‘Eravamo come fratelli’: il campo profughi inorridito dopo che l’esercito spara ad un palestinese che stava passeggiando

Yuval Abraham

10 marzo 2022 – +972 Magazine

Amar Shafiq Abu Afifa stava facendo una passeggiata quando i soldati israeliani lo hanno inseguito e gli hanno sparato alla testa, aggiungendolo al triste bilancio di vittime subìto dal campo profughi di al-Arroub.

Una settimana dopo che i soldati israeliani hanno colpito a morte il diciottenne Amar Shafiq Abu Afifa, il suo amico d’infanzia Mohammed, di 17 anni, è ritornato nel luogo dove è stato ucciso. Mentre saliva sulla collina verso la boscaglia dove è morto Abu Afifa, Mohammed cercava qualcosa tra l’erba alta. Erano stati esattamente in quella zona il giorno prima della sparatoria, dice, ed avevano scritto i loro nomi sull’erba con delle pietre. “Io ho scritto la lettera inglese M per Mohammed e Amar ha scritto il suo nome in arabo.”

Poi siamo saliti sulle rocce, sdraiandoci lì come lapide per un’amicizia spezzata. Hanno fatto un selfie durante quella passeggiata, che adesso è lo sfondo dello schermo del cellulare di Mohammed. I due ragazzi si abbracciano sorridendo alla telecamera. “Eravamo come fratelli”, dice a +972 Mohammed, che era insieme al suo amico quando gli hanno sparato in testa. “Sono ancora sotto shock.”

Le truppe israeliane hanno sparato a Abu Afifa il primo marzo, mentre camminava in cima ad una collina isolata fuori dal campo profughi di al-Arroub nella Cisgiordania occupata, dove sono cresciuti sia lui che Mohammed. Abu Afifa è stato ucciso mentre scappava, come lo stesso esercito ha ammesso in una dichiarazione. Il certificato di morte di Abu Afifa, emesso dal Ministero dell’Interno israeliano, registra una ferita da proiettile alla testa ed un’altra ad una gamba.

La dichiarazione del portavoce dell’esercito israeliano sosteneva che Abu Afifa e Mohammed si erano avvicinati ad un posto di avvistamento vicino alla colonia israeliana di Migdal Oz e che i soldati “li hanno inseguiti…e hanno avviato una procedura di fermo che include sparare al sospettato”.

Ma quando gli inviati di +972 hanno visitato la zona è stato chiaro che la sparatoria è avvenuta a circa 100 metri dal posto di avvistamento – che è semplicemente un gazebo costruito illegalmente a circa 400 metri dalla colonia. Sulla collina c’è anche una piccola torre di comunicazione che sembra essere il posto in cui i soldati hanno teso l’imboscata.

Un soldato è sbucato dagli alberi”, dice Mohammed. “Pensavamo che là non ci fosse nessuno, per cui ci siamo spaventati. Ci ha urlato di fermarci e ha immediatamente sparato in aria. Eravamo così spaventati che ci siamo messi a correre. Allora lui ha aperto il fuoco pesantemente. Non c’era alcun senso. Ho sentito colpi di mitraglia. Tutto è accaduto in pochi secondi. A quel punto non sapevo ancora che Amar fosse morto.”

L’esercito ha detto a +972 che la polizia militare ha avviato un’inchiesta, ma non ha fornito ulteriori dettagli. Secondo l’Ong (israeliana) per i diritti umani Yesh Din, le probabilità che un’inchiesta della polizia militare porti ad un’incriminazione sono inferiori al 4%. Dei 785 casi indagati dalla polizia militare tra il 2013 e il 2018 solo 31 hanno portato ad incriminazioni.

Non riuscivo a smettere di piangere’

Abu Afifa era uno di 7 fratelli. I suoi genitori, Shafiq e Samiha, nel loro salotto hanno una fotografia del figlio morto, che hanno posto su un drappo al suo funerale. Shafiq dice che l’esercito israeliano ha trattenuto il corpo di suo figlio per 10 ore, prima di telefonargli alle 3 del mattino per andare a prendere il corpo di Amar al cancello di una colonia. “Non riuscivo a smettere di piangere”, dice. Quando gli altri hanno incominciato a ricordare Abu Afifa, sua madre Samiha si è scusata ed è uscita dalla stanza.

Il campo profughi di al-Arroub, dove vive la famiglia di Abu Afifa, si trova tra Betlemme e Hebron nel sud della Cisgiordania. Ospita circa 11.000 palestinesi le cui famiglie furono espulse nel 1948 da villaggi come al Faluja e Iraq al-Manshieh, in quella che ora è la parte meridionale di Israele vicino a Kiryat Gat.

Il campo è come una gabbia”, dice Mohammed. “Non c’è dove andare, dove fuggire.” Durante la loro passeggiata il giorno prima della sparatoria, ricorda, avevano discusso del futuro. “Amar frequentava già l’università con molto successo ed io stavo pensando di abbandonare la scuola. Lui mi esortava a rimanere per ottenere il diploma di scuola superiore. Ecco di che cosa parlavamo. Lui veniva a casa mia tutte le settimane per aiutarmi con i compiti.”

Abu Afifa si è diplomato alla scuola superiore l’anno scorso e si è immediatamente iscritto all’università a Ramallah per studiare medicina. “Il suo sogno era diventare medico o infermiere”, dice suo padre. Abu Afifa qualche mese fa ha lasciato gli studi, ritenendo che l’impegno economico fosse troppo pesante per i suoi genitori. Si è iscritto ad un college più piccolo e più economico molto vicino al campo.

Come ragazzo di un campo non hai opportunità di un futuro diverso”, dice il fratello maggiore di Abu Afifa, Issa. “Anche se studi, comunque finisci a fare un lavoro manuale”.

Shafiq, che lavora presso l’UNRWA come operatore ecologico, aggiunge: “Per questo volevo costruire qualcosa di diverso per i miei figli. Ho faticato ogni giorno nel mio disgustoso lavoro per mandare Amar all’università. Dicevo, almeno lui potrebbe avere qualcosa…adesso non so che fare.” Aggiunge: “Mi ammazzo di lavoro. Non ho mai smesso di raccogliere immondizia. Neanche dopo che Amar è morto. Non ho scelta. Devo procurarmi da vivere.”

Una minaccia durante il funerale

Durante il funerale di Abu Afifa un funzionario dello Shin Bet (servizi interni israeliani di intelligence, ndtr.), che si faceva chiamare “Capitano Nidal”, ha telefonato a Shafiq. “Ha detto di essere un investigatore in servizio nell’area di Hebron”, ricorda Shafiq. “Gli ho detto che ero al funerale e gli ho chiesto: ‘Che cosa volete?’. Lui ha risposto: ‘Ora state molto attenti ai vostri figli’. Suonava come una minaccia. Gli ho detto: ‘Viviamo in gabbia, voi avete sparato a mio figlio e adesso mi minacciate?’ Ho avuto l’impressione di non essere niente per lui. Ed ho riattaccato. Da allora non ho più sentito lo Shin Bet.”

Mohammed afferma che non c’è alcun giovane la cui vita non sia stata toccata dallo Shin Bet in un modo o nell’altro. “Ogni villaggio in Cisgiordania ha un capitano che tiene sotto controllo i giovani, soprattutto quelli coinvolti in disordini”, spiega. “Al mio villaggio è in servizio il Capitano Kerem. Telefona ai ragazzi della mia classe. Segue i nostri gruppi di chat su Telegram.”

Il timore di Mohammed riguardo allo Shin Bet è il motivo per cui ha chiesto di usare solo il suo nome di battesimo in questa intervista. “Può farti quel che vuole”, dice a proposito del Capitano Kerem. Lo Shin Bet non ha risposto alla nostra richiesta di un commento.

Oltre alla sorveglianza dello Shin Bet, nel campo profughi di al-Arroub ogni settimana ci sono scontri con l’esercito israeliano. La Route 60, una strada costruita a fianco del campo, è uno dei luoghi preferiti dai ragazzi per tirare pietre alle auto israeliane di passaggio.

Negli ultimi due anni è in costruzione una nuova strada che oltrepasserà il campo più lontano. Nel frattempo i soldati hanno creato dei posti di blocco “mobili” all’entrata del campo ed anche molto all’interno. Chi scrive guida attraverso il campo almeno una volta a settimana e l’anno scorso c’era sempre un posto di blocco con auto palestinesi in coda per passarlo. Lungo la strada proveniente dal campo è stata messa una postazione militare. Le incursioni notturne sono la routine e spesso scoppiano anche scontri.

Normalmente gli scontri vedono lanci di pietre e a volte di bottiglie molotov da parte dei giovani e spari con proiettili veri da parte dei soldati. Mentre io e Issa camminavamo per le tortuose strade del campo, lui indicava una casa dopo l’altra. “Qui non c’è una singola famiglia che non abbia perso un figlio”, dice. Da parte sua Abu Afifa aveva cominciato ad evitare le proteste per concentrarsi sui suoi studi.

Un lungo e triste elenco

Negli ultimi nove anni ad al-Arroub sono stati colpiti undici palestinesi, di cui tre minorenni. Lubna al-Hanash, di 21 anni, è stata colpita nel 2013 mentre camminava nel terreno del college di al-Arroub; l’esercito ha aperto il fuoco dopo che qualcuno ha lanciato una bottiglia molotov contro un’auto israeliana di passaggio, e invece ha ucciso lei.

Iyad Fadailat, di 28 anni, è stato ucciso nel 2014. Si è imbattuto in un posto di blocco mobile appena fuori da casa sua e ha avuto una rissa con i soldati. Gli hanno sparato mentre scappava; l’esercito ha sostenuto che aveva tentato di sottrarre un fucile. Mohammed Jawabra, di 19 anni, è stato colpito nella sua casa nel 2014; i soldati stavano facendo un’imboscata su un tetto lì accanto ed hanno aperto il fuoco quando avrebbero visto una figura sospetta che puntava un’arma improvvisata, ma una successiva indagine di B’Tselem ha smentito l’accusa.

Omar Madi, di 15 anni, è stato colpito nel febbraio 2016 da un soldato di guardia alla torre di controllo lungo la strada; l’esercito ha affermato che stava tirando pietre contro la torre. Omar al-Badawi, di 22 anni, è stato colpito nel 2019 mentre cercava di spegnere un fuoco innescato da una bottiglia molotov che qualche ragazzino aveva lanciato contro dei soldati lì accanto; in seguito l’esercito ha ammesso che non vi era motivo di sparare.

Risibili, sproporzionate, o altro, l’esercito ha fornito giustificazioni per ognuna delle ultime 10 uccisioni di abitanti di al-Arroub – tutte ovviamente eseguite nel contesto di un’occupazione militare lunga 50 anni. Non in questo caso. Il lungo e triste elenco del campo registra ora un’altra voce: Amar Shafiq Abu Afifa, di 18 anni. Causa della morte: colpito alla testa mentre passeggiava nel bosco con il suo migliore amico.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele mi ha arrestata per aver protestato contro l’assedio di Gaza. Ecco perché rifiuto di essere processata

Neta Golan 

8 marzo 2022 – +972 magazine

Essendo israeliana ci ho messo anni a disimparare il sionismo. Ora la mia solidarietà con i prigionieri palestinesi mi impone di respingere un ordine di comparizione davanti al tribunale

Il 21 febbraio sono andata a piedi da casa mia, nella Città Vecchia di Nablus nella Cisgiordania occupata, in un negozio in centro per faxare una lettera alla pretura di Ashdod [una città del sud di Israele, ndtr.]. Sono stata convocata là dopo il mio arresto nel gennaio 2020 durante una manifestazione contro l’assedio di Gaza. Nella mia lettera comunico di non aver intenzione di comparire all’udienza in solidarietà con i prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa che sono in sciopero dal primo gennaio e stanno boicottando il sistema dei tribunali militari in protesta contro questa ingiusta pratica.

Il proprietario del negozio che non aveva idea del contenuto della lettera si è rifiutato di farsi pagare. Essendo vissuta nelle comunità palestinesi per 22 anni mi sono praticamente abituata a questi gesti quotidiani di cortesia e generosità. Sono solo una delle manifestazioni di una invisibile rete di protezione che ho imparato a conoscere e da cui dipendo. Ogni società ha i suoi problemi, ma io mi sento incredibilmente fortunata ad avere l’onore di vivere con i palestinesi.

Ma non è sempre stato così. Crescendo a Tel Aviv in una famiglia di ebrei ashkenaziti [cioè di origine europea, ndtr.] sentivo storie su come noi israeliani fossimo moralmente superiori agli “arabi.” Ogni volta che entravamo in un’area palestinese mio padre ci diceva di stare attenti a borse e tasche. Mia nonna ci metteva in guardia perché “un arabo con una mano ti abbraccia e con l’altra ti pugnala alla schiena,” e mentre eravamo tutti a tavola per cena ci diceva che “l’unico arabo buono è l’arabo morto.”

Quando è scoppiata la Prima Intifada avevo 16 anni. Sapevo molto poco dell’occupazione e nulla della Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case ad opera delle milizie sioniste e dell’esercito israeliano nella guerra del 1947-49, ndtr.], ma capivo che i palestinesi stavano lottando per la loro libertà e che noi, per tutta risposta, li stavamo uccidendo. Quando sono stati firmati gli accordi di Oslo speravo che le cose sarebbero cambiate in meglio e volevo far parte di quel cambiamento. Non potevo immaginare che li avrebbero trasformati in un altro meccanismo per la spoliazione dei palestinesi.

Ho cominciato ad andare in Cisgiordania negli anni ‘90. Il primo anno e mezzo ero terrorizzata ogni volta che salivo su un pulmino palestinese in partenza dalla Gerusalemme Est occupata: ero sicura che tutti quelli intorno a me volessero uccidermi. Ma ogni volta, passata l’ansia, vedevo che non era così. Anzi, non erano per niente interessati a me, avevano altre cose per la testa relative alle loro vite. Ero scioccata nello scoprire che “loro” erano persone come tutti gli altri.

Dopo un lungo processo di analisi della mia paura, mi sono resa conto che, nonostante il fatto che nessuno avesse menzionato la Nakba durante la mia infanzia, alla gente le cui case, tombe e alberi erano tutt’intorno a me era impedito di ritornarci, mentre a me era permesso di stare là al loro posto. Non sorprende che li temessi: è la stessa paura che tutti i colonialisti o beneficiari di sistemi razzisti sviluppano verso le persone che loro hanno cacciato od oppresso.

Da israeliani siamo nati dentro il progetto sionista, che è basato sulla continua espropriazione degli indigeni palestinesi. Ma esistono alternative a questo progetto di sottomissione: noi possiamo vivere accanto ai palestinesi invece che a loro spese. E da cittadini israeliani noi possiamo usare i privilegi a noi concessi dal regime di apartheid per smantellare il sistema di discriminazione e oppressione. Per il bene di tutti quelli che vivono qui, indipendentemente da nazionalità o religione, noi possiamo unirci alla lotta per la liberazione palestinese.

Le politiche di apartheid prosperano nell’oscurità, ma quando noi vi prestiamo la dovuta attenzione cominciano ad afflosciarsi. Ecco perché in tribunale ho parlato del caso di Amal Nakhleh, un diciottenne palestinese affetto da una grave malattia, che da oltre un anno è in detenzione amministrativa. I detenuti amministrativi sono imprigionati per un periodo di tempo indefinito sulla base di “prove segrete” secondo le quali in futuro potrebbero commette un reato. I prigionieri non sono mai processati e né loro né i loro avvocati hanno accesso alle prove.

A gennaio Amal, che partecipa allo sciopero dei detenuti amministrativi palestinesi, ha boicottato la sua convocazione da parte di un tribunale militare israeliano. In sua assenza il giudice ha approvato la richiesta dello Shin Bet [servizio di sicurezza interna di Israele, ndtr.] di rinnovare la sua custodia cautelare fino al 17 maggio, quando potrà essere di nuovo estesa. E così di seguito.

Io ho detto al tribunale che, a differenza di Amal, a me è stata data l’opportunità di andare ad Ashdod per difendermi dalle loro accuse. Ma i diritti che mi sono concessi perché i miei nonni sono immigrati in Palestina dall’Europa sono negati ai palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 e ai palestinesi espulsi con la forza dalla loro patria nel 1948, come ai loro discendenti a cui Israele impedisce ancora di ritornare.

Data la mia cittadinanza israeliana se venissi incarcerata avrei il privilegio di essere rilasciata dopo aver scontato la mia pena. Non è così per i due milioni di persone imprigionate negli ultimi 15 anni nella Striscia di Gaza assediata, inclusi circa un milione di minori che sono nati e hanno vissuto tutta la loro vita con la costante minaccia di violenza mortale, il cui solo crimine è quello di non essere nati da madri ebree.

Oppressione e apartheid sono disumanizzanti per le vittime e i carnefici. Godere di privilegi a danno di altri non può essere disgiunto dalla paura, dal razzismo e dall’incessante violenza che li supporta. La giustizia, sotto forma di ritorno e risarcimenti per i rifugiati palestinesi, non libererà solo i palestinesi. Libererà anche noi.

Neta Golan è un’attivista israeliana anti-apartheid e una partecipante attiva di Israelis Against Apartheid (Israeliani contro l’Apartheid), Return Solidarity (Ritorno Solidarietà) e Boycott From Within (Boicottaggio dall’interno). Vive a Nablus con il compagno, le loro figlie e il gatto, il che, per le leggi israeliane di apartheid, è considerato un atto illegale.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele sta lasciando fare all’estrema destra l’escalation a cui mira?

Oren Ziv

20 febbraio 2022 – +972 Magazine

La scorsa settimana +972 Magazine si è unito a The Intercept [sito di inchieste giornalistiche in inglese e portoghese, ndtr.] e Local Call [sito di informazione in ebraico di cui +972 Magazine è la versione in inglese, ndtr.] per pubblicare una storia molto approfondita su come l’8 febbraio a Nablus le forze israeliane hanno ucciso in pieno giorno tre giovani palestinesi membri delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa. [Vedi articolo di Zeitun ]Mentre le autorità hanno sostenuto che gli agenti della polizia di frontiera responsabile delle morti avevano solo risposto al fuoco quando stavano cercando di arrestare i tre, testimoni oculari e video resi pubblici giorni dopo le uccisioni non lasciano dubbi: gli agenti avevano l’incarico di ammazzarli.

Il giorno dopo l’aggressione l’atmosfera a Nablus è rimasta tesa, molti abitanti erano troppo scioccati e spaventati per parlare. Dalla Seconda Intifada Israele ha smesso quasi del tutto di procedere ad assassinii mirati in Cisgiordania, e tra i palestinesi c’è un crescente timore che l’esercito possa riprendere quella prassi. I membri della famiglia di due delle vittime palestinesi hanno persino detto che nei mesi che hanno preceduto l’uccisione avevano ricevuto ripetute telefonate minatorie dallo Shin Bet [agenzia di intelligence interna israeliana, ndtr.] che chiedeva di consegnare i loro figli o fratelli, “altrimenti…”.

Mentre stavamo facendo la nostra inchiesta l’esercito ha ucciso altri due palestinesi. Domenica nel nord della Cisgiordania i soldati hanno sparato e ucciso Muhammad Akram Ali Taher durante la demolizione di una casa per ritorsione: lo stabile era di proprietà di un palestinese sospettato di essere stato coinvolto nell’uccisione di un colono nell’avamposto estremista di Homesh. Il mercoledì seguente i soldati hanno colpito a morte Nihad Amin al-Barghouti nel villaggio di Nabi Saleh.

L’assassinio di Nablus segnala davvero un tentativo da parte di Israele di dar fuoco alle polveri in Cisgiordania? Hanan Ashrawi, esponente del Consiglio Legislativo Palestinese, crede di sì. “Si è trattato di un atto di provocazione inteso a trasmettere ai dirigenti palestinesi il messaggio che ‘qui comandiamo noi’,” afferma. “Parlano di ridurre il conflitto, ma lo stanno estendendo.”

Nel contempo il parlamentare di estrema destra della Knesset Itamar Ben-Gvir era impegnato, per la seconda volta, a piazzare a Sheikh Jarrah un “ufficio parlamentare” improvvisato, che di fatto ha funzionato come avamposto dei coloni, questa volta davanti alla casa della famiglia Salem. I Salem, che lo scorso mese hanno affrontato ripetute violenze da parte dei coloni, sono minacciati da un’imminente espulsione dal quartiere.

Al suo arrivo Ben-Gvir era accompagnato da decine di poliziotti che hanno preso di mira gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah invece che Ben-Gvir e i coloni.

Sia lui che i palestinesi ricordano che l’ultima volta che era andato nel quartiere [si riferisce al maggio 2021, ndtr.] per provocare disordini è finita con una guerra e violenze in tutta la Palestina: a Gerusalemme, a Gaza, a Ramle, a Lydda e altrove.

Gli assassinii a Nablus sono stati autorizzati dal governo israeliano. A Sheikh Jarrah la violenza è messa in atto da un “estremista” kahanista [seguace del defunto rabbino Kahane, razzista e suprematista ebraico, ndtr.]. Nessuno dei due ha ancora provocato una ripetizione degli avvenimenti del maggio 2021 [la guerra contro Gaza e gli scontri nei territori occupati e in Israele, ndtr.]. Ma se c’è qualcosa che possiamo imparare dal maggio scorso è che persino incidenti sporadici possono portare a un incremento della violenza. Ed è molto probabile che in Israele ci sia chi – il primo ministro Naftali Bennett come il deputato Itamar Ben-Gvir, – è interessato proprio a questo.

La scorsa settimana la violenza si è diffusa da Nablus a Sheikh Jarrah alla Città Vecchia di Gerusalemme, dove estremisti di estrema destra hanno tenuto un piccolo corteo ed hanno aggredito gli astanti palestinesi. Poiché le provocazioni dei coloni avanzano lentamente più vicino alla Città Vecchia e alla Moschea di Al-Aqsa, ci sono molte probabilità che l’opinione pubblica palestinese, a Gerusalemme, in Cisgiordania, a Gaza o all’interno di Israele, scenda in strada come ha fatto lo scorso anno.

Oren Ziv è un fotogiornalista e socio fondatore del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa c’è dietro la rinnovata guerra della destra israeliana contro i cittadini palestinesi?

Meron Rapoport

10 febbraio 2022 – +972 magazine

Articolo pubblicato in collaborazione con Local Call.

Fallito il tentativo di annettere formalmente la Cisgiordania, la destra israeliana prende nuovamente di mira un suo vecchio bersaglio.

Ascoltando la retorica della destra israeliana dello scorso anno sembra di avere fatto un passo indietro nel tempo e di essere tornati ai giorni precedenti la fondazione di Israele. I fatti violenti del maggio 2021 sono etichettati come “tumulti” e “pogrom,” mentre il commentatore Amit Segal considera piantare alberi nel Negev/Naqab: “un’attività naturale e sionista”, un’attività il cui obiettivo, secondo Avraham Duvdevani, presidente del Jewish National Fund, (JNF) [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] è di “appropriarsi tramite il rimboschimento degli spazi aperti vicino agli insediamenti beduini per bloccare l’occupazione delle terre.” A sentire il giornalista Kalman Liebskind ciò che al momento sta succedendo in tutto il Paese è una “guerra contro il sionismo, la sovranità e la madrepatria.”

Questi tre uomini appartengono tutti all’ala militante del sionismo religioso che, anche se raccoglie al massimo i voti del 10% degli ebrei israeliani, occupa alcune delle cariche più ambite nel cuore dei media e dell’establishment politico israeliano. Segal è il principale commentatore politico di Channel 12 e del quotidianoYedioth Ahronoth [giornale di centro fra i più letti in Israele, ndtr.], Liebskind ha il suo show sull’Israeli Public Broadcasting Corporation (KAN) [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e Duvdevani è il capo di un’organizzazione che controlla più del 10% della terra del Paese.

Non meno interessante della sproporzionata rappresentanza di quest’ala radicale nella struttura di potere statale è il linguaggio che ideologi e politici di destra hanno cominciato a usare l’anno scorso, in particolare in seguito alle violenze di maggio e dalla formazione del governo Bennett-Lapid: un linguaggio che dà l’impressione che la comunità ebraica in Israele debba ancora conquistarsi il proprio Stato. Fanno sembrare il sionismo come se fosse ancora nella sua fase prestatale, pre-sovrana. Come se nel 1948 Israele non si fosse costituito sulle rovine del popolo palestinese né avesse continuato a stabilirsi in oltre 700 colonie, paesi e città solo per cittadini ebrei. Come se non avesse imposto l’occupazione militare su 4,5 milioni di palestinesi per oltre 50 anni.

Ci sono varie ragioni che hanno fatto emergere questa azione retorica concentrata e deliberata che – pur provenendo dalla destra, è fermamente integrata nel mainstream israeliano – per un ritorno alle “radici del sionismo”, collocate a prima della fondazione di Israele. Esse si possono così riassumere: l’estrema destra teme che il sionismo e lo Stato di Israele abbiano deviato, o stiano per deviare, dalla loro strada e che invece di stabilire uno “ Stato ebraico” il cui unico scopo sia servire la collettività ebraica, il sionismo possa inavvertitamente portare alla creazione di una vera democrazia in cui tutti, inclusi i cittadini palestinesi, abbiano la loro parte di potere.

L’idea stessa di democrazia, uno Stato che sia in ugual misura al servizio dei propri cittadini, è vista come una minaccia imminente. Questo è il messaggio centrale proveniente da quasi tutti gli oratori a una sequela di recenti manifestazioni di destra e pro-Netanyahu a Tel Aviv: lo Stato ebraico deve essere salvato e va evitata ad ogni costo l’istituzione di uno “Stato per tutti i suoi cittadini”. È come se avessero letto il rapporto di Amnesty prima che fosse pubblicato e concordato con la sua diagnosi, ma respinto le conclusioni: Israele è uno Stato di apartheid e deve rimanere tale.

Alla ricerca di una nuova frontiera

La guerra della destra contro uno Stato di tutti i suoi cittadini che si sta rivelando una guerra contro i cittadini palestinesi di Israele è il risultato del fallimento del suo progetto di annessione. Il fallimento dell’annessione formale dei territori occupati, un progetto che la destra ha cullato per oltre un decennio, è un segnale diretto alla base che, almeno per l’immediato futuro, non è possibile espandere i confini della sovranità israeliana in modo sistematico e concordato senza ricorrere alla guerra. Di fatto i coloni hanno visto l’ultima frontiera, il confine definitivo, scomparire davanti ai loro occhi.

Per la destra il sionismo è un movimento in preda a una costante lotta espansionista e perciò sempre bisognoso di trovare “nuove frontiere.” Questo fa da sfondo alla nascita dei Garinim Toranim, i gruppi del movimento dei coloni che in anni recenti hanno cercato di ebraicizzare ulteriormente le “città miste” in Israele.

È anche lo sfondo su cui prospera un’organizzazione come HaShomer HaChadash che afferma di “proteggere la terra, assistere contadini e allevatori e rafforzare il legame del popolo ebraico con la terra, i valori ebraici e l’identità sionista.” Tutto ciò fa parte della “Guerra per il Negev,” oggi lo slogan centrale della battaglia della destra che ha di nuovo conquistato i titoli questa settimana, quando attivisti della destra hanno tentato di fondare una “nuova colonia” per ebrei vicino alla città beduina di Rahat, più o meno con le stesse modalità con cui i coloni stabiliscono avamposti non autorizzati in Cisgiordania.

Ma appena la destra ha distolto lo sguardo dalla Cisgiordania per rivolgerlo su Israele ha scoperto una nuova realtà che non conosceva. Nell’ultimo decennio, e soprattutto durante le ultime quattro tornate elettorali, i cittadini palestinesi in Israele hanno ottenuto un potere su istruzione, economia e specialmente in politica, molto maggiore a quello che aveva nel passato.

Che Mansour Abbas e il suo partito Ra’am [islamista israelo-palestinese, ndtr.] facciano parte del governo israeliano è un diretto risultato del crescente potere dei palestinesi nell’arena politica israeliana. È vero che questa non è la prima volta che un partito arabo fa parte di una coalizione israeliana, ma è difficile negare che il riconoscimento del potere politico dei cittadini palestinesi, e in particolare la legittimità che ha di reggere il timone, è diventato molto ampio.

Questo crescente potere palestinese minaccia di indebolire la storica “divisione del lavoro” fra un “Israele ufficiale,” che afferma di essere democratico e basato sull’uguaglianza fra tutti i suoi cittadini, e un “Israele non ufficiale,” che opera sistematicamente per il beneficio della collettività ebraica in quasi tutti i campi immaginabili. Il JNF che è responsabile della confisca di terre di proprietà araba per piantare alberi nel Negev/Naqab, è uno dei principali agenti di questo Israele non ufficiale.

Per vedere quanto sfacciatamente razzista sia l’Israele non ufficiale basti considerare alcune citazioni del presidente del JNF. A una conferenza agli inizi di dicembre Duvdevani ricorda che quando era alla Jewish Agency [Agenzia Ebraica, ente parastatale israeliano, ndtr.] aveva spinto affinché lo Stato limitasse gli assegni familiari alle famiglie con due o tre figli mentre l’Agency si sarebbe impegnata ad aiutare famiglie più numerose, ma solo se erano ebree. “Siccome l’Agency si concentra solo sugli ebrei,” aveva spiegato che avrebbe potuto funzionare. Oggi comunque non si potrebbe. “Lo Stato è cambiato,” si lamenta, e “oggi si parla di più di uguaglianza e contro il razzismo e uno non può più far niente.” In breve la democrazia danneggia i “veri” sionisti come Duvdevani.

La legge dello Stato-Nazione ebraico è un tentativo di istituzionalizzare questa discriminazione razzista e renderla parte dell’Israele ufficiale, ma sembra che non abbia raggiunto i suoi scopi, almeno secondo la destra: la sua approvazione ha solo propiziato la crescita dell’influenza politica dell’elettorato palestinese, portando alcuni dei suoi rappresentanti al governo.

Qui il rischio per la destra è non solo che la collettività ebraica stia perdendo il suo monopolio assoluto sul potere in Israele o persino che il Movimento Islamico conquisti parte di questo potere per sé e sia in grado di prendere decisioni su politiche riguardanti sia arabi che ebrei. Il vero pericolo è che quelle parti dell’opinione pubblica ebraica, al di là della sinistra radicale, siano ora disponibili a questo partenariato. In altre parole, quello che temono è che troppi ebrei e troppi cittadini palestinesi in Israele possano cominciare a concretizzare la pretesa che Israele sia uno Stato democratico, e farlo veramente diventare “uno Stato per tutti i suoi cittadini.”

Bezalel Smotrich, forse il politico più acuto della destra, ha identificato questo rischio fin da subito e perciò si è rifiutato di entrare in coalizione con Abbas, anche se ciò avrebbe permesso a Netanyahu di restare al potere. Per Smotrich Israele può essere o ebraico o democratico. Non c’è spazio per compromessi. Ha fatto la sua scelta e il resto dell’estrema destra lo ha seguito.

L’obiettivo finale è il conflitto violento

A maggio la violenza fra comunità ha gettato benzina sul fuoco. Non è qui il luogo per un resoconto dettagliato di cosa è successo, ma a destra, anzi non solo a destra, questi eventi sono la prova che il vero nemico è dentro i confini sovrani di Israele, compreso il territorio annesso di Gerusalemme Est. Ci sono pochi dubbi che la destra abbia usato la violenza di rivoltosi arabi ed ebrei nelle cosiddette città miste, Lydda, Ramle, San Giovanni d’Acri e Giaffa, per presentare tutti i cittadini palestinesi di Israele come “il nemico interno.”

Coniare in ebraico l’espressione ‘disordini del 5781’ (alludendo alla rivolta in Palestina del 1929 o del 5689, secondo il calendario ebraico, durante il mandato britannico) ha lo stesso scopo. A chiunque sia cresciuto nel sistema scolastico israeliano-ebraico la parola “Meoraot” (ebraico per “disordini”) immediatamente richiama alla memoria il vero caposaldo del conflitto ebraico-palestinese: gli arabi non ci volevano qui e non ci hanno lasciato altra scelta che combatterli e in ultimo scacciarli, questa è la storia. “Meoraot” catapulta il conflitto a livello della comunità, svincolandolo dall’elemento civile: noi non siamo cittadini dello stesso Stato democratico, noi siamo ebrei e arabi, due comunità eternamente in guerra.

In questo senso lo scopo dei fondamentalisti sionisti è tanto sfacciato quanto semplice: istigare la violenza fra arabi ed ebrei entro i confini di Israele o, più precisamente, istigare un conflitto fra lo Stato e i suoi meccanismi di oppressione (specialmente esercito e polizia) da un lato e i suoi cittadini arabi dall’altro, e neanche lontanamente in senso metaforico, ma in senso molto diretto, fisico.

Il fatto che i rivoltosi della Lod araba questa mattina non contino i propri morti non è perché ci si sia contenuti e moderati. È codardia e volontaria cecità,” ha twittato il giornalista Amit Segal il 12 maggio 2021, due giorni dopo l’inizio degli scontri. “Il fatto che l’ebreo che ha sparato a un manifestante per proteggere la propria famiglia sia ancora in carcere dovrebbe far tremare tutto lo Stato,” aggiunge. Inutile dire che a Lydda l’ebreo che ha sparato e ucciso Musa Hassuna è invece stato subito rilasciato senza accuse: invece gli abitanti arabi di Lydda accusati di aver ucciso l’abitante ebreo Yigal Yehoshua sono stati condannati.

L’ultima settimana di gennaio a una conferenza che aveva organizzato con l’organizzazione di estrema destra Im Tirzu, il parlamentare del Likud Yoav Galant ha chiesto di ampliare la polizia di frontiera paramilitare con “tre battaglioni regolari e una forza di riservisti di alta qualità” per combattere contro la “scatenata criminalità nazionalista.” Galant continua mettendo in guardia che “se noi perdiamo il Negev e la Galilea perderemo anche Tel Aviv e Gerusalemme.” Altri oratori hanno fatto eco a questo sentimento.

I pericoli di questa narrazione, che invoca la soppressione violenta dei cittadini palestinesi in Israele con il debole pretesto di un ritorno alle radici sioniste, non può essere sottostimato, precisamente perché questo discorso, dal piantare boschi a lottare contro i “rivoltosi,” è così profondamente radicato nella coscienza israeliana che è quasi impossibile non prevedere che culminerà nella violenza che cerca di fomentare.

Apartheid formalizzato o una seconda Nakba

Noi dovremmo anche ricordare che a capo dello stesso governo che include il Movimento Islamico siede un uomo della destra con cui la retorica sui pericoli dei “disordini” di maggio e la necessità di difendere la terra della Nazione risuona tanto quanto quello di tutti gli altri. “L’idea è di radunare [i beduini] e concentrarli in una manciata di comunità riconosciute,” ha detto il primo ministro Bennett a Maariv durante il weekend.

Sarebbe una situazione vantaggiosa per tutti, per il sionismo, per lo Stato, per conservare la terra statale,’ continua Bennett. “Noi erigeremo un muro di ferro contro l’ingovernabilità. È una minaccia reale. Lo scoppio di violenza durante Guardian of the Walls (I guardiani delle mura, nome israeliano per l’operazione militare a Gaza del maggio 2021) ci ha scossi tutti. È stato un campanello d’allarme.” Ayelet Shaked, da lungo tempo compagna ideologica di Bennett e attuale ministra degli interni ha aggiunto più tardi nella settimana, parlando della Legge sulla Cittadinanza [che intende impedire ai palestinesi immigrati per ricongiungimento familiare di acquisire la cittadinanza israeliana, ndtr.] che sta cercando di far passare alla Knesset, che “i dati parlano da sé, senza la Legge sulla Cittadinanza noi perderemo il Negev a favore del nazionalismo palestinese.”

Ma c’è il rovescio della medaglia della minaccia. La realtà israeliana del 2022 non è quella delle comunità ebraiche del 1929, 1936, o persino del 1948. Negli anni ’30 l’acquisto di terre condotto da Yosef Weitz per conto dello JNF portò alla cacciata di contadini palestinesi affittuari e alla loro sostituzione con coloni ebrei. Oggi persino se il JNF trasformasse il Negev in una lussureggiante e vasta giungla la possibilità che chiunque a Sawe al-Atrash [villaggio beduino al centro del conflitto sulla riforestazione, ndtr.] lasci le proprie terre è virtualmente nulla. Anche gli abitanti palestinesi-arabi delle “città miste,” sopravvissuti a molti decenni di sfratti, repressione e discriminazioni, non andranno da nessun’altra parte.

Com’è noto Karl Marx disse che la storia si ripete: “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” Ci si potrebbe chiedere se il ritorno della destra alla storia del primo sionismo sia poco più di una farsa e, al di là della spacconata, un’ammissione di fallimento. “Noi abbiamo deciso di non raccontare quella battaglia” contro i beduini del Negev, scrive Liebksind nell’articolo che ho citato sopra. E con “noi” egli non vuole dire sé stesso e i suoi camerati della destra. Egli intende l’intera comunità ebraica. La vera chiamata all’azione è ricolma dell’ammissione della sconfitta.

Il motivo per cui Liebskind, Smotrich e compagnia temono che la battaglia sia persa è proprio perché vedono il crescente potere dei palestinesi nella politica israeliana, proprio perché ritengono che parti sempre più vaste della società ebraica come mai prima d’ora stiano mettendosi l’anima in pace in merito alla legittimità della presenza palestinese nel governo israeliano, proprio perché capiscono le implicazioni di lungo termine di questa presenza, sia per la democrazia israeliana che per il futuro dell’occupazione.

Le sole due opzioni rimaste alla destra sono l’apartheid formalizzato o una seconda Nakba [Catastrofe in arabo, l’espulsione dei palestinesi dal territorio in cui nacque lo Stato di Israele, ndtr.], nessuna delle quali appare particolarmente probabile in un prossimo futuro. Smotrich, fra l’altro, sembra spingere per entrambe: da un lato cercando di privare del potere i cittadini palestinesi di Israele e dall’altro ribattendo ai parlamentari arabi con la battuta: “Tu sei qui solo perché nel ’48 (il primo ministro David) Ben-Gurion non finì il lavoro di cacciarvi.”

È importante capire cosa ci troviamo davanti con l’improvviso revival degli slogan vintage, antecedenti lo Stato sionista, e quello che ci sta dietro. Farlo ci permetterà di comprendere i rischi radicati in questa narrazione, ma anche a essere consapevoli dei suoi limiti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“Siamo qui per mettere sotto pressione il villaggio”: le truppe israeliane ammettono la politica delle punizioni collettive

Yuval Abraham 

 24 gennaio 2022,  +972 Magazine

Da dicembre l’esercito israeliano ha imposto al villaggio di Dir Nizam una chiusura quasi totale e violente incursioni. E i soldati sono sinceri sul perché lo stanno facendo.

Per quasi due mesi i soldati israeliani hanno sottoposto i 1.000 residenti del villaggio palestinese di Dir Nizam a punizioni collettive, sostenendo che si trattava di una reazione ai bambini che lanciano pietre contro i veicoli di passaggio. Il 1° dicembre 2021 l’esercito ha chiuso tutti e tre gli ingressi al villaggio, che si trova a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, e ha allestito un posto di blocco con bande chiodate all’unico ingresso lasciato aperto al traffico.

Da allora, i soldati israeliani hanno piantonato l’ingresso 24 ore su 24, controllando a lungo ogni macchina al passaggio, interrogando i passeggeri, aprendo i bagagli e fotografando le carte d’identità. A volte bloccando completamente tutti i movimenti dentro e fuori il villaggio per ore.

I soldati non si limitano a restare fuori dal villaggio; sono entrati a Dir Nizam in almeno 14 occasioni dall’inizio della chiusura per effettuare arresti, condurre indagini o compiere “azioni di deterrenza” contro gli abitanti del villaggio. In tre diverse occasioni sono persino entrati nella scuola del villaggio.

La punizione collettiva è stata imposta a Dir Nizam apparentemente per impedire ai bambini di lanciare pietre, ma gli episodi di lanci di pietre sono in realtà aumentati da quando l’esercito ha chiuso il villaggio e non sembra esserci in progetto che se ne vadano presto. Ho visitato l’area la scorsa settimana e ho chiesto ai soldati cosa stessero facendo esattamente lì:

Posso chiederti qual è lo scopo di questo posto di blocco?

“Certo. Siamo qui perché sulla statale 465, vicino al villaggio di Dir Nizam, gruppi di bambini dagli 8 ai 16 anni circa lanciano mattoni e piccoli sassi ai veicoli di passaggio… [Il posto di blocco] che abbiamo allestito qui è per fare pressione sul villaggio stesso. Stiamo facendo arrivare gli adulti in ritardo al lavoro al mattino, stiamo davvero rendendo difficile la loro vita quotidiana. Gli adulti sono consapevoli di ciò che stanno facendo i bambini e sono contrari. Non vogliono che lancino pietre”.

Quindi questa è in realtà una forma di punizione collettiva imposta al villaggio?

“Esatto. È una punizione collettiva per l’intero villaggio. La pressione sugli adulti, gli ‘anziani della tribù’, come qui vengono chiamati, farà pressione sui bambini che quindi smetteranno di lanciare pietre”.

Ok. E che senso ha questo per te? Punire mille persone, a causa di pochi bambini?

“O è così, o altre soluzioni che non sono sempre piacevoli. Per non dire altro.”

Cosa intendi per altre soluzioni?

“Oggi disponiamo di mezzi molto avanzati per identificare i bambini, i volti dei lanciatori di pietre. Se attiviamo questi mezzi, possiamo arrestarli. E questi bambini saranno messi dove devono essere messi”.

La nuova “normalità”

A duecento metri dal posto di blocco, accanto alla scuola, si sono radunati intorno a me otto bambini: il più grande è all’undicesima, il più giovane alla seconda, la maggior parte alle elementari [il sistema scolastico palestinese prevede sei anni di elementari, tre di medie e decimo e undicesimo anno di istruzione superiore ed è obbligatorio sino alla decima classe, ndtr.]. Quando ho chiesto in che modo la presenza militare li avesse colpiti, hanno iniziato a ridere. Ogni volta che uno parlava, gli altri lo interrompevano.

“Mi hanno arrestato”, ha detto un bambino di quinta elementare con uno zaino strappato. “Mi hanno picchiato”, ha gridato un altro ragazzo. «Sto lanciando sassi», urla un altro di quarta elementare, che poi corre goffamente lungo la strada.

L’atmosfera è cambiata grazie a Ahmad Nimer, un ragazzo che non rideva. Lo sguardo dei suoi occhi marroni appariva più vecchio dei suoi 13 anni e, vedendo i miei tentativi di avere una conversazione seria, ha detto: “Posso dirti io come mi colpisce l’esercito “. Tutti tacquero.

“E’ sempre mio padre che guida l’auto, mia madre siede accanto a lui e io mi siedo dietro”, dice mentre il gruppo gli si raduna intorno. “Da quando hanno allestito il posto di blocco, i soldati li fermano di continuo. Dicono ai miei genitori, in ebraico, ‘Dove state andando?’ e fotografano i loro documenti. A volte ci fanno scendere dall’auto, a volte dicono a loro o a me: ‘Perché i bambini lanciano sassi?’”

E tu cosa dici?

“Niente. Sono sul sedile posteriore e guardo mio padre”.

E cosa pensi?

“Niente. Non penso niente. Per me è normale”.

Il resto dei bambini annuisce. “È normale”, dice Tamer, un dodicenne con i capelli corti. “Il giorno in cui sono entrati nella nostra scuola sono svenuto per i gas lacrimogeni e mi sono svegliato pochi minuti dopo a casa”.

Tamer fa riferimento a quanto accaduto il 9 dicembre: secondo testimonianze e video, quel giorno i soldati israeliani sono entrati nella scuola del villaggio nelle ore pomeridiane, dopo che le lezioni erano finite, hanno interrogato gli studenti in cortile e cercato i bambini che tiravano pietre. “Hanno esaminato le aule, dicendo che stavano cercando quelli che tirano le pietre”, dice Adham, che ha 16 anni. “Hanno lanciato molti gas lacrimogeni e granate stordenti in cortile”.

Da quando sono iniziate le punizioni collettive al villaggio, i soldati sono entrati a scuola tre volte; l’incursione più recente è stata la scorsa settimana, il 18 gennaio, alle 8:45 mentre iniziavano le lezioni.

Il brutale ingresso dei soldati è stato ben documentato nei video ripresi da studenti e insegnanti che hanno assistito in prima persona alle aggressioni. In uno di essi si vedono soldati picchiare e tirare fuori dalla classe uno studente dell’undicesima classe mentre la sua insegnante cerca di proteggerlo con il suo corpo e grida: “Questa è una scuola, andate via!”

In un altro video, i soldati bendano lo stesso ragazzo vicino al cortile, mentre sullo sfondo si vedono bambini delle elementari che entrano dai cancelli e corrono verso le aule. Un altro video mostra un gruppo di soldati che attraversa il campo da basket della scuola, spintonando due membri dello staff. Due studenti sono stati arrestati: il primo, Ahmad al-Ghani, è stato rilasciato il giorno successivo; il secondo, Ramez Muhammad, è tuttora in custodia.

“Di solito prendono i bambini per qualche ora, li portano in giro in jeep, danno loro qualche schiaffo in faccia, chiedono loro perché hanno lanciato pietre e poi li riportano al villaggio”, ha detto Adham. La mattina del 5 gennaio, ad esempio, l’esercito è entrato a Dir Nizam e ha arrestato nove bambini, ma poche ore dopo li ha riportati tutti al villaggio. Non sono stati portati alla stazione di polizia per essere interrogati e non sono stati processati.

Si stanno facendo odiare ancora di più dai bambini”

Arin, una 43enne residente a Dir Nizam, ha affermato che tra tutte le conseguenze della politica delle punizioni collettive, ciò che colpisce di più i suoi figli sono le incursioni notturne dell’esercito. “I soldati vengono proprio a casa a interrogare i ragazzi e più volte hanno lanciato granate stordenti e gas lacrimogeni per le strade, per svegliare tutti”, ci ha detto.

Ad esempio, il 2 dicembre alle 22:30, una telecamera di sicurezza su una delle case del villaggio ha documentato i soldati che lanciavano nove granate stordenti sulla strada principale della zona residenziale. Dall’angolazione della telecamera è impossibile comprendere completamente il contesto, ma il linguaggio del corpo dei soldati è rilassato e non si vedono lanci di pietre prima del lancio delle granate stordenti.

Tutti a casa si sono immediatamente svegliati”, ricorda una donna anziana di nome Fatima, la cui casa si trova su quella strada. “Recentemente non ho più potuto dormire la notte, né io né i bambini”, dice un’altra donna di 30 anni, che ha chiesto di non essere nominata.

“Ogni notte, da un mese ormai, mio nipote mi chiede: ‘Nonna, hai chiuso a chiave la porta?’ Tre volte a notte lo chiede”, dice Arin. “Chi non ha mai lanciato pietre si dice: ‘Ora comincerò a tirare pietre, che importa? A prescindere dal fatto che io lanci o no pietre, tutti vengono puniti.’ Stanno facendo in modo che i bambini li odino ancora di più”.

Il nuovo posto di blocco si trova vicino al paese su una strada interna che si collega con la statale 465; vi sono stati recentemente posati anche blocchi di cemento. “L’unico giorno in cui possiamo rilassarci senza punizioni collettive è la loro vacanza, Shabbat. Il sabato non c’è posto di blocco al mattino, ma torna la sera”, ha detto Fatima.

Elham, 32enne che culla il figlio piccolo tra le braccia, mi ha raccontato una discussione avvenuta entrando in macchina nel villaggio. “Mio figlio era con me sul sedile posteriore. Il soldato gli ha detto: ‘Perché lanci sassi?’ e mio figlio ha risposto ‘Io non lancio sassi’ e il soldato: ‘Bugiardo, ti ho visto’. Mio figlio oggi era con me al lavoro, dalle sette del mattino”, ha continuato Elham. “Così ho cercato di dire al soldato che non ha lanciato pietre perché l’ho avuto sott’occhio tutto il giorno, dalla mattina. Ma il soldato mi ha semplicemente detto: ‘Parla ebraico, non capisco l’arabo.'”

“Controllate l’aria che respiriamo”

Come in moltissimi villaggi della Cisgiordania, la maggior parte delle terre di Dir Nizam si trova nell’Area C [sotto completo controllo israeliano, ndtr.] (e il 4,7% nell’Area B) [sotto parziale controllo israeliano, ndtr.], in cui Israele proibisce ai palestinesi quasi sempre di costruire anche su propria terra privata. “Vivo vicino all’insediamento di Halamish e tutto il giorno un drone aleggia sopra le nostre teste, scattando foto per assicurarsi che non abbiamo costruito nulla sulla nostra terra. Se qualcosa viene costruito, l’esercito viene a distruggerlo”, dice Fatima.

Halamish, noto anche come Neve Tzuf, è un insediamento israeliano di circa 1.500 residenti. È stato fondato nel novembre 1977 su un sito che fungeva da base militare giordana prima della guerra dei Sei Giorni e un ordine militare israeliano ha reso possibile l’espropriazione di circa 600 dunam di terra di proprietà privata dei residenti di Dir Nizam e Nabi Saleh. “Splendide viste panoramiche, a 25 minuti da Modi’in”, si legge sul sito web dell’insediamento in espansione che pubblicizza nuovi appartamenti.

I residenti palestinesi affermano che di recente i militari hanno impedito loro di coltivare la propria terra con mezzi pesanti quali i trattori nelle aree vicine all’insediamento. Jaber Musab, un contadino la cui casa si affaccia su Halamish, dice di aver lavorato tutta la vita per gli ebrei israeliani nella vicina Herzliya e anche ad Halamish. A differenza dei suoi vicini israeliani, non può lasciare la Cisgiordania senza un permesso dell’esercito. Gli ho chiesto perché i bambini del villaggio lancino pietre e lui ha risposto in ebraico: “Perché controllate l’aria che respiriamo”. Poi è rimasto in silenzio.

A dicembre Nasser Mazhar, un anziano contadino molto amico di Musab, è stato eletto capo del consiglio del villaggio di Dir Nizam, l’unica elezione che si è tenuta come previsto dopo che lo scorso maggio il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni presidenziali e parlamentari. Il precedente capo del consiglio, Bilal Tamimi, ha lasciato il villaggio: “Non potevo più viverci, a causa dei problemi con l’esercito”, mi ha spiegato al telefono da Ramallah. Musab ha precisato che anche suo fratello ha di recente lasciato il villaggio, una tendenza che secondo lui è aumentata a causa della punizione collettiva.

“Esci dal villaggio per un quarto d’ora e sei perquisito due volte, uscendo e rientrando”, mi ha detto Mazhar nel suo soggiorno, e il suo timido nipote di 12 anni ascoltava sul divano di fronte. “Ogni volta che passo mi dicono: ‘Dacci i nomi dei bambini che lanciano pietre’, anche se hanno comunque le macchine fotografiche. I soldati ci controllano perché siamo nelle Aree B e C. Loro sono responsabili della nostra sicurezza, non siamo noi responsabili della loro sicurezza”.

Fermati medici e infermieri

Da quando è iniziata la punizione collettiva, i soldati israeliani hanno chiuso completamente il villaggio quattro volte per periodi che vanno da una a sette ore. Tre settimane fa, durante una di queste chiusure, i soldati hanno negato l’ingresso a un gruppo di medici e infermieri di Ramallah che si stavano recando alla clinica locale per visitare i residenti.

Nel mese scorso agli insegnanti delle scuole superiori che provengono da altre città palestinesi è stato impedito per due volte di uscire o entrare nel villaggio, annullando così la giornata scolastica. “Tutti i bambini erano contenti di essere a casa”, ha riso Shadi, il nipote timido. Mi ha mostrato al cellulare un video del 7 dicembre, che mostrava la lunga fila degli insegnanti fermati al posto di blocco. «Quella è la macchina del signor Jumah, l’insegnante», dice. I soldati hanno lasciato entrare gli insegnanti dopo circa tre ore.

Shadi e il suo amico, entrambi in prima media, mi hanno portato a fare un giro nel villaggio mentre il sole cominciava a tramontare. Ho chiesto loro se passano del tempo a Ramallah. “A Tel Aviv!” disse Shadi, forse scherzando. “È vicina, guarda”, indica oltre l’orizzonte, dove si possono vedere le case della città e il mare.

Tel Aviv dista 30 chilometri in linea d’aria dal villaggio assediato. Nel cielo, grandi aerei si librano bassi. L’aeroporto Ben Gurion è a soli 20 chilometri da qui; a Shadi, come agli altri palestinesi residenti in Cisgiordania, non è permesso volare. Sono controllati da noi e lavorano per noi, ma non hanno un aeroporto.

All’uscita, vicino al posto di blocco, ho incontrato un palestinese della mia età che tornava dal lavoro a Herzliya. Ci va tutti i giorni per ristrutturare case, previo permesso di ingresso dell’esercito. “Parto alle 3 del mattino”, dice. “I soldati sono al posto di blocco anche allora.” Abbiamo parlato a lungo e mi ha chiesto di non pubblicare il suo nome, per paura che gli venisse negato il permesso di ingresso.

“Per tutto il viaggio di ritorno dal lavoro sono preoccupato di cosa accadrà al posto di blocco”, mi dice. “Proprio ora passavo con mia madre. Era andata a fare la spesa. I soldati mi hanno chiesto di scendere dall’auto e di deporre davanti a loro il contenuto delle borse. Ho detto loro che la carne si sarebbe sporcata e alla fine mi hanno permesso di sollevarla invece di metterla giù. Uno di loro mi ha chiesto: ‘Perché i ragazzi tirano pietre?’ Gli ho detto: ‘Sono bambini’. E lui ha detto: ‘Finché continueranno, continueremo a punirvi”.

Da un’analisi e da un incrocio di dati tra il gruppo Telegram di Hashomer Judea e Samaria – un’organizzazione di coloni che documenta esaurientemente i lanci di pietre palestinesi in Cisgiordania – e la pagina Facebook di Dir Nizam, che riporta le azioni dell’esercito nel villaggio, sembra che i soldati di solito impongano una chiusura totale dopo che il gruppo dei coloni riferisce di sassi lanciati sulla statale 465.

All’inizio dello scorso anno Rivka Teitel, un’israeliana di 30 anni, è stata gravemente ferita da un sasso lanciato contro la sua auto vicino a Dir Nizam, che l’ha colpita alla testa. Circa due settimane fa, anche un cittadino palestinese di Israele è stato leggermente ferito da un sasso lanciato in zona. Questi sono stati gli unici incidenti da lancio di pietre che hanno causato feriti nell’ultimo anno a Dir Nizam.

Da quando il 1° dicembre l’esercito ha imposto la chiusura, c’è stato un forte aumento nella zona degli incidenti causati da lanci di pietre. In media, sono stati documentati 10 volte più episodi di lanci di pietre rispetto al periodo precedente l’introduzione delle punizioni collettive e ci sono stati sei volte più ingressi militari nel villaggio per effettuare arresti, indagini o attività di deterrenza.

Abbiamo chiesto al portavoce dell’esercito israeliano se ai soldati fosse stato ordinato di punire i residenti del villaggio e se la punizione collettiva fosse una politica dichiarata dell’esercito nei territori occupati. La risposta affermava: “Recentemente, c’è stato un aumento significativo degli incidenti terroristici locali, inclusi il lancio di pietre e bombe molotov contro i veicoli che viaggiano sulla statale 465. Tra le azioni per affrontare questo fenomeno le forze dell’esercito israeliano stanno operando nell’area in conformità con le valutazioni operative, attraverso attività sia palesi che segrete”.

Yuval Abraham è un giornalista freelance israeliano che lavora in strutture educative bilingue israelo-palestinesi. Ha studiato l’arabo e insegna la lingua ad altre persone di lingua ebraica che credono nella lotta comune per la giustizia e in una società condivisa tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il movimento del Monte del Tempio in rapida crescita sotto il nuovo governo israeliano

Baker Zoubi 

6 dicembre 2021 – +972 magazine

Sfidando un accordo politico pluridecennale le autorità israeliane stanno favorendo un incremento senza precedenti degli ebrei che pregano sul sacro sito a Gerusalemme.

Per gran parte del decennio scorso gli ebrei religiosi che si recano al Monte del Tempio/Haram al-Sharif [Spianata delle Moschee] nella Città Vecchia di Gerusalemme, considerato il luogo più sacro per l’ebraismo e uno dei più sacri per l’Islam, sono lentamente aumentati di numero violando un pluridecennale e fragile “status quo” riguardo al complesso. Però negli ultimi mesi, e in particolare dall’insediamento del governo Bennett-Lapid, il numero di ebrei che vi sono entrati sembra sia cresciuto enormemente.

Stando alle statistiche pubblicate da Yaraeh, un’organizzazione israeliana che promuove l’ingresso e la preghiera agli ebrei sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif, negli ultimi tre mesi circa10.000 ebrei sono entrati nel complesso, un aumento del 35% rispetto agli anni precedenti.

Le cifre di Yaraeh mostrano anche che la percentuale di ebrei entrati nel complesso ad agosto era più alta dell’85% rispetto allo stesso mese del 2020 e del 137% maggiore che nell’agosto 2019. A luglio di quest’anno il numero di ebrei entrati nel complesso era maggiore del 76% rispetto allo stesso mese del 2020. Le statistiche di Yaraeh tengono conto sia delle visite al complesso che delle preghiere e delle lezioni di Torah sul luogo dove non erano mai state tenute prima e in violazione del cosiddetto status quo.

Il Monte del Tempio/Haram al-Sharif, dove sono situate la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della roccia (Al-Sakhra), è uno dei posti più contesi in Israele-Palestina. Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est nel 1967 c’è un accordo fra Israele e la fondazione islamica Waqf, il custode religioso giordano del complesso, secondo cui solo ai musulmani è permesso di pregare sul complesso mentre gli ebrei possono pregare al Muro Occidentale (Muro del Pianto). 

Ciononostante negli ultimi mesi la polizia israeliana avrebbe allentato le restrizioni alla devozione ebraica presso il complesso, sono anche stati filmati dei fedeli ebrei mentre, sotto gli occhi della polizia, era loro permesso di pregare liberamente sul monte. La frequenza di tali episodi è cresciuta lentamente in anni recenti sotto il precedente governo Netanyahu, ma negli ultimi mesi è stato rilevato un marcato aumento.

Non sembra una coincidenza che esso si stia verificando sotto il nuovo governo Bennett-Lapid. Il primo ministro Naftali Bennett ha pubblicato a metà luglio una dichiarazione che sembrava affermasse il diritto degli ebrei alla “libertà di culto” sul monte, suscitando la severa condanna di leader musulmani e arabi.

A ottobre il giudice di pace di Gerusalemme ha ribaltato il divieto di avvicinarsi per 15 giorni al sito emesso dalla polizia nei confronti di Aryeh Lipo, un attivista di spicco del Movimento del Tempio dopo che era stato visto pregare lì. Lipo appartiene a un più vasto movimento religioso fondamentalista che cerca di incoraggiare e normalizzare la preghiera ebraica sul sito con la speranza che un giorno si ricostruisca un tempio ebraico.

Il giudice aveva deciso che, visto che la preghiera di Lipo si era svolta silenziosamente, essa non costituiva un rischio per la sicurezza, la tesi che la polizia cita per giustificare l’applicazione del divieto. In seguito, apparentemente su pressione diplomatica degli USA, in appello un altro giudice ha annullato la decisione del tribunale.

Dieci anni fa, persino cinque anni fa, cose simili non sarebbero successe,” dice Hagit Ofran, il direttore del gruppo di controllo sulle colonie di Peace Now [associazione israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], a proposito del recente aumento dei visitatori ebrei. “Gli ebrei non potevano pregare (sul complesso). La polizia israeliana lo impediva, intervenendo e impedendo agli ebrei di pregare o svolgere cerimonie religiose durante la visita dei cortili della moschea di Al-Aqsa.”

Secondo Ofran è stato durante il mandato di Gilad Erdan [politico del partito di destra Likud, ndtr.], ministro della Pubblica Sicurezza fra il 2015 e il 2020 (ora Erdan è ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite), che la polizia israeliana ha cominciato a cooperare con gli ebrei che volevano salire sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif. Ciò è continuato con Amir Ohana [anch’egli del Likud, ndtr.] che ha occupato la carica fra il 2020 e il 2021.

Il governo di Netanyahu ha contributo significativamente alla tensione e a tutti questi ingressi (nel complesso), a tal punto che per questa ragione Netanyahu non era più in contatto con il re di Giordania Abdullah II,” dice Ofran. “Tutto ciò sta continuando e le presenze sono in crescita, sebbene Omer Barlev [del partito Laburista, di centro, ndtr.], il ministro della Pubblica Sicurezza, abbia intenzioni diverse.” Barlev, che ha assunto la carica quest’estate, si è impegnato a continuare a cooperare con il Waqf giordano e a impedire agli ebrei di pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Abbiamo visto molte volte negli ultimi 10 anni che a Gerusalemme le tensioni cominciano dopo queste visite,” continua Ofran. Lo scoppio della “Intifada dei coltelli” nel 2015, le gravi tensioni dopo l’installazione israeliana dei metal detector sul complesso nel 2017 e le violenze scoppiate in Israele-Palestina nel maggio scorso, tutto ciò è stato preceduto da un aumento delle visite degli ebrei al Monte del Tempio/Haram al-Sharif.

Io concordo con l’opinione che il Likud e il partito sionista religioso, in quanto parte dell’opposizione, stiano appoggiando (le preghiere degli ebrei sul monte) per mettere in imbarazzo il governo,” conclude Ofran. “Quando il Likud era al potere, sul posto c’erano dei controlli per prevenire tensioni durante certi periodi. Ora non hanno alcun problema riguardo all’escalation, al contrario.”

Il deputato Ahmad Tibi che guida la commissione interna su Al-Quds (Gerusalemme) della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani di sinistra, ndtr.] conviene che l’attuale coalizione di governo stia permettendo agli ebrei l’accesso al complesso di Al-Aqsa in numero maggiore. “Ci sono più incursioni e soprattutto si conducono con discrezione le preghiere in presenza della polizia,” dice Tibi, aggiungendo che, mentre i partiti di destra nella coalizione stanno facilitando l’incremento [della presenza religiosa ebraica, ndtr.], “il centro sinistra tace e guarda dall’altra parte per evitare di far tremare la coalizione.”

A luglio Asaf Fried, il portavoce del gruppo di attivisti israeliani dell’amministrazione del Monte del Tempio, ha dichiarato all’emittente israeliana Channel 12 che gli ebrei hanno avuto accesso al monte per anni, ma che sono stati “oggetto di urla e umiliazioni.” Il senso era che “nessuno poteva fare niente là, che quando un ebreo arriva [sul monte] egli rappresenta un problema.” Ma, ha aggiunto Fried, c’è stata una “totale inversione di tendenza, l’ingresso al Monte del Tempio è migliorato, non ci sono barriere all’ingresso… non c’è il Waqf a seguirti, c’è molto più spazio per respirare sul Monte del Tempio.”

Sebbene alcuni gruppi di ebrei entrino nel complesso per la preghiera e il culto, “lo scopo di tutta questa attività è indubbiamente politico,” dice Aviv Tatarsky, un ricercatore presso Ir Amim, [Città di Persone, ndtr.] un gruppo di controllo e difesa con sede a Gerusalemme. “Lo scopo è di aumentare il numero di ebrei che entrano nel complesso di Al-Aqsa che già vede un incremento [di ebrei], per far pressione sul governo affinché cambi l’attuale situazione a loro favore. Lo Stato, come ogni Stato, è sensibile alla pressione sociale e popolare,” continua, e gli attivisti del Monte del Tempio stanno sfruttando questa dinamica.

Eppure per quanto notevole sia l’aumento dei numeri degli ebrei che accedono al complesso, quello che in realtà stanno facendo è altrettanto significativo. “Si sfida lo status quo,” dice Tatarsky. “Anche se Barlev dice che è contrario alla preghiera, la sua polizia non sta facendo nulla per fermarla.”

Tatarsky fa anche notare che, sebbene il Ministero dell’Educazione non sia obbligato a seguire un suggerimento della Commissione per l’Istruzione della Knesset del mese scorso di includere il Monte del Tempio/Haram al-Sharif nei viaggi obbligatori per gli studenti delle scuole israeliane, la proposta è “al vaglio.”

Azzam al-Khatib, il capo di Waqf di Gerusalemme, ha detto che la posizione della fondazione islamica sui recenti sviluppi è “molto chiara.”

Queste incursioni violano le condizioni religiose, legali e politiche esistenti dal 1967,” dice. “È inaccettabile e contrario alle norme internazionali profanare in tal modo le moschee [del complesso].” Al-Khatib concorda che la percentuale degli ingressi degli ebrei è cresciuta sotto il nuovo governo Bennett-Lapid e che le preghiere avvengono apertamente, con scarso o nessun intervento da parte della polizia anche quando il Waqf lo richiede. L’attuale situazione è “senza precedenti,” dice.

Per ora i fedeli ebrei continuano ad accedere al complesso mentre la tensione continua a salire.

Il 21 novembre, Fadi Mahmoud Abu Shkheidem, un abitante del campo profughi di Shu’afat a Gerusalemme e presunto affiliato ad Hamas, il gruppo islamista palestinese, ha aperto il fuoco presso uno degli ingressi della moschea Al-Aqsa nella Città Vecchia uccidendo un israeliano e ferendone gravemente altri tre. Lo sparatore è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane.

L’episodio ha portato a ulteriori inasprimenti e controlli israeliani degli abitanti palestinesi della città, seguiti dalla richiesta di un aumento della sicurezza nella zona, oltre a una richiesta da parte del ministro delle Comunicazioni Yoaz Hendel [del partito di destra “Nuova Speranza”, una scissione del Likud, ndtr.] di riconsiderare l’installazione dei metal detector all’ingresso della moschea di Al-Aqsa. L’ultima volta che Israele ha tentato di farlo i palestinesi hanno condotto una campagna di disobbedienza di massa che ha costretto Israele a rimuoverli.

Baker Zoubi è un giornalista originario di Kufr Misr [cittadina arabo-israeliana, ndtr.] che attualmente vive a Nazareth [città arabo-israeliana, ndtr.]. Baker lavora nel giornalismo dal 2010, inizialmente come reporter per organi di stampa arabi locali e poi come direttore del sito web Bokra. Oggi collabora anche come ricercatore e redattore per programmi televisivi sui canali Makan e Musawa [canali televisivi israeliani in arabo, ndtr.]. Sulla sua pagina Facebook scrive e posta vari editoriali di politica e temi sociali relativi alla società palestinese. Recentemente ha anche cominciato a scrivere per Local Call. [edizione di +972 in ebraico, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una madre sola palestinese fa sorgere una tendopoli in segno di protesta contro la gentrificazione di Giaffa

Oren Ziv

23 novembre 2021 – +972 Magazine

Anni di abbandono da parte dello Stato e l’aumento dei prezzi fanno sì che le famiglie palestinesi non possano più permettersi un affitto nella propria città. I manifestanti hanno allestito tende per chiedere soluzioni.

Farida Najar aspetta da quattro anni di ricevere un alloggio pubblico a Giaffa. Ma questa madre palestinese sola con quattro figli non può più affrontare l’aumento degli affitti nella città in cui è nata e cresciuta. La scorsa settimana ha trasferito la sua famiglia in una tenda in un parco pubblico, per protestare contro la gentrificazione razziale che, secondo lei, sta cacciando via da Giaffa gli abitanti palestinesi.

“Mi sono trasferita in una tenda perché non ho una casa in cui vivere”, dice Najar a +972 Magazine. Tutto quello che voglio è un appartamento. Lo Stato vuole che ce ne andiamo in altre città come Lydda o Ramle [altre città israeliane con una forte presenza di arabo-israeliani, ndtr.]. Questa è una politica razzista e non resteremo in silenzio”.

Giorni dopo che Najar aveva montato la sua tenda, altre madri sole che affrontano sfide simili hanno iniziato ad unirsi a lei. Mercoledì il piccolo parco di Yefet Street era pieno di tende.

In un primo momento, nonostante l’ordine municipale di sgombero emesso contro la tendopoli, le 10 famiglie hanno continuato a rimanere nel parco con i loro bambini. Nemmeno le forti piogge le hanno scoraggiate. Decine di manifestanti palestinesi e israeliani, tra cui i parlamentari Ayman Odeh, Sami Abu Shehadeh e Ofer Cassif [tutti e tre parlamentari arabo-israeliani della Lista Unita, ndtr.] hanno partecipato per tutta la settimana alle veglie per sostenere la lotta delle madri sole.

Ma dopo un incontro domenicale con il Mishlama, settore locale del comune di Tel Aviv che si occupa di questioni riguardanti gli abitanti di Giaffa, alcune famiglie hanno accettato di lasciare immediatamente il parco in cambio di aiuti sociali e finanziari, anche se non è stato offerto loro un alloggio come soluzione definitiva. Fino a lunedì almeno sei delle donne hanno firmato quelli che hanno descritto come ” accordi migliori ” e hanno lasciato l’accampamento di protesta.

Le donne che hanno deciso di restare, tra cui Najar, si sono trasferite a dormire nel rifugio pubblico del parco, dopo che martedì mattina sono arrivati gli agenti comunali per rimuovere il materiale rimasto.

L’accampamento di protesta è stato eretto da famiglie di Giaffa, per lo più madri sole, che stanno vivendo gravi difficoltà a causa di anni di abbandono da parte delle politiche governative riguardanti l’edilizia popolare”, ha detto a +972 Magazine un portavoce di Tel Aviv-Giaffa. “Le tende sono state smantellate volontariamente, dopo un incontro tra le donne, il Comitato di rappresentanza di Giaffa e i rappresentanti del comune, il cui obiettivo era trovare soluzioni per le famiglie e porre fine alla protesta in modo rispettoso e non violento”.

Il portavoce ha aggiunto che i rappresentanti dei servizi sociali del comune e del Comitato di rappresentanza di Giaffa si incontreranno con le donne ogni due settimane per seguire i loro casi.

Ogni protesta è legittima e il comune incoraggia gli abitanti a partecipare attivamente alla dialettica democratica. Detto ciò, l’allestimento di un campo in uno spazio pubblico ha un limite di tempo, indipendentemente dalla legittimità della causa”, aggiunge il portavoce.

Anche se le famiglie hanno diritto all’edilizia pubblica, anni di politiche carenti hanno reso quasi impossibile assicurarsi un appartamento economico in città. Esse dicono che i sussidi che nel frattempo ricevono dallo Stato non bastano a coprire un affitto a Giaffa.

La carenza di appartamenti di edilizia pubblica disponibili a Tel Aviv in generale e a Giaffa in particolare fa sì che le famiglie spesso aspettino anni prima di assicurarsi un alloggio a prezzi accessibili. Secondo un rapporto del 2019 della Corte dei Conti le persone che hanno diritto all’alloggio popolare hanno dovuto aspettare in media 31 mesi per ricevere un appartamento, e nella zona centrale di Israele i tempi di attesa possono essere anche più lunghi.

“I nostri genitori hanno debiti e non possono aiutarci, e ora noi non possiamo aiutare i nostri figli”, lamenta Najar.

Una delle donne che si è unita a Najar è Fatima, madre di quattro figli, che ha preferito non far sapere il suo cognome. “Siamo 8 famiglie con 27 bambini, viviamo come una grande famiglia”, dice. Siamo qui perché non abbiamo un tetto sotto cui vivere con i nostri figli. A Giaffa l’affitto è caro e l’assistenza che riceviamo dallo Stato non ci permette di vivere dignitosamente».

“All’inizio i bambini pensavano che fossimo in campeggio, ma dopo pochi giorni per loro è diventato difficile”, prosegue Fatima. “Con questa pioggia ne hanno abbastanza, ma resteremo qui finché non vedremo soddisfatti i nostri diritti”.

La crisi abitativa che i cittadini palestinesi affrontano a Giaffa ha un contesto storico più ampio. Dopo la Nakba del 1948 [l’esodo della popolazione araba palestinese in seguito alla guerra di occupazione israeliana, ndtr.] gli abitanti palestinesi rimasti a Giaffa vennero concentrati nei quartieri di Ajami e Jabalia, dove molti ricevettero lo status di protezione” come affittuari in case di loro proprietà o appartenenti a famiglie di palestinesi sfollati o profughi. Quelle case vennero registrate come di proprietari “assenti”, per cui alla fine furono trasferite all’Autorità statale per lo sviluppo.

Negli ultimi anni i progetti per la costruzione di immobili di lusso hanno dominato il paesaggio della città costiera e le società di edilizia residenziale pubblica hanno venduto gli edifici a investitori privati. Ciò ha reso ancora più difficile per gli abitanti palestinesi del luogo prendere in affitto o acquistare una casa a Giaffa.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Avrebbero dovuto essere avvocati. Invece lavorano nei cantieri edili israeliani

Avrebbero dovuto essere avvocati. Invece lavorano nei cantieri edili israeliani

Una generazione di laureati palestinesi scopre che, nonostante la laurea, l’unico modo per guadagnarsi da vivere sotto l’occupazione è lavorare nell’edilizia in Israele.

Basil al-Adraa

7 novembre 2021 – +972 Magazine

 

Raggiungo il checkpoint di Meitar nel sud della Cisgiordania alle cinque del mattino di domenica, poco prima dell’alba. Centinaia di lavoratori palestinesi stanno camminando in fretta, comprando falafel o pane da decine di bancarelle di fortuna nel mercato che è sorto intorno al valico. Incontro insegnanti, laureati, avvocati e ingegneri, tutti con un permesso di lavoro e tutti in fila per andare a lavorare nelle fabbriche in Israele.

A cento metri dal checkpoint custodito c’è un passaggio non ufficiale: una breccia nel muro di separazione dove ogni giorno centinaia di palestinesi senza permesso entrano ed escono da Israele. Tra i due valichi ci sono le jeep della polizia di frontiera israeliana e i soldati possono vedere tutto. Da qui è chiaro che la barriera che serpeggia attraverso la Cisgiordania occupata è lì solo per imporre la segregazione razziale, non per la sicurezza, dal momento che chiunque può andare e venire a suo piacimento. L’esercito ne è pienamente consapevole, ma sceglie di chiudere un occhio.

La società palestinese si è aggrappata per generazioni all’istruzione come mezzo per mantenere la propria identità collettiva, nonché per resistere all’occupazione israeliana. Si tratta di una società relativamente molto istruita, con alti tassi di laureati sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza.

Ma tra le decine di giovani istruiti con cui ho parlato a Meitar e altrove c’è la sensazione diffusa che perseguire un’istruzione superiore sia inutile. Dopo aver dedicato anni e denaro per diventare economisti, ingegneri o medici hanno scoperto che l’unico modo per guadagnarsi da vivere è lavorare come operai nei cantieri edili israeliani.

Gli amici con cui parlo si sentono in colpa per il fatto che lavorano in Israele, anche nelle colonie in Cisgiordania dove abitano i vigilanti mascherati che ci attaccano regolarmente. Cercano di gestire questo senso di colpa dandosi varie spiegazioni. “Non abbiamo molte altre opzioni,” mi dice uno di loro. “Mi sentirei in colpa se fossi disoccupato e me ne stessi seduto a casa”, dice un altro. “Viviamo in una terra occupata. Tutto ciò ci è imposto. Persino la mia carta d’identità palestinese ha un timbro ebraico. Perché dovrei sentirmi in colpa?” dice un terzo.

Saleh Abu Jundeya, 22 anni, vive nel villaggio di Tuba tra le colline a sud di Hebron. Fin dalla prima elementare i soldati israeliani lo hanno accompagnato lungo il percorso verso la scuola, un percorso che richiede l’attraversamento dell’avamposto di Havat Ma’on dove i coloni attaccano regolarmente gli scolari. La casa di Abu Jundeya, come il resto del villaggio, è minacciata di demolizione. Tuba è completamente scollegato dalle reti di qualsiasi infrastruttura idriche e elettriche, servizi forniti invece dalle autorità israeliane ai numerosi avamposti sulle colline a sud di Hebron. Ma Abu Jundeya è molto volenteroso e ce l’ha fatta nonostante tutte le difficoltà.

“I miei genitori erano orgogliosi di me,” dice. “Ho fatto bene agli esami per l’iscrizione all’università, quindi hanno organizzato una grande festa per me. A 18 anni sono andato a studiare legge all’università. Sognavo di diventare un avvocato per difendere i diritti dei miei genitori e quelli di tutti i miei vicini di Masafer Yatta che affrontano demolizioni di case, arresti e che sono senza acqua ed elettricità. Questo è particolarmente importante per me, forse perché ero un bambino che doveva aspettare che i soldati lo accompagnassero a scuola ogni giorno fino a 18 anni o altrimenti essere attaccato dai coloni: è stata dura. Ho studiato legge per quattro anni. Andare all’università ogni mattina è stata una sfida perché a Tuba l’esercito ci impedisce di asfaltare le strade e la mia famiglia è povera. Studiare legge in Cisgiordania costa circa 10.000 NIS [circa 2.800 €] all’anno e mia madre e mio padre, entrambi pastori, hanno dovuto vendere le pecore per finanziare i miei studi. E oggi? Lavoro nell’edilizia in Israele, come tutti i miei compagni di classe. Non c’è nessun altro lavoro. Non abbiamo nemmeno un posto dove fare il praticantato”.

La nostra dipendenza dal lavoro in Istraele è politica

Le autorità israeliane hanno proibito per anni la costruzione di scuole a Masafer Yatta con l’intenzione di espellerci dalla zona. A quel tempo  i bambini semplicemente non studiavano. I genitori di mio padre Saleh e il resto della generazione prima di noi non hanno avuto la possibilità di studiare. Pochi hanno fatto il lungo viaggio verso le grandi città dove si trovavano la maggior parte delle scuole e la campagna non offriva luoghi di apprendimento.

Nel 1998, grazie a una lotta guidata da mia madre e mio padre, nel mio villaggio natale di a-Tuwani è stata costruita la prima scuola a Masafer Yatta. Quando è iniziata la costruzione l’esercito israeliano è venuto ad arrestare gli uomini del villaggio mentre stavano lavorando e ha confiscato i materiali da costruzione. Pochi mesi dopo mia madre ebbe un’idea: lasciare che le donne costruissero, dato che l’esercito non le avrebbe arrestate. Ed è proprio quello che è successo: le donne lavoravano di giorno per allestire la scuola e gli uomini continuavano di notte.

Humza Rabi ha frequentato la scuola in a-Tuwani e si è diplomato con lode. “Poi  sono andato all’università per completare un corso di laurea in storia”, ha detto. “Sognavo di essere uno storico o forse una guida turistica. Ho lavorato senza sosta durante le vacanze estive per mantenermi agli studi. Anche mio padre mi ha aiutato. È costato 50.000 NIS  (circa 14.000 €) in quattro anni. Non è stato affatto facile. Ma oggi, dopo la laurea, mi sento come se avessi perso tempo. Mi guardo intorno e, come tutti gli altri laureati, non ho modo di trovare un lavoro. Così sono diventato un  piastrellista in Israele. Le condizioni sono difficili. Non c’è sicurezza: un mese fa sono caduto dalla secondo piano mentre lavoravo, mi sono rotto le costole e ho riportato uno strappo muscolare. Oggi sono  a casa disoccupato”.

Rabi non è solo. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, i palestinesi tra i 20 e i 29 anni con un diploma di laurea registrano tassi di disoccupazione particolarmente alti: il 35% in Cisgiordania e il 78% a Gaza, che subisce il blocco totale da parte di Israele ed Egitto.

La nostra dipendenza dal lavoro in Israele è politica. Mezzo secolo di governo militare israeliano ha devastato l’economia palestinese. Israele controlla tutti i nostri valichi di frontiera e impedisce le importazioni o le esportazioni palestinesi indipendenti. Tutte le nostre risorse naturali,  come i minerali del Mar Morto, le cave, le aree agricole e i bacini idrici  si trovano nell’Area C, sotto il pieno controllo militare israeliano: ci è proibito accedervi, svilupparli o prendercene cura.

Uno studio condotto dalla Banca Mondiale ha rilevato come queste restrizioni siano la principale barriera alla prosperità e alla creazione di posti di lavoro per i giovani palestinesi. Senza sovranità sugli spazi non urbanizzati la contiguità territoriale palestinese è stata spezzettata in 169 enclave, senza lasciare spazio nemmeno alla creazione di zone industriali.

La terra nell’Area C è assegnata esclusivamente ai coloni israeliani che vi mantengono un’economia vivace e redditizia. Con il sostegno degli enti governativi, i coloni continuano a creare zone industriali e complessi agricoli che sono collegati a quelle stesse reti idriche negate ai contadini palestinesi in luoghi come Masafer Yatta. I soldati israeliani sigillano regolarmente le nostre cisterne d’acqua con il cemento. Senza acqua o strade di accesso gli agricoltori non possono più guadagnarsi da vivere sulla loro terra e molti sono invece costretti a lavorare come braccianti in Israele.

A causa delle politiche di occupazione anche i pastori palestinesi si stanno lentamente rivolgendo ai lavori di costruzione in Israele Negli anni ’80 Israele ha espropriato tutti i pascoli dei pastori dichiarandoli “terre demaniali”. Ma negli ultimi cinque anni le autorità israeliane hanno stabilito e autorizzato dozzine di avamposti e fattorie su queste terre, concedendole come pascoli ai coloni che praticano la pastorizia. In questa realtà di apartheid i nuovi signori della terra aiutano ad espellere i palestinesi che sono qui da secoli.

“Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele”

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele, usa i permessi di ingresso come mezzo per fare pressione sui giovani palestinesi affinché tengano la testa bassa. Gli attivisti che come me sono sulla lista nera dello Shin Bet non riceveranno mai un permesso. Temendo per il loro benessere molte persone della mia età scelgono di tacere sulle loro opinioni politiche e costruiscono case nelle colonie israeliane per guadagnarsi da vivere.

Eppure molti, se non la maggior parte, dei giovani laureati non riescono a ottenere il permesso. Secondo le autorità israeliane solo gli uomini palestinesi sposati di età superiore ai 22 anni possono ottenerlo. In pratica i giovani palestinesi entrano continuamente in Israele illegalmente, nel disperato tentativo di racimolare abbastanza soldi per sposarsi e mettere su famiglia.

L’esercito israeliano sa che ci sono dozzine di varchi lungo il muro di separazione. Ma la sua inazione è deliberata: è una politica redditizia che permette ai palestinesi di raggiungere i datori di lavoro israeliani che, per i propri interessi, possono negare ai lavoratori i loro diritti mantenendo bassi i salari.

Salem al-Halis ha studiato legge con me all’Università di Hebron e lo ricordo come uno degli studenti migliori della classe. Ora però sta lavorando nell’edilizia. “È come una prigione,” mi ha detto al telefono. “Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele. Ricordo i nostri studi e rido di me stesso e di quello che pensavo. Mangio e dormo al lavoro, nel cantiere. Lontano dalla vita. Lontano dalla famiglia.”

Come Salem, anch’io non riesco a trovare lavoro in Cisgiordania, mentre la mia laurea in legge è coperta di polvere nell’armadio. Ho paura di diventare, come lui, un altro giovane palestinese che eccelle all’università solo per diventare un operaio edile, soffrendo sotto un datore di lavoro israeliano che non ha mai studiato un giorno in vita sua.

 

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Ciò che Israele non può ammettere del terrorismo ebraico

 

Ciò che Israele non può ammettere sul terrorismo ebraico

Natasha Roth-Rowland

2 novembre 2021 – +972 Magazine

 

Domenica 24 ottobre, ancora nel pieno delle conseguenze della messa fuori legge di sei ONG palestinesi con le accuse pretestuose e non dimostrate di “terrorismo”, la destra israeliana ha commemorato il 31^ anniversario della morte di Meir Kahane, il rabbino estremista alla testa di gruppi fascisti americani e israeliani che da molto tempo sono a loro volta al bando per terrorismo nei rispettivi Paesi.

Può apparire superficiale e financo condiscendente portare esempi di terrorismo ebraico ogniqualvolta nascano accuse di terrorismo palestinese (e di sostegno ad esso). Questo comprensibile riflesso non soltanto rischia di convalidare le definizioni volutamente ampie di terrorismo usate da Israele per criminalizzare ogni forma di resistenza all’occupazione (comprese le attività in difesa dei diritti umani), ma può anche oscurare la differenza di potenziale derivante dal fatto che il terrorismo ebraico ha spesso il sostegno – vuoi implicito vuoi esplicito – di uno Stato pesantemente armato.

Ciononostante, se dovessimo applicare lo schema usato da Israele e dai suoi sostenitori agli estremisti ebraici, questo non farebbe che evidenziare l’arbitrarietà, l’inconsistenza e l’evidente razzismo delle accuse di terrorismo rivolte indiscriminatamente contro persone e movimenti palestinesi.

Che accadrebbe, ad esempio, se organizzazioni ebraiche sospettate di finanziare e fiancheggiare il terrorismo fossero oggetto dei medesimi controlli dei gruppi palestinesi oggetto delle stesse accuse? Un ottimo esempio di questo fenomeno è lo studio israeliano di assistenza legale Honenu, che si dedica quasi esclusivamente alla difesa di inquisiti ebrei – compresi militari dell’esercito – accusati di violenze nazionaliste contro i palestinesi (assistenza alla quale, va ribadito, questi indiziati hanno diritto).

In precedenza il gruppo ha fornito assistenza a Yigal Amir, l’assassino dell’ex primo ministro Yitzhak Rabin, e prima ancora aveva offerto aiuto finanziario alle famiglie di terroristi ebrei in carcere, fra cui Ami Popper, che nel 1990 uccise sette palestinesi (pare che Honenu abbia interrotto questa prassi nel 2016 in seguito a commenti di stampa negativi). Esso continua comunque ad avere i requisiti per ricevere donazioni esentasse sia da Israele sia dagli USA.

E quali entità israeliane o loro sostenitori dovrebbero affrontare conseguenze legali per l’accusa di legami o di identificazione con gruppi definiti terroristi da parte delle autorità di governo? Un semplice studio di caso è il partito politico Otzma Yehudit (“Potere Ebraico”) e il suo parlamentare in carica Itamar Ben-Gvir, che ha ricevuto il sostegno dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu. Ben-Gvir era un attivista del Kach, il partito attualmente fuorilegge fondato da Kahane, e vari candidati del partito Otzma Yehudit avevano militato nel Kach. Con tutto ciò, Ben-Gvir non solo non ha carichi pendenti con la legge, ma addirittura ora ha il potere di contribuire a influenzarla.

All’esterno del governo, c’è la rete ben più oscura della Hilltop Youth israeliana [“Gioventù della Cima della Collina”, giovani estremisti religiosi nazionalisti che stabiliscono avamposti illegali in Cisgiordania, ndtr], coloni estremisti in larga misura responsabili dell’intensificazione delle ondate di violenza contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata.

È vero che alcuni di questi coloni vengono saltuariamente arrestati o anche imprigionati dalle autorità israeliane, ed è vero che lo Shin Bet [servizio di sicurezza interno d’Israele, ndtr.] ha una divisione che si occupa specificamente dell’estremismo ebraico. Tuttavia questi interventi sono l’eccezione che dimostra la regola dell’impunità, della collaborazione con le forze di sicurezza e delle coperture su cui possono contare di norma i coloni violenti. Le istituzioni dei coloni che fomentano tale violenza di quando in quando sono state sottoposte a chiusure o al taglio delle sovvenzioni governative, ma non hanno mai corso il serio rischio di venire messe fuorilegge.

L’incapacità da parte israeliana di affrontare efficacemente il terrorismo ebraico e la criminalizzazione dei difensori palestinesi dei diritti umani non sono che le due facce della stessa medaglia, e se si comprende ciò diventa evidente che la designazione delle sei ONG palestinesi come associazioni terroriste non ha nulla a che fare per Israele con la “giustizia” e neppure con la sicurezza. Piuttosto, come la scorsa settimana notavano in due articoli diversi Anwar Mhajne [docente allo Stonehill College, Boston, ndtr.] e Amjad Iraqi [redattore di +972, ndtr.], ha a che fare con la dominazione e con la campagna pluridecennale di smantellamento dell’identità nazionale palestinese, insieme con “l’eliminazione dell’autoaffermazione dei palestinesi”, come scrive Iraqi.

Tali imperativi non possono che condurre in ultima istanza alla messa fuorilegge di organizzazioni che sostengono i palestinesi incarcerati da Israele, o documentano le violazioni dei diritti umani commesse da Israele nei Territori Occupati, oppure assistono i contadini palestinesi a cui si espropriano le terre. Come ha detto Sahar Francis, responsabile di Addameer [una delle sei organizzazioni dichiarate fuori legge da Israele e che si occupa di prigionieri politici, ndtr.], a Yuval Abraham [giornalista freelance di Middle East Eye, sito di notizie in inglese con sede a Londra, ndtr.] la settimana scorsa: “Ci prendono di mira da anni per la semplice ragione che, parlando di apartheid, stiamo riuscendo a cambiare il paradigma a livello internazionale.”

Natasha Roth-Rowland scrive per la rivista +972 ed è dottoranda in storia all’Università della Virginia. Le sue ricerche e scritti vertono sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli USA. Dopo avere lavorato diversi anni in Israele-Palestina quale redattrice, scrittrice e traduttrice, attualmente si è stabilita a New York. Scrive con il vero cognome in ricordo del nonno Kurt, che dovette cambiare il cognome in ‘Rowland’ quando cercò rifugio in Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 

 

 




Ci prendono di mira per una ragione: siamo riusciti a cambiare il paradigma

Yuval Abraham

25 ottobre 2021 – +972 magazine

Dopo essere state messe all’improvviso fuorilegge in quanto “organizzazioni terroristiche”, le associazioni palestinesi per i diritti umani parlano a +972 del perché le accuse israeliane non solo sono infondate, ma rappresentano un atto di persecuzione politica.

La scorsa settimana, quando il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha firmato un ordine esecutivo che dichiara “organizzazioni terroristiche” sei associazioni palestinesi per i diritti umani, il governo non si è nemmeno preoccupato di fingere che si trattasse di un procedimento corretto. Con un rapido colpo di penna le ong – Al-Haq, Addameer, Bisan Center, Defense for Children International-Palestine, the Union for Agricultural Work Committees e the Union of Palestinian Women’s Committees – sono state istantaneamente messe fuori legge senza neppure un processo né la possibilità di rispondere alle accuse contro di loro.

Eppure la grande maggioranza dei mezzi di informazione israeliani, invece di mettere in discussione la dubbia natura di questa iniziativa, ha semplicemente copiato la dichiarazione ufficiale del ministero della Difesa sull’argomento, che accusa le sei organizzazioni di essere legate al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un partito e un movimento laico e marxista-leninista definito un gruppo terroristico da Israele.

Il governo sostiene che le ong hanno riciclato fondi destinati a interventi umanitari e li hanno trasferiti invece a scopi militari, accusando inoltre i funzionari delle organizzazioni di essere, o essere stati, dell’ FPLP. Per anni anche associazioni israeliane di destra, nel tentativo di troncare i finanziamenti dall’estero, hanno cercato di mettere in rapporto queste organizzazioni con il FPLP.

La decisione del ministero della Difesa è basata su informazioni raccolte dallo Shin Bet [servizio di intelligence interna, ndtr.], che non le ha rese pubbliche. Ma, secondo fonti a conoscenza del caso giudiziario, le prove del servizio segreto sarebbero basate sulla testimonianza di un unico impiegato licenziato per corruzione da una delle associazioni.

Tuttavia esistono parecchie prove che contraddicono la versione dello Shin Bet. Negli ultimi 5 anni, su pressione del governo israeliano e di ong filo-israeliane, vari governi europei e fondazioni private che finanziano la società civile palestinese hanno condotto approfonditi controlli su ognuna delle sei organizzazioni. Nessuno ha trovato prove di uso scorretto dei fondi.

Oltretutto le stesse organizzazioni prese di mira descrivono un quadro totalmente diverso dalle accuse sollevate dallo Shin Bet, con molte prove a loro sostengo.

Ho parlato con presidenti o importanti membri di cinque ong, tutti noti attivisti, avvocati e intellettuali che criticano duramente sia il regime israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese (l’ Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] ha rifiutato di parlare con Local Call, il sito in ebraico di +972, in cui è stato originariamente pubblicato questo articolo). Rigettando totalmente le accuse israeliane, essi descrivono questi ultimi attacchi come parte della pluriennale persecuzione politica della società civile palestinese da parte di Israele per zittire il loro lavoro.

“Non abbiamo niente da nascondere”

“Siamo l’unica organizzazione per i diritti umani che si concentra sui minori in Palestina,” dice Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma per la trasparenza di Defense for Children International-Palestine, fondata nel 1991.

“Il nostro lavoro è duplice,” spiega. “Il primo è giuridico: rappresentiamo circa 200 minori all’anno nei tribunali israeliani e palestinesi. Il secondo è politico: dal 2000 abbiamo documentato l’uccisione di oltre 2.200 minorenni palestinesi per mano delle forze militari israeliane, in particolare a Gaza.”

Il comunicato del ministero della Difesa distribuito ai giornalisti in seguito all’annuncio di Gantz non specifica la ragione precisa per cui DCI-Palestine, un’associazione molto rispettata e attiva nelle commissioni ONU e nel Congresso USA, sia stata etichettata come “organizzazione terrorista”.

“In passato siamo stati attaccati, ma ciò è avvenuto tramite gruppi di destra come NGO Monitor,” aggiunge Abu Eqtaish, in riferimento all’organizzazione che controlla le attività delle associazioni sociali palestinesi e della sinistra che criticano le politiche israeliane per bloccare le loro fonti di finanziamento. NGO Monitor afferma che DCI-Palestine “guida una campagna che sfrutta i minori per promuovere la demonizzazione di Israele ed è legata al gruppo terroristico FPLP. Molte delle sue accuse sono false e fanno parte dei tentativi di calunniare Israele con accuse di ‘crimini di guerra’ e di promuovere il BDS.”

Abu Eqtaish definisce le accuse contro DCI-Palestine “assurde”, sottolineando che non ci sono prove che la sua organizzazione finanzi l’FPLP. “Israele e le associazioni di destra si sono rivolte a tutti i governi e alle fondazioni che ci finanziano per mettere in dubbio la nostra legittimità come organizzazione. Invece di preoccuparci di denunciare le violazioni dell’occupazione contro i minori, abbiamo dovuto difendere noi stessi.”

Secondo Abu Eqtaish, in passato tutti gli enti che finanziano DCI-Palestine, compresi i governi di Italia e Danimarca, così come l’Unione Europea, hanno condotto indagini indipendenti riguardo alle affermazioni di Israele. “Ci hanno chiesto di produrre prove che le denunce erano senza fondamento, e noi gliele abbiamo fornite. Non abbiamo niente da nascondere. Tutti i nostri bilanci sono pubblici.”

Anche un tribunale britannico ha scoperto che queste accuse sono false. Nel 2020 ha ordinato a UK Lawyers for Israel [Avvocati del Regno Unito per Israele], un’organizzazione che opera in modo simile a NGO Monitor, di ritrattare le sue affermazioni secondo cui DCI-Palestine appoggerebbe l’ FPLP o gli trasferirebbe fondi. Il tribunale ha anche chiesto a UK Lawyers for Israel di dichiarare pubblicamente che DCI-Palestine non ha “attualmente stretti legami, e non fornisce alcun apporto finanziario o materiale ad alcuna organizzazione terroristica.”

“Utilizzando questa strategia non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi, e per questo l’hanno modificata,” dice Abu Eqtaish. “In luglio forze dell’esercito hanno fatto irruzione negli uffici dell’associazione a Ramallah e hanno confiscato computer e documenti giudiziari riguardanti minori. Ci siamo rivolti a un tribunale militare per chiedere la restituzione della documentazione. Il tribunale ha respinto la richiesta.”

Egli conclude: “Adesso nell’organizzazione stiamo cercando di capire quali passi intraprendere. Sappiamo che queste accuse sono infondate. L’attacco contro l’organizzazione è soprattutto un’aggressione contro i suoi scopi: evidenziare i crimini dell’occupazione contro i minorenni e chiedere alla comunità internazionale di punire Israele per essi.”

“Chiunque sa dove va a finire ogni singolo shekel”

Fondata nel 1979, Al-Haq è la più antica e grande ong palestinese per i diritti umani e il sostegno giudiziario nei territori occupati. Secondo Hisham Sharbati, operatore sul campo di Al-Haq che ha lavorato con l’organizzazione per 12 anni, la ragione della recente definizione da parte di Israele è esclusivamente politica. “Al-Haq ha un ruolo molto importante nel fornire informazioni contro Israele alla Corte Penale Internazionale dell’Aia,” spiega. “A causa delle nostre attività molti nel mondo stanno chiaramente definendo Israele uno ‘Stato di apartheid’. È per questo che siamo perseguitati.”

Sharbati cita il fatto che all’inizio del mese Gantz si è incontrato con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas a Ramallah e hanno parlato di ‘costruire fiducia’. “Che razza di costruzione della fiducia c’è quando (Gantz) attacca le associazioni della società civile palestinese in questo modo? Questa iniziativa intende privare il popolo palestinese di alcune delle organizzazioni più importanti che ha per difendere i propri diritti contro l’occupazione e contro l’Autorità Nazionale Palestinese.”

Né la dichiarazione del ministro della Difesa israeliano né il documento poco più dettagliato che è stato in seguito inviato ai giornalisti fanno riferimento ad Al-Haq, nonostante sia la più grande delle sei organizzazioni. Non è ancora per niente chiaro su quali basi Al-Haq sia stata messa fuorilegge.

Le accuse contro Al-Haq devono essere state originate da un’altra fonte. Nel 2015, mentre le pressioni internazionali contro Israele stavano montando, il governo destinò decine di milioni di shekel all’ormai abolito ministero degli Affari Strategici per guidare una “campagna contro gli effetti della delegittimazione e del boicottaggio contro Israele,” con Gilad Erdan, ora ambasciatore USA in Israele, nominato a capo dell’istituzione.

Una delle principali attività del ministero era etichettare le associazioni della società civile palestinese come affiliate ai terroristi per far pressione sui governi europei perché tagliassero i finanziamenti. Secondo rapporti ufficiali pubblicati dal ministero, le sei organizzazioni messe sulla lista nera la scorsa settimana erano uno dei principali obiettivi.

Il ministero degli Affari Strategici pubblicò rapporti con titoli come “Terroristi in giacca e cravatta”, “Soldi insanguinati” e “Rete di Odio”, riprendendo i messaggi di vari gruppi di destra. In particolare NGO Monitor accusò il direttore generale di Al-Haq, Shawan Jabarin, di essere attivista dell’FPLP. Eppure il ministero non ha ancora fornito una qualunque prova dei rapporti dell’ong con la violenza.

“Sono nell’organizzazione da 12 anni e nessuna persona di Al-Haq è stata arrestata durante questo periodo,” afferma Sharbati. “Il nostro lavoro è totalmente legale e trasparente. I nostri finanziatori ricevono relazioni dettagliate. Siamo sotto stretta osservazione e chiunque sa dove va a finire ogni singolo shekel.”

Riguardo alle accuse secondo cui alcuni degli operatori dell’organizzazione sarebbero membri dell’FPLP, Sharbati afferma: “Se qualcuno è stato attivo nell’FPLP, è stato messo in prigione ed è stato rilasciato qualche mese dopo, che c’è di male? Ciò significa che non dovrebbe lavorare da nessuna parte? Se qualcuno ha fatto qualcosa di illegale arrestatelo. Ma non ci sono prove di illeciti.”

“Assolutamente manipolatorio”

Il Bisan Center è un piccolo centro di ricerca palestinese di sinistra. È formato da otto accademici e guidato da Ubai Aboudi, che scrive di economia e sociologia.

“Siamo stati fondati nel 1986 da un gruppo di studiosi e scienziati,” spiega Aboudi. “Sosteniamo i diritti di comunità emarginate, facciamo pressione contro il riscaldamento globale, promuoviamo l’uguaglianza di genere e ci opponiamo alle politiche di occupazione di Israele.”

Aboudi è stato arrestato due volte negli ultimi due anni: una volta da Israele e poi dall’Autorità Nazionale Palestinese. Durante il primo arresto alla fine del 2019 il tribunale militare israeliano lo ha accusato di essere membro dell’FPLP. “Non avevano prove e il giudice ha deciso che c’erano problemi con gli indizi,” sottolinea.

Tuttavia Aboudi alla fine ha accettato di patteggiare ed è stato in prigione per 4 mesi (secondo varie associazioni per i diritti umani i tribunali militari israeliani, che operano come braccio integrato nel controllo di Israele sui palestinesi sotto occupazione, hanno una percentuale tra il 95% e il 99% di condanne).

“Non ho alcun rapporto con il FPLP, ma sono padre e volevo tornare prima possibile dai miei tre figli, per cui ho accettato il patteggiamento,” spiega. All’epoca la detenzione amministrativa di Aboudi aveva scatenato una campagna internazionale e circa un migliaio di scienziati e studiosi aveva firmato una petizione per la sua liberazione.

Quest’anno Aboudi è stato arrestato due volte dall’ANP per aver protestato contro l’uccisione di Nizar Banat, un attivista e critico del governo picchiato a morte in giugno quando era nelle mani delle forze di sicurezza palestinesi.

Un mese dopo l’esercito israeliano ha fatto irruzione negli uffici del Bisan Center a Ramallah ed ha confiscato i computer. Secondo il comunicato stampa del ministero della Difesa, Bisan è stato dichiarato “organizzazione terroristica” perché membri dell’FPLP hanno tenuto riunioni nei suoi uffici. Inoltre, sostiene la dichiarazione, il precedente direttore del Centro, I’tiraf Rimawi, era membro del braccio armato dell’FPLP. Rimawi è stato imprigionato per tre anni e mezzo in quanto membro del gruppo studentesco dell’FPLP, quando non era dipendente del Bisan Center.

“Questa prospettiva (israeliana) è assolutamente manipolatoria,” dice Aboudi. “Come può un’intera organizzazione essere responsabile delle azioni che una persona avrebbe commesso fuori dal lavoro? Se uno lavora in una banca degli Stati Uniti e viola la legge, allora la banca viene chiusa?”

Riguardo all’uso di locali di Bisan per riunioni dell’FPLP, Aboudi afferma: “Il nostro ufficio non serve ad alcuno scopo che non riguardi le nostre ricerche. Non è mai stato utilizzato da milizie armate e il centro non ha alcun rapporto con azioni violente. Legga le nostre ricerche, la nostra visione del mondo si basa sull’uguaglianza e sulla giustizia sociale.”

Come le altre associazioni, Aboudi afferma che la pretesa di Israele secondo cui i gruppi agiscono come “ancora di salvezza” e come procacciatori di fondi per l’FPLP è una totale invenzione e che “il bilancio del centro è pubblico e a disposizione di tutti.”

A maggio, nota Aboudi, Israele ha invitato rappresentanti di ambasciate estere ed ha chiesto che smettano di finanziare le organizzazioni palestinesi per i diritti umani. In seguito a ciò il governo belga ha condotto un controllo dei finanziamenti che invia a Bisan, ed ha stabilito che non ci sono basi per le accuse del governo. “Tutti i nostri finanziamenti, circa 800.000 shekel [circa 21.600 €] all’anno, vanno alle ricerche ed agli stipendi,” sostiene.

Come per le altre organizzazioni, i dipendenti di Bisan ora temono che, in seguito alla dichiarazione di Israele, i finanziatori del resto del mondo esiteranno ad appoggiare il centro, che fallirà. “Questa è sempre stata la lotta principale del (primo ministro) Naftali Bennett e della (ministra degli Interni) Ayelet Shaked: perseguitare le organizzazioni palestinesi dei diritti umani,” afferma Aboudi.

“I loro rapporti con i gruppi dei coloni di estrema destra, come NGO Monitor e Regavim, sono profondi. Per anni hanno pensato di mettere fuorilegge le associazioni palestinesi per i diritti umani. Ora si sono ritrovati con l’opportunità di farlo, e l’hanno colta al volo.”

“L’occupazione è la fonte della violenza”

L’Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del Lavoro Agricolo] è stata fondata nel 1986. Tra le altre aree di attività, assiste i contadini palestinesi che coltivano le proprie terre nell’Area C, i due terzi della Cisgiordania che sono sotto totale controllo israeliano, in cui sono costruite e si espandono le colonie israeliane e dove Israele impedisce sistematicamente lo sviluppo dei palestinesi. Secondo il direttore dell’UAWC Abu Seif, Il suo lavoro è la ragione per cui sono stati messi fuorilegge.

“Israele vuole annettere l’Area C,” afferma. “Il nostro lavoro rafforza la presenza palestinese lì, in una zona in cui non è gradita. È per questo che da anni ci stanno perseguitando.”

Abu Seif continua: “Regavim (un’organizzazione israeliana di destra) ci ha attaccato quotidianamente, perché aiutiamo i contadini palestinesi a coltivare circa 3.000 dunam [300 ettari] di terreno all’anno e ad aprire strade agricole che mettono in relazione le aree A, B e C. Tutto il nostro lavoro viene fatto su terra privata, per aiutare gli agricoltori. Per ragioni politiche Israele impedisce loro di sfruttare i propri terreni, per espellerli.

Israele ha accusato due ex-dipendenti di UAWC di essere coinvolti nella morte di Rina Shenrab, una diciassettenne israeliana, in Cisgiordania nell’agosto 2019. Il ministro della Difesa ha citato l’assassinio dell’adolescente come la ragione dell’indicazione dell’unione come “organizzazione terroristica”.

“Erano due persone su un’organizzazione con 120 dipendenti, in cui nel corso degli anni hanno lavorato in migliaia,” afferma Abu Seif in merito alle accuse. “Non è che l’organizzazione abbia deciso di operare in quel modo. In quanto associazione rifiutiamo la violenza e diciamo che l’occupazione ne è la causa.”

Secondo Abu Seif per anni Israele ha cercato motivazioni relative alla sicurezza da utilizzare come scusa per chiudere varie associazioni palestinesi che operano nell’Area C.

Alla fine del 2020 la Commissione per gli Esteri e la Difesa della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] si è riunito per discutere della lotta del governo contro queste organizzazioni. Durante la riunione il deputato Zvi Hauser [del partito di destra Nuova Speranza, ndtr.] ha evidenziato che la discussione era “di interesse nazionale prioritario” perché “ciò determinerà i futuri confini dello Stato.”

“Non si tratta solo di una lotta per la terra e per chi comanda, ma anche una lotta diplomatica, “ha detto durante la riunione della commissione Ghassan Alyan, ex- capo dell’Amministrazione Civile, l’ente del governo militare israeliano che gestisce i territori occupati. Alyan ha aggiunto che nel 2020, quando Bennett era ministro della Difesa, egli ha incontrato gli ambasciatori e diplomatici dei Paesi europei ed ha chiesto che smettessero di finanziare le organizzazioni palestinesi che operano nell’Area C.

“Abbiamo avvertito tutti: non tollereremo alcun progetto internazionale senza il consenso israeliano… e negli ultimi due anni siamo riusciti a ridurre il numero dei progetti,” ha affermato Alyan durante la riunione. “Nel 2019 c’erano circa 12 progetti, mentre nel 2015 ce n’erano in corso circa 75.”

“Israele sta tentando di stravolgere la reputazione di queste organizzazioni presso i nostri finanziatori,” afferma Abu Seif. “Se gli europei smettono di finanziarli, tutti questi gruppi spariranno. E sta funzionando”.

“Si stanno concentrando su due tipi di organizzazioni: quelle che agiscono a livello internazionale, come Al-Haq, e quelle che operano nell’Area C, come noi,” aggiunge Abu Seif. “Non è iniziato tutto due giorni fa, va avanti da anni.”

Il 7 luglio di prima mattina forze israeliane hanno fatto irruzione negli uffici dell’UAWC e li hanno chiusi. Quella mattina Abu Seif è arrivato e ha scoperto che i computer erano stati confiscati e le porte sigillate. Sulla porta era anche attaccato un ordine di chiusura emesso dal governatore militare israeliano.

“Devi capire che la nostra organizzazione si occupa solo di agricoltura. La maggioranza di noi è composta da ingegneri. Anch’io sono un ingegnere. Ora Israele ci arresterà tutti? Questa organizzazione è esistita per 35 anni,” dice Abu Seif.

Comunque la dichiarazione di sei organizzazioni storiche come “terroriste” non ha precedenti, afferma Abu Seif. “Ciò è stato possibile solo per via del nuovo governo,” sostiene. “Per quanto Netanyahu fosse malvagio, non è mai arrivato a un’iniziativa così drastica. A mio parere era più cauto. La lobby dei coloni e Regavim possono fare pressione più facilmente sull’attuale governo, che è molto più estremista.”

“Le radici di questo attacco”

Sahar Francis dirige Addameer, che fornisce supporto legale a prigionieri e detenuti palestinesi rinchiusi nelle prigioni di Israele e dell’ANP. “La maggior parte del lavoro della nostra organizzazione è con le autorità israeliane,” dice Francis. “Aspetto di vedere quello che diranno ai nostri avvocati nei tribunali militari.”

Francis continua: “Questa è una decisione politica, che deriva dalle continue persecuzioni contro di noi.  Come si può pubblicare sui giornali una dichiarazione simile senza sentire quello che queste associazioni hanno da dire? Senza un processo o il diritto a un dibattimento?”

Secondo Francis la decisione del governo fa parte di un’iniziativa ampia e a lungo termine contro la società civile palestinese. “È iniziata con un attacco da parte di organizzazioni di destra come NGO Monitor, che era in rapporto diretto con il governo israeliano,” spiega. “Poi, nel 2015, è stato lanciato il ministero degli Affari Strategici di Gilad Erdan, ed ha cercato di prosciugare i nostri finanziamenti a tempo indefinito.”

Secondo il comunicato stampa del Ministero della Difesa, Addameer è stata definita una “organizzazione terroristica” perché è stata creata da importanti membri dell’FPLP per occuparsi di prigionieri politici e delle loro famiglie. Eppure Addameer è stata fondata nel 1991, il che, se le accuse fossero vere, renderebbe la recente definizione da parte di Israele in ritardo di 30 anni.

La dichiarazione del ministro sostiene anche che negli uffici di Addameer ci sono stati incontri con importanti membri dell’FPLP e che l’organizzazione porta messaggi ai prigionieri per conto dell’FPLP. Tuttavia non sono state fornite ulteriori spiegazioni.

“Queste accuse sono semplicemente false,” risponde Francis. “L’associazione non è dell’FPLP. Ci occupiamo solo di difesa legale e di fare pressione a livello locale e internazionale. Siamo stati presi di mira per anni per una ragione: siamo riusciti a cambiare il paradigma in tutto il mondo parlando di apartheid e non solo di occupazione, e stiamo fornendo materiali all’Aia [cioè alla Corte Penale Internazionale, ndtr.].

“Dobbiamo tornare alle radici di questo attacco,” evidenzia. “Dall’inizio dell’occupazione Israele ha agito contro le organizzazioni della società civile. Ha definito illegali i sindacati dei lavoratori e degli studenti. Durante la Seconda Intifada ci fu un massiccio attacco contro le associazioni di solidarietà con il pretesto che erano legate ad Hamas. Penso che allora abbiamo fatto l’errore di non averlo preso sufficientemente sul serio. All’epoca l’Autorità Nazionale Palestinese ne era contenta perché, colpire quelli che vi si opponevano, favoriva i suoi interessi.

Il nostro messaggio, insieme alle altre organizzazioni, è che non smetteremo di lavorare. Non smetteremo di fornire servizi a quelli che hanno bisogno di noi. Rifiutiamo di stare in silenzio sul governo di apartheid dell’occupazione.”

  • Yuval Abraham è un fotografo e uno studente di linguistica.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)