby mostra due foto di un palestinese mascherato che fa rotolare un pneumatico, che sembra facciano parte del fascicolo investigativo dell’esercito israeliano su Athal – dato confermato da sua madre, Jinan, che afferma che le foto le sono state mostrate nel corso di un interrogatorio da agenti israeliani diversi giorni prima del post di Tishby. Il fascicolo dell’indagine, che non è pubblico, è stato molto probabilmente consegnato a Tishby dalle autorità.

Athal è stato arrestato il 15 aprile vicino al Checkpoint 300 a Betlemme, nella Cisgiordania occupata, mentre si dirigeva verso la casa di sua nonna nel campo profughi di Aida, vicino al muro di separazione. Sul luogo non erano in corso proteste ma nelle vicinanze, mentre lui passava, alcuni adolescenti stavano lanciando delle pietre contro la barriera di separazione.

Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, ha detto a +972 il padre di Athal, Ahmad, che svolge la professione di avvocato. Ahmad fa presente che sono passate poche ore prima che la famiglia ricevesse finalmente la notizia dal distretto palestinese dell’Ufficio di Coordinamento e Collegamento (DCO) [Uffici di coordinamento militare israelo-palestinese istituiti nell’ambito dell’accordo Gaza-Gerico del 1994 tra Israele e l’Autorità palestinese, ndtr.] che il loro figlio era stato arrestato, dopodiché hanno ricevuto una telefonata da un investigatore militare israeliano.

“Eravamo felici che fosse vivo, che almeno non l’avessero ucciso, soprattutto in un momento in cui sentiamo costantemente parlare di uso di armi da fuoco contro adolescenti”, dice Ahmad.

L’arresto di Athal ha attirato l’attenzione internazionale dopo che Bella Hadid ha condiviso un commento sul caso da parte dell’attivista israeliano di sinistra Yahav Erez, che ha ricevuto oltre 16.000 ‘mi piace’. Il post di Erez, che mostrava una foto di al-Azzeh mentre suonava il violino e cercava di convincere le autorità israeliane a rilasciarlo, riportava che Athal era “tenuto in ostaggio dall’apartheid israeliana”.

In risposta al post di Erez, Tishby sostenitrice di Israele di vecchia data, la cui nuova posizione di portavoce ricade sotto la competenza del ministero degli Esteri ha sostenuto su Instagram che Hadid stesse “propagandando antisemitismo”.

“Non è vero”, ha detto Tishby ai suoi follower. Non è stato rapito né è tenuto in ostaggio. È stato processato il 16 [aprile], ha visto un giudice due volte e ne è previsto il rilascio il 24. Athal è stato arrestato per aver lanciato sassi e bruciato pneumatici, cosa per cui sarebbe stato arrestato negli Stati Uniti o in qualsiasi altro Paese del mondo rispettoso della legge”.

Nel condividere il post, continua Tishby, Hadid sta “diffondendo odio e disinformazione, che demonizza lo stato ebraico e fa divampare – sì, Bella – divampare l’antisemitismo”, aggiungendo che Athal dovrebbe “concentrarsi maggiormente sul suo violino piuttosto che sulla violenza contro gli ebrei.

Il video di Tishby includeva foto di palestinesi mascherati che sembrano essere state scattate dalle telecamere di sicurezza israeliane posizionate lungo la barriera di separazione, presumibilmente durante gli scontri con le forze israeliane. Jinan, la madre di Athal, ha detto che mercoledì scorso, diversi giorni prima che Tishby pubblicasse il suo video, dopo essere stata condotta alla stazione di polizia di Atarot, gli agenti israeliani che la interrogavano le hanno mostrato, tra l’altro, le due foto viste nel pezzo postato da Tishby.

“Ho visto le foto che sono apparse su Instagram”, ricorda. Sono esattamente le stesse foto [che mi hanno mostrato]. Mi hanno mostrato le due immagini e volevano che dicessi che era mio figlio, ma ho detto loro che non lo era. Mi hanno chiamata bugiarda”.

Dal momento del suo arresto Athal ha affrontato quattro udienze presso il tribunale militare di Ofer, una delle quali si è svolta martedì scorso. È stato accusato di lancio di pietre e di aver dato fuoco a pneumatici. “Mio figlio non ha fatto nulla e ha negato tutte le accuse contro di lui”, afferma Jinan. “Nel corso delle indagini hanno continuato a fare pressioni su di lui con l’uso di tattiche psicologiche per costringerlo a confessare”.

Ahmad ha detto che quando ha incontrato suo figlio a Ofer Athal gli ha riferito che gli agenti che conducevano l’interrogatorio lo hanno minacciato di tenerlo in prigione “per sempre”, ma Athal si è rifiutato di ammettere le accuse. “Ciò li disturba”, ha aggiunto Ahmad. Io stesso sono un avvocato e molto spesso in casa abbiamo parlato della legge. Lui lo sa”. Athal ha anche detto ai suoi genitori che se si fosse rifiutato di confessare, anche loro sarebbero stati sottoposti ad interrogatorio. Le autorità hanno mantenuto la loro promessa e la scorsa settimana hanno convocato Jinan.

Violazione del diritto ad un procedimento equo

Non sorprende che, nonostante le affermazioni di Tishby, Athal non sia stato rilasciato il 24 aprile, ma al contrario sia stato portato per un’udienza a Ofer, dove la sua custodia cautelare è stata prolungata.

Ho visto il post [di Tishby]. Speravo che riportasse la verità e che sarebbe stato rilasciato, ma sfortunatamente non è stato così”, dice Ahmad. Non ho alcuna speranza, ma chissà. Voglio continuare a credere che Dio lo aiuti e che il giudice ordini il rilascio di [Athal]”.

Lo stesso Ahmad ha pubblicato due commenti sul video di Tishby su Instagram prima e dopo l’indicazione da parte sua della data di rilascio. Tra le altre osservazioni ha scritto (riformulato per maggiore chiarezza): Ti permetti di essere poco professionale e di parlare a nome dell’intelligence israeliana. Stai diffondendo bugie su un ragazzo innocente di 14 anni”. Trascorso il 24 aprile, ha pubblicato un’ulteriore risposta: “Athal è stato torturato dal tuo esercito e la madre di Athal è stata sottoposta a un inferno di interrogatori che volevano costringerla a condannare suo figlio – hai qualche risposta in merito? Mentre ti godi l’abbronzatura sulla spiaggia noi palestinesi veniamo torturati dal tuo governo”.

In un’udienza tenutasi martedì presso il tribunale militare di Ofer il giudice Noam Breiman ha ordinato il rilascio di Athal su una cauzione di 4.000 NIS [nuovi shekel israeliani, 1147 euro, ndtr.], nonché una cauzione sulla responsabilità di terzi di 5.000 NIS [1433 euro, ndtr.]. I procedimenti legali continueranno e Athal rischia di essere giudicato alla fine di maggio.

Il giudice ha stabilito che il lancio di pietre avvenuto durante il passaggio di Athal non era diretto ai soldati israeliani ma piuttosto a una torre di guardia e che a causa della sua taglia fisica è dubbio che le pietre possano aver causato danni significativi.

L’arresto di minori palestinesi, compresi adolescenti, è una pratica israeliana comune nella Cisgiordania occupata. Secondo Addameer, un’organizzazione impegnata a favore dei diritti dei prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e palestinesi, Israele detiene attualmente in prigione 160 minori palestinesi.

Proprio questa settimana Haaretz ha riferito che, secondo i dati dell’esercito, tra il 2018 e l’aprile 2021, il 96% dei processi nei tribunali militari israeliani si è concluso con una condanna e il 99,6% di tali condanne è stato ottenuto tramite un patteggiamento. Questa tendenza dominante è evidente nel caso di Athal, poiché l’esercito e il sistema giudiziario militare cercano chiaramente di fare pressioni su di lui affinché confessi le accuse durante gli interrogatori, aprendo la strada a un patteggiamento.

Riham Nassra, un avvocato che rappresenta i detenuti palestinesi nei tribunali militari, ha affermato che la pubblicazione di materiale investigativo prima che venga emessa un’accusa, come ha fatto Tishby, è illegale e indica che il materiale è effettivamente trapelato. “Anche se quei materiali sono stati in qualche modo presentati all’udienza del tribunale, era illegale che venissero diffusi: ciò viola il diritto a un processo equo, soprattutto quando si tratta di un minore la cui udienza si tiene a porte chiuse e può anche interrompere o danneggiare l’indagine”.

Il ministero degli esteri israeliano, che sovrintende al ruolo di Tishby come portavoce speciale per la lotta all’antisemitismo, ha dichiarato: “Il video di Noa Tishby è stato pubblicato in risposta a un video ingannevole pubblicato sui social media con informazioni deliberatamente false sull’arresto di un giovane palestinese, al fine di offuscare l’immagine di Israele e delegittimare le sue azioni. In coordinamento con vari organismi abbiamo condotto un esame dei fatti che hanno costituito la base per la risposta di Noa Tishby. Le foto pubblicate non rivelano il volto del detenuto e quindi non vi è alcun impedimento alla loro pubblicazione. In particolare, il ministero degli Esteri non ha negato esplicitamente di aver consegnato i materiali per la pubblicazione da parte di Tishby.

Il portavoce dell’IDF [esercito israeliano, ndtr.] deve ancora rispondere alla nostra richiesta di commento.

Oren Ziv è un fotoreporter e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [organizzazione internazionale di fotografi e fotoreporter che utilizzano l’immagine fotografica come strumento contro ogni forma di oppressione, razzismo e discriminazione, in particolare nel territorio palestinese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mansour Abbas non intende far cadere il governo israeliano, per il suo stesso bene

Sama Salaime

19 aprile 2022 – +972 magazine

Il leader di Ra’am ha congelato l’adesione del suo partito al governo in seguito alla violenta repressione ad Al-Aqsa. Ecco perché andarsene non è un’opzione.

La decisione dello scorso fine settimana del partito Ra’am [Lista Araba Unita, ndtr.] di congelare temporaneamente, ma non cancellare, la sua adesione al governo israeliano a seguito delle rinnovate violenze nel complesso di Al-Aqsa [la moschea al-Aqā fa parte del complesso di edifici religiosi di Gerusalemme noto sia come Monte Majid o al-aram al-Sharīf da parte dei musulmani, Har ha-Bayit dagli ebrei, ndtr.] è tanto singolare quanto necessaria. Non c’è nessun politico palestinese in Israele che vorrebbe trovarsi in questo momento nei panni di Abbas. Il suo partito è stato in grado di resistere per 10 mesi come membro di una coalizione debole e in bilico, e ha subito attacchi feroci sia dall’opposizione che dalle fazioni più a destra del governo, in primo luogo dalla ministra dell’Interno Ayelet Shaked [del partito di estrema destra Yamina, lo stesso del primo ministro Bennett, ndtr.].

Di volta in volta la Lista Araba Unita ha resistito, nonostante le critiche mossele, tra l’altro, durante la vicenda riguardante la legge sulla cittadinanza [il 10 marzo la Knesset ha ripristinato una legge che vieta ai palestinesi sposati con cittadini israelo-palestinesi di ottenere la cittadinanza israeliana e di riunire le loro famiglie in territorio israeliano, ndtr.], i tentativi di approvare un bilancio nazionale nonché le demolizioni di case, gli attacchi ai beduini nel Naqab/Negev, la sua posizione sui diritti LGBTQ. Ha perso il deputato Said al-Harumi, uno dei suoi parlamentari più popolari, morto per un attacco cardiaco, così come la fiducia dei suoi elettori dopo che non è stata in grado di affrontare efficacemente i crimini violenti che continuano ad affliggere la società palestinese in Israele.

Nonostante tutte queste crisi, Ra’am è stata in grado di resistere e di promettere ai suoi elettori – e alla comunità araba in generale – che tutto sarebbe andato bene. Ma poi è arrivato il Ramadan.

È difficile sostenere che i vertici del Movimento islamico siano rimasti sorpresi dalla tempistica del mese santo, durante il quale Israele avrebbe dovuto esibire agli occhi dei palestinesi e del resto del mondo gesti senza precedenti a favore dei fedeli musulmani del Paese, inclusi più permessi per lavoratori da Gaza in Israele e l’allentamento del controllo dei movimenti per coloro che desiderano viaggiare dalla Cisgiordania a Gerusalemme occupate.

Abbas e soci non potevano prevedere i quattro attacchi omicidi contro cittadini israeliani che hanno avuto luogo lo scorso mese. La Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani laici, all’opposizione, ndtr.] ha condannato duramente le uccisioni. Mentre l’ondata di attacchi si è placata, almeno per ora, le operazioni militari israeliane nelle città della Cisgiordania sono diventate di giorno in giorno più letali. Tredici palestinesi sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, tra cui un ragazzo di 17 anni e una vedova di 47 anni madre di sei figli.

Ra’am ha fatto parte di un governo che ha commesso crimini di guerra contro i palestinesi, e il suo imbarazzo è cresciuto sempre più davanti a ogni immagine di minorenni arrestati o di shaheed [“testimone” in arabo, spesso tradotta con il termine “martire”, ndtr.] sepolti a Hebron o a Betlemme. Ma durante questo Ramadan tutti gli occhi sono puntati [su quello che accade, ndtr.] alla moschea di Al-Aqsa, dalle percosse subite da giovani palestinesi e giornalisti da parte degli agenti presso la Porta di Damasco agli attacchi sfrontati e quotidiani presso il complesso di Al-Aqsa durante il fine settimana.

Impossibile nascondere alla vista queste immagini: donne picchiate da agenti di polizia armati di manganelli, anziani spinti e feriti dalle forze di sicurezza, soldati armati fino ai denti che fanno irruzione nella moschea e sparano gas lacrimogeni, attaccano tutto ciò che si muove e arrestano centinaia di persone. Come potrebbe lo stesso movimento che fa l’elemosina ai poveri di Gerusalemme e organizza campi estivi gratuiti per bambini nella moschea fornire il suo sostegno a un governo che un giorno dà ordine di irrompere nella moschea con il pugno di ferro e il giorno dopo di fornire protezione a decine di coloni e attivisti di estrema destra saliti a pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif?

Nel frattempo i social media sono pieni di video satirici su Abbas che vende Al-Aqsa ai coloni. Per molti Abbas e Ra’am avranno le mani sporche del sangue di ogni palestinese che morirà a Gerusalemme.

La critica interna al movimento islamico, che ha proclamato Al-Aqsa una “linea rossa” che Israele non può oltrepassare, non ha fatto che crescere nell’ultimo mese, mettendo Ra’am in un angolo. Non può più rimanere in silenzio quando il presidente della Lista Unita Ayman Odeh, un socialista laico dichiarato, si piazza sui gradini della Porta di Damasco per difendere la santità di Gerusalemme, il presidente di Balad [partito israeliano che si oppone all’idea di uno Stato unicamente ebraico e sostiene la natura bi-nazionale di Israele, ndtr.] Sami Abu Shehadeh corre di studio in studio per spiegare le conseguenze dell’occupazione sui palestinesi, e come tutti questi vari episodi di violenza siano il risultato di questa occupazione, e il presidente di Ta’al [“Movimento arabo per il rinnovamento”, uno dei componenti della Lista Unita, ndtr.] Ahmad Tibi in diretta dal Russian Compound [quartiere di Gerusalemme in cui sorge la Cattedrale russo-ortodossa della Santissima Trinità, ndtr.] annuncia che starà al fianco dei detenuti palestinesi fino alla fine. Alla luce di tutto ciò, cosa restava da fare ad Abbas e al suo partito?

False promesse e sogni irrealizzabili

D’altra parte è chiaro che Abbas non vuole essere l’unico responsabile della caduta del primo governo israeliano che ha accolto cittadini palestinesi nelle sue fila, e non è certo interessato a essere accusato — sia dagli ebrei israeliani che dai palestinesi — del ritorno al potere di Netanyahu.

È proprio per questo che congelare l’adesione del suo partito è il trucco funambolico di cui andava alla ricerca: è un’esibizione di protesta contro un governo che sostiene, priva di qualsiasi minaccia reale di farlo cadere.

Non è ancora chiaro quanto questo patetico tentativo di protesta sia stato coordinato con il primo ministro Naftali Bennett – che ha consentito alla polizia di scatenarsi ad Al-Aqsa – e con colui che dovrebbe succedergli [in base ad un accordo tra i partiti della coalizione di governo, ndtr.], Yair Lapid.

Dal canto loro Bennett e Lapid sanno che devono aiutare il loro partner assediato, almeno fino a dopo il Ramadan. È probabile che nei prossimi giorni vedremo una serie di gesti umanitari rivolti ai palestinesi – in particolare in vista dell’Eid al-Fitr, che segna la fine della ricorrenza – che consentirà loro non solo di pregare a Gerusalemme, ma anche di bagnarsi i piedi nel Mediterraneo. La presenza della polizia nella Città Vecchia probabilmente diminuirà in modo significativo e le ultime preghiere del mese potrebbero trascorrere senza nuove aggressioni verso i palestinesi.

Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: questo governo non cadrà a causa dei suoi parlamentari arabi. L’esperienza recente ci insegna che i membri del partito di Bennett rappresentano la più grande minaccia all’esistenza della coalizione. Non sarà Ra’am a rovesciarlo, non perché sia soddisfatta del governo, ma perché il futuro del partito dipende da ciò che l’elettore arabo avrà deciso, alla fine, in merito alla bontà della decisione di entrare nel governo Bennett-Lapid. La scommessa fatta da Abbas deve dare i suoi frutti il ​​prima possibile, finché è ancora al governo, altrimenti il ​​suo partito non avrà diritto di esistere.

Sarà accusato, ancora una volta, di aver smantellato la Lista Unita [di cui faceva parte prima delle ultime elezioni, ndtr.] in nome di false promesse e sogni irrealizzabili. Sarà un suicidio politico e la prova determinante che il nuovo e pragmatico corso del movimento islamico è destinato a fallire, e che Mansour Abbas non è ancora pronto ad ammetterlo.

Samah Salaime è un’attivista e giornalista femminista palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele accusa dei giornalisti palestinesi di istigazione alla violenza per aver svolto il loro lavoro

Yuval Abraham

5 aprile 2022 – +972 magazine

Dei giornalisti palestinesi sono stati interrogati e imprigionati da Israele per aver documentato proteste, funerali e altri eventi politici, inducendo molti di loro all’autocensura.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Local Call e The Intercept.

Durante la violenta escalation della primavera del 2021 in Israele-Palestina Hazem Nasser ha fatto ciò che gli era stato richiesto: ha iniziato a riprendere. A quel tempo Nasser lavorava come giornalista per la rete televisiva palestinese Falastin Al-Ghad [Palestina Domani, ndtr.], in cui i filmati di Nasser documentavano le crescenti tensioni tra le marce nazionaliste ebraiche, le manifestazioni palestinesi e la brutalità della polizia israeliana a Gerusalemme.

Il 10 maggio Nasser ha deciso di riprendere uno scontro tra manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano nella Cisgiordania settentrionale occupata. La giornata è rimasta impressa nella memoria di Nasser, non per lo scontro in sé, né per gli attacchi militari iniziati più tardi quella sera tra Hamas e Israele, ma per quello che gli è successo in seguito.

Nasser stava tornando a casa quando è stato fermato dai soldati israeliani al checkpoint di Huwara [a sud di Nablus, ndtr.] e portato via per essere interrogato. Nasser ha languito in carcere per più di un mese mentre lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, lo interrogava ripetutamente.

“Tutte le domande riguardavano il mio lavoro di giornalista“, ha riferito Nasser. Mettevano sul tavolo le immagini delle mie riprese video, tra cui il funerale di un palestinese, la gente che si radunava per una protesta, una piazza che inneggiava a uno shaheed (martire), una manifestazione con le bandiere di Hamas. Chi mi interrogava mi diceva che non potevo fotografare quelle cose, perché costituivano delle istigazioni alla violenza. Gli rispondevo che sono un giornalista e questo è il mio lavoro: mostrare immagini di cose che accadono e che le testate israeliane fanno la stessa cosa. Lui mi urlava di tacere“.

A metà giugno Nasser, che ha 31 anni e viene dal villaggio di Shweikeh nella Cisgiordania occupata, è comparso davanti a un tribunale ed è stato accusato di istigazione alla violenza. Invece di concentrarsi sul suo lavoro giornalistico, come era stato fatto durante gli interrogatori, l’accusa ha elencato quattro vecchi post su Facebook che egli aveva scritto tra il 2018 e il 2020, periodo in cui ha pubblicato più di 1.000 post. Il capo d’imputazione affermava, tra l’altro, che egli aveva lodato l’assassinio nel 2001 di Rehavam Ze’evi [ex-generale e fondatore del partito di estrema destra Modelet, ndtr.], un ministro del turismo israeliano, e chiamato un “eroe” un militante palestinese accusato di aver ucciso due israeliani.

Una possibile ragione per cui il lavoro di Nasser non compariva nell’atto d’accusa – nonostante fosse stato al centro degli interrogatori – è che neppure nei tribunali militari dell’occupazione israeliana tra i criteri riguardanti l’istigazione vengono inclusi il giornalismo o la semplice documentazione degli eventi. Indipendentemente da ciò, Nasser crede che lo scopo degli interrogatori e delle accuse fossero gli stessi: dissuaderlo dal documentare gli abusi di Israele contro i palestinesi. Non è per niente lunico caso tra i giornalisti palestinesi.

Non fanno distinzione tra giornalista e chi ha un ruolo attivo

Dall’inizio del 2020 in Cisgiordania Israele ha imprigionato almeno 26 giornalisti palestinesi. Nella maggior parte dei casi essi sono stati posti in detenzione amministrativa – un metodo comune utilizzato da Israele per trattenere i palestinesi senza formalizzare le accuse – per un periodo compreso tra sei settimane e un anno e mezzo. Nove di questi giornalisti sono stati incriminati, quasi sempre per istigazione, e hanno trascorso in media circa otto mesi in stato di detenzione.

Secondo Saleh al-Masri, a capo del Journalist Support Committee in Palestine [Comitato di sostegno per i giornalisti in Palestina, ONG che protegge e promuove la libertà di espressione e i diritti dei giornalisti in Palestina, ndtr.], a marzo 2022 nelle carceri israeliane c’erano 10 giornalisti palestinesi con accuse riguardanti la pubblicazione di materiale online – sia come privati ​​​​che attraverso il loro lavoro professionale – considerata “istigazione”. Tre dei giornalisti incarcerati si trovano in detenzione amministrativa, tre sono stati incriminati e quattro sono detenuti e sottoposti ad interrogatori nell’ambito delle indagini (altri sette giornalisti sono stati incarcerati con l’accusa di aver preso parte ad attività violente non aventi nulla a che fare con il lavoro giornalistico) .

Utilizzando interviste, resoconti dei media e documenti legali, +972, Local Call [riviste on line, la seconda in lingua ebraica, fondate e prodotte da un unico gruppo editoriale, impegnate su tematiche di giustizia sociale, diritti e libertà di informazione, ndtr.] e The Intercept [rivista internazionale on line, con sede negli USA, impegnata, tra l’altro, sul tema degli abusi della giustizia e delle violazioni delle libertà civili, ndtr.] hanno esaminato i procedimenti giudiziari contro molti dei giornalisti trattenuti dalle forze di sicurezza israeliane in relazione alla loro pubblicazione di materiale. Nelle interviste con noi, così come con altri media, sette dei giornalisti hanno affermato che durante i loro interrogatori agenti della sicurezza israeliani hanno mostrato loro dei video di notizie che avevano girato, spesso riguardanti scontri tra palestinesi e forze israeliane, cortei politici o funerali. Gli inquirenti hanno detto ai giornalisti che le immagini costituivano “istigazione” e hanno ordinato loro di smettere di documentare quegli eventi.

In alcuni casi i giornalisti sono stati successivamente incriminati con accuse estranee alla loro attività professionale; in altri non è stata presentata alcuna accusa e il giornalista è stato incarcerato senza processo e infine liberato (lo Shin Bet non ha risposto a una richiesta di commento).

“Gli arresti di solito avvengono mentre i giornalisti sono sul campo”, ha affermato Shireen Al-Khatib, l’incaricata del monitoraggio e della documentazione del Palestine Center for Development and Media Freedoms (MADA) [Centro palestinese per lo sviluppo e la libertà dei media, ndtr.], che promuove e difende la libertà di espressione e dei media nei territori occupati.

“Durante l’interrogatorio”, continua, “al giornalista viene detto che le notizie che pubblica su Facebook sono considerate istigazione – e che, sebbene stia solo riportando delle notizie, il fatto che siano rese pubbliche equivale a istigazione. Spesso il giornalista viene accusato di aver partecipato a un evento politico come fotografo o giornalista. Ma [le autorità israeliane] non fanno distinzione tra un giornalista che è sul campo come parte del suo lavoro e un partecipante attivo”.

Al-Khatib, che ha intervistato decine di giornalisti palestinesi interrogati dallo Shin Bet, afferma che il risultato di questo trattamento è che i giornalisti palestinesi vivono in un costante stato di paura che spesso porta all’autocensura.

“Come se il problema fosse la videocamera, non la realtà

Altri giornalisti palestinesi hanno offerto resoconti che coincidono con l’esperienza di Nasser. Sameh Titi, un giornalista di 27 anni del campo profughi di al-Arroub in Cisgiordania, documenta quanto succede nella sua zona per Al Mayadeen, un canale di notizie arabo con sede in Libano che si dice sia allineato con il gruppo armato Hezbollah. Nel dicembre 2019 è stato arrestato dalle forze di sicurezza israeliane.

Titi riferisce che chi lo sottoponeva all’interrogatorio ha aperto il suo profilo Facebook per poi mostrargli le immagini del suo stesso lavoro. “Mi ha mostrato un servizio sulla chiusura dell’ingresso del campo di al-Arroub da parte dell’esercito”, dice Titi. “Chi mi interrogava mi ha detto: ‘Non ti è permesso di riprendere postazioni militari'”. L’inquirente ha anche sollevato il fatto della presenza di Titi a eventi legati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), un gruppo politico di sinistra che Israele considera un’organizzazione terroristica.

Come Titi e altri, Tareq Abu Zeid, un cine-operatore di Jenin, è stato arrestato nell’ottobre 2020 e interrogato dallo Shin Bet nella sua struttura di Petah Tikva. Chi lo interrogava, ha riferito Abu Zeid, gli ha detto che egli era stato arrestato perché le sue riprese diffondevano scontento sociale tra i palestinesi.

“L’intera indagine aveva a che fare con la documentazione da parte di un giornalista, come se il problema fosse la videocamera in sé, non la realtà che documenta”, ha affermato Abu Zeid in un’intervista per Al Jazeera. In tre settimane di interrogatori, gli investigatori hanno sollevato accuse sul lavoro di Abu Zeid con Al-Aqsa TV, una stazione associata al gruppo islamista palestinese Hamas, che Israele considera un’organizzazione terroristica. Al-Aqsa TV è stata bandita da Israele nel 2019.

Fadi Qawasmeh, un avvocato che rappresenta Abu Zeid, ha sostenuto in tribunale che le accuse contro il suo cliente equivalevano a un’applicazione selettiva, dal momento che nessuna azione legale era stata intrapresa contro nessun altro dipendente di Al-Aqsa TV, e l’esercito israeliano sapeva da anni che Abu Zeid lavorava per quella emittente, molto prima che fosse dichiarata illegale. Abu Zeid era già in prigione da quasi 10 mesi quando, nel giugno 2021, la procura militare gli ha offerto un patteggiamento pari al tempo di carcerazione già scontato e una multa di circa 2.300 euro. Abu Zeid ha accettato ed è stato rilasciato dalla prigione il mese successivo.

Lo scopo era di impedire il mio lavoro di giornalista – e ha funzionato”

Titi, il giornalista di Al Mayadeen, è stato infine accusato di tre reati, alcuni dei quali legati al suo lavoro giornalistico e altri no.

L’accusa contro di lui citava la sua “presenza a una riunione illegale” per aver partecipato a diversi funerali di giovani palestinesi uccisi. Nel 2019 Titi aveva seguito il funerale di Omar al-Badawi, un presunto membro del FPLP ucciso dall’esercito israeliano (secondo un’indagine interna dell’esercito, al-Badawi non rappresentava alcun pericolo per i soldati ed essi non avrebbero dovuto aprire il fuoco.)

L’accusa sosteneva che il funerale sarebbe stato organizzato dal FPLP e quindi Titi avrebbe infranto la legge trovandosi sul luogo. L’accusa non menzionava il fatto che Titi stesse seguendo il funerale come giornalista, che giornalisti israeliani e internazionali si occupiano regolarmente di tali funerali e che quel giorno lui si trovasse insieme a centinaia di altri [colleghi, ndtr.].

Oltre al suo lavoro di documentazione dei funerali, l’accusa gli ha addebitato il fatto che nel 2016, nel suo campus universitario presso l’Università di Hebron, Titi avesse partecipato ad attività organizzate da un gruppo studentesco affiliato ad Hamas.

L’accusa sosteneva anche che due post di Titi su Facebook costituissero istigazione. In uno del 2018 Titi aveva condiviso una foto di palestinesi che erano stati uccisi dall’esercito – l’accusa descriveva i morti come “terroristi” – scrivendo: “Guardati dalla morte naturale, non morire se non a causa di proiettili”. In un post del 2017 Titi aveva menzionato la partecipazione a un concorso letterario per il gruppo studentesco legato ad Hamas. Titi ha detto che durante i suoi interrogatori i post sui social media non gli erano stati affatto mostrati.

Nel 2020 Titi ha presentato appello; è stato imprigionato per sei mesi e multato per 5.000 shekel, circa 1.375 euro.

Ho smesso di occuparmi di persone uccise e/o funerali. Ho paura di riprendere scontri con l’esercito e non riprendo postazioni militari o soldati”, aggiunge. “Lo scopo è sempre stato quello di impedire il mio lavoro di giornalista – e ha funzionato”.

Documentare è istigare

Molte delle disavventure dei giornalisti finiscono in patteggiamenti con i pubblici ministeri militari israeliani. Nasser, il giornalista di Falastin Al-Ghad, ne ha accettato uno alla conclusione del processo, dopo che il giudice ha stabilito che i post di Nasser su Facebook raggiungono a malapena la “soglia minima” per [il reato di, ndtr.] istigazione. Nasser sarebbe stato condannato a tre mesi di reclusione, nell’attesa che gli venisse riconosciuto lo sconto per il periodo passato in carcere.

“Nasser ha scelto di confessare per essere rilasciato”, spiega Mazen Abu Aoun, il suo avvocato. I giudici stabiliscono quasi sempre che i giornalisti rimangano in custodia fino alla fine del procedimento. Li incarcerano per mesi, poi la procura militare offre loro un patteggiamento: confessi alcuni dei reati e la pena ammonterà al numero di giorni che hai già scontato. Dopodiché vieni rilasciato immediatamente. Così tutti accettano“.

Alla fine, tuttavia, il tempo scontato da Nasser non ha ridotto il suo periodo di detenzione. Sebbene abbia accettato il patteggiamento, una settimana prima della data di rilascio ha appreso che lo Shin Bet aveva emesso contro di lui un ordine di detenzione amministrativa che lo avrebbe tenuto dietro le sbarre.

Nasser ha languito in carcere senza un secondo processo – e neanche nuove accuse – per altri cinque mesi. “Non avevano nulla su cui incriminarmi”, ha detto. A maggio la Cisgiordania era in fiamme e come giornalista ho documentato tutto sul campo. Sono stato arrestato per impedirmi di documentare. L’atto stesso di documentare rappresenta ai loro occhi un’istigazione.

Da quando è stato rilasciato nel dicembre 2021, dopo otto mesi di prigione, Nasser non pubblica quasi nulla su Facebook. È preoccupato che altre accuse false possano allontanarlo di nuovo dalla sua famiglia, un’eventualità che non può accettare. “Sono sposato e ho un figlio”, ha spiegato Nasser. “Mi hanno arrestato quando lui aveva otto mesi e mi hanno rilasciato quando era già in grado di parlare”.

Yuval Abraham è un giornalista che lavora a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rifugiati dell’apartheid: perché Israele deve parlare del ritorno dei palestinesi

Yaara Benger Alaluf

17 marzo 2022 – +972 magazine

Il rapporto bomba di Amnesty e la crisi dei rifugiati ucraini sono un’opportunità perché gli israeliani ripensino il rifiuto al ritorno dei palestinesi nella loro patria.

In Israele il dibattito, se c’è stato, sul recente “rapporto sull’apartheid” è consistito nei soliti tre giudizi riguardo a ciò che esso significherebbe: qualcuno lo ha liquidato come un’accusa del sangue antisemita [secondo cui gli ebrei berrebbero sangue umano durante i loro riti, ndtr.]; alcuni lo hanno bollato come un’affermazione di ciò che è ovvio; altri ancora hanno riflettuto sull’eventualità che si tratti di una novità con concrete conseguenze giuridiche. Ciò che nel frattempo è mancato e continua a mancare è una discussione onesta sulle nostre responsabilità come ebrei israeliani, non solo riguardo al passato ma anche al futuro del nostro Paese.

Pubblicato all’inizio di febbraio, il rapporto di Amnesty International è sistematico e approfondito, ma non offre nuove informazioni significative e le sue raccomandazioni sono limitate. Le prove delle violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele elencate nel rapporto risulteranno ben poco sorprendenti a qualunque israeliano abbia mai prestato attenzione alle notizie, per non parlare degli attivisti di sinistra. La sua importanza e rilevanza pratica risiede piuttosto nei suoi due meta-argomenti. Il primo è che la variante israeliana dell’apartheid non è limitata ai territori occupati o a una qualunque specifica componente della popolazione palestinese, ma è parte integrante della stessa frammentazione del territorio e della popolazione in unità con differenti status giuridici.

Il secondo meta-argomento è che la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre e case da cui furono espulsi nel 1948 è il meccanismo che sta al cuore di questo principio politico.

La decisione di fare riferimento ai rifugiati palestinesi in un rapporto sulle attuali responsabilità di Israele e sui passi necessari per un futuro di giustizia, uguaglianza e riconciliazione è senza precedenti, e irrompe negli angusti confini del dibattito politico tra gli ebrei israeliani. All’interno di questo discorso il diritto al ritorno è in genere affrontato in termini che hanno la loro origine nella macchina propagandistica israeliana: da “c’era una guerra e loro l’hanno persa” all’affermazione secondo cui il ritorno dei rifugiati palestinesi è sinonimo di fine dell’esistenza degli ebrei in Israele. Leggere il “rapporto sull’apartheid” offre l’opportunità di capire che è vero il contrario: è impedire il ritorno dei rifugiati che costituisce una continua minaccia esistenziale.

1948: mossa iniziale

Il rapporto afferma che la politica di apartheid di Israele è stata messa in atto esplicitamente e coerentemente fin dal primo giorno. Una delle sue principali argomentazioni è che prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 erano state predisposte tutte le condizioni per una supremazia demografica ebraica e per massimizzare il controllo ebraico su terre e risorse naturali. I numeri precedenti alla guerra del 1948 chiariscono bene questo punto: fino a quell’anno i palestinesi rappresentavano il 70% degli abitanti del Paese, e possedevano circa il 90% della sua terra, mentre gli ebrei erano meno del 30% della popolazione e detenevano meno del 7% della terra. Due iniziative prese dal nuovo Stato gli consentirono di ribaltare completamente questa situazione: la decisione del 1948 di impedire ai rifugiati di tornare e la legge del 1950 sulle Proprietà degli Assenti [1].

Nel maggio 1948, mentre la guerra stava infuriando, venne creata una commissione speciale per esaminare il modo in cui trasformare la fuga dei palestinesi “in un fatto compiuto” [2]. La commissione raccomandò alla dirigenza israeliana di distruggere le località palestinesi, impedire la coltivazione della terra, insediare ebrei nei villaggi spopolati, approvare leggi per congelare la situazione di quel momento e investire nella propaganda [3]. Le raccomandazioni vennero religiosamente messe in pratica: già in un incontro del governo il 16 giugno venne annunciato che Israele non avrebbe consentito il ritorno di alcun rifugiato; unità militari furono inviate a far saltare in aria villaggi o incendiarli (601 villaggi vennero distrutti, in maggioranza nella prima metà del 1949); nuovi immigrati ebrei furono ospitati nelle case disabitate dei palestinesi (350 dei 370 nuovi insediamenti ebraici fondati nel 1948-53 vennero costruiti su terre dei rifugiati); i palestinesi che cercarono di tornare per recuperare alcuni dei loro beni, procurarsi del cibo o riunirsi con la famiglia rimasta indietro furono sommariamente fucilati [4].

Gli impedimenti al ritorno non terminarono con l’armistizio nel 1949. Continuano fino ad ora, in violazione delle leggi internazionali, senza nessuna giustificazione relativa alla sicurezza e spesso persino senza una giustificazione demografica [5]. Inoltre la legge sulle Proprietà degli Assenti autorizzò lo Stato a impossessarsi dei beni di chiunque fosse assente durante il primo censimento del Paese nel novembre 1948, che fosse o meno all’interno dei confini dello Stato. Ciò consentì a Israele di impossessarsi della maggior parte della terra coltivabile del Paese, di decine di migliaia di abitazioni ed edifici commerciali, di veicoli e macchinari agricoli e industriali, di conti bancari, di mobili e tappeti, di circa un milione di animali da allevamento, e via di seguito.

Benché la legge fosse pensata per essere provvisoria, e anche se al Custode delle Proprietà degli Assenti venne vietato di rivendere i beni espropriati, nel corso degli anni furono approvate leggi e norme aggiuntive per consentire a Israele di espropriare terreni palestinesi di proprietà di privati su entrambi i lati della Linea Verde [che separa Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] e destinarli a uso militare, ai coloni ebrei o come parchi e strutture riservate, in quasi tutti i casi, a ai cittadini ebrei di Israele e a favorirne il benessere.

Rafforzare il controllo, annientare la resistenza

Da allora la supremazia spaziale e demografica della popolazione ebraica è stata rafforzata e mantenuta dividendo i palestinesi in status giuridici differenti: rifugiati in Paesi non arabi, in Paesi arabi, quelli rimasti all’interno dello Stato di Israele, compresi gli sfollati interni, gli abitanti di Gerusalemme est, gli abitanti dei villaggi beduini “non riconosciuti” nel Naqab/Negev e gli abitanti della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza assediata. Come rileva Amnesty [6]:

L’esistenza stessa di questi regimi giuridici separati […] è uno dei principali strumenti attraverso i quali Israele frammenta i palestinesi e impone il suo sistema di oppressione e dominazione, e, come notato dalla Commissione Economica e Sociale dell’ONU per l’Asia Occidentale (ESCWA), ‘[…] per eliminare qualunque forma di dissenso contro il sistema che ha creato [7]’.”

Il rapporto enumera le forme di oppressione esercitate sotto ogni regime giuridico, come arresti di massa, torture, furto di terre, massacri, limitazioni negli spostamenti, negazione dell’accesso alle risorse, distruzione della vita familiare e via di seguito. Ciò è già stato fatto in precedenza. Ma la questione più importante è l’avvertimento del rapporto che l’opposizione alle caratteristiche specifiche dell’oppressione senza riferimento al fatto stesso della frammentazione in sé è funzionale al sistema di oppressione. Per esempio, concentrarsi unicamente sui crimini israeliani nei territori occupati nasconde le ulteriori violazioni delle leggi internazionali relative ai rifugiati, occultando nel contempo la discriminazione dei palestinesi che rimangono al di là della Linea Verde e a Gerusalemme est, o quanto meno li rappresenta erroneamente come parte del discorso sui diritti delle minoranze in una società liberale [8].

Gli autori del rapporto affermano che il contesto concettuale dell’apartheid consente una comprensione coerente della metalogica delle varie forme di oppressione: il tentativo di conservare un sistema di controllo, instaurando e conservando nel contempo l’egemonia ebraica. Questo è specificamente il senso di quanto i palestinesi hanno voluto definire “Nakba che continua”. Oltretutto apartheid è un termine radicato anche nelle leggi internazionali, e comporta quindi usualmente delle sanzioni. Il riferimento all’obiettivo del controllo, piuttosto che solo ai metodi, chiarisce anche che il problema non è, e non è mai stato, riducibile a un “gruppo di estremisti”. La responsabilità del problema risiede in tutte le istituzioni statali e parastatali, come l’Organizzazione Sionista Mondiale, in ogni governo dello Stato indipendentemente dall’affiliazione di partito, nel sistema giudiziario, nel Custode delle Proprietà degli Assenti, nel Fondo Nazionale Ebraico.

La chiave del problema

Impedire il ritorno dei rifugiati, dal 1948 al 1967 fino ai nostri giorni, è presentato nel rapporto come un meccanismo importantissimo della versione israeliana dell’apartheid. Il diritto al ritorno è citato più di 50 volte nel rapporto, e ne guida l’analisi giuridica, storica e spaziale. In termini giuridici una conseguenza della negazione del ritorno è che il controllo israeliano non è limitato ai confini israeliani, ma riguarda anche i palestinesi che sono stati sradicati nel corso degli anni, dato che la loro assenza è essenziale per conservare la maggioranza ebraica [9]. Non meno importante è l’implicazione che l’apartheid prevarrà necessariamente finché ai rifugiati verrà impedito di tornare [10].

Storicamente l’espulsione e l’impedimento al ritorno rappresentano la logica esplicita delle iniziative di Israele, persino dopo il 1948. Nell’immediato dopoguerra Israele impose un governo militare sull’85% dei palestinesi che restarono sul suo territorio, nonostante il loro status formale di cittadini. Per non meno di 18 anni Israele negò loro i diritti fondamentali, come quello di proprietà, di libertà di parola e di movimento, confiscando le loro terre e altre proprietà e stabilendo un intricato sistema di monitoraggio e supervisione che limitò la loro possibilità di organizzarsi politicamente e di plasmare il loro futuro. Il rapporto afferma, in base a documenti ufficiali, che il governo militare venne abolito nel 1966 solo dopo che ci fu la sicurezza sufficiente che i rifugiati non erano più in grado di tornare, soprattutto dopo che quasi tutti i villaggi palestinesi vennero distrutti e coperti da alberi [11].

Anche l’occupazione della Cisgiordania iniziò proprio l’anno dopo, la re-imposizione del governo militare sull’altro lato della Linea Verde non può essere compresa separatamente dalla politica israeliana di spopolamento. Nel corso della guerra del 1967 più di 350.000 palestinesi, metà dei quali rifugiati della guerra del 1948, furono cacciati [12]. Alcuni vennero obbligati ad andarsene in convogli diretti verso la Giordania, compresi migliaia provenienti dai villaggi di Imwas, Yalu e Beit Nuba [13]. Altri furono obbligati a fuggire in vario modo, con massicci bombardamenti e demolizioni, come nel campo profughi di Iqbat Jaber, a sud di Gerico, il più grande del Medio Oriente finché il 90% dei suoi abitanti fu deportato in Giordania [14]. Anche ai rifugiati del 1967 vennero negati i diritti garantiti dalle leggi internazionali.

Un’opportunità per la società ebraica

Sono tutti argomenti sostenuti dalla società palestinese per oltre settant’anni, ed è positivo che la comunità internazionale abbia iniziato a dare loro credito, sia in linea di principio che attraverso ricerche e diffusione di informazioni.

Ma cosa dire della società ebraica in Israele? Il rapporto di Amnesty International rappresenta un ulteriore opportunità perché questa società, o almeno quella parte che crede nei principi umanitari e nell’uguaglianza, riconosca la centralità della questione dei rifugiati palestinesi nella storia dell’esistenza sionista di Israele. Tuttavia farlo significherebbe dover abbandonare vari miti persistenti:

Fu una conseguenza non voluta.” Di fatto, fin dagli inizi, la colonizzazione sionista in Israele cercò di acquisire quanto più territorio possibile a unico vantaggio degli ebrei. Anche se non tutti i pensatori e dirigenti politici sionisti erano d’accordo con questa interpretazione del sionismo, questa era l’ideologia che venne effettivamente messa in atto. Ci sono prove che fino a 57 villaggi palestinesi vennero sradicati prima del 1948, così come spiegazioni che minano l’affermazione secondo cui la terra da cui vennero cacciati era stata comprata con mezzi legali.

Hanno cominciato loro”. Il 1948 non fu l’inizio ma il culmine di un processo di spopolamento sistematico. Anche la narrazione secondo cui la dirigenza sionista accettò il Piano di Partizione dell’ONU del 1947, migliaia di ebrei danzarono per le strade di Tel Aviv e gli arabi iniziarono la guerra è propaganda menzognera. Fonti storiche mostrano che la dirigenza sionista non aveva assolutamente alcuna intenzione di accontentarsi del territorio assegnato allo Stato ebraico in base a vari piani di partizione. Sia il primo ministro israeliano David Ben Gurion che altri dirigenti sionisti affermarono in termini inequivocabili che accettare il piano era una mossa diplomatica intesa ad accelerare il ritiro britannico e facilitare l’occupazione di quanto più territorio possibile [15].

Persino i rapporti di forza sul terreno non riflettevano una situazione in cui gli ebrei erano sulla difensiva contro un’offensiva araba, come cercò di dimostrare la narrazione dei “pochi contro molti” o “Davide contro Golia”. Alla fine del 1947 la comunità ebraica in Palestina aveva una forza militare organizzata di circa 40.000 miliziani per affrontare solo 10.000 combattenti palestinesi non addestrati e poco organizzati e volontari da Paesi arabi, la maggior parte dei quali senza esperienza militare. Persino nel maggio 1948, quando la guerra si estese includendo eserciti arabi, Israele aveva il doppio vantaggio di maggiori risorse e miglior armamento [16].

Cosa ci puoi fare? La guerra è una cosa terribile.” Anche solo per le sue dimensioni, la deportazione e la spoliazione dei palestinesi non può essere liquidata come una parte necessaria della lotta. In questa guerra circa 750.000 donne e uomini divennero rifugiati e i loro beni vennero espropriati. Circa metà di essi fu obbligata a fuggire o espulsa prima che gli eserciti arabi si unissero alla guerra [17]. Dal punto di vista giuridico anche la distinzione tra “fuga” e “deportazione” è falsa: i civili tendono a sfuggire alle guerre e ad altri disastri cercando un rifugio temporaneo con l’intenzione di tornare a casa dopo che le ostilità si sono placate, e il diritto internazionale riconosce loro questo diritto. In effetti ciò avvenne durante la guerra del 1948, insieme ad esempi documentati di sradicamento forzato [18]. In entrambi i casi impedire il ritorno è ingiustificabile e assolutamente non correlato alla questione della responsabilità per lo scoppio della guerra.

Le cose vanno così.” La condizione di rifugiati dei palestinesi è spesso associata ad altri casi storici di pulizia etnica che servono a giustificarla. Nessuna deportazione è mai giustificata e i crimini di altri non giustificheranno mai i propri. Anche gli ebrei vennero sradicati e deportati con grande crudeltà e questa è una delle ragioni per cui il mondo riconobbe il loro diritto a uno Stato sovrano. In molti casi (compresi gli attuali discendenti della Spagna medievale e della Germania nazista) gli eredi dei criminali hanno chiesto scusa dopo il fatto, pagato compensazioni, eretto monumenti, sviluppato programmi di studio e consentito a vittime di seconda e terza generazione di ottenere la cittadinanza e rivendicare proprietà. Nel contesto palestinese non è stato avviato nessuno di questi passi e oltretutto l’oppressione continua senza sosta.

Mettiamoci una pietra sopra.” La convinzione che le conseguenze della guerra del 1948 debbano essere separate da tutto quello che era avvenuto prima e avvenne dopo e che Israele può semplicemente “andare avanti” è basata sulla supremazia ebraico-sionista che non ha giustificazioni politiche, giuridiche né morali. Mentre dal 1948 la superiorità demografica ebraica è stata garantita, la politica israeliana di pulizia etnica non si è limitata al periodo bellico [19]. Secondo, un simile approccio cancella completamente i palestinesi: la catastrofe è tutt’altro che finita per i palestinesi, cui viene negato persino il diritto di visitare le rovine dei loro villaggi, alle famiglie separate non è possibile gioire e piangere insieme, a un abitante di Giaffa [in Israele, ndtr.] la cui sorella è assediata a Gaza o a un abitante di Hebron [in Cisigordania, ndtr.] è impedito di sposare la persona amata di Haifa [in Israele, ndtr.].

È giunto il momento di parlare del ritorno

Ciò che afferma il rapporto di Amnesty International, come hanno sempre fatto i palestinesi, è che ogni soluzione che conservi il sistema di diritti separati e non protegga le libertà di tutto il popolo palestinese – nella diaspora, in Israele, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza – non fornirà una soluzione sostenibile alla continua ingiustizia. “Smantellare questo sistema crudele di apartheid è fondamentale per i milioni di palestinesi che continuano a vivere in Israele e nei territori occupati, così come il ritorno dei rifugiati palestinesi […] in modo che possano godere dei loro diritti umani liberi da discriminazioni” [20]. Lo smantellamento del regime di supremazia ebraica è essenziale anche per milioni di ebrei dentro e fuori Israele – non perché lo dica Amnesty, ma perché fare così porterà a un futuro migliore per tutti noi.

La storia dimostra che le società fondate su una ideologia suprematista ed esclusivista sono necessariamente razziste e militariste. In effetti questa è la direzione verso la quale sta andando la società israeliana. Riconoscere i diritti dei rifugiati, fondati sulle leggi internazionali, è un prerequisito per porre fine al regime di supremazia ebraica e quindi per la riconciliazione, la democrazia e l’uguaglianza. Tale riconoscimento consentirà di stabilire una politica migratoria equa che beneficerà la società, la cultura e l’economia e promuoverà anche la giustizia all’interno della società ebraica in Israele.

È vero, mettere in pratica il diritto al ritorno richiederà che gli ebrei rinuncino ai propri privilegi. Ma qual è il prezzo di conservare uno “Stato ebraico”? Finora, nonostante abbia giustificato la propria legittimazione attraverso le promesse di pluralismo e appelli ai diritti universali con il diritto all’autodeterminazione, questo Stato ha interpretato in modo ottuso e rigido la legge ebraica, creando diseguaglianze ed esclusioni (esemplificate in modo chiarissimo dalla legge sui matrimoni e dalla politica sull’immigrazione) che contraddicono qualunque nozione di liberalismo o universalismo. La definizione dello Stato di Israele come ebraico danneggia in primo luogo i non ebrei, ma estorce un costo considerevole anche a molti ebrei, soprattutto neri, LGBTQ e donne che non possono ottenere il divorzio (agunot). Danneggia la stessa vita degli ebrei, imbrigliandola sia nel progetto sionista che nella legge ortodossa ashkenazita, impedendo quindi uno sviluppo indipendente e spontaneo della tradizione come è avvenuto e ancora avviene nella diaspora. In contrasto con la vita sottoposta a istituzioni su base comunitaria, gli ebrei in Israele sono obbligati a finanziare e ad essere soggetti al monopolio del rabbinato sui servizi religiosi.

Inoltre il costante timore della “minaccia demografica” continua a giustificare la destinazione di risorse alle esigenze militari e alle colonie illegali nei territori occupati invece che alla sanità pubblica, all’edilizia e all’educazione. La necessità di giustificare la costante ansietà e la posizione di difesa impone a sua volta un sistema educativo profondamente razzista e militarista. Il futuro promesso da questo percorso non è quello che voglio io. Non c’è niente di coraggioso nel cercare la sicurezza totale fuori dal costante timore di una presunta minaccia esistenziale. Possiamo e dobbiamo liberarci della concezione secondo cui la liberazione degli ebrei deve avvenire a spese di altri. Dobbiamo iniziare a prenderci la responsabilità del nostro futuro.

Chiunque si impegni per la giustizia e l’uguaglianza, chiunque si opponga al razzismo, chiunque semplicemente non voglia partecipare a un crimine contro l’umanità e chiunque voglia anche solo che le cose vadano meglio qui deve osare riflettere e parlare seriamente del ritorno. Un primo passo positivo sarebbe dare ascolto agli stessi rifugiati e alle organizzazioni della società civile palestinese, e scoprire che il ritorno non significherebbe la deportazione degli ebrei fuori dal Paese [21]. Al-Awda, la Coalizione Palestinese per il Diritto al Ritorno, che è la più grande associazione globale non partitica che promuove la messa in pratica del diritto al ritorno, ha chiaramente evidenziato che “i rifugiati palestinesi nel loro complesso accettano che esercitare il loro diritto al ritorno non sarebbe fondato sulla cacciata dei cittadini ebrei ma sui principi di eguaglianza e sui diritti umani.” Allo stesso modo BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e il Diritto al Ritorno, spiega:

Ciò che avvenne nel 1948 è storia. Non si torna indietro. Il diritto al ritorno, tuttavia, non significa tornare indietro nel tempo. Il ritorno riguarda molto di più il futuro. Riguarda iniziare realmente a vivere, rispondere al profondo senso di appartenenza alla terra da cui i rifugiati furono strappati decenni fa e riguarda la costruzione di rapporti tra palestinesi ed ebrei basati sulla giustizia e sull’uguaglianza.”

Questa posizione cambierà una volta che sia cambiato il rapporto di potere? Forse. Qualcuno definisce l’omofobia come “la paura che uomini gay ti trattino come tu tratti le donne.” La fobia del ritorno sarebbe la paura che i rifugiati palestinesi ti tratteranno come il sionismo ha trattato loro. Io scelgo di non vivere con la paura, ma ho invece fiducia nelle persone che credono nei diritti umani e nell’uguaglianza. Scelgo di fidarmi dei rifugiati come Isma’il Abu Hashash, cacciato da Iraq al-Manshiyah e che oggi vive in Cisgiordania e dice:

Non dobbiamo ripetere gli errori degli israeliani e condizionare la nostra presenza sulla nostra terra alla non-presenza del popolo che ora vi vive. Gli israeliani, o gli ebrei, pensavano che avrebbero potuto vivere in Palestina solo se non lo avessero potuto fare gli altri. Non è quello che crediamo noi. Vediamo il diritto al ritorno come la richiesta di un diritto individuale e collettivo sulla terra da cui siamo stati espulsi. Non vogliamo dire a loro di andarsene, né vogliamo dividere il loro Paese.”

Si può anche stare a sentire dagli ebrei che appoggiano il ritorno perché essi credono che ciò sarebbe positivo anche per gli ebrei di questo Paese. Si scoprirà che, per quanto la questione del ritorno sia estremamente controversa ed emotiva nella società israeliana, negli anni scorsi si è scritto molto sull’argomento [22]. In seguito possiamo continuare con una discussione più pragmatica. Salman Abu Sitta è un geografo palestinese che ha dedicato la propria vita ad analizzare gli aspetti concreti del ritorno. I suoi studi indicano che, tra le altre cose, la grande maggioranza della terra a cui i rifugiati intendono tornare attualmente è disabitata. Il Documento di Città del Capo, un progetto per il ritorno formulato insieme da Zochrot, un’associazione israeliana che promuove il diritto al ritorno, e Badil, un’organizzazione palestinese per i diritti dei rifugiati, offre un quadro giuridico per la realizzazione del ritorno. Ci sono anche molte informazioni sui rifugiati che nel resto del mondo tornano ai loro Paesi d’origine e sulle sfide e opportunità poste dal ritorno volontario, per esempio nel numero dell’ottobre 2019 di Forced Migration Review [Rivista delle Migrazioni Forzate].

Se c’è qualcosa che gli ebrei israeliani possono imparare dal rapporto di Amnesty è che il tentativo di slegare gli eventi del 1948 dall’esistenza dei palestinesi nel 2022 è artificioso e cinico, e che la richiesta di riconoscerlo non pretende empatia ma riparazione, in quanto la Nakba è un tentativo deliberato e continuo di cancellare il popolo palestinese dalla sua terra, a nome nostro e con la nostra partecipazione. È importante opporsi alla demolizione delle case e accompagnare i pastori palestinesi della Valle del Giordano. È importante chiedere acqua ed elettricità per chi è sottoposto all’occupazione, monitorare la costruzione delle colonie in Cisgiordania e parlare di pace. Tuttavia mettere in pratica il diritto al ritorno dei rifugiati è l’unica iniziativa che riconosca onestamente l’ingiustizia fondamentale che ha creato la relazione di oppressione tra ebrei e palestinesi che continua fino ad oggi. È l’unica iniziativa che risponda alla reale volontà delle vittime che comporti giustizia e riparazione. Spaventa, ma è anche esaltante. È complicato e ci vorrà tempo. È proprio per questo che dobbiamo iniziare a prenderlo sul serio.

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[1] Ogni riferimento al rapporto di Amnesty è ricavato dalla versione completa in inglese.

[2] Il divieto al ritorno è discusso, tra le altre, nelle pagine 14-15, 61, 64, 72, 75, 81 e 93-94; sull’appropriazione dei beni dei palestinesi attraverso la legge sulle proprietà degli assenti e sulla acquisizione delle terre del 1953 vedi tra le altre pp. 22-23, 114-116, 119-121, 124.

[3] Memorandum di Y. Weitz, E. Sasson e E. Danin a Ben-Gurion, “Retroactive Transfer: A Scheme for Resolving the Arab Question in the State of Israel,” June 5, 1948 [Trasferimento Retroattivo: uno schema per risolvere la questione araba nello Stato di Israele, 5 giugno 1948], citato in Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited (Cambridge: Cambridge University Press) [Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Rizzoli, 2004], pp. 314-316.

[4] Noga Kadman, “Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948” [Cancellati dallo spazio e dalla coscienza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati nel 1948] (Bloomington: Indiana University Press, 2015), Introduzione; Oren Yiftachel e Alexandre (Sandy) Kedar, “On Power and Land: The Israeli Land Regime,” [Su potere e terra: il regime territoriale israeliano] Theory and Criticism 16 (2000): p. 77 (in ebraico).

[5] Le considerazioni demografiche non spiegano i passi compiuti per impedire il ritorno di sfollati interni come gli abitanti di Saffuriyya or Kafr Bir’im, la maggioranza dei quali vive ancora sul territorio israeliano.

[6] Pp. 74-81.

[7] P. 17.

[8] Ad es. pp. 62, 75.

[9]  Pp. 62, 81.

[10] Pp. 33, 47, 93-94, 220, 259-260, 276.

[11] Pp. 105-106.

[12] Pp. 41, 76-77, 81.

[13] “Chiesero di tornare al villaggio e dissero che avremmo fatto meglio ad ucciderli […] Non abbiamo consentito loro di andare al villaggio a prendere i loro averi perché l’ordine era che non vedessero come era stato demolito il loro villaggio.” Testimonianza del defunto scrittore israeliano Amos Keinan, che combatté durante la guerra, in “Report on Village Demolition and Refugee Deportation, June 10, 1967,” [Rapporto sulla distruzione di villaggi e la deportazione di rifugiati, 10 giugno 1967] citato in Sedeq 2 (2007): 96-97 (in ebraico).

[14] Nur Masalha, The Politics of Denial: Israel and the Palestinian Refugee Problem [La politica della negazione: Israele e il problema dei rifugiati palestinesi] (London: Pluto Press, 2003), pp. 203-205.

[15] Fin dal marzo 1937 il dirigente sionista e futuro presidente di Israele Chaim Weizmann disse all’alto commissario britannico per la Palestina: “Anche se ogni tanto subiamo delle battute d’arresto, in ultima istanza siamo obbligati a impossessarci di tutto il paese, salvo che il paese sia diviso in due e venga tracciato un limite alla nostra espansione […] Anche se venisse approvato il piano di partizione, siamo obbligati in definitiva a espanderci su tutto il paese […]. Questo non è altro che un accordo per i prossimi 25-30 anni.” Moshe Sharett, Yoman Medini, Vol. 2, p. 67 (in ebraico), citato in Alexander B. Downes, “Targeting Civilians in War” [Prendere di mira i civili in guerra] (Ithaca: Cornell University Press, 2011), p. 187.

[16] Benny Morris, “1948: A History of the First Arab-Israeli War” (New Haven: Yale University Press, 2008) [1948: Israele e Palestina tra guerra e pace, Bur, 2014], pp.  81-93, pp. 197-207.

[17]  Documenti interni dell’intelligence confermano che “l’espulsione di circa il 70% degli arabi durante questo periodo dovrebbe essere attribuito a operazioni militari da parte delle forze ebraiche, mentre gli ordini da parte dei dirigenti arabi hanno influito sullo spostamento solo per il 5%.”

[18] Quelli che seguono sono solo alcuni dei molti esempi. Il soldato ebreo Amnon Neumann testimoniò: “Circondammo il villaggio da varie direzioni, iniziammo a sparare in aria, tutti si misero a urlare e li cacciammo.” Gli ordini operativi del piano D (marzo 1948) esigevano di “ripulire” e “distruggere” villaggi. Agli abitanti di Ramle e Lydda vennero distribuiti volantini che ordinavano loro di andarsene a piedi, e le truppe israeliane spararono sopra le loro teste finché i convogli di rifugiati arrivarono in territorio giordano. A Majdal il trasferimento venne effettuato utilizzando camion militari.

[19] Nel 1950 2.500 palestinesi che erano rimasti nella città di Majdal (oggi Ashkelon) vennero deportati; nel 1956 più di 20.000 beduini palestinesi che erano rimasti nel Negev [Naqab in arabo, ndtr.] furono cacciati, e nel solo 1956 circa 5.000 palestinesi furono espulsi da zone smilitarizzate nel nord di Israele. Come detto, anche la guerra del 1967 ebbe la sua parte di espulsioni, e il fenomeno continua fino ad oggi sia in Israele che in Cisgiordania. Continuano anche ad essere utilizzati vari metodi di emigrazione forzata.

[20] P. 33.

[21] È difficile fare una scelta tra le varie pubblicazioni di palestinesi sul ritorno. Ecco una selezione molto ridotta. Potete leggere alcune brevi citazioni di rifugiati che parlano del ritorno; leggete l’articolo di Abir Kopty “Without Return, Palestine Will Not Be Free” [Senza ritorno la Palestina non sarà libera], del 15.5.2013; vedete il corto di Firas Khouri “Three Returning Bouquets” [Tre mazzi di fiori di ritorno] e ascoltate come alcuni adolescenti descrivono il loro desiderio di tornare; vedete “Internally displaced Palestinians plan their return” [Palestinesi sfollati interni progettano il proprio ritorno]; immaginate, insieme a Umar al-Ghubari e altri, possibili futuri del ritorno e la vita in comune raccontata nel libro “Adwa”, passeggiate nei luoghi immaginati dalla coalizione per il ritorno Al-Awda e da BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e i Diritti dei Rifugiati.

[22] In inglese: Peter Beinart, A Jewish case for Palestinian refugee return [Una causa ebraica per il ritorno dei rifugiati palestinesi], The Guardian, 18.5.2021; Alma Biblash, Who’s afraid of the right of return? [Chi ha paura del diritto al ritorno?], +972 Magazine, 15.5.2014; Tom Pessah, Yes, the right of return is feasible. Here’s how [Sì, il diritto al ritorno è praticabile. Ecco come], +972 Magazine, 7.11.2017; Moran Barir, I have a dream — to see the Palestinian refugees return, [Ho un sogno: vedere il ritorno dei rifugiati palestinesi], 2012; Henriette Chacar, The Jewish Israelis helping make Palestinian return a reality [Gli ebrei israeliani che contribuiscono a rendere possibile il ritorno dei palestinesi], +972 Magazine, 29.5.2020.

In ebraico: Alma Biblash, It’s Time to Talk about Return as a Practical Option [E’ tempo di parlare del ritorno come un’opzione praticabile], Local Call, 5 maggio 2014; Rachel Beit Arie, We Have Grown Used to Viewing the Return as a Threat Rather than a Hope [Siamo cresciuti abituati a vedere il ritorno dei profughi come una minaccia piuttosto che una speranza], Local Call, 2 dicembre, 2018; Tom Pessah, Time for a Serious Discussion on the Right of Return [E’ tempo di una discussione seria sul diritto al ritorno], Haokets, 5 novembre 2017; Tom Pessah, The Right of Return: Not What You Thought [Il diritto al ritorno: non è quello che pensi], Sicha Mekomit, 18 aprile 2018; Joint Meeting on the Ruins of the Village Mighar [Incontro insieme sulle rovine del villaggio Mighar], Israel Social TV, 7 novembre 2017; una serie di servizi della Israel Social TV sul diritto al ritorno, con interviste, tra gli altri, ad Avi-Ram Tzoreff, Jessica Nevo, Yossef(a) Mekyton e Moran Barir.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Eravamo come fratelli’: il campo profughi inorridito dopo che l’esercito spara ad un palestinese che stava passeggiando

Yuval Abraham

10 marzo 2022 – +972 Magazine

Amar Shafiq Abu Afifa stava facendo una passeggiata quando i soldati israeliani lo hanno inseguito e gli hanno sparato alla testa, aggiungendolo al triste bilancio di vittime subìto dal campo profughi di al-Arroub.

Una settimana dopo che i soldati israeliani hanno colpito a morte il diciottenne Amar Shafiq Abu Afifa, il suo amico d’infanzia Mohammed, di 17 anni, è ritornato nel luogo dove è stato ucciso. Mentre saliva sulla collina verso la boscaglia dove è morto Abu Afifa, Mohammed cercava qualcosa tra l’erba alta. Erano stati esattamente in quella zona il giorno prima della sparatoria, dice, ed avevano scritto i loro nomi sull’erba con delle pietre. “Io ho scritto la lettera inglese M per Mohammed e Amar ha scritto il suo nome in arabo.”

Poi siamo saliti sulle rocce, sdraiandoci lì come lapide per un’amicizia spezzata. Hanno fatto un selfie durante quella passeggiata, che adesso è lo sfondo dello schermo del cellulare di Mohammed. I due ragazzi si abbracciano sorridendo alla telecamera. “Eravamo come fratelli”, dice a +972 Mohammed, che era insieme al suo amico quando gli hanno sparato in testa. “Sono ancora sotto shock.”

Le truppe israeliane hanno sparato a Abu Afifa il primo marzo, mentre camminava in cima ad una collina isolata fuori dal campo profughi di al-Arroub nella Cisgiordania occupata, dove sono cresciuti sia lui che Mohammed. Abu Afifa è stato ucciso mentre scappava, come lo stesso esercito ha ammesso in una dichiarazione. Il certificato di morte di Abu Afifa, emesso dal Ministero dell’Interno israeliano, registra una ferita da proiettile alla testa ed un’altra ad una gamba.

La dichiarazione del portavoce dell’esercito israeliano sosteneva che Abu Afifa e Mohammed si erano avvicinati ad un posto di avvistamento vicino alla colonia israeliana di Migdal Oz e che i soldati “li hanno inseguiti…e hanno avviato una procedura di fermo che include sparare al sospettato”.

Ma quando gli inviati di +972 hanno visitato la zona è stato chiaro che la sparatoria è avvenuta a circa 100 metri dal posto di avvistamento – che è semplicemente un gazebo costruito illegalmente a circa 400 metri dalla colonia. Sulla collina c’è anche una piccola torre di comunicazione che sembra essere il posto in cui i soldati hanno teso l’imboscata.

Un soldato è sbucato dagli alberi”, dice Mohammed. “Pensavamo che là non ci fosse nessuno, per cui ci siamo spaventati. Ci ha urlato di fermarci e ha immediatamente sparato in aria. Eravamo così spaventati che ci siamo messi a correre. Allora lui ha aperto il fuoco pesantemente. Non c’era alcun senso. Ho sentito colpi di mitraglia. Tutto è accaduto in pochi secondi. A quel punto non sapevo ancora che Amar fosse morto.”

L’esercito ha detto a +972 che la polizia militare ha avviato un’inchiesta, ma non ha fornito ulteriori dettagli. Secondo l’Ong (israeliana) per i diritti umani Yesh Din, le probabilità che un’inchiesta della polizia militare porti ad un’incriminazione sono inferiori al 4%. Dei 785 casi indagati dalla polizia militare tra il 2013 e il 2018 solo 31 hanno portato ad incriminazioni.

Non riuscivo a smettere di piangere’

Abu Afifa era uno di 7 fratelli. I suoi genitori, Shafiq e Samiha, nel loro salotto hanno una fotografia del figlio morto, che hanno posto su un drappo al suo funerale. Shafiq dice che l’esercito israeliano ha trattenuto il corpo di suo figlio per 10 ore, prima di telefonargli alle 3 del mattino per andare a prendere il corpo di Amar al cancello di una colonia. “Non riuscivo a smettere di piangere”, dice. Quando gli altri hanno incominciato a ricordare Abu Afifa, sua madre Samiha si è scusata ed è uscita dalla stanza.

Il campo profughi di al-Arroub, dove vive la famiglia di Abu Afifa, si trova tra Betlemme e Hebron nel sud della Cisgiordania. Ospita circa 11.000 palestinesi le cui famiglie furono espulse nel 1948 da villaggi come al Faluja e Iraq al-Manshieh, in quella che ora è la parte meridionale di Israele vicino a Kiryat Gat.

Il campo è come una gabbia”, dice Mohammed. “Non c’è dove andare, dove fuggire.” Durante la loro passeggiata il giorno prima della sparatoria, ricorda, avevano discusso del futuro. “Amar frequentava già l’università con molto successo ed io stavo pensando di abbandonare la scuola. Lui mi esortava a rimanere per ottenere il diploma di scuola superiore. Ecco di che cosa parlavamo. Lui veniva a casa mia tutte le settimane per aiutarmi con i compiti.”

Abu Afifa si è diplomato alla scuola superiore l’anno scorso e si è immediatamente iscritto all’università a Ramallah per studiare medicina. “Il suo sogno era diventare medico o infermiere”, dice suo padre. Abu Afifa qualche mese fa ha lasciato gli studi, ritenendo che l’impegno economico fosse troppo pesante per i suoi genitori. Si è iscritto ad un college più piccolo e più economico molto vicino al campo.

Come ragazzo di un campo non hai opportunità di un futuro diverso”, dice il fratello maggiore di Abu Afifa, Issa. “Anche se studi, comunque finisci a fare un lavoro manuale”.

Shafiq, che lavora presso l’UNRWA come operatore ecologico, aggiunge: “Per questo volevo costruire qualcosa di diverso per i miei figli. Ho faticato ogni giorno nel mio disgustoso lavoro per mandare Amar all’università. Dicevo, almeno lui potrebbe avere qualcosa…adesso non so che fare.” Aggiunge: “Mi ammazzo di lavoro. Non ho mai smesso di raccogliere immondizia. Neanche dopo che Amar è morto. Non ho scelta. Devo procurarmi da vivere.”

Una minaccia durante il funerale

Durante il funerale di Abu Afifa un funzionario dello Shin Bet (servizi interni israeliani di intelligence, ndtr.), che si faceva chiamare “Capitano Nidal”, ha telefonato a Shafiq. “Ha detto di essere un investigatore in servizio nell’area di Hebron”, ricorda Shafiq. “Gli ho detto che ero al funerale e gli ho chiesto: ‘Che cosa volete?’. Lui ha risposto: ‘Ora state molto attenti ai vostri figli’. Suonava come una minaccia. Gli ho detto: ‘Viviamo in gabbia, voi avete sparato a mio figlio e adesso mi minacciate?’ Ho avuto l’impressione di non essere niente per lui. Ed ho riattaccato. Da allora non ho più sentito lo Shin Bet.”

Mohammed afferma che non c’è alcun giovane la cui vita non sia stata toccata dallo Shin Bet in un modo o nell’altro. “Ogni villaggio in Cisgiordania ha un capitano che tiene sotto controllo i giovani, soprattutto quelli coinvolti in disordini”, spiega. “Al mio villaggio è in servizio il Capitano Kerem. Telefona ai ragazzi della mia classe. Segue i nostri gruppi di chat su Telegram.”

Il timore di Mohammed riguardo allo Shin Bet è il motivo per cui ha chiesto di usare solo il suo nome di battesimo in questa intervista. “Può farti quel che vuole”, dice a proposito del Capitano Kerem. Lo Shin Bet non ha risposto alla nostra richiesta di un commento.

Oltre alla sorveglianza dello Shin Bet, nel campo profughi di al-Arroub ogni settimana ci sono scontri con l’esercito israeliano. La Route 60, una strada costruita a fianco del campo, è uno dei luoghi preferiti dai ragazzi per tirare pietre alle auto israeliane di passaggio.

Negli ultimi due anni è in costruzione una nuova strada che oltrepasserà il campo più lontano. Nel frattempo i soldati hanno creato dei posti di blocco “mobili” all’entrata del campo ed anche molto all’interno. Chi scrive guida attraverso il campo almeno una volta a settimana e l’anno scorso c’era sempre un posto di blocco con auto palestinesi in coda per passarlo. Lungo la strada proveniente dal campo è stata messa una postazione militare. Le incursioni notturne sono la routine e spesso scoppiano anche scontri.

Normalmente gli scontri vedono lanci di pietre e a volte di bottiglie molotov da parte dei giovani e spari con proiettili veri da parte dei soldati. Mentre io e Issa camminavamo per le tortuose strade del campo, lui indicava una casa dopo l’altra. “Qui non c’è una singola famiglia che non abbia perso un figlio”, dice. Da parte sua Abu Afifa aveva cominciato ad evitare le proteste per concentrarsi sui suoi studi.

Un lungo e triste elenco

Negli ultimi nove anni ad al-Arroub sono stati colpiti undici palestinesi, di cui tre minorenni. Lubna al-Hanash, di 21 anni, è stata colpita nel 2013 mentre camminava nel terreno del college di al-Arroub; l’esercito ha aperto il fuoco dopo che qualcuno ha lanciato una bottiglia molotov contro un’auto israeliana di passaggio, e invece ha ucciso lei.

Iyad Fadailat, di 28 anni, è stato ucciso nel 2014. Si è imbattuto in un posto di blocco mobile appena fuori da casa sua e ha avuto una rissa con i soldati. Gli hanno sparato mentre scappava; l’esercito ha sostenuto che aveva tentato di sottrarre un fucile. Mohammed Jawabra, di 19 anni, è stato colpito nella sua casa nel 2014; i soldati stavano facendo un’imboscata su un tetto lì accanto ed hanno aperto il fuoco quando avrebbero visto una figura sospetta che puntava un’arma improvvisata, ma una successiva indagine di B’Tselem ha smentito l’accusa.

Omar Madi, di 15 anni, è stato colpito nel febbraio 2016 da un soldato di guardia alla torre di controllo lungo la strada; l’esercito ha affermato che stava tirando pietre contro la torre. Omar al-Badawi, di 22 anni, è stato colpito nel 2019 mentre cercava di spegnere un fuoco innescato da una bottiglia molotov che qualche ragazzino aveva lanciato contro dei soldati lì accanto; in seguito l’esercito ha ammesso che non vi era motivo di sparare.

Risibili, sproporzionate, o altro, l’esercito ha fornito giustificazioni per ognuna delle ultime 10 uccisioni di abitanti di al-Arroub – tutte ovviamente eseguite nel contesto di un’occupazione militare lunga 50 anni. Non in questo caso. Il lungo e triste elenco del campo registra ora un’altra voce: Amar Shafiq Abu Afifa, di 18 anni. Causa della morte: colpito alla testa mentre passeggiava nel bosco con il suo migliore amico.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele mi ha arrestata per aver protestato contro l’assedio di Gaza. Ecco perché rifiuto di essere processata

Neta Golan 

8 marzo 2022 – +972 magazine

Essendo israeliana ci ho messo anni a disimparare il sionismo. Ora la mia solidarietà con i prigionieri palestinesi mi impone di respingere un ordine di comparizione davanti al tribunale

Il 21 febbraio sono andata a piedi da casa mia, nella Città Vecchia di Nablus nella Cisgiordania occupata, in un negozio in centro per faxare una lettera alla pretura di Ashdod [una città del sud di Israele, ndtr.]. Sono stata convocata là dopo il mio arresto nel gennaio 2020 durante una manifestazione contro l’assedio di Gaza. Nella mia lettera comunico di non aver intenzione di comparire all’udienza in solidarietà con i prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa che sono in sciopero dal primo gennaio e stanno boicottando il sistema dei tribunali militari in protesta contro questa ingiusta pratica.

Il proprietario del negozio che non aveva idea del contenuto della lettera si è rifiutato di farsi pagare. Essendo vissuta nelle comunità palestinesi per 22 anni mi sono praticamente abituata a questi gesti quotidiani di cortesia e generosità. Sono solo una delle manifestazioni di una invisibile rete di protezione che ho imparato a conoscere e da cui dipendo. Ogni società ha i suoi problemi, ma io mi sento incredibilmente fortunata ad avere l’onore di vivere con i palestinesi.

Ma non è sempre stato così. Crescendo a Tel Aviv in una famiglia di ebrei ashkenaziti [cioè di origine europea, ndtr.] sentivo storie su come noi israeliani fossimo moralmente superiori agli “arabi.” Ogni volta che entravamo in un’area palestinese mio padre ci diceva di stare attenti a borse e tasche. Mia nonna ci metteva in guardia perché “un arabo con una mano ti abbraccia e con l’altra ti pugnala alla schiena,” e mentre eravamo tutti a tavola per cena ci diceva che “l’unico arabo buono è l’arabo morto.”

Quando è scoppiata la Prima Intifada avevo 16 anni. Sapevo molto poco dell’occupazione e nulla della Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case ad opera delle milizie sioniste e dell’esercito israeliano nella guerra del 1947-49, ndtr.], ma capivo che i palestinesi stavano lottando per la loro libertà e che noi, per tutta risposta, li stavamo uccidendo. Quando sono stati firmati gli accordi di Oslo speravo che le cose sarebbero cambiate in meglio e volevo far parte di quel cambiamento. Non potevo immaginare che li avrebbero trasformati in un altro meccanismo per la spoliazione dei palestinesi.

Ho cominciato ad andare in Cisgiordania negli anni ‘90. Il primo anno e mezzo ero terrorizzata ogni volta che salivo su un pulmino palestinese in partenza dalla Gerusalemme Est occupata: ero sicura che tutti quelli intorno a me volessero uccidermi. Ma ogni volta, passata l’ansia, vedevo che non era così. Anzi, non erano per niente interessati a me, avevano altre cose per la testa relative alle loro vite. Ero scioccata nello scoprire che “loro” erano persone come tutti gli altri.

Dopo un lungo processo di analisi della mia paura, mi sono resa conto che, nonostante il fatto che nessuno avesse menzionato la Nakba durante la mia infanzia, alla gente le cui case, tombe e alberi erano tutt’intorno a me era impedito di ritornarci, mentre a me era permesso di stare là al loro posto. Non sorprende che li temessi: è la stessa paura che tutti i colonialisti o beneficiari di sistemi razzisti sviluppano verso le persone che loro hanno cacciato od oppresso.

Da israeliani siamo nati dentro il progetto sionista, che è basato sulla continua espropriazione degli indigeni palestinesi. Ma esistono alternative a questo progetto di sottomissione: noi possiamo vivere accanto ai palestinesi invece che a loro spese. E da cittadini israeliani noi possiamo usare i privilegi a noi concessi dal regime di apartheid per smantellare il sistema di discriminazione e oppressione. Per il bene di tutti quelli che vivono qui, indipendentemente da nazionalità o religione, noi possiamo unirci alla lotta per la liberazione palestinese.

Le politiche di apartheid prosperano nell’oscurità, ma quando noi vi prestiamo la dovuta attenzione cominciano ad afflosciarsi. Ecco perché in tribunale ho parlato del caso di Amal Nakhleh, un diciottenne palestinese affetto da una grave malattia, che da oltre un anno è in detenzione amministrativa. I detenuti amministrativi sono imprigionati per un periodo di tempo indefinito sulla base di “prove segrete” secondo le quali in futuro potrebbero commette un reato. I prigionieri non sono mai processati e né loro né i loro avvocati hanno accesso alle prove.

A gennaio Amal, che partecipa allo sciopero dei detenuti amministrativi palestinesi, ha boicottato la sua convocazione da parte di un tribunale militare israeliano. In sua assenza il giudice ha approvato la richiesta dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna di Israele, ndtr.] di rinnovare la sua custodia cautelare fino al 17 maggio, quando potrà essere di nuovo estesa. E così di seguito.

Io ho detto al tribunale che, a differenza di Amal, a me è stata data l’opportunità di andare ad Ashdod per difendermi dalle loro accuse. Ma i diritti che mi sono concessi perché i miei nonni sono immigrati in Palestina dall’Europa sono negati ai palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 e ai palestinesi espulsi con la forza dalla loro patria nel 1948, come ai loro discendenti a cui Israele impedisce ancora di ritornare.

Data la mia cittadinanza israeliana se venissi incarcerata avrei il privilegio di essere rilasciata dopo aver scontato la mia pena. Non è così per i due milioni di persone imprigionate negli ultimi 15 anni nella Striscia di Gaza assediata, inclusi circa un milione di minori che sono nati e hanno vissuto tutta la loro vita con la costante minaccia di violenza mortale, il cui solo crimine è quello di non essere nati da madri ebree.

Oppressione e apartheid sono disumanizzanti per le vittime e i carnefici. Godere di privilegi a danno di altri non può essere disgiunto dalla paura, dal razzismo e dall’incessante violenza che li supporta. La giustizia, sotto forma di ritorno e risarcimenti per i rifugiati palestinesi, non libererà solo i palestinesi. Libererà anche noi.

Neta Golan è un’attivista israeliana anti-apartheid e una partecipante attiva di Israelis Against Apartheid (Israeliani contro l’Apartheid), Return Solidarity (Ritorno Solidarietà) e Boycott From Within (Boicottaggio dall’interno). Vive a Nablus con il compagno, le loro figlie e il gatto, il che, per le leggi israeliane di apartheid, è considerato un atto illegale.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele sta lasciando fare all’estrema destra l’escalation a cui mira?

Oren Ziv

20 febbraio 2022 – +972 Magazine

La scorsa settimana +972 Magazine si è unito a The Intercept [sito di inchieste giornalistiche in inglese e portoghese, ndtr.] e Local Call [sito di informazione in ebraico di cui +972 Magazine è la versione in inglese, ndtr.] per pubblicare una storia molto approfondita su come l’8 febbraio a Nablus le forze israeliane hanno ucciso in pieno giorno tre giovani palestinesi membri delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa. [Vedi articolo di Zeitun ]Mentre le autorità hanno sostenuto che gli agenti della polizia di frontiera responsabile delle morti avevano solo risposto al fuoco quando stavano cercando di arrestare i tre, testimoni oculari e video resi pubblici giorni dopo le uccisioni non lasciano dubbi: gli agenti avevano l’incarico di ammazzarli.

Il giorno dopo l’aggressione l’atmosfera a Nablus è rimasta tesa, molti abitanti erano troppo scioccati e spaventati per parlare. Dalla Seconda Intifada Israele ha smesso quasi del tutto di procedere ad assassinii mirati in Cisgiordania, e tra i palestinesi c’è un crescente timore che l’esercito possa riprendere quella prassi. I membri della famiglia di due delle vittime palestinesi hanno persino detto che nei mesi che hanno preceduto l’uccisione avevano ricevuto ripetute telefonate minatorie dallo Shin Bet [agenzia di intelligence interna israeliana, ndtr.] che chiedeva di consegnare i loro figli o fratelli, “altrimenti…”.

Mentre stavamo facendo la nostra inchiesta l’esercito ha ucciso altri due palestinesi. Domenica nel nord della Cisgiordania i soldati hanno sparato e ucciso Muhammad Akram Ali Taher durante la demolizione di una casa per ritorsione: lo stabile era di proprietà di un palestinese sospettato di essere stato coinvolto nell’uccisione di un colono nell’avamposto estremista di Homesh. Il mercoledì seguente i soldati hanno colpito a morte Nihad Amin al-Barghouti nel villaggio di Nabi Saleh.

L’assassinio di Nablus segnala davvero un tentativo da parte di Israele di dar fuoco alle polveri in Cisgiordania? Hanan Ashrawi, esponente del Consiglio Legislativo Palestinese, crede di sì. “Si è trattato di un atto di provocazione inteso a trasmettere ai dirigenti palestinesi il messaggio che ‘qui comandiamo noi’,” afferma. “Parlano di ridurre il conflitto, ma lo stanno estendendo.”

Nel contempo il parlamentare di estrema destra della Knesset Itamar Ben-Gvir era impegnato, per la seconda volta, a piazzare a Sheikh Jarrah un “ufficio parlamentare” improvvisato, che di fatto ha funzionato come avamposto dei coloni, questa volta davanti alla casa della famiglia Salem. I Salem, che lo scorso mese hanno affrontato ripetute violenze da parte dei coloni, sono minacciati da un’imminente espulsione dal quartiere.

Al suo arrivo Ben-Gvir era accompagnato da decine di poliziotti che hanno preso di mira gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah invece che Ben-Gvir e i coloni.

Sia lui che i palestinesi ricordano che l’ultima volta che era andato nel quartiere [si riferisce al maggio 2021, ndtr.] per provocare disordini è finita con una guerra e violenze in tutta la Palestina: a Gerusalemme, a Gaza, a Ramle, a Lydda e altrove.

Gli assassinii a Nablus sono stati autorizzati dal governo israeliano. A Sheikh Jarrah la violenza è messa in atto da un “estremista” kahanista [seguace del defunto rabbino Kahane, razzista e suprematista ebraico, ndtr.]. Nessuno dei due ha ancora provocato una ripetizione degli avvenimenti del maggio 2021 [la guerra contro Gaza e gli scontri nei territori occupati e in Israele, ndtr.]. Ma se c’è qualcosa che possiamo imparare dal maggio scorso è che persino incidenti sporadici possono portare a un incremento della violenza. Ed è molto probabile che in Israele ci sia chi – il primo ministro Naftali Bennett come il deputato Itamar Ben-Gvir, – è interessato proprio a questo.

La scorsa settimana la violenza si è diffusa da Nablus a Sheikh Jarrah alla Città Vecchia di Gerusalemme, dove estremisti di estrema destra hanno tenuto un piccolo corteo ed hanno aggredito gli astanti palestinesi. Poiché le provocazioni dei coloni avanzano lentamente più vicino alla Città Vecchia e alla Moschea di Al-Aqsa, ci sono molte probabilità che l’opinione pubblica palestinese, a Gerusalemme, in Cisgiordania, a Gaza o all’interno di Israele, scenda in strada come ha fatto lo scorso anno.

Oren Ziv è un fotogiornalista e socio fondatore del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa c’è dietro la rinnovata guerra della destra israeliana contro i cittadini palestinesi?

Meron Rapoport

10 febbraio 2022 – +972 magazine

Articolo pubblicato in collaborazione con Local Call.

Fallito il tentativo di annettere formalmente la Cisgiordania, la destra israeliana prende nuovamente di mira un suo vecchio bersaglio.

Ascoltando la retorica della destra israeliana dello scorso anno sembra di avere fatto un passo indietro nel tempo e di essere tornati ai giorni precedenti la fondazione di Israele. I fatti violenti del maggio 2021 sono etichettati come “tumulti” e “pogrom,” mentre il commentatore Amit Segal considera piantare alberi nel Negev/Naqab: “un’attività naturale e sionista”, un’attività il cui obiettivo, secondo Avraham Duvdevani, presidente del Jewish National Fund, (JNF) [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] è di “appropriarsi tramite il rimboschimento degli spazi aperti vicino agli insediamenti beduini per bloccare l’occupazione delle terre.” A sentire il giornalista Kalman Liebskind ciò che al momento sta succedendo in tutto il Paese è una “guerra contro il sionismo, la sovranità e la madrepatria.”

Questi tre uomini appartengono tutti all’ala militante del sionismo religioso che, anche se raccoglie al massimo i voti del 10% degli ebrei israeliani, occupa alcune delle cariche più ambite nel cuore dei media e dell’establishment politico israeliano. Segal è il principale commentatore politico di Channel 12 e del quotidianoYedioth Ahronoth [giornale di centro fra i più letti in Israele, ndtr.], Liebskind ha il suo show sull’Israeli Public Broadcasting Corporation (KAN) [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e Duvdevani è il capo di un’organizzazione che controlla più del 10% della terra del Paese.

Non meno interessante della sproporzionata rappresentanza di quest’ala radicale nella struttura di potere statale è il linguaggio che ideologi e politici di destra hanno cominciato a usare l’anno scorso, in particolare in seguito alle violenze di maggio e dalla formazione del governo Bennett-Lapid: un linguaggio che dà l’impressione che la comunità ebraica in Israele debba ancora conquistarsi il proprio Stato. Fanno sembrare il sionismo come se fosse ancora nella sua fase prestatale, pre-sovrana. Come se nel 1948 Israele non si fosse costituito sulle rovine del popolo palestinese né avesse continuato a stabilirsi in oltre 700 colonie, paesi e città solo per cittadini ebrei. Come se non avesse imposto l’occupazione militare su 4,5 milioni di palestinesi per oltre 50 anni.

Ci sono varie ragioni che hanno fatto emergere questa azione retorica concentrata e deliberata che – pur provenendo dalla destra, è fermamente integrata nel mainstream israeliano – per un ritorno alle “radici del sionismo”, collocate a prima della fondazione di Israele. Esse si possono così riassumere: l’estrema destra teme che il sionismo e lo Stato di Israele abbiano deviato, o stiano per deviare, dalla loro strada e che invece di stabilire uno “ Stato ebraico” il cui unico scopo sia servire la collettività ebraica, il sionismo possa inavvertitamente portare alla creazione di una vera democrazia in cui tutti, inclusi i cittadini palestinesi, abbiano la loro parte di potere.

L’idea stessa di democrazia, uno Stato che sia in ugual misura al servizio dei propri cittadini, è vista come una minaccia imminente. Questo è il messaggio centrale proveniente da quasi tutti gli oratori a una sequela di recenti manifestazioni di destra e pro-Netanyahu a Tel Aviv: lo Stato ebraico deve essere salvato e va evitata ad ogni costo l’istituzione di uno “Stato per tutti i suoi cittadini”. È come se avessero letto il rapporto di Amnesty prima che fosse pubblicato e concordato con la sua diagnosi, ma respinto le conclusioni: Israele è uno Stato di apartheid e deve rimanere tale.

Alla ricerca di una nuova frontiera

La guerra della destra contro uno Stato di tutti i suoi cittadini che si sta rivelando una guerra contro i cittadini palestinesi di Israele è il risultato del fallimento del suo progetto di annessione. Il fallimento dell’annessione formale dei territori occupati, un progetto che la destra ha cullato per oltre un decennio, è un segnale diretto alla base che, almeno per l’immediato futuro, non è possibile espandere i confini della sovranità israeliana in modo sistematico e concordato senza ricorrere alla guerra. Di fatto i coloni hanno visto l’ultima frontiera, il confine definitivo, scomparire davanti ai loro occhi.

Per la destra il sionismo è un movimento in preda a una costante lotta espansionista e perciò sempre bisognoso di trovare “nuove frontiere.” Questo fa da sfondo alla nascita dei Garinim Toranim, i gruppi del movimento dei coloni che in anni recenti hanno cercato di ebraicizzare ulteriormente le “città miste” in Israele.

È anche lo sfondo su cui prospera un’organizzazione come HaShomer HaChadash che afferma di “proteggere la terra, assistere contadini e allevatori e rafforzare il legame del popolo ebraico con la terra, i valori ebraici e l’identità sionista.” Tutto ciò fa parte della “Guerra per il Negev,” oggi lo slogan centrale della battaglia della destra che ha di nuovo conquistato i titoli questa settimana, quando attivisti della destra hanno tentato di fondare una “nuova colonia” per ebrei vicino alla città beduina di Rahat, più o meno con le stesse modalità con cui i coloni stabiliscono avamposti non autorizzati in Cisgiordania.

Ma appena la destra ha distolto lo sguardo dalla Cisgiordania per rivolgerlo su Israele ha scoperto una nuova realtà che non conosceva. Nell’ultimo decennio, e soprattutto durante le ultime quattro tornate elettorali, i cittadini palestinesi in Israele hanno ottenuto un potere su istruzione, economia e specialmente in politica, molto maggiore a quello che aveva nel passato.

Che Mansour Abbas e il suo partito Ra’am [islamista israelo-palestinese, ndtr.] facciano parte del governo israeliano è un diretto risultato del crescente potere dei palestinesi nell’arena politica israeliana. È vero che questa non è la prima volta che un partito arabo fa parte di una coalizione israeliana, ma è difficile negare che il riconoscimento del potere politico dei cittadini palestinesi, e in particolare la legittimità che ha di reggere il timone, è diventato molto ampio.

Questo crescente potere palestinese minaccia di indebolire la storica “divisione del lavoro” fra un “Israele ufficiale,” che afferma di essere democratico e basato sull’uguaglianza fra tutti i suoi cittadini, e un “Israele non ufficiale,” che opera sistematicamente per il beneficio della collettività ebraica in quasi tutti i campi immaginabili. Il JNF che è responsabile della confisca di terre di proprietà araba per piantare alberi nel Negev/Naqab, è uno dei principali agenti di questo Israele non ufficiale.

Per vedere quanto sfacciatamente razzista sia l’Israele non ufficiale basti considerare alcune citazioni del presidente del JNF. A una conferenza agli inizi di dicembre Duvdevani ricorda che quando era alla Jewish Agency [Agenzia Ebraica, ente parastatale israeliano, ndtr.] aveva spinto affinché lo Stato limitasse gli assegni familiari alle famiglie con due o tre figli mentre l’Agency si sarebbe impegnata ad aiutare famiglie più numerose, ma solo se erano ebree. “Siccome l’Agency si concentra solo sugli ebrei,” aveva spiegato che avrebbe potuto funzionare. Oggi comunque non si potrebbe. “Lo Stato è cambiato,” si lamenta, e “oggi si parla di più di uguaglianza e contro il razzismo e uno non può più far niente.” In breve la democrazia danneggia i “veri” sionisti come Duvdevani.

La legge dello Stato-Nazione ebraico è un tentativo di istituzionalizzare questa discriminazione razzista e renderla parte dell’Israele ufficiale, ma sembra che non abbia raggiunto i suoi scopi, almeno secondo la destra: la sua approvazione ha solo propiziato la crescita dell’influenza politica dell’elettorato palestinese, portando alcuni dei suoi rappresentanti al governo.

Qui il rischio per la destra è non solo che la collettività ebraica stia perdendo il suo monopolio assoluto sul potere in Israele o persino che il Movimento Islamico conquisti parte di questo potere per sé e sia in grado di prendere decisioni su politiche riguardanti sia arabi che ebrei. Il vero pericolo è che quelle parti dell’opinione pubblica ebraica, al di là della sinistra radicale, siano ora disponibili a questo partenariato. In altre parole, quello che temono è che troppi ebrei e troppi cittadini palestinesi in Israele possano cominciare a concretizzare la pretesa che Israele sia uno Stato democratico, e farlo veramente diventare “uno Stato per tutti i suoi cittadini.”

Bezalel Smotrich, forse il politico più acuto della destra, ha identificato questo rischio fin da subito e perciò si è rifiutato di entrare in coalizione con Abbas, anche se ciò avrebbe permesso a Netanyahu di restare al potere. Per Smotrich Israele può essere o ebraico o democratico. Non c’è spazio per compromessi. Ha fatto la sua scelta e il resto dell’estrema destra lo ha seguito.

L’obiettivo finale è il conflitto violento

A maggio la violenza fra comunità ha gettato benzina sul fuoco. Non è qui il luogo per un resoconto dettagliato di cosa è successo, ma a destra, anzi non solo a destra, questi eventi sono la prova che il vero nemico è dentro i confini sovrani di Israele, compreso il territorio annesso di Gerusalemme Est. Ci sono pochi dubbi che la destra abbia usato la violenza di rivoltosi arabi ed ebrei nelle cosiddette città miste, Lydda, Ramle, San Giovanni d’Acri e Giaffa, per presentare tutti i cittadini palestinesi di Israele come “il nemico interno.”

Coniare in ebraico l’espressione ‘disordini del 5781’ (alludendo alla rivolta in Palestina del 1929 o del 5689, secondo il calendario ebraico, durante il mandato britannico) ha lo stesso scopo. A chiunque sia cresciuto nel sistema scolastico israeliano-ebraico la parola “Meoraot” (ebraico per “disordini”) immediatamente richiama alla memoria il vero caposaldo del conflitto ebraico-palestinese: gli arabi non ci volevano qui e non ci hanno lasciato altra scelta che combatterli e in ultimo scacciarli, questa è la storia. “Meoraot” catapulta il conflitto a livello della comunità, svincolandolo dall’elemento civile: noi non siamo cittadini dello stesso Stato democratico, noi siamo ebrei e arabi, due comunità eternamente in guerra.

In questo senso lo scopo dei fondamentalisti sionisti è tanto sfacciato quanto semplice: istigare la violenza fra arabi ed ebrei entro i confini di Israele o, più precisamente, istigare un conflitto fra lo Stato e i suoi meccanismi di oppressione (specialmente esercito e polizia) da un lato e i suoi cittadini arabi dall’altro, e neanche lontanamente in senso metaforico, ma in senso molto diretto, fisico.

Il fatto che i rivoltosi della Lod araba questa mattina non contino i propri morti non è perché ci si sia contenuti e moderati. È codardia e volontaria cecità,” ha twittato il giornalista Amit Segal il 12 maggio 2021, due giorni dopo l’inizio degli scontri. “Il fatto che l’ebreo che ha sparato a un manifestante per proteggere la propria famiglia sia ancora in carcere dovrebbe far tremare tutto lo Stato,” aggiunge. Inutile dire che a Lydda l’ebreo che ha sparato e ucciso Musa Hassuna è invece stato subito rilasciato senza accuse: invece gli abitanti arabi di Lydda accusati di aver ucciso l’abitante ebreo Yigal Yehoshua sono stati condannati.

L’ultima settimana di gennaio a una conferenza che aveva organizzato con l’organizzazione di estrema destra Im Tirzu, il parlamentare del Likud Yoav Galant ha chiesto di ampliare la polizia di frontiera paramilitare con “tre battaglioni regolari e una forza di riservisti di alta qualità” per combattere contro la “scatenata criminalità nazionalista.” Galant continua mettendo in guardia che “se noi perdiamo il Negev e la Galilea perderemo anche Tel Aviv e Gerusalemme.” Altri oratori hanno fatto eco a questo sentimento.

I pericoli di questa narrazione, che invoca la soppressione violenta dei cittadini palestinesi in Israele con il debole pretesto di un ritorno alle radici sioniste, non può essere sottostimato, precisamente perché questo discorso, dal piantare boschi a lottare contro i “rivoltosi,” è così profondamente radicato nella coscienza israeliana che è quasi impossibile non prevedere che culminerà nella violenza che cerca di fomentare.

Apartheid formalizzato o una seconda Nakba

Noi dovremmo anche ricordare che a capo dello stesso governo che include il Movimento Islamico siede un uomo della destra con cui la retorica sui pericoli dei “disordini” di maggio e la necessità di difendere la terra della Nazione risuona tanto quanto quello di tutti gli altri. “L’idea è di radunare [i beduini] e concentrarli in una manciata di comunità riconosciute,” ha detto il primo ministro Bennett a Maariv durante il weekend.

Sarebbe una situazione vantaggiosa per tutti, per il sionismo, per lo Stato, per conservare la terra statale,’ continua Bennett. “Noi erigeremo un muro di ferro contro l’ingovernabilità. È una minaccia reale. Lo scoppio di violenza durante Guardian of the Walls (I guardiani delle mura, nome israeliano per l’operazione militare a Gaza del maggio 2021) ci ha scossi tutti. È stato un campanello d’allarme.” Ayelet Shaked, da lungo tempo compagna ideologica di Bennett e attuale ministra degli interni ha aggiunto più tardi nella settimana, parlando della Legge sulla Cittadinanza [che intende impedire ai palestinesi immigrati per ricongiungimento familiare di acquisire la cittadinanza israeliana, ndtr.] che sta cercando di far passare alla Knesset, che “i dati parlano da sé, senza la Legge sulla Cittadinanza noi perderemo il Negev a favore del nazionalismo palestinese.”

Ma c’è il rovescio della medaglia della minaccia. La realtà israeliana del 2022 non è quella delle comunità ebraiche del 1929, 1936, o persino del 1948. Negli anni ’30 l’acquisto di terre condotto da Yosef Weitz per conto dello JNF portò alla cacciata di contadini palestinesi affittuari e alla loro sostituzione con coloni ebrei. Oggi persino se il JNF trasformasse il Negev in una lussureggiante e vasta giungla la possibilità che chiunque a Sawe al-Atrash [villaggio beduino al centro del conflitto sulla riforestazione, ndtr.] lasci le proprie terre è virtualmente nulla. Anche gli abitanti palestinesi-arabi delle “città miste,” sopravvissuti a molti decenni di sfratti, repressione e discriminazioni, non andranno da nessun’altra parte.

Com’è noto Karl Marx disse che la storia si ripete: “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” Ci si potrebbe chiedere se il ritorno della destra alla storia del primo sionismo sia poco più di una farsa e, al di là della spacconata, un’ammissione di fallimento. “Noi abbiamo deciso di non raccontare quella battaglia” contro i beduini del Negev, scrive Liebksind nell’articolo che ho citato sopra. E con “noi” egli non vuole dire sé stesso e i suoi camerati della destra. Egli intende l’intera comunità ebraica. La vera chiamata all’azione è ricolma dell’ammissione della sconfitta.

Il motivo per cui Liebskind, Smotrich e compagnia temono che la battaglia sia persa è proprio perché vedono il crescente potere dei palestinesi nella politica israeliana, proprio perché ritengono che parti sempre più vaste della società ebraica come mai prima d’ora stiano mettendosi l’anima in pace in merito alla legittimità della presenza palestinese nel governo israeliano, proprio perché capiscono le implicazioni di lungo termine di questa presenza, sia per la democrazia israeliana che per il futuro dell’occupazione.

Le sole due opzioni rimaste alla destra sono l’apartheid formalizzato o una seconda Nakba [Catastrofe in arabo, l’espulsione dei palestinesi dal territorio in cui nacque lo Stato di Israele, ndtr.], nessuna delle quali appare particolarmente probabile in un prossimo futuro. Smotrich, fra l’altro, sembra spingere per entrambe: da un lato cercando di privare del potere i cittadini palestinesi di Israele e dall’altro ribattendo ai parlamentari arabi con la battuta: “Tu sei qui solo perché nel ’48 (il primo ministro David) Ben-Gurion non finì il lavoro di cacciarvi.”

È importante capire cosa ci troviamo davanti con l’improvviso revival degli slogan vintage, antecedenti lo Stato sionista, e quello che ci sta dietro. Farlo ci permetterà di comprendere i rischi radicati in questa narrazione, ma anche a essere consapevoli dei suoi limiti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“Siamo qui per mettere sotto pressione il villaggio”: le truppe israeliane ammettono la politica delle punizioni collettive

Yuval Abraham 

 24 gennaio 2022,  +972 Magazine

Da dicembre l’esercito israeliano ha imposto al villaggio di Dir Nizam una chiusura quasi totale e violente incursioni. E i soldati sono sinceri sul perché lo stanno facendo.

Per quasi due mesi i soldati israeliani hanno sottoposto i 1.000 residenti del villaggio palestinese di Dir Nizam a punizioni collettive, sostenendo che si trattava di una reazione ai bambini che lanciano pietre contro i veicoli di passaggio. Il 1° dicembre 2021 l’esercito ha chiuso tutti e tre gli ingressi al villaggio, che si trova a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, e ha allestito un posto di blocco con bande chiodate all’unico ingresso lasciato aperto al traffico.

Da allora, i soldati israeliani hanno piantonato l’ingresso 24 ore su 24, controllando a lungo ogni macchina al passaggio, interrogando i passeggeri, aprendo i bagagli e fotografando le carte d’identità. A volte bloccando completamente tutti i movimenti dentro e fuori il villaggio per ore.

I soldati non si limitano a restare fuori dal villaggio; sono entrati a Dir Nizam in almeno 14 occasioni dall’inizio della chiusura per effettuare arresti, condurre indagini o compiere “azioni di deterrenza” contro gli abitanti del villaggio. In tre diverse occasioni sono persino entrati nella scuola del villaggio.

La punizione collettiva è stata imposta a Dir Nizam apparentemente per impedire ai bambini di lanciare pietre, ma gli episodi di lanci di pietre sono in realtà aumentati da quando l’esercito ha chiuso il villaggio e non sembra esserci in progetto che se ne vadano presto. Ho visitato l’area la scorsa settimana e ho chiesto ai soldati cosa stessero facendo esattamente lì:

Posso chiederti qual è lo scopo di questo posto di blocco?

“Certo. Siamo qui perché sulla statale 465, vicino al villaggio di Dir Nizam, gruppi di bambini dagli 8 ai 16 anni circa lanciano mattoni e piccoli sassi ai veicoli di passaggio… [Il posto di blocco] che abbiamo allestito qui è per fare pressione sul villaggio stesso. Stiamo facendo arrivare gli adulti in ritardo al lavoro al mattino, stiamo davvero rendendo difficile la loro vita quotidiana. Gli adulti sono consapevoli di ciò che stanno facendo i bambini e sono contrari. Non vogliono che lancino pietre”.

Quindi questa è in realtà una forma di punizione collettiva imposta al villaggio?

“Esatto. È una punizione collettiva per l’intero villaggio. La pressione sugli adulti, gli ‘anziani della tribù’, come qui vengono chiamati, farà pressione sui bambini che quindi smetteranno di lanciare pietre”.

Ok. E che senso ha questo per te? Punire mille persone, a causa di pochi bambini?

“O è così, o altre soluzioni che non sono sempre piacevoli. Per non dire altro.”

Cosa intendi per altre soluzioni?

“Oggi disponiamo di mezzi molto avanzati per identificare i bambini, i volti dei lanciatori di pietre. Se attiviamo questi mezzi, possiamo arrestarli. E questi bambini saranno messi dove devono essere messi”.

La nuova “normalità”

A duecento metri dal posto di blocco, accanto alla scuola, si sono radunati intorno a me otto bambini: il più grande è all’undicesima, il più giovane alla seconda, la maggior parte alle elementari [il sistema scolastico palestinese prevede sei anni di elementari, tre di medie e decimo e undicesimo anno di istruzione superiore ed è obbligatorio sino alla decima classe, ndtr.]. Quando ho chiesto in che modo la presenza militare li avesse colpiti, hanno iniziato a ridere. Ogni volta che uno parlava, gli altri lo interrompevano.

“Mi hanno arrestato”, ha detto un bambino di quinta elementare con uno zaino strappato. “Mi hanno picchiato”, ha gridato un altro ragazzo. «Sto lanciando sassi», urla un altro di quarta elementare, che poi corre goffamente lungo la strada.

L’atmosfera è cambiata grazie a Ahmad Nimer, un ragazzo che non rideva. Lo sguardo dei suoi occhi marroni appariva più vecchio dei suoi 13 anni e, vedendo i miei tentativi di avere una conversazione seria, ha detto: “Posso dirti io come mi colpisce l’esercito “. Tutti tacquero.

“E’ sempre mio padre che guida l’auto, mia madre siede accanto a lui e io mi siedo dietro”, dice mentre il gruppo gli si raduna intorno. “Da quando hanno allestito il posto di blocco, i soldati li fermano di continuo. Dicono ai miei genitori, in ebraico, ‘Dove state andando?’ e fotografano i loro documenti. A volte ci fanno scendere dall’auto, a volte dicono a loro o a me: ‘Perché i bambini lanciano sassi?’”

E tu cosa dici?

“Niente. Sono sul sedile posteriore e guardo mio padre”.

E cosa pensi?

“Niente. Non penso niente. Per me è normale”.

Il resto dei bambini annuisce. “È normale”, dice Tamer, un dodicenne con i capelli corti. “Il giorno in cui sono entrati nella nostra scuola sono svenuto per i gas lacrimogeni e mi sono svegliato pochi minuti dopo a casa”.

Tamer fa riferimento a quanto accaduto il 9 dicembre: secondo testimonianze e video, quel giorno i soldati israeliani sono entrati nella scuola del villaggio nelle ore pomeridiane, dopo che le lezioni erano finite, hanno interrogato gli studenti in cortile e cercato i bambini che tiravano pietre. “Hanno esaminato le aule, dicendo che stavano cercando quelli che tirano le pietre”, dice Adham, che ha 16 anni. “Hanno lanciato molti gas lacrimogeni e granate stordenti in cortile”.

Da quando sono iniziate le punizioni collettive al villaggio, i soldati sono entrati a scuola tre volte; l’incursione più recente è stata la scorsa settimana, il 18 gennaio, alle 8:45 mentre iniziavano le lezioni.

Il brutale ingresso dei soldati è stato ben documentato nei video ripresi da studenti e insegnanti che hanno assistito in prima persona alle aggressioni. In uno di essi si vedono soldati picchiare e tirare fuori dalla classe uno studente dell’undicesima classe mentre la sua insegnante cerca di proteggerlo con il suo corpo e grida: “Questa è una scuola, andate via!”

In un altro video, i soldati bendano lo stesso ragazzo vicino al cortile, mentre sullo sfondo si vedono bambini delle elementari che entrano dai cancelli e corrono verso le aule. Un altro video mostra un gruppo di soldati che attraversa il campo da basket della scuola, spintonando due membri dello staff. Due studenti sono stati arrestati: il primo, Ahmad al-Ghani, è stato rilasciato il giorno successivo; il secondo, Ramez Muhammad, è tuttora in custodia.

“Di solito prendono i bambini per qualche ora, li portano in giro in jeep, danno loro qualche schiaffo in faccia, chiedono loro perché hanno lanciato pietre e poi li riportano al villaggio”, ha detto Adham. La mattina del 5 gennaio, ad esempio, l’esercito è entrato a Dir Nizam e ha arrestato nove bambini, ma poche ore dopo li ha riportati tutti al villaggio. Non sono stati portati alla stazione di polizia per essere interrogati e non sono stati processati.

Si stanno facendo odiare ancora di più dai bambini”

Arin, una 43enne residente a Dir Nizam, ha affermato che tra tutte le conseguenze della politica delle punizioni collettive, ciò che colpisce di più i suoi figli sono le incursioni notturne dell’esercito. “I soldati vengono proprio a casa a interrogare i ragazzi e più volte hanno lanciato granate stordenti e gas lacrimogeni per le strade, per svegliare tutti”, ci ha detto.

Ad esempio, il 2 dicembre alle 22:30, una telecamera di sicurezza su una delle case del villaggio ha documentato i soldati che lanciavano nove granate stordenti sulla strada principale della zona residenziale. Dall’angolazione della telecamera è impossibile comprendere completamente il contesto, ma il linguaggio del corpo dei soldati è rilassato e non si vedono lanci di pietre prima del lancio delle granate stordenti.

Tutti a casa si sono immediatamente svegliati”, ricorda una donna anziana di nome Fatima, la cui casa si trova su quella strada. “Recentemente non ho più potuto dormire la notte, né io né i bambini”, dice un’altra donna di 30 anni, che ha chiesto di non essere nominata.

“Ogni notte, da un mese ormai, mio nipote mi chiede: ‘Nonna, hai chiuso a chiave la porta?’ Tre volte a notte lo chiede”, dice Arin. “Chi non ha mai lanciato pietre si dice: ‘Ora comincerò a tirare pietre, che importa? A prescindere dal fatto che io lanci o no pietre, tutti vengono puniti.’ Stanno facendo in modo che i bambini li odino ancora di più”.

Il nuovo posto di blocco si trova vicino al paese su una strada interna che si collega con la statale 465; vi sono stati recentemente posati anche blocchi di cemento. “L’unico giorno in cui possiamo rilassarci senza punizioni collettive è la loro vacanza, Shabbat. Il sabato non c’è posto di blocco al mattino, ma torna la sera”, ha detto Fatima.

Elham, 32enne che culla il figlio piccolo tra le braccia, mi ha raccontato una discussione avvenuta entrando in macchina nel villaggio. “Mio figlio era con me sul sedile posteriore. Il soldato gli ha detto: ‘Perché lanci sassi?’ e mio figlio ha risposto ‘Io non lancio sassi’ e il soldato: ‘Bugiardo, ti ho visto’. Mio figlio oggi era con me al lavoro, dalle sette del mattino”, ha continuato Elham. “Così ho cercato di dire al soldato che non ha lanciato pietre perché l’ho avuto sott’occhio tutto il giorno, dalla mattina. Ma il soldato mi ha semplicemente detto: ‘Parla ebraico, non capisco l’arabo.'”

“Controllate l’aria che respiriamo”

Come in moltissimi villaggi della Cisgiordania, la maggior parte delle terre di Dir Nizam si trova nell’Area C [sotto completo controllo israeliano, ndtr.] (e il 4,7% nell’Area B) [sotto parziale controllo israeliano, ndtr.], in cui Israele proibisce ai palestinesi quasi sempre di costruire anche su propria terra privata. “Vivo vicino all’insediamento di Halamish e tutto il giorno un drone aleggia sopra le nostre teste, scattando foto per assicurarsi che non abbiamo costruito nulla sulla nostra terra. Se qualcosa viene costruito, l’esercito viene a distruggerlo”, dice Fatima.

Halamish, noto anche come Neve Tzuf, è un insediamento israeliano di circa 1.500 residenti. È stato fondato nel novembre 1977 su un sito che fungeva da base militare giordana prima della guerra dei Sei Giorni e un ordine militare israeliano ha reso possibile l’espropriazione di circa 600 dunam di terra di proprietà privata dei residenti di Dir Nizam e Nabi Saleh. “Splendide viste panoramiche, a 25 minuti da Modi’in”, si legge sul sito web dell’insediamento in espansione che pubblicizza nuovi appartamenti.

I residenti palestinesi affermano che di recente i militari hanno impedito loro di coltivare la propria terra con mezzi pesanti quali i trattori nelle aree vicine all’insediamento. Jaber Musab, un contadino la cui casa si affaccia su Halamish, dice di aver lavorato tutta la vita per gli ebrei israeliani nella vicina Herzliya e anche ad Halamish. A differenza dei suoi vicini israeliani, non può lasciare la Cisgiordania senza un permesso dell’esercito. Gli ho chiesto perché i bambini del villaggio lancino pietre e lui ha risposto in ebraico: “Perché controllate l’aria che respiriamo”. Poi è rimasto in silenzio.

A dicembre Nasser Mazhar, un anziano contadino molto amico di Musab, è stato eletto capo del consiglio del villaggio di Dir Nizam, l’unica elezione che si è tenuta come previsto dopo che lo scorso maggio il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni presidenziali e parlamentari. Il precedente capo del consiglio, Bilal Tamimi, ha lasciato il villaggio: “Non potevo più viverci, a causa dei problemi con l’esercito”, mi ha spiegato al telefono da Ramallah. Musab ha precisato che anche suo fratello ha di recente lasciato il villaggio, una tendenza che secondo lui è aumentata a causa della punizione collettiva.

“Esci dal villaggio per un quarto d’ora e sei perquisito due volte, uscendo e rientrando”, mi ha detto Mazhar nel suo soggiorno, e il suo timido nipote di 12 anni ascoltava sul divano di fronte. “Ogni volta che passo mi dicono: ‘Dacci i nomi dei bambini che lanciano pietre’, anche se hanno comunque le macchine fotografiche. I soldati ci controllano perché siamo nelle Aree B e C. Loro sono responsabili della nostra sicurezza, non siamo noi responsabili della loro sicurezza”.

Fermati medici e infermieri

Da quando è iniziata la punizione collettiva, i soldati israeliani hanno chiuso completamente il villaggio quattro volte per periodi che vanno da una a sette ore. Tre settimane fa, durante una di queste chiusure, i soldati hanno negato l’ingresso a un gruppo di medici e infermieri di Ramallah che si stavano recando alla clinica locale per visitare i residenti.

Nel mese scorso agli insegnanti delle scuole superiori che provengono da altre città palestinesi è stato impedito per due volte di uscire o entrare nel villaggio, annullando così la giornata scolastica. “Tutti i bambini erano contenti di essere a casa”, ha riso Shadi, il nipote timido. Mi ha mostrato al cellulare un video del 7 dicembre, che mostrava la lunga fila degli insegnanti fermati al posto di blocco. «Quella è la macchina del signor Jumah, l’insegnante», dice. I soldati hanno lasciato entrare gli insegnanti dopo circa tre ore.

Shadi e il suo amico, entrambi in prima media, mi hanno portato a fare un giro nel villaggio mentre il sole cominciava a tramontare. Ho chiesto loro se passano del tempo a Ramallah. “A Tel Aviv!” disse Shadi, forse scherzando. “È vicina, guarda”, indica oltre l’orizzonte, dove si possono vedere le case della città e il mare.

Tel Aviv dista 30 chilometri in linea d’aria dal villaggio assediato. Nel cielo, grandi aerei si librano bassi. L’aeroporto Ben Gurion è a soli 20 chilometri da qui; a Shadi, come agli altri palestinesi residenti in Cisgiordania, non è permesso volare. Sono controllati da noi e lavorano per noi, ma non hanno un aeroporto.

All’uscita, vicino al posto di blocco, ho incontrato un palestinese della mia età che tornava dal lavoro a Herzliya. Ci va tutti i giorni per ristrutturare case, previo permesso di ingresso dell’esercito. “Parto alle 3 del mattino”, dice. “I soldati sono al posto di blocco anche allora.” Abbiamo parlato a lungo e mi ha chiesto di non pubblicare il suo nome, per paura che gli venisse negato il permesso di ingresso.

“Per tutto il viaggio di ritorno dal lavoro sono preoccupato di cosa accadrà al posto di blocco”, mi dice. “Proprio ora passavo con mia madre. Era andata a fare la spesa. I soldati mi hanno chiesto di scendere dall’auto e di deporre davanti a loro il contenuto delle borse. Ho detto loro che la carne si sarebbe sporcata e alla fine mi hanno permesso di sollevarla invece di metterla giù. Uno di loro mi ha chiesto: ‘Perché i ragazzi tirano pietre?’ Gli ho detto: ‘Sono bambini’. E lui ha detto: ‘Finché continueranno, continueremo a punirvi”.

Da un’analisi e da un incrocio di dati tra il gruppo Telegram di Hashomer Judea e Samaria – un’organizzazione di coloni che documenta esaurientemente i lanci di pietre palestinesi in Cisgiordania – e la pagina Facebook di Dir Nizam, che riporta le azioni dell’esercito nel villaggio, sembra che i soldati di solito impongano una chiusura totale dopo che il gruppo dei coloni riferisce di sassi lanciati sulla statale 465.

All’inizio dello scorso anno Rivka Teitel, un’israeliana di 30 anni, è stata gravemente ferita da un sasso lanciato contro la sua auto vicino a Dir Nizam, che l’ha colpita alla testa. Circa due settimane fa, anche un cittadino palestinese di Israele è stato leggermente ferito da un sasso lanciato in zona. Questi sono stati gli unici incidenti da lancio di pietre che hanno causato feriti nell’ultimo anno a Dir Nizam.

Da quando il 1° dicembre l’esercito ha imposto la chiusura, c’è stato un forte aumento nella zona degli incidenti causati da lanci di pietre. In media, sono stati documentati 10 volte più episodi di lanci di pietre rispetto al periodo precedente l’introduzione delle punizioni collettive e ci sono stati sei volte più ingressi militari nel villaggio per effettuare arresti, indagini o attività di deterrenza.

Abbiamo chiesto al portavoce dell’esercito israeliano se ai soldati fosse stato ordinato di punire i residenti del villaggio e se la punizione collettiva fosse una politica dichiarata dell’esercito nei territori occupati. La risposta affermava: “Recentemente, c’è stato un aumento significativo degli incidenti terroristici locali, inclusi il lancio di pietre e bombe molotov contro i veicoli che viaggiano sulla statale 465. Tra le azioni per affrontare questo fenomeno le forze dell’esercito israeliano stanno operando nell’area in conformità con le valutazioni operative, attraverso attività sia palesi che segrete”.

Yuval Abraham è un giornalista freelance israeliano che lavora in strutture educative bilingue israelo-palestinesi. Ha studiato l’arabo e insegna la lingua ad altre persone di lingua ebraica che credono nella lotta comune per la giustizia e in una società condivisa tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)