Soldati israeliani picchiano e arrestano un attivista palestinese durante la raccolta delle olive

Oren Ziv

12 ottobre 2021 +972 MAGAZINE

Mohammed Khatib è stato brutalmente arrestato assieme a due israeliani di sinistra mentre cercava di proteggere i contadini palestinesi dalla violenza dei coloni e dell’esercito.

Soldati israeliani hanno arrestato brutalmente un importante attivista palestinese e due israeliani di sinistra durante l’annuale raccolta delle olive nella Cisgiordania occupata. L’arresto è avvenuto nella regione di Salfit, vicino all’avamposto illegale di Havat Nof Avi, eretto dai coloni lo scorso anno su un terreno appartenente ai palestinesi abitanti nell’area.

Un soldato è stato fotografato mentre prendeva a pugni e poi calpestava, dopo il suo arresto, Mohammed Khatib, attivista del Comitato di coordinamento della lotta popolare che aiuta a organizzare la resistenza non violenta all’occupazione e all’insediamento di Israele.

“Siamo arrivati ​​intorno alle 10 e abbiamo trovato molti soldati nella zona”, ha detto Abdullah Abu Rahmeh, un altro importante attivista palestinese del Comitato. “Hanno transennato l’area e l’hanno dichiarata zona militare chiusa”.

Diversi agricoltori palestinesi hanno cercato di ragionare con gli ufficiali e i rappresentanti dell’amministrazione civile – il ramo dell’esercito israeliano che governa la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione – per cercare di accedere alla loro terra, ha detto Abu Rahmeh. Mezz’ora dopo, quando né gli agenti né l’Amministrazione Civile si sono spostati, i contadini si sono incamminati lungo il tratto transennato per cercare di raggiungere i loro ulivi mediante un altro percorso.

“I soldati ci hanno seguito e ci hanno attaccato con i loro fucili”, ha ricordato Abu Rahmeh. “Portavamo gli attrezzi per il raccolto. Non stavamo protestando, ma ci offrivamo volontari per aiutare i contadini. Tuttavia, i soldati non ci hanno permesso di raccogliere”.

I volontari sono arrivati nel quadro dell’iniziativa Faz3a, che significa “sostegno” in arabo. Tale progetto è stato varato l’anno scorso. L’organizzazione assiste gli agricoltori palestinesi durante la raccolta delle olive per difenderli dalla violenza dei coloni e dei militari. “È una campagna annuale”, ha detto Abu Rahmeh. “In questa zona i contadini non hanno abbastanza tempo per completare il raccolto, quindi portiamo delle persone per aiutare. Cerchiamo di sostenerli e proteggerli dagli attacchi dei coloni”.

La stagione del raccolto in Palestina-Israele è iniziata la scorsa settimana e sono già stati segnalati diversi episodi di coloni che hanno vandalizzato gli ulivi. Secondo l’ONG israeliana Yesh Din,

venerdì un proprietario terriero palestinese del villaggio di Tarkumiya ha scoperto che i coloni avevano tagliato i suoi ulivi.

In una foto dell’arresto di Khatib, che viene dal villaggio di Bil’in ed è un membro di spicco del Faz3a, si vede un soldato israeliano colpire Khatib e afferrarlo per il collo. Più tardi, quando Khatib giace a terra a pancia in giù, si vede lo stesso soldato che lo calpesta.

“I soldati hanno preso a pugni Khatib, gli sono saliti sulla schiena, gli hanno coperto gli occhi e lo hanno portato verso l’avamposto [della colonia]”, ha detto Hillel Dahbash, un attivista israeliano che ha assistito agli arresti. “I soldati continuavano a lanciare granate stordenti. Ci siamo radunati per accedere all’area agricola e abbiamo cercato di raggiungere nuovamente il terreno, ma i soldati ci hanno buttato fuori a calci e ci hanno spinto verso le auto. Hanno poi sparato granate stordenti contro le auto, fino a quando l’ultimo veicolo ha lasciato l’area”.

La raccolta è avvenuta nell’area di Ar-Ras, a ovest di Salfit, dove nell’ultimo anno si sono svolte ogni venerdì, tutte le settimane, manifestazioni contro la costruzione del vicino avamposto. La scorsa settimana, Yesh Din ha documentato il furto di ulivi appartenenti ai palestinesi abitanti di Salfit da parte dei coloni.

L’avamposto è uno degli oltre 100 costruiti senza l’autorizzazione del governo israeliano e quindi illegale secondo la stessa legge israeliana. Secondo il diritto internazionale, tutti gli insediamenti in Cisgiordania sono da ritenere illegali.

“L’avamposto costruito l’anno scorso impedisce ai palestinesi di accedere alla terra di loro proprietà”, ha aggiunto Hillel, mentre i suoi confini sono proprio ai margini degli uliveti palestinesi.

Secondo gli attivisti sul posto, i soldati israeliani hanno detto ai contadini che, se avessero evitato le “provocazioni” arrivando da soli senza giornalisti israeliani, avrebbero avuto il permesso di accedere alla loro terra e raccogliere dai loro alberi. Ma, come in altre aree della Cisgiordania, molti palestinesi hanno paura di andare da soli, senza alcuna protezione dagli attacchi dei coloni, a occuparsi dei loro uliveti.

La polizia israeliana ha tenuto Khatib in detenzione da lunedì. Probabilmente sarà portato di fronte al tribunale militare alla fine di questa settimana. A differenza dei detenuti israeliani, che devono essere portati davanti a un giudice entro 24 ore dal loro arresto, la legge militare consente che palestinesi rimangano in detenzione fino a 96 ore senza un’udienza in tribunale.

Ai due attivisti israeliani che sono stati arrestati con Khatib, nel frattempo, è stato offerto il rilascio su cauzione con divieto di entrare nell’area vicino all’avamposto. Gli attivisti si sono rifiutati e hanno scelto di rimanere in detenzione in solidarietà con Khatib. Dopo essere stati portati martedì davanti alla Corte Petah Tikvah, agli israeliani è stato inflitto un divieto di recarsi nell’area di cinque giorni.

Martedì sera Khatib è stato portato davanti a un tribunale militare israeliano in Cisgiordania, dove un giudice israeliano ha stabilito che, sebbene avesse probabilmente commesso un reato, doveva comunque essere rilasciato, soprattutto alla luce del fatto che anche gli attivisti israeliani erano stati rilasciati quel giorno. Il giudice ha fissato la cauzione di Khatib a 1.000 NIS [267 euro, ndtr.] e lo ha bandito dalla zona per una settimana.

Una richiesta di commento sulla violenza dei soldati è stata inviata lunedì sera al portavoce dell’IDF [esercito israeliano, ndt.], ma non ha ancora risposto. La risposta sarà pubblicata se e quando la riceveremo.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I tre regali di Washington a Naftali Bennett

Edo Konrad

26 settembre 2021, +972

La scorsa settimana è stata una buona settimana per Naftali Bennett, forse una delle migliori da quando più di tre mesi fa è diventato primo ministro. Bennett – che ha dato il colpo finale alla soluzione dei due Stati come pilastro della sua politica – ha probabilmente sfoderato un largo sorriso quando ha visto che, nel giro di pochi giorni, sia la Casa Bianca che il Congresso gli hanno regalato una serie di vittorie politiche.

La settimana è iniziata con il discorso del presidente Joe Biden all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui ha affermato che, sebbene la sua amministrazione sostenga ancora la soluzione a due Stati, questa sia ancora “lontana” dal diventare realtà. Con queste parole, Biden ha in effetti dichiarato che la Casa Bianca non investirà capitale politico per portare Israele e i palestinesi al tavolo dei negoziati. Sembra che Bennett abbia detto che nel suo discorso all’Assemblea Generale di domenica non dedicherà nessuna attenzione alla questione palestinese.

La dichiarazione di Biden è stata rafforzata dall’udienza alla Commissione per gli Affari Esteri del Senato di Thomas Nides, ex amministratore delegato e vicepresidente di Morgan Stanley, scelto dal presidente come ambasciatore in Israele. Nides ha condotto l’udienza (non è ancora stato confermato ufficialmente) ricevendo elogi bipartisan per aver annunciato, tra altre questioni, che avrebbe rafforzato la sicurezza israeliana, ampliato le relazioni economiche tra i due paesi e sostenuto gli accordi di Abraham. Sebbene Nides abbia sottoscritto a parole la promessa di usare “accordi esistenti e futuri per apportare miglioramenti tangibili al popolo palestinese”, è estremamente improbabile che ciò comporti un cambiamento significativo sul campo per i palestinesi che vivono sotto il dominio militare israeliano.

E poi è arrivato il disegno di legge Iron Dome alla Camera dei Rappresentanti. Dopo che i progressisti del Partito Democratico sono riusciti a bloccare la proposta di inviare a Israele 1 miliardo di dollari per finanziamenti al suo sistema di difesa missilistica – oltre ai 3,8 miliardi di dollari l’anno di aiuti militari – come parte di un più ampio disegno di legge di finanziamento al governo provvisorio, i Democratici moderati hanno proposto all’esame della Camera un secondo disegno di legge che manterrebbe quel miliardo di dollari. Quando si è passati al secondo voto, e in seguito alle forti critiche sia da parte dei repubblicani che dei democratici moderati, l’ala progressista si è divisa. Solo nove dei 435 rappresentanti hanno votato contro il “rimpinguare” la capacità dell’Iron Dome di Israele, con la rappresentante Alexandria Ocasio-Cortez – che aveva definito Israele uno “Stato di apartheid” – che alla fine ha cambiato il suo voto da “no” a “presente”, facendo arrabbiare molti che l’avevano vista come un’alleata della causa palestinese.

Il discorso delle Nazioni Unite, l’udienza di conferma di Nides e la debacle dei Democratici sull’Iron Dome sono notizie fantastiche per il primo ministro israeliano. Bennett – ex capo del Consiglio Yesha, il gruppo di organizzazioni che rappresenta gli interessi del movimento degli insediamenti – ha condotto tutta la sua carriera opponendosi alla creazione di uno Stato palestinese e ha recentemente dichiarato che intende mantenere l’occupazione perseguendo una strategia di “riduzione del conflitto”. In altre parole, il piano di Bennett è di rafforzare il cosiddetto status quo – e quindi le politiche di apartheid di Israele.

Rivelatore è stato vedere quanto credito abbia ricevuto il primo ministro nei circoli dell’élite, che tanto avevano disprezzato il suo predecessore Benjamin Netanyahu, nonostante le sue franche dichiarazioni sul mantenimento della dittatura militare di mezzo secolo di Israele sui palestinesi. Il fatto che né la Casa Bianca né il Congresso stiano condizionando alcun aiuto a Israele ad un processo che cerchi di porre fine all’occupazione è una testimonianza di quanta noncuranza i leader americani dimostrino rispetto alle intenzioni israeliane o alle vite palestinesi.

Forse più di ogni altra cosa, quest’ultima settimana ha dato un chiaro segnale di come, che si tratti di Trump o Biden, o che si tratti di Bibi o Bennett, non c’è quasi nessuno con un minimo di potere che si alzerà e dirà basta alla progressiva e infinita occupazione del governo militare di Israele. Per ora, Washington rimane impegnata a garantire che il tempo sia dalla parte dell’apartheid.

Edo Konrad è caporedattore di +972 Magazine. Vive a Tel Aviv, e in precedenza ha lavorato come redattore di Haaretz.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nel cuore di Tel Aviv un quartiere operaio abitato da mizrahi combatte contro il trasferimento forzato

 

Nel cuore di Tel Aviv un quartiere operaio abitato da mizrahi combatte contro il trasferimento forzato

Le autorità israeliane e i magnati dell’immobiliare per decenni hanno trasferito gli abitanti di Givat Amal che vi erano stati mandati negli anni ‘50 per impedire ai rifugiati palestinesi di far ritorno alle proprie terre. Ora gli ultimi ancora rimasti lottano per la sola casa che abbiano mai avuto.

Oren Ziv

19 settembre 2021 – +972 magazine

 

Per gran parte degli ultimi dieci anni gli abitanti di Givat Amal, un piccolo quartiere operaio nella zona benestante di Tel Aviv nord abitato da mizrahi [ebrei di Paesi arabi o musulmani che vivono in Israele, ndtr.], sono vissuti nell’ansia per il proprio destino. Nel 2014, la polizia aveva sfrattato con violenza 80 famiglie di Givat Ama per far posto a lussuosi condomini sparsi su 20 lotti. Oggi 45 delle famiglie rimaste nel rione non sanno quando le autorità li verranno a cacciare.

Nel 2020 il tribunale distrettuale di Tel Aviv Court aveva emesso altri ordini di sfratto, ordinando a tutti gli abitanti di Givat Amal di lasciare le proprie case in cambio di risarcimenti per un totale di 42 milioni di (nuovi) shekel (circa 11 milioni €) provenienti dalla El-Ad Group, una società immobiliare americana con sede in Israele (separata dal gruppo di coloni che opera a Gerusalemme Est).

Ma il 9 agosto, appena 24 ore prima che 20 di quegli ordini diventassero operativi, gli abitanti hanno ricevuto comunicazione da parte delle autorità israeliane che gli sfratti erano stati rimandati a data da destinarsi. Il rinvio è arrivato dopo settimane di una fortissima opposizione da parte di attivisti e una diffusa protesta che ha bloccato le principali strade della città in aggiunta alle pressioni esercitate da membri della Knesset e ministri.

Sembrava che la sospensione volesse dire che gli abitanti avrebbero finalmente potuto tirare un sospiro di sollievo. Ma il mese scorso le autorità hanno emesso un’altra serie di ordini di sfratto per novembre quando, è opinione diffusa, la polizia cercherà di sfrattare gli ultimi abitanti di Givat Amal.

Punire gli ‘invasori’ mizrahi

La storia di Givat Amal racchiude la storia dello Stato di Israele: la fuga dei palestinesi dai loro villaggi e la loro trasformazione in eterni rifugiati, il razzismo e la discriminazione strutturale subita dagli immigrati mizrahi e la svolta di Israele verso una forma di ipercapitalismo che privilegia il profitto dei miliardari rispetto alle vite del ceto medio e della classe operaia.

Oggi, Givat Amal è un quartiere ebraico situato vicino a Bavli, una zona agiata a Tel Aviv nord. Era sorto sulle rovine del villaggio palestinese di al-Jammasin al-Gharbi, i cui abitanti musulmani vi avevano abitato almeno fino dal diciottesimo secolo; nel 1948 aveva una popolazione di 1.250 persone sparsa su circa 136 ettari di terreno. I bambini del villaggio studiavano nella vicina scuola di Sheikh Muwannis e gli abitanti si guadagnavano da vivere con i bufali (che danno il nome al villaggio) e coltivando agrumi, banane e cereali. Metà della terra del villaggio era già stata acquistata dagli ebrei prima della fondazione dello Stato di Israele.

Nel marzo 1948, mentre vigeva ancora il mandato britannico, tutti gli abitanti di al-Jammasin al-Gharbi fuggirono. Come a quasi tutti i palestinesi che furono espulsi o fuggirono durante la guerra del 1948, agli abitanti del villaggio fu impedito dalle nuove autorità israeliane insediatesi dopo la fondazione dello Stato di ritornare alle proprie case.

Negli anni immediatamente successivi, 130 famiglie, quasi tutte mizrahi, furono spostate ad al-Jammasin al-Gharbi per rimpiazzare i palestinesi. Sono vissute qui fino a ora. Le autorità promisero agli abitanti che avrebbero potuto risiedere in ogni edificio che sarebbe sorto in futuro sui terreni, ma lo Stato non fornì mai al quartiere nessuna infrastruttura basilare.

Fin dall’inizio i mizrahi che abitavano ad al-Jammasin al-Gharbi, ora Givat Amal, furono visti come invasori dall’élite ashkenazita, il gruppo etnico europeo che aveva fondato lo Stato di Israele e che ne ha dominato il gotha politico, culturale ed economico per quasi tutta la sua storia. Il primo a etichettarli così fu nel 1953 Chaim Levanon, sindaco di Tel Aviv, quando il Comune condusse il primo di vari tentativi falliti di espellere con la forza gli abitanti dal quartiere.

Nel 1960 il vicesindaco Yehoshua Rabinowitz disse che gli abitanti di Givat Amal erano fatti “di un materiale umano diverso” da quelli che vivevano a Nordia, un tempo un quartiere nel centro di Tel Aviv abitato prevalentemente dal ceto medio ashkenazita. Documenti storici hanno rivelato che, fin dal primo momento in cui i nuovi residenti misero piede nel rione, il Comune li considerò una seccatura perché abbassavano il valore dei terreni.

Quindi, mentre agli ebrei ashkenaziti che vivevano nei villaggi vicini a Givat Amal fu data la possibilità di risolvere le loro dispute sulle terre o di comprare le proprietà a un prezzo simbolico, queste stesse opportunità non furono estese a quelli di Givat Amal e ad altri nuovi quartieri mizrahi. Lo Stato trascurò questi quartieri, almeno fino a quando il valore degli immobili non ha cominciato a salire nel resto del Paese e particolarmente a Tel Aviv nord, dove l’area stava diventando uno dei posti ideali per la speculazione edilizia.

Negli anni ‘60, i terreni di Givat Amal furono venduti dallo Stato a privati. I diritti dei terreni passarono di mano fra i tycoon magnati dell’immobiliare, fino a quando non sono stati divisi tra il Comune di Tel Aviv e due investitori privati: la famiglia Kozahinof e Yitzhak Tshuva, miliardario israeliano e magnate dell’immobiliare, che progettavano di costruirci grattacieli di lusso. Tshuva acquistò i diritti nel 1987 a condizione che gli abitanti fossero risarciti per aver dovuto abbandonare le proprie case. Da allora Tshuva ha sostenuto che i termini dell’accordo dovrebbero essere cambiati, dato che gli abitanti non sono mai stati i proprietari legali della terra.

Durante gli sfratti di massa del 2014 la squadra antisommossa fece irruzione nelle case di Givat Amal e allontanò con la forza abitanti e attivisti che si erano barricati dentro, lasciando molti di loro traumatizzati. Ad alcuni abitanti furono dati risarcimenti ridotti o addirittura niente, costringendoli ad andare ad abitare presso familiari o ad affittare appartamenti lontani dal posto dove erano vissuti tutta la loro vita. In seguito agli sfratti la El-Ad Group, la società di Tshuva, iniziò la costruzione di grattacieli di lusso sulle rovine delle case.

Nel 2016, Tshuva presentò al tribunale una richiesta di sfratto, sostenendo che il resto degli abitanti occupava abusivamente la sua terra. Chiese anche 2,5 milioni di shekel (circa 667.000 euro) d’affitto per il lotto. L’anno scorso il tribunale distrettuale di Tel Aviv ha deliberato che gli abitanti non dovevano essere costretti a pagare l’affitto e che tutti avevano diritto ai terreni. Il tribunale ha inoltre deciso che gli immobiliaristi avevano violato il loro accordo con lo Stato e non avevano tenuto fede alla loro responsabilità riguardo allo sfratto come all’accordo di rimborsare gli abitanti di Givat Amal nel corso degli anni.

Nonostante la sentenza, il problema dello sfratto non è scomparso. Il tribunale ha deciso che ogni lotto di terra, su cui insiste una media di tre famiglie, i figli e i nipoti degli abitanti originari che furono portati a vivere a Givat Amal negli anni 1950, avrebbe avuto diritto a un indennizzo di circa 3 milioni di shekel (801.000 euro circa). Questa cifra non basta alle famiglie per trovare alloggi alternativi e certamente non per tre famiglie che sono costrette a dividersi l’ammontare.

Gli abitanti hanno quindi fatto ricorso alla Corte Suprema per cercare di bloccare gli sfratti. La Corte ha respinto l’istanza nel 2020.

Nel corso degli anni, membri della Knesset, sia di sinistra che di destra, dai deputati Ofer Cassif e Dov Khenin di Hadash [partito israeliano di sinistra, ndtr.], all’estrema destra di Ayelet Shaked [della Nuova Destra, ultranazionalista, ndtr.], che al momento è ministra degli Interni, hanno espresso il loro forte sostegno agli abitanti di Givat Amal. Nel 2018, la Knesset ha approvato in prima lettura la “Legge di Givat Amal”, secondo la quale gli abitanti del quartiere che non erano mai stati risarciti avrebbero ricevuto alloggi alternativi. Ma a causa della crisi politica che allora affliggeva Israele, quattro elezioni in due anni, la procedura legislativa non si è mai conclusa e la legge non è mai stata approvata.

 ‘Dove possiamo andare?’

Gli abitanti di Givat Amal non vedono il rinvio come una vittoria o la fine della loro lotta. Sono determinati a continuare la battaglia fino a quando le loro richieste non saranno accolte: una casa in cambio di una casa o indennizzi per i 70 anni durante i quali sono vissuti nel quartiere nel quale le autorità li avevano trasferiti agli inizi degli anni ‘50.

“C’è felicità velata dalla tristezza perché lo sfratto non è stato annullato, ma solo rimandato,” dice Yossi Cohen, 67 anni, nato a Givat Amal, dove è vissuto fino a oggi. Nei primi tempi dello Stato di Israele le autorità avevano trasferito la famiglia Cohen a Givat Amal da Neve Tzedek, un quartiere di mizrahi, uno slum che col tempo è diventato una delle zone più ricche di Tel Aviv. Suo padre è di origini siriane ed è stato uno dei primi ebrei ad  arrivare a Givat Amal. “Faceva parte dell’Haganah [una delle forze paramilitari sioniste pre-Stato ebraico] e lui e circa altri 15 uomini furono portati qui a guardia del villaggio. Mia madre arrivò solo alcuni mesi dopo perché le condizioni erano dure. Quando arrivarono, andarono ad abitare nelle case dei palestinesi.”

Cohen dice che gli sfratti che avrebbero dovuto aver luogo due settimane fa sono stati rinviati dopo l’ispezione delle autorità nel quartiere in preparazione per il trasferimento forzato. “Sono arrivati e si sono accorti che lo sfratto sarebbe stato pericoloso e che per il momento non erano pronti a eseguirlo,” spiega. “Se c’è lo sfratto, potrebbe costare vite umane. Ne hanno tenuto conto, ma, prima o poi, la polizia dovrà eseguirlo. Ci hanno dato del tempo sperando in una soluzione a causa della pressione da parte della polizia e dei membri della Knesset che ci sostengono. Gli imprenditori hanno i soldi e non avrebbero problemi a indennizzarci, una casa in cambio di una casa.”

Cohen non vede altra scelta se non continuare a lottare contro gli sfratti. “Il Comune di Tel Aviv e lo Stato sono responsabili della situazione in cui siamo oggi,” dice. “Hanno venduto la terra a condizione che ci avrebbero dato alloggio negli edifici che sarebbero stati costruiti su questi terreni. Dato che ciò non è stato concesso, possono riprendersi le terre degli imprenditori.”

“Prima devono risarcirci e poi possono fare tutto quello che vogliono con i terreni,” dice Levana Ratzabi, 75 anni, che è vissuta nel quartiere da quando aveva due anni. La sua famiglia fu sfrattata da Neve Tzedek prima di arrivare a Givat Amal. “Portarono qui mia mamma con la forza e ora vogliono buttarci fuori. Dove dovremmo andare?”

Ratzabi e gli altri abitanti dicono che furono portati nel quartiere per impedire ai palestinesi di al-Jammasin al-Gharbi di farvi ritorno. “Siamo vissuti nelle case dei palestinesi, senza servizi, acqua o luce. Questa è la terra che Ben-Gurion (primo premier di Israele) e il Comune di Tel Aviv hanno dato a noi invece che ai palestinesi,” spiega Ratzabi.

“In tutti questi anni non hanno piantato un fiore o [messo] una panchina, neppure un lampione o una strada, niente,” dice Cohen. “Noi abbiamo pagato le tasse comunali proprio come in tutti gli altri quartieri di Tel Aviv nord, eppure qui non c’è neppure la rete fognaria.”

“Nel corso degli anni non hanno offerto alle famiglie l’opzione di comprare i terreni,” dice Ronit Aldouby che abita a Givat Amal ed è uno degli organizzatori della lotta contro gli sfratti.

“Negli anni ’50 il governo emise un’ordinanza che permetteva agli abitanti del posto di comprare la terra su cui vivevano prima che fosse venduta ad altri, ma lo Stato non informò la gente di qui che chiese di comprare i terreni, ma questi non gli sono mai stati venduti.”

Secondo Aldouby questa decisione contro gli ebrei mizrahi fu implementata in diversi quartieri e villaggi nel Paese. “Volevano espropriare dei diritti gli abitanti mizrahi, molte proprietà [palestinesi] abbandonate furono vendute a membri dell’establishment, ma non solo a loro. [Gli accordi] erano basati sul razzismo e le proprietà furono vendute principalmente a ebrei ashkenaziti che ottennero le chiavi di ville vuote. Ma negli slum e nei posti dove erano stati collocati gli ebrei mizrahi nessuno si preoccupò di mettere in regola le terre.”

Aldouby aggiunge che negli anni ’50, agli ebrei ashkenaziti che vivevano appena oltre la strada da Givat Amal, in maggioranza impiegati governativi o comunali, fu dato alloggio nel quartiere di Shikun Tzameret, anche là su terreni che appartenevano ad al-Jammasin al-Gharbiand anch’essi considerati “proprietà di assenti.” (Secondo una legge israeliana del 1950 le proprietà i cui i proprietari se ne erano andati dopo il 29 novembre 1947 potevano essere requisite dallo Stato, ma in effetti si applica esclusivamente a proprietà palestinesi.) Oggi Shikun Tzameret è considerato uno dei quartieri più ricchi di tutto il Paese.

Tracce dei villaggi palestinesi erano ancora visibili fino agli sfratti del 2014. Oggi si possono trovare strutture palestinesi adibite a sinagoga, alcune case palestinesi ristrutturate e un cimitero musulmano.

Le famiglie che sono rimaste nel quartiere ora vivono in mezzo a un vasto cantiere edilizio, circondate da recinzioni, blocchi stradali, rumori industriali e polvere. Uno degli edifici a 50 piani dove gli appartamenti si vendono a 6 -8 milioni di shekel (1.600.000-2.130.000 euro), è finito mentre altri due sono in costruzione. Quando gli edifici saranno terminati, l’El-Ad Group e la famiglia Kozahinof avranno eretto sette grattacieli per un totale di oltre 1.400 appartamenti.

Secondo Cohen, i tribunali e le autorità stanno resistendo a raggiungere un accordo di risarcimento per paura di creare un precedente: lotte simili sono in atto in altri quartieri di Tel Aviv, come Kfar Shalem e Abu Kabir, entrambi villaggi palestinesi dove ebrei mizrahi furono collocati negli anni che seguirono la fondazione di Israele e stanno lottando contro i tentativi di sfratto. “Ostacolano la giustizia per paura delle conseguenze legali in altri casi, in modo che neanche in altri luoghi ottengano ciò a cui hanno diritto,” dice Cohen che spera che un possibile successo a Givat Amal abbia un effetto positivo sulle lotte in altri quartieri.

‘Questo è un vero inferno’

Ho incontrato alcuni degli abitanti di Givat Amal ad agosto davanti alla casa della famiglia Alfasy-Fihamin all’ingresso del quartiere. La nonna, Amalia Fihamin, di origini iraniane, è mancata questo mese all’età di 82 anni. Quattro giorni prima che se ne andasse, le autorità israeliane sono arrivate a casa e hanno consegnato ai membri della famiglia un ordine di sfratto mentre Fihamin era sul letto di morte.

Le proteste agli inizi di agosto si sono svolte durante la shiva per Fihamin, la settimana di lutto nell’ebraismo. I manifestanti si sono radunati vicino alla tenda della shiva che era stata montata vicino alla casa da dove si irradiava il blocco delle strade nella zona e da cui è partita la marcia.

Questo è un vero inferno,” dice Mali Alfasy-Fihamin, figlia di Amalia, mentre impacchetta le cose della mamma. “Non ho provato nulla durante la shiva. Ho ricevuto telefonate tutto il giorno e ho dovuto trattare con la polizia, ma non avevo nessun posto dove andare. In tutta onestà, dopo la morte della mamma mi sono arresa. Ho detto a tutti: non voglio niente, ma alcuni attivisti che ci hanno supportato per molti anni sono venuti e mi hanno detto: ‘Siamo con te.’ Mi rende più forte, non posso fare tutto da sola, ma con il loro sostegno questo sfratto non filerà liscio.”

Nell’aprile 2021, il Comune di Tel Aviv ha venduto i restanti diritti di 120 appartamenti in due grattacieli di lusso a tre imprese immobiliari per 365 milioni di shekel (oltre 97 milioni di euro). Nonostante il cambio di proprietà, gli accordi firmati nel 2014 tra gli abitanti e la città obbligano l’El-Ad Group ad attuare gli sfratti.

Quello stesso mese, il tribunale distrettuale di Tel Aviv ha deciso con un’altra sentenza che lo Stato è venuto meno alle proprie responsabilità verso gli abitanti di Givat Amal. Nella sentenza, la giudice Michal Agmon-Gonen ha scritto che il risarcimento offerto agli abitanti era insufficiente, disorganizzato e concesso solo in casi in cui gli investitori avessero presentato denuncia contro le famiglie che chiedevano di restare nelle proprie case. “Gli abitanti, i loro genitori e nonni hanno sempre avuto ragione nel sostenere di essere stati portati nel quartiere dalle autorità del nascente Stato di Israele e che le promesse che avevano ricevuto non erano state adempiute” ha scritto Agmon-Gonen nella sua sentenza.

“I nostri genitori sono morti e noi abbiamo un piede nella tomba,” dice Cohen. “La gente che vive qui ha 70 o 80 anni.  Quando lo Stato ci darà i nostri risarcimenti?”

 

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [gruppo di fotoreporter israeliani, palestinesi e internazionali impegnati contro oppressione, razzismo e discriminazione, ndtr.] e giornalista della redazione di Local Call [sito internet di informazione in lingua ebraica che fa capo alla redazione di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, sugli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socioeconomiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie animaliste.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Quelli di noi che sono sopravvissuti a Gaza sono sopraffatti dal timore della perdita

Fidaa Shurrab

6 settembre 2021 – +972 magazine

A mesi di distanza dai danni subiti dalle loro attività economiche di una vita a causa dell’ultima guerra, tre imprenditori palestinesi parlano delle loro difficoltà nel raccogliere le forze per ripartire.

In tutta la Striscia di Gaza la gente ti dirà che viverci richiede fede, forza e pazienza. Negli ultimi 12 anni Israele ha scatenato contro la popolazione assediata quattro guerre totali, senza contare le frequenti incursioni. Queste ripetute aggressioni, accentuate dalle restrizioni al movimento delle persone e dei beni attraverso i valichi con Israele e l’Egitto, gli unici punti di ingresso ed uscita da Gaza, hanno eroso le speranze delle persone e minato ripetutamente i tentativi di ricostruire le nostre vite tra le macerie.

Per questa ragione le storie dalla Striscia spesso riguardano la sofferenza, la perdita e il superamento delle difficoltà. La guerra di 11 giorni a maggio, che ha ucciso oltre 250 palestinesi e ne ha feriti migliaia a Gaza, ha solo aggravato le sfide che i palestinesi hanno affrontato in quel posto a causa di anni di blocco e, più di recente, di una devastante pandemia. Ciò ha comportato massacri e distruzioni, ha rubato ricordi e seminato disperazione nei nostri cuori. Benché i bombardamenti siano finiti, essi hanno lasciato un grande dolore. Quelli di noi che sono sopravvissuti sono sopraffatti dal timore della perdita.

Al di là della tragedia umana, la guerra “ha gravemente indebolito un’economia già ridotta a una frazione delle sue possibilità,” ha concluso un rapporto di luglio della Banca Mondiale, dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite. Esso stima che il danno totale e le perdite subite a Gaza in seguito all’ultimo attacco siano tra i 290 e i 380 milioni di dollari.

Dietro a queste valutazioni ci sono le persone reali, imprenditori che hanno perso le aziende della loro vita o che devono ancora una volta modificare i propri progetti, lavoratori finiti nella disoccupazione e nella povertà, già molto alte a Gaza. Ecco tre delle loro storie.

Baraa Rantisi

L’espositore da banco di Flavor Cake [Torta Saporita] in genere è pieno di dolci glassati. Il suo sito vanta torte personalizzate con strutture in zucchero intrecciate sino a formare una scena di vita oceanica, o un camice da dottore, o una Minnie. Durante l’ultimo attacco contro Gaza nel negozio gli ingredienti sono andati a male. Dopo la guerra la pasticceria ha dovuto rimanere chiusa per altri 21 giorni, finché sono state rimosse le macerie nella zona, una delle principali vie di Gaza City.

Quando la pasticceria ha riaperto le vendite sono scese del 70%, afferma Baraa Rantisi, il proprietario. Il negozio, che in precedenza dava lavoro a 12 persone, ha dovuto licenziare metà del personale e ora i lavoratori rimasti sono pagati in base alle entrate giornaliere invece che con salari mensili, aggiunge. Nonostante le sfide, Rantisi spera che i palestinesi di Gaza possano rimettersi in piedi presto e che siano in grado di vedere la luce persino in mezzo alle tenebre.

Ahmed Abu Eskander

Ahmed Abu Eskander è proprietario di una fabbrica di prodotti plastici, che in precedenza dava lavoro a 27 persone, nella zona industriale di Gaza. Anche prima dell’ultima guerra il blocco gli rendeva difficile gestire la fabbrica, in quanto ci volevano mesi prima che Israele approvasse l’ingresso del materiale necessario.

L’assedio ha imposto difficoltà ad ogni aspetto dell’economia di Gaza,” spiega Abu Eskander. “A causa delle chiusure [dei valichi] ho dovuto aspettare almeno tre mesi per avere le materie prime di cui avevo bisogno. Prima della guerra ho ordinato nuovi macchinari, e sono ancora bloccati sul lato israeliano”, aggiunge.

In maggio i bombardamenti aerei israeliani hanno distrutto la fabbrica di Abu Eskander e un successivo incendio ha mandato in cenere quello che era rimasto. Tutti i dipendenti, alcuni dei quali lavoravano nella fabbrica da vent’anni, hanno perso il lavoro.

Abu Eskander stima la perdita economica in 1 milione di dollari. Per rispettare i suoi impegni con i clienti di Gaza anche in queste circostanze devastanti ha dovuto importare borse di plastica dall’Egitto, un altro costo imprevisto. Né lui né i suoi dipendenti sono riusciti a ricevere un indennizzo per le loro perdite.

Ci vorranno 10 anni per riavere la nostra vita, ma tutto ciò dipende dalla stabilità politica, che a Gaza non c’è”, dice Abu Eskander. La ricostruzione continuerà ad essere difficile finché la vita delle persone viene interrotta da chiusure, posti di blocco e distruzioni.

Yehiya Abu Jabal

I vivaci colori che una volta adornavano Zaghrouta, un negozio di vestiti da sposi e da sera, ora sono completamente svaniti. Il negozio, situato su via Remal, una delle più trafficate di Gaza, è stato danneggiato quando a maggio Israele ha bombardato l’edificio di 14 piani della torre Al-Shorouq, uno dei 4 edifici di notevole altezza distrutti dagli attacchi aerei israeliani.

Negli ultimi 5 anni ho investito tanti sforzi per estendere e far crescere i miei affari. Era uno dei negozi di vestiti da nozze più famosi,” afferma il proprietario Yehiya Abu Jabal.

A causa dell’epidemia di coronavirus e della chiusura dei saloni da matrimonio a Gaza le vendite sono state basse per mesi, spiega Abu Jabal. Tuttavia, quando il governo di Hamas ha iniziato a ridurre le restrizioni dovute al COVID-19, egli ha acquistato altri vestiti, vedendo l’opportunità di ridurre le perdite durante la stagione dei matrimoni di quest’estate. Ma gli acquisti sono stati inutili, afferma, l’ultima guerra ha distrutto il suo negozio e le sue speranze.

Ho perso circa 150.000 dollari. Davo lavoro a quattro dipendenti. Ora sono disoccupati. Anch’io sono senza lavoro,” dice.

La ricostruzione di Gaza è urgente, sottolinea Abu Jabal, in quanto tutti nella Striscia stiamo soffrendo. Non solo c’è bisogno di ricostruire, aggiunge, ma i valichi devono essere aperti e l’assedio deve finire.

Mi sento impotente e senza speranza,” si lamenta. “Ci vogliono delle vere soluzioni. Basta scene di distruzione. Meritiamo una vita normale.”

Fidaa Shurrab è una funzionaria per i progetti e i finanziamenti della Atfaluna Society for Deaf Children [ong che si occupa di bambini sordi e dei loro problemi di apprendimento, ndtr.] di Gaza. Ha lavorato con molte ong nella Striscia ed è anche traduttrice e giornalista freelance.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Obiettrice di coscienza: “Non voglio indossare un’uniforme che simboleggia violenza e dolore”

Oren Ziv

1 settembre 2021 – +972 MAGAZINE

Shahar Perets, che è stata condannata al carcere per essersi rifiutata di arruolarsi nell’esercito israeliano, per la prima volta parla dell’incontro con i palestinesi, delle sue visite in Cisgiordania e di come la società israeliana reprime chi si trova sotto occupazione.

Martedì mattina, dopo aver comunicato il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano a causa delle sue politiche nei confronti dei palestinesi, l’obiettrice di coscienza israeliana Shahar Perets è stata condannata a 10 giorni di carcere militare.

Perets, 18 anni, della cittadina di Kfar Yona, è una dei 60 adolescenti che a gennaio hanno firmato la Lettera degli Shministim(iniziativa denominata con l’appellativo ebraico dato agli studenti delle superiori) in cui hanno dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nell’esercito in segno di protesta contro le politiche di occupazione e apartheid. Nel giugno 2020, è stata una dei 400 adolescenti israeliani che hanno firmato una lettera alla leadership israeliana chiedendo di porre fine ai suoi precedenti programmi di annettere parti della Cisgiordania occupata come parte del cosiddetto piano di pace di Trump.

Martedì mattina decine di sostenitori, tra cui il deputato della Lista Unita [formata da quattro diversi partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ofer Cassif, hanno accompagnato sia Perets che l’obiettore di coscienza Eran Aviv – che andrà per la quarta volta dietro le sbarre – presso il nucleo di reclutamento di Tel Hashomer nel centro di Israele, dove entrambi hanno detto all’esercito che non avrebbero prestato il servizio di leva. Aviv ha trascorso un totale di 54 giorni nel carcere militare per essersi rifiutato di prestare servizio nell’esercito. Perets e Aviv sono stati condannati ciascuno a 10 giorni dietro le sbarre. Dopo essere stati rilasciati dovranno tornare al centro di reclutamento e ripetere la procedura fino a quando l’esercito non deciderà di congedarli.

Il servizio di leva è obbligatorio per la maggior parte degli ebrei israeliani

Anche il padre di Shahar, Shlomo Perets, che è stato in prigione quattro volte per essersi rifiutato di prestare servizio militare in Libano e nei territori occupati, era lì per sostenere sua figlia. Queste sono le sue scelte, fa quello che ha deciso con coscienza, scrupolo e voglia di cambiamento. La sostengo e spero che riesca a non fare le cose che vanno contro i suoi principi e rifiuti di essere ciò che non è”.

Nei giorni precedenti alla sua condanna ho parlato con Perets delle ragioni del suo rifiuto, delle sue visite nei territori occupati e di cosa intenda portare con sé in prigione.

“Ho deciso di rifiutare [il servizio di leva] dopo aver partecipato in terza media a un incontro tra palestinesi e israeliani in un campo estivo”, mi ha detto Perets. Ho fatto la conoscenza di amici palestinesi, ho capito che non voglio ferirli, non voglio incontrarli da soldatessa e diventare il loro nemico. Non voglio prendere parte a un sistema che li opprime quotidianamente».

Che esperienze hai fatto in seguito a quel primo incontro con dei palestinesi?

Ho preso coscienza di ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Ho iniziato a conoscere meglio le realtà della vita palestinese e ho preso la decisione di non arruolarmi e di farlo pubblicamente”.

Le tue visite in Cisgiordania ti hanno aiutata a prendere la decisione sul rifiuto?

Sono stata in giro e ho anche partecipato a tutti i tipi di attività, tra cui il volontariato e l’aiuto agli agricoltori [palestinesi] nelle colline del sud di Hebron e la raccolta delle olive nella Cisgiordania settentrionale.

E’ un’esperienza difficile, ritorno sempre stravolta. Sta succedendo qualcosa di brutto e deve finire. Passare dall’osservazione di foto o dall’ascolto di testimonianze alla valutazione in loco è sconvolgente. Vedere gli insediamenti coloniali dove i bambini vengono attaccati mentre vanno a scuola. Vedere i luoghi che i palestinesi non possono raggiungere, ad esempio nelle colline a sud di Hebron nell’area C [sotto il pieno dominio militare israeliano].

Ho preso la decisione ben prima di trovarmi in Cisgiordania, ma è chiaro che vedere i soldati e i coloni in piedi davanti ai palestinesi mi ha chiarito che non voglio essere uno di quei soldati, non voglio indossare questa uniforme, che simboleggia la violenza e il dolore dell’esperienza dei palestinesi”.

Nell’ultimo anno hai parlato con molti adolescenti mentre ti preparavi a pubblicare la Lettera Shministim. Che tipo di reazioni hai avuto?

La risposta iniziale è sempre un po’ di timore, dal momento che nella maggior parte dei circoli di ragazzi e ragazze, nei movimenti giovanili e nelle scuole non c’è una discussione critica sull’esercito, sul reclutamento e sull’occupazione .

Sia i miei amici più intimi che la cerchia dei conoscenti sono rimasti sorpresi. La gente non sapeva che c’era un’opzione per non arruolarsi. Allo stesso tempo molti adolescenti, ragazzi e ragazze, potrebbero improvvisamente ritrovarsi su qualcosa, firmare la lettera. Voglio credere che questi incontri siano efficaci. Che diano [alle persone] molta forza e una vera alternativa.

Speri che il tuo rifiuto permetta agli adolescenti di vedere un’altra opzione?

Gli adolescenti incontrano i palestinesi per la prima volta da soldati, quando indossano uniformi e imbracciano armi. È chiaro che se ci fossero stati degli incontri con palestinesi a scuola o conversazioni sulla narrativa palestinese, le cose sarebbero andate diversamente.

Ovviamente questo fa parte della politica del sistema, dello stesso desiderio di dividere, di creare una realtà di ‘nemici’ e ‘terroristi’, invece di guardare tutti coloro che vivono qui – palestinesi e israeliani – e dire viviamo e creiamo sicurezza per tutti. Non facciamoci del male, smettiamo di uccidere e di essere uccisi».

Come ha reagito la tua famiglia?

Nel complesso sia i miei amici che la mia famiglia mi stanno davvero a fianco. Ovviamente non tutti sono contenti che io vada in prigione. È strano rispondere alla domanda “Qual è la prossima cosa che farai?” Tra una settimana andrò in prigione. Penso che chi mi è più vicino sia stato in grado di comprendere il mio rifiuto.

C’è il desiderio di trasmettere un messaggio anche ai palestinesi?

[Il messaggio è che] sebbene il movimento del rifiuto sia in minoranza, esiste e ha un’influenza. Alcune persone non sono disposte a contribuire a ciò che sta accadendo, resistono e agiscono in modo che gli altri sappiano [cosa sta accadendo].

Negli ultimi 50 anni gli adolescenti hanno pubblicato numerose lettere in cui hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare al servizio militare sia nei territori occupati che in generale. La prima lettera Shministim è stata pubblicata nel 1970 nel bel mezzo della guerra di logoramento tra Israele ed Egitto. La lettera Shministim pubblicata quest’anno è stata firmata da adolescenti che ci si aspetta finiscano dietro le sbarre o che altrimenti vengano esentati.

Peretz inizialmente ha intrapreso la procedura di arruolamento, ma si è fermata a metà e ha scelto di non richiedere un esonero dall’esercito.

“Ho deciso di non andare davanti al comitato per gli obiettori di coscienza, a una commissione medica o all’ufficiale dell’esercito per la salute mentale”, afferma Perets, “perché è importante per me rispettare i miei principi e non creare l’impressione che sia io il problema e che dovrei essere esentata [dal servizio]. Ho scelto di andare in prigione e partecipare a una campagna perché spero che raggiunga il maggior numero di persone. Spero che attraverso il mio rifiuto le persone riflettano sulla loro posizione in questa realtà”.

Pensi che oggi le persone, soprattutto adolescenti, non sappiano cosa sta succedendo nei territori occupati? Oppure lo sanno e scelgono di rimuoverlo?

Esiste una dimensione molto ampia della rimozione; la gente non sa o sa e non lo vuole riconoscere. La rimozione non sempre è un nostro difetto, è del ministero dell’Istruzione, del governo, di tutti i tipi di altre organizzazioni che non ne parlano [dell’occupazione]. Le lezioni di storia non parlano della narrazione palestinese. Ovviamente questo scoraggia le persone. Le persone si mettono fortemente sulla difensiva quando dico loro che non ho intenzione di arruolarmi. Lo prendono sul personale e si arrabbiano. Ciò proviene chiaramente da una qualche riluttanza a confrontarsi.

Come ti stai preparando per il carcere?

Negli ultimi tre anni ho fatto parte di una rete di donne che si rifiutano di prestare il servizio militare. Ho potuto discutere e riflettere su ciò che sta accadendo in prigione. Prima della mia prigionia, ho parlato con obiettori di coscienza che sono stati in carcere. Mi hanno aiutato a mettere insieme le liste delle cose da portare. Porterò molti libri, sudoku e album da colorare. Ho iniziato a studiare l’arabo, quindi porterò qualche quaderno per continuare a esercitarmi, se me lo permetteranno”.

Come funziona in pratica la procedura di rifiuto? Cosa succede il giorno del reclutamento?

Arriverò al centro di reclutamento delle IDF [forze di difesa israeliane: l’esercito israeliano, ndtr.] e rifiuterò di passare attraverso il percorso di arruolamento. Questo è il primo confronto con il sistema. Da lì sarò inviata a tutte le categorie di ufficiali per ogni sorta di conversazioni e tentativi di persuasione finché non capiranno [la mia posizione]. Ci sarà un processo nello stesso centro, dove decideranno la mia condanna [di solito tra 10 giorni e due settimane]. Dopo il processo sarò trattenuta in stato di detenzione fino a quando non sarò trasferita in carcere.

Dopo il mio rilascio rifiuterò di nuovo e subirò quindi un altro processo e sarò rispedita in prigione. So che è quello che farò nei prossimi mesi. Festeggerò il mio 19esimo compleanno in carcere”.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [gruppo di fotoreporter israeliani, palestinesi e internazionali impegnati contro oppressione, razzismo e discriminazione, ndtr.] e giornalista della redazione di Local Call [sito internet di informazione in lingua ebraica che fa capo alla redazione di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, sugli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli israeliani che sfidano le politiche antipalestinesi della sinistra tedesca

Mati Shemoelof

21 luglio 2021 – +972 magazine

Rifiutando l’orientamento filo-israeliano della sinistra tedesca un gruppo di ebrei israeliani di Lipsia sta sostenendo i palestinesi contro gli attacchi al loro attivismo.

Quando nel 2019 Michael Sappir si è trasferito a Lipsia, in Germania, aveva intenzione di partecipare alle attività della sinistra locale. Ma in quanto ebreo israeliano che ha passato anni in patria a militare contro l’occupazione israeliana è rimasto sorpreso di scoprire che spesso essere di sinistra in Germania significa essere schierato con lo Stato di Israele e partecipare ad attacchi violenti contro i sostenitori della causa palestinese.

Egli afferma che questi attacchi in città vengono per lo più da attivisti legati o ispirati da “Antideutsch” [Antitedesco], un movimento che fa tradizionalmente parte della sinistra radicale tedesca, ma che sta incondizionatamente dalla parte di Israele. Per Sappir la contraddizione tra i presunti valori della sinistra tedesca e sua posizione errata sui diritti dei palestinesi doveva essere affrontata.

Per questo Sappir, uno scrittore che sta conseguendo una laurea in filosofia e collabora con +972 Magazine, ha contribuito a fondare una nuova rete di ebrei israeliani di sinistra in Germania chiamata “Dissenso ebreo israeliano a Lipsia – JID”, che offre uno spazio agli attivisti ebrei per dimostrare solidarietà ai palestinesi nel criticare l’indiscusso appoggio della Germania a Israele.

Ho parlato con Sappir per la prima volta prima delle violenze scoppiate in Israele-Palestina a maggio e di nuovo un mese dopo riguardo alla creazione di JID, alla dannosa influenza di “Antideustch” a Lipsia, al fatto che la Germania mette a tacere l’attivismo filo-palestinese e al fatto di organizzarsi insieme ai palestinesi a Lipsia.

Chi ha dato vita alla rete di attivisti Jewish Israeli Dissent a Lipsia?

Ho formato il gruppo con pochi altri ebrei israeliani, la maggior parte dei quali erano politicamente attivi in Israele. Ho iniziato la scorsa estate dopo un incidente con il progetto locale di un collettivo femminista, in cui un piano dell’edificio (dove hanno la loro sede) è previsto per donne BIPOC [cioè black, indigenous e people of color, nere, indigene e di colore, ndtr.] e migranti e l’altro piano è per chiunque, per lo più tedeschi bianchi.

In pratica una rifugiata siriana è stata accusata di antisemitismo per aver criticato Israele. È stato un grande dramma, che ha incluso un comportamento minaccioso nei suoi confronti. È finita che molte donne migranti se ne sono andate.

La parte filo-israeliana l’ha avuta vinta ed ha fatto andare via le persone che volevano parlare di questo. Nella casa si è deciso di non parlare di Israele e di antisemitismo. Alcuni di noi ne hanno sentito parlare e sono rimasti orripilati.

Quindi nel luglio 2020 abbiamo deciso di organizzare un pomeriggio chiamato “Chiedeteci qualsiasi cosa”. È stata organizzata in particolare perché dei tedeschi ascoltassero il punto di vista della sinistra israeliana. Poi abbiamo deciso che avevamo bisogno di qualcosa per continuare, compreso un sito web e un nome con cui potessimo pubblicare reazioni alle cose che succedevano in città.

Quante persone ci sono nella vostra rete? Chiunque vi può partecipare?

Al momento siamo in sei. La rete è aperta a chiunque sia cresciuto in Israele e condivida i nostri principi. In termini israeliani ciò significa una prospettiva di sinistra che condivida le critiche alla storia di Israele. Se nuovi membri si vogliono unire a noi non possono dire che tutto andava bene fino al 1967 (l’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e delle Alture del Golan). Siamo molto critici riguardo a quello che è avvenuto prima.

Scegliere in nome “JID” sembra un richiamo alla parola “Yid”, un soprannome storicamente offensivo degli ebrei nell’Europa dell’est e in Russia.

Abbiamo discusso parecchio di questo. Sì, si tratta di un richiamo intenzionale, ma abbiamo capito che in effetti si sono trovate alcune interpretazioni diverse del termine. C’è la parola dell’Europa orientale “yid” – che in alcuni Paesi è un modo neutrale per dire “ebreo” e in altri è un insulto antisemita – a cui non avevamo pensato. In Paesi anglofoni in cui sono arrivate persone che parlavano in yiddish, esse chiamavano se stesse “yid”, ma quello è anche diventato (in seguito) un termine spregiativo per ebrei. Nella stessa Germania chi parlava yiddish si riferiva a se stesso come “yid”, però chi parla tedesco oggi non ha mai sentito questo termine prima. Abbiamo deciso che ci stava bene richiamarlo.

Quali sono i principali obiettivi dell’organizzazione?

Stiamo cercando di aprire uno spazio per voci come le nostre e per gente come noi, e soprattutto per i palestinesi, perché vediamo che ce n’è veramente poco per parlare di questi problemi da un punto di vista critico. È anche una questione per rafforzare noi stessi e altri, perché la sinistra a Lipsia aderisce al movimento Antideutsch. Ciò può essere molto escludente. Quando sono arrivato qui volevo proprio impegnarmi (nella sinistra), ma non è stato possibile perché c’erano troppe bandiere israeliane.

Cos’è Antideutsch?

Antideutsch è un movimento che viene dalla sinistra radicale tedesca che si concentra sull’appoggio incondizionato a Israele. A Lipsia sono dei fanatici. Alcuni non sono neppure più nella sinistra. La maggior parte di loro è vista come parte di “Antifa” [gruppo della sinistra radicale di origine statunitense, ndtr.]. E proprio come Antifa si oppone ai nazisti, Antideutsch-Antifa cerca di utilizzare le stesse tattiche contro chiunque veda come contestatore di Israele.

I gruppi antifascisti controllati da Antideutsch si oppongono alla solidarietà con i palestinesi nello stesso modo in cui si opporrebbero ai neo-nazisti: documentano tutto quello che fanno, a volte li minacciano individualmente, cercando di bloccare manifestazioni, mobilitando persone di sinistra per contro-manifestazioni. Passano un sacco di tempo in rete ad accusare gli attivisti solidali [con i palestinesi ndtr.] e a “spiegare” (spesso con argomenti dell’hasbara [la propaganda israeliana, ndtr.]) perché questo o quel gruppo o persona sia un pericoloso antisemita.

Fanno parte di un qualche partito?

Ci sono tendenze Antideutsch in tutta la sinistra, non si limitano a un partito o movimento. Di fatto oggi pochissime persone si considerano Antideutsch: alcuni si definiscono “ideologiekritisch” (critici dell’ideologia) e ce ne sono ancor di più che sono influenzati dalle loro idee ma che non fanno esplicitamente parte del movimento.

Come li contrastano i non sionisti e i palestinesi di Lipsia?

A Lipsia i palestinesi e le persone che solidarizzano con loro hanno difficoltà persino a protestare in pubblico. Gruppi Antideutsch sono riusciti a costringerli al silenzio. Ma ora c’è la sensazione che stiano perdendo forza e le manifestazioni durante la recente escalation in Israele/Palestina [si riferisce agli scontri del maggio 2021 a Gerusalemme, a Gaza e nelle città arabo-israeliane, ndtr.] lo hanno messo in evidenza: le manifestazioni filo-palestinesi sono state grandi il doppio e molto più vigorose delle contromanifestazioni filo-israeliane. In JID stiamo cercando di partecipare a questo cambiamento esponendo pubblicamente la nostra prospettiva critica di israeliani, e chiarendo che questa gente “filoisraeliana” non parla per noi e che non accettiamo quello che dicono riguardo alla nostra patria.

Come sono cambiate le cose dall’escalation a Gaza?

Abbiamo iniziato molto presto ad attivarci a maggio. In primo luogo abbiamo fatto una dichiarazione (in tedesco e in inglese) di solidarietà riguardo alla situazione. Ci siamo subito resi conto che è stata fatta circolare in giro nei circoli di attivisti e sulle reti sociali di Lipsia. Le persone l’hanno discussa, non solo in modo positivo, abbiamo avuto un sacco di reazioni negative da parte di attivisti Antideutsch. Ma quello che è importante è stato che se ne sia parlato.

Qual è stato il vostro ruolo come associazione di attivisti nelle manifestazioni che hanno appoggiato Sheikh Jarrah a maggio?

Abbiamo saputo di due manifestazioni previste a Lipsia. Una di pochi palestinesi organizzata in solidarietà con Sheikh Jarrah; alcuni di noi stavano parlando di andarci. Poi abbiamo visto che c’era una contromanifestazione organizzata con il nome “Contro l’antisemitismo: solidarietà con Israele”.

In JID abbiamo deciso che dovevamo rispondere. Tutti noi del gruppo in precedenza abbiamo partecipato alla lotta a Sheikh Jarrah, ed è stata anche molto importante per i membri delle nostre famiglie (che vivono a Gerusalemme) protestare insieme in solidarietà con il quartiere. Questa lotta è stata una questione molto personale per noi e ci siamo sentiti veramente insultati all’idea che questa lotta venisse definita “antisemita”, per cui abbiamo emesso un comunicato con un titolo provocatorio: “Il corteo in solidarietà con Israele non ha niente a che vedere con la solidarietà”.

Come hanno influenzato queste proteste la vostra dichiarazione e il vostro coinvolgimento?

Il giorno dopo ci sono state due manifestazioni nella Augustusplatz, nel centro di Lipsia. Abbiamo avuto una reazione molto positiva da parte di tedeschi di sinistra e altri di sinistra che vivono da molto tempo in Germania. Ci hanno detto che la nostra dichiarazione ha cambiato il modo di pensare di persone che (in origine) volevano andare alla manifestazione filo-israeliana, ma dopo averlo letto hanno deciso di starsene a casa.

C’era molto più vigore e il doppio di persone alla manifestazione filo-palestinese. È stata un’esperienza molto positiva. Mi sono sentito come se fossi tornato a casa in un posto che mi è molto familiare. C’è stato un contatto tra alcuni di noi e gli organizzatori. In seguito essi dal palco hanno annunciato che alla manifestazione era presente un gruppo di ebrei israeliani e che loro erano molto contenti di accoglierci e che fossimo con loro. Hanno detto molto chiaramente che il loro messaggio non è contro gli ebrei, ma contro le azioni di Israele.

All’inizio JID ha evitato di lavorare con altre organizzazioni. Cosa vi ha fatto cambiare la vostra decisione e iniziare a lavorare con gruppi palestinesi a Lipsia?

Prima di maggio ci siamo detti che non avremmo collaborato con altri gruppi. Ma appena abbiamo visto che era iniziata la (violenza) in Israele/Palestina, ci è risultato evidente che avremmo dovuto collaborare con associazioni palestinesi. Siamo qui per (essere) solidali con loro. Vogliamo lottare insieme ai palestinesi. Ci è sembrato molto naturale e giusto.

Credi che la solidarietà degli ebrei israeliani a Lipsia possa fermare la caccia alle streghe contro i militanti del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) in Germania?

Per noi è facile concentrarci su piccole cose come Antideutsch perché spesso condividiamo gli stessi spazi con loro. Ma tutto ciò rappresenta qualcosa di più grande. Essi sono molto in sintonia con la politica del governo tedesco e riflettono la risoluzione del Bundestag [il parlamento tedesco, ndtr.] sul BDS di due anni fa (nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione simbolica e non vincolante che definisce antisemita il movimento BDS).

Pensiamo che parte del problema sia che tutta la discussione su Israele/Palestina stia avvenendo in un vuoto, senza le prospettive di israeliani e palestinesi. C’è qualcosa di molto cinico e perverso nel pensiero dominante nella società tedesca riguardo a Israele/Palestina. I tedeschi dicono: “Le persone responsabili dell’antisemitismo sono straniere.” Vogliono vedere se stessi come illuminati e non antisemiti. Ma ciò è paradossale perché quando concentrano tutti i loro sforzi su Israele, stanno anche dicendo che il posto per il popolo ebraico non è qui. Una cosa è essere d’accordo con Israele, un’altra è dire che Israele è l’unica risposta all’antisemitismo, il che significa che non possiamo liberarci dell’antisemitismo in Germania e l’unica soluzione è che gli ebrei se ne vadano da qui.

Perché i tedeschi hanno paura di sentire voci critiche?

Ho l’impressione che i tedeschi amino vedersi come osservatori obiettivi. Stanno mettendo a posto il mondo, anche se solo in teoria. Appena entrano in contatto con persone che vivono la situazione lì, queste teorie crollano. Le nostre voci minacciano il tipo di ordine che hanno creato nella loro mente, le loro posizioni politiche e la loro possibilità, individuale e collettiva, di dire: “Abbiamo imparato dall’Olocausto, siamo una Nazione migliore, siamo i migliori amici degli ebrei.”

Credono di essere assolutamente consapevoli dei diritti umani, ma appena sentono parlare delle cose disumane che Israele sta facendo, ciò minaccia la loro identità, la loro concezione di se stessi e la loro possibilità di presentare la Germania come la forza trainante sulla scena progressista. La Germania esporta un grande numero di armamenti ed è coinvolta in ogni forma di oppressione e interferenza (straniera) nei Paesi poveri.

In Germania il campo progressista, ponendo sopra ogni cosa la questione israelo-palestinese, come spesso fa, pregiudica la possibilità di politiche realmente progressiste nel Paese. Continuiamo a sentire di come questo problema venga utilizzato per dividere la sinistra, persino qualche giorno prima dell’annuale corteo del Primo Maggio a Berlino. Tutta la manifestazione è stata dipinta come antisemita perché sono stati coinvolti i palestinesi.

I tedeschi sono restii a partecipare a un boicottaggio di Israele per via della memoria storica tedesca. Come vi rapportate a questo?

Capisco perché i tedeschi abbiano difficoltà con l’idea di boicottare uno Stato che si definisce lo “Stato ebraico”. Ma spero proprio che comprendano che ciò non riguarda loro. Mi auguro che vedano il BDS come una questione palestinese e appoggino la causa palestinese semplicemente perché i palestinesi meritano appoggio, e che le cose che vengono fatte a loro potrebbero essere fatte a qualunque altro popolo.

Mati Shemoelof è scrittore, poeta, attivista, autore e redattore che ora vive a Berlino, in Germania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’ANP ammette l’errore per la morte dell’attivista – poi continua a reprimere chi la critica

Dima Abumaria

27 luglio 2021 – +972 Magazine

L’Autorità Nazionale Palestinese si è assunta la responsabilità per l’uccisione di Nizar Banat, ma poi la sua repressione non ha fatto che aumentare, in alcuni casi arrivando alla tortura.

La sera del 5 luglio il giornalista radiofonico palestinese Akil Awawdeh stava seguendo una manifestazione a Ramallah, quando agenti della sicurezza palestinesi hanno iniziato a disperdere i manifestanti con eccessiva forza. Hanno attaccato e ferito gravemente Awawdeh, che è stato poi arrestato ed incarcerato. Egli ha riferito di essere stato nuovamente picchiato quando era sotto custodia e che gli sono state negate le cure per quasi due ore.

Dima Amin, un’attivista e medico anche lei arrestata nella stessa notte, ha testimoniato riguardo alle percosse a Awawdeh. Ha affermato di aver avvertito gli agenti che lui stava perdendo conoscenza. “Ho guardato Akil, che aveva un pessimo aspetto, e ho detto loro di smetterla e di permettermi di aiutarlo”, ha detto. “Mi sembrava che stesse per morire per colpa loro”.

I poliziotti hanno ignorato le sue richieste e hanno continuato a picchiare Awawdeh fino a quando non è più stato in condizione di muoversi, ricorda Amin. “Picchiavano e sferravano calci senza pensarci”, dice. “Io ho chiesto che lo trasferissero immediatamente in un ospedale”, continua, ma l’ambulanza è arrivata solo dopo 30 minuti.

Awawdeh ha detto che all’ospedale è stato avvicinato da un poliziotto in borghese che gli ha chiesto di non riferire ciò che gli era accaduto. Gli ha detto che in cambio la polizia non lo avrebbe accusato dell’aggressione di una poliziotta.

Ma io non sapevo di quale poliziotta stesse parlando”, ha detto Awawdeh in un’intervista telefonica, ancora con difficoltà di respirazione a causa delle ferite, giorni dopo essere stato attaccato. “È stato allora che ho capito che stavano complottando qualcosa per costringermi al silenzio.”

Dall’uccisione, il 24 giugno, dell’oppositore del governo Nizar Banat sotto custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese, migliaia di palestinesi sono scesi in piazza a protestare, in alcuni casi chiedendo le dimissioni del presidente Mahmoud Abbas. In risposta, l’ANP ha scatenato una brutale campagna di repressione. Agenti della sicurezza hanno preso di mira attivisti, giornalisti e avvocati, arrestando almeno 15 persone in un solo giorno. Nonostante l’incessante reazione all’uccisione di Banat, gli avvocati dei diritti umani affermano che le forze di sicurezza palestinesi continuano ad aggredire i detenuti, in alcuni casi arrivando alla tortura.

Sento ancora le loro suppliche’

Il 5 luglio famigliari e sostenitori hanno organizzato un sit-in fuori dalla stazione di polizia Ballou a Ramallah per protestare contro l’arresto di sei palestinesi che avevano organizzato una manifestazione pacifica in città all’inizio della giornata. Secondo il resoconto di Amnesty International della protesta, la polizia palestinese inizialmente ha cercato di disperdere i dimostranti persuadendoli ad andarsene. Al loro rifiuto i poliziotti gli hanno dato un preavviso di 10 minuti e poco dopo la polizia antisommossa ha iniziato ad attaccare i manifestanti.

Appena io e la mia squadra siamo arrivati alla manifestazione, ci siamo presentati alle forze di sicurezza mostrando i nostri tesserini di giornalisti. Poi abbiamo incominciato le riprese in diretta dell’evento”, ha raccontato Awawdeh. Ma, ha affermato, che pochi minuti dopo gli si è avvicinato un poliziotto informando che il luogo era una “zona di sicurezza” e perciò non era consentito filmare.

Abbiamo ubbidito agli ordini e abbiamo interrotto la diretta sui social media”, ha detto Awawdeh. Quando è arrivata la polizia antisommossa, egli ha affermato, si è reso conto che la situazione si stava scaldando ed ha intimato alla sua equipe di allontanarsi di lì immediatamente. Ma prima che lui potesse andarsene i poliziotti lo hanno aggredito.

Appena è arrivata la polizia antisommossa gli eventi sono precipitati violentemente e i manifestanti sono stati attaccati con assoluta crudeltà”, ricorda Awawdeh. “Il primo colpo l’ho ricevuto da un poliziotto antisommossa che mi ha colpito forte col manganello al petto. Poi un altro poliziotto mi ha nuovamente picchiato nello stesso punto con lo scudo in vetro.”

In oltre dieci anni di reportage dalla Cisgiordania, Awawdeh non aveva mai visto una simile brutale repressione, ha detto. Ha visto poliziotti gettare a terra bambini, sparare candelotti lacrimogeni contro anziani e trascinare i manifestanti nelle auto della polizia per arrestarli.

Ancor oggi continuo a vedere le loro facce e sentire le loro voci e suppliche. Rimbombano nella mia testa”, ha affermato. “Non dimenticherò mai quel giorno. Non dimenticherò mai ciò che ho visto.”

L’impunità alimenta la repressione

L’ANP ha una storia pluriennale di arresti arbitrari, maltrattamenti e tortura, dice Omar Shakir, il direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch. L’organizzazione continua a fare ricerche sui più recenti attacchi governativi contro palestinesi, ma nel 2018 HRW ha pubblicato un rapporto che documenta il sistema dell’ANP di repressione di chi la critica e degli oppositori del governo.

Saleh Hijazi, vicedirettore regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nordafrica, sottolinea che ci sono stati precedenti casi di morti sotto custodia, con evidenti prove di torture, citando Haithan Amer come esempio. Amer, un infermiere di 33 anni che l’ANP sospettava di essere un militante di Hamas, morì nel 2009 mentre era detenuto dalle forze di sicurezza palestinesi a Hebron. Le autorità non lo avevano incriminato per alcun reato né motivato il suo arresto. Un processo in un tribunale militare del 2010 assolse i poliziotti accusati dell’uccisione di Amer, sostenendo la “mancanza di prove”, benché un referto autoptico ufficiale palestinese avesse determinato che la causa della morte era stata la tortura.

Nel 2018 agenti palestinesi in borghese hanno aggredito un collega di Hijazi, Laith Abu Zeyad, che stava documentando una protesta contro le sanzioni che l’ANP aveva imposto alla Striscia di Gaza sotto assedio. I poliziotti hanno preso il telefono di Abu Zeyad e lo hanno arrestato insieme ad almeno altre 18 persone, alcune delle quali sono state torturate dalla polizia palestinese mentre erano sotto custodia, afferma Hijazi.

Secondo Talal Dweikat, portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, il rapporto sulle torture di HRW e simili resoconti di altre organizzazioni non sono né accurati né corretti. “I rapporti contengono falsità e inesattezze”, ha detto in un’intervista telefonica.

Dweikat ha ammesso che l’ANP è responsabile della morte di Banat, dato che un’inchiesta ufficiale ha dimostrato che è morto sotto la sua custodia. “I responsabili dell’uccisione di Banat erano militari [in realtà ufficialmente l’ANP non ha un esercito, ndtr.], perciò il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh li ha consegnati al tribunale militare e verranno perseguiti in un processo pubblico”, ha detto.

Ha aggiunto che i palestinesi hanno il diritto di protestare, ma “i manifestanti hanno insultato in modo pesante le forze di sicurezza e chiesto le dimissioni del presidente.” Ha continuato: “I dimostranti erano furiosi per l’uccisione di Banat, che neppure noi abbiamo accettato ed abbiamo seguito la legge relativamente all’incidente. Ora, quale ragione sta dietro alle richieste di dimissioni di Abbas e di scioglimento dell’ANP?”.

Interpellato riguardo alla repressione delle proteste e alle violenze documentate alla stazione di polizia Ballou, Dweikat ha sollecitato le persone che sono state aggredite a sporgere denuncia presso il tribunale militare. “Non saremo mai in grado di stabilire questi comportamenti se i cittadini non parlano chiaramente e non fanno qualcosa a riguardo”, ha detto.

Ma, secondo Hijazi di Amnesty, le vittime e i difensori dei diritti umani hanno perso la fiducia nel sistema giudiziario palestinese. “Parallelamente al sistema di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza, abbiamo anche riscontrato una quasi totale mancanza di attribuzione di responsabilità ed è questa impunità che alimenta e permette alla repressione e alla tortura di continuare”, ha detto.

Per ripristinare questa fiducia e spezzare il cerchio dell’impunità, il presidente Mahmoud Abbas, l’unico che ne ha l’autorità ed il potere, deve ordinare un’indagine indipendente, imparziale, trasparente ed efficace sugli eventi, a partire dalla morte sotto custodia dell’attivista politico Nizar Banat, e dalla copertura della brutale campagna di repressione scatenata dalle forze di sicurezza che ne è seguita. L’indagine deve consegnare alla giustizia i colpevoli e garantire un risarcimento alle vittime”, ha detto Hijazi.

Ansiosi e spaventati’

Ubai Aboudi, capo del Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo di Ramallah, era uno degli organizzatori della protesta del 5 luglio. Ha detto che appena arrivato a piazza Al-Manara, dove si stavano radunando i manifestanti, è stato arrestato.

Noi, come gruppo di palestinesi, eravamo là per chiedere i nostri diritti di libertà di espressione e soprattutto che si svolgessero le elezioni”, ha detto il 37enne padre di tre figli. “Siamo arrivati intorno alle 7 del pomeriggio e siamo stati immediatamente arrestati in due gruppi, cosa che mi fa pensare che fossimo nel mirino delle forze di sicurezza già prima del nostro arrivo.”

Aboudi ricorda che alla stazione di polizia Ballou è stato avvicinato da un poliziotto che si è scusato per l’arresto e gli ha detto che si trattava di una decisione presa a livello politico.

Quando la moglie di Aboudi, Hind Shraydeh, ha saputo del suo arresto, ha deciso di andare alla stazione di polizia a cercarlo, insieme ai suoi figli, a suo suocero e a suo cognato. Ha anche postato su Facebook la notizia dell’arresto. “Ero spaventata a morte perché proprio qualche giorno prima le forze di sicurezza palestinesi avevano ucciso Nizar Banat”, ha detto.

Quando è arrivata ha visto che anche altri famigliari si erano radunati davanti alla stazione di polizia, come anche attivisti, giornalisti ed avvocati. Subito un agente in borghese si è avvicinato a Shraydeh chiedendole di andarsene, ma lei si è rifiutata. Poi i poliziotti hanno accusato le famiglie di bloccare la strada. “Nessuno di noi era in mezzo alla strada, eravamo sul marciapiede”, ha aggiunto.

Pochi minuti dopo, la polizia antisommossa ha attaccato le persone radunate fuori dalla stazione. Shraydeh è andata in diretta su Facebook per documentare la violenza, prima di essere arrestata lei stessa. Ha detto che tre poliziotti le hanno tirato i capelli e le hanno spruzzato spray al peperoncino. Cercavano il suo telefono, che lei è riuscita a nascondere.

Mi hanno picchiata, mi insultavano ed hanno rotto la mia collana con il nome di mio figlio”, ha continuato. “Ricordo che guardavo i miei figli, che stavano urlando terrorizzati. Ricordo che cercavo mio cognato, che è anziano e ha il diabete e la pressione alta”.

Dentro la stazione di polizia un agente ha minacciato Shraydeh dicendole di firmare un documento di impegno a rispettare la legge, oppure sarebbe rimasta separata dai suoi figli tutta la notte. “Ho avuto la sensazione che mi ricattasse, dicendomi che dovevo firmare questa carta per poter vedere i miei figli”, ha detto.

Shraydeh era convinta di non aver violato alcuna legge e si è rifiutata di firmare. È stata rilasciata circa a mezzanotte. Suo marito è stato rilasciato il giorno dopo, con accuse di assembramento illegale. La sua udienza in tribunale è fissata il 2 settembre.

I loro figli adesso hanno paura della polizia, ha detto Aboudi. “La vedono come una forza che attacca i civili e non che garantisce la sicurezza.”

Mio padre mi ha detto di avere avuto molta paura che avrei fatto la stessa fine di Nizar Banat”, continua Aboudi. “Dopo l’omicidio di Banat da parte delle forze di sicurezza, la gente qui è diventata ansiosa e davvero spaventata.”

Dima Abumaria è una giornalista palestinese con oltre sei anni di esperienza nel giornalismo e nella comunicazione. La signora Abumaria è laureata in Scienze Politiche e Giornalismo all’università di Birzeit a Ramallah. Negli ultimi quattro anni ha lavorato come corrispondente per le questioni arabe dalla Cisgiordania e da Israele per un’agenzia di notizie americana. Inoltre ha contribuito a coordinare e condurre visite di delegazioni di alto livello in Cisgiordania e Israele allo scopo di renderle edotte sul conflitto in atto. Precedentemente Abumaria ha lavorato nel dipartimento di informazione di Sky News Arabia [canale arabo di notizie da Medioriente e Nordafrica, ndtr.], dove era responsabile delle notizie e delle edizioni straordinarie. Ha anche partecipato alla produzione di notizie e materiali per la televisione.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Non si paga nessun prezzo per la distruzione di un villaggio palestinese?

Sarit Michaeli

26 luglio 2021 +972 Magazine

I diplomatici vedono che il nuovo governo israeliano continua ad espellere i palestinesi. Per quale motivo gli Stati continuano a tributare onori a chi compie questi crimini?

Negli annali dei tentativi israeliani di espellere comunità di pastori palestinesi nella Cisgiordania occupata, un ruolo centrale è svolto dalla burocrazia, coi suoi uffici dotati di aria condizionata, e dalle aule di tribunali. Le udienze della Corte Suprema di Israele, che quotidianamente autorizza la politica di espulsione del governo e le ordinanze di demolizione dell’Amministrazione Civile, forse non sono spettacolari come la vista del bulldozer che distrugge tende e cisterne, o della gru che solleva le macerie per depositarle in un camion. Ma è su questi magistrati, politici, e generali che ricade la maggiore responsabilità di queste distruzioni e sofferenze.

Eppure a volte basta un’immagine sola presa sul campo per ottenere il quadro globale della politica condotta da Israele per perseguitare alcune delle comunità palestinesi più svantaggiate della Cisgiordania con l’unico obiettivo di portarle alla disperazione, cacciarle via dalle loro case e comunità, per impadronirsi delle loro terre. E’ un momento topico che mette in luce tutto, chiaro come il sole che in estate picchia cocente sulla Valle del Giordano.

Lo scorso 7 luglio camion, bulldozer e altri mezzi pesanti israeliani sono arrivati in località Khirbet Humsa, un borgo di pastori formato da quattro gruppi di tende e catapecchie in cui vivono 61 persone, di cui 34 sono minori. I soldati, gli agenti della polizia di frontiera e gente assoldata dall’Amministrazione Civile – il ramo dell’esercito israeliano che controlla la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione – hanno iniziato senza perdere tempo la loro opera di distruzione.

Le donne delle famiglie Abu al-Kabash e Awawdeh, che si trovavano a casa mentre gli uomini erano fuori a pascolare le greggi, hanno visto i bulldozer che dopo aver tirato e strappato i pali metallici e i rivestimenti di plastica delle tende li trasferivano nei camion. Stavano a guardare mentre il conducente del bulldozer spaccava prima i serbatoi delle acque nere e poi ne buttava giù uno di acque bianche prima di colpirlo ripetutamente sul terreno arido, attento che non ne restasse più niente.

Parte degli avvenimenti è stato ripreso da una donna della comunità con un cellulare avuto in precedenza dagli attivisti di Machsom Watch [associazione di volontarie israeliane che monitora la vita dei palestinesi sotto occupazione, ndtr] prima che la batteria si esaurisse. Più in là c’erano attivisti palestinesi provenienti da altre parti della Valle del Giordano, ricercatori di B’Tselem [Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, ndtr], operatori umanitari, personale ONU e diplomatici europei che documentavano. I soldati non li hanno lasciati avvicinare.

Dopo che i bulldozer hanno finito di schiacciare le tende e i recinti degli animali del villaggio, i lavoratori a contratto si sono dedicati agli effetti personali dei residenti. Per ore hanno caricato sui camion tutto ciò che si trovava nelle case appena distrutte: mobili, materassi, abiti, fornelli, cibo. Poi i camion si sono diretti in località Ein Shibli, ai margini dell’Area C della Cisgiordania, quella sotto totale controllo militare israeliano, dove hanno scaricato il tutto. Israele sta cercando di spostare i residenti espulsi proprio qui, nonostante essi rifiutino strenuamente di spostarsi da nessuna parte, men che meno a Ein Shibli, dove la mancanza di pascoli gli impedirebbe di continuare a vivere secondo le loro tradizioni.

Gli abitanti di Humsa hanno dovuto trascorrere la notte solo con i vestiti che avevano indosso, privi dei servizi basilari e di un riparo. Era la sesta volta nell’ultimo anno che la comunità ha dovuto opporre resistenza per non essere espulsa da Israele. Anche se questa demolizione è stata forse più spudorata delle altre, la giustificazione è rimasta invariata: negli anni Settanta Israele aveva designato l’area come “zona di tiro” – poco importa se ciò violava le leggi internazionali.

Nessuna ripercussione

La distruzione di Humsa non è un’aberrazione. E’ la norma che Israele ha stabilito. E’ parte dell’ininterrotta politica dei governi israeliani che creano condizioni di vita insostenibili per i palestinesi con l’obiettivo di cacciarli dalle loro case, concentrarli in enclave, ed impadronirsi delle loro terre senza problemi. Cercare di trasferire con la forza persone prive di protezione costituisce crimine di guerra per il diritto internazionale umanitario, ed è tale per lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale dell’Aia.

La responsabilità di questo crimine è di chi lo ordina, approva e controlla: i funzionari del governo, i comandanti militari di alto livello, le alte cariche nell’Amministrazione Civile, e i magistrati della Corte Suprema che forniscono l’approvazione legale. In effetti, quando la Corte Penale Internazionale prenderà in considerazione i trasferimenti forzati [di popolazione] come parte della sua indagine sui potenziali crimini di guerra israeliani, dovrà accertare tutte le responsabilità di chi ha reso possibile tale crimine.

Alle precedenti demolizioni della comunità sono seguite visite da parte di delegazioni di alti diplomatici dell’Unione Europea. Questi hanno detto ai residenti che la UE sostiene la loro lotta per la terra e si oppone alla politica di Israele. Gli ambasciatori della UE hanno ripetuto questo messaggio tramite un’iniziativa formale presso il governo di Israele, che ha scelto di ignorarlo e di andare avanti – scelta che non ha provocato alcuna ripercussione da parte europea.

Anzi, è vero il contrario. Dopo l’ultima demolizione in ordine di tempo di Humsa, il ministro degli esteri Yair Lapid è stato accolto con ogni onore al Consiglio Affari Esteri della UE, composto dai ministri degli esteri degli Stati membri. Secondo quanto riferito, l’Unione Europea ha convenuto di accettare Israele in “Creative Europe”, uno strumento finanziario europeo per sostenere l’arte, che proibisce di finanziare le colonie, quando Israele dichiara pubblicamente di respingere la posizione UE sull’illegalità delle colonie. Gli Stati Uniti, che con la presidenza di Joe Biden hanno ripreso a parlare della soluzione dei due Stati e di diritti umani, non hanno detto alcunché sugli eventi di Humsa.

La notte del sette luglio, dopo una giornata di distruzioni, un bulldozer militare è ritornato in zona per seppellire i rottami e detriti abbandonati. Khirbet Humsa è stato cancellato dalla faccia della terra. Ai margini della zona, i residenti cercano di aggrapparsi alla loro terra in ripari di fortuna. Dopo la distruzione, di tanto in tanto arrivano in zona attivisti palestinesi ed israeliani, oltre ad operatori umanitari. I soldati che pattugliano con i loro fuoristrada li avvisano di non entrare nella zona chiusa.

I residenti di Humsa non riusciranno a sopportare le condizioni attuali ancora a lungo. Con i loro atti i responsabili di governo della cosiddetta “coalizione del cambiamento” di Israele hanno reso ampiamente chiaro di non avere alcuna intenzione di rinunciare alla politica di espulsioni e distruzioni. La chiave ce l’ha soltanto la comunità internazionale. Farà capire ad Israele che danneggiare Humsa e le altre comunità palestinesi ha un prezzo, oppure i suoi richiami ancora una volta non saranno altro che vuota retorica?

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in ebraico su Local Call. Clicca qui per leggerlo.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




“Aprire Gaza immediatamente,” dice il gestore del valico fra Israele e Gaza

Meron Rapoport

21 giugno 2021 – +972 Magazine

Il responsabile del valico di Erez dimostra l’inconsistenza del mito che le restrizioni su Gaza tutelino la sicurezza ed è convinto che Israele dovrebbe trattare direttamente con Hamas.

Aprire Gaza “è chiaramente nell’interesse di Israele,” ha affermato Shlomo Tzaban, gestore del valico di Erez fra Israele e Gaza, durante un discorso tenuto agli studenti dell’Università Ben-Gurion la settimana scorsa.

“Gaza deve essere riaperta immediatamente, senza contropartite su prigionieri, persone scomparse e Hamas,” ha detto. “Se apriamo [Gaza] oggi, non ci saranno attacchi suicidi e Hamas verrà fortemente indebolito”.

Tzaban, che gestisce il punto di ingresso e uscita dei civili fra Israele e Gaza da quando esso è stato privatizzato nel 2006, è stato invitato ad intervenire ad una lezione di storia su Gaza curata da Yonatan Mendel e Dotan Halevi. Nel discorso registrato recensito da Local Call [sito in ebraico di +972, ndtr] Tzaban, che si è presentato come “il gestore dell’intera Gaza,” ha confutato la posizione di molti politici israeliani sulla Striscia e ha dimostrato l’inconsistenza dei miti sulla sicurezza che vengono comunemente utilizzati per giustificare l’assedio imposto da Israele a partire dal 2007. Il valico meridionale di Rafah che Gaza condivide con l’Egitto è l’unico valico di cui Israele non abbia il controllo.

Nel corso della lezione Tzaban ha insistito sulla necessità dello sviluppo e della prosperità di Gaza – riecheggiando la posizione di molti ex ufficiali militari israeliani che hanno criticato la politica di mantenimento del blocco. “Se le cose andranno male a Gaza, andranno male in Israele,” ha sostenuto.

Nel suo discorso Tzaban ha illustrato la storia della Striscia dal 1948 “così come viene raccontata dai gazawi,” ha detto. I palestinesi di Gaza ricordano il dominio dell’Egitto dal 1948 al 1967 “come un olocausto,” mentre gli anni fra l’occupazione israeliana di Gaza dal 1967 fino all’inizio della prima Intifada del 1987 sono considerati un periodo prospero. “Essi [i palestinesi] ricordano questi anni con le lacrime agli occhi,” ha sostenuto.

In seguito alla prima Intifada, però, quando Israele impose restrizioni di movimento ai palestinesi di Gaza, si è presa una “brutta china” che ha fatto diventare la Striscia un territorio da “quinto mondo”, ha spiegato Tzaban.

Dallo scorso maggio, dall’ultima operazione militare israeliana, nel corso della quale Israele ha ucciso più di 250 persone a Gaza e Hamas ne ha uccise 13 in Israele, la situazione nella Striscia si è estremamente deteriorata, ha affermato Tzaban. Prima degli undici giorni di guerra, circa 700 camion consegnavano quotidianamente merci a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, ha detto. Tuttavia, secondo dati raccolti nei territori occupati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) [creato nel 1991 per dare un efficace pronto intervento durante le crisi umanitarie e coordinare le agenzie ONU durante le catastrofi, ndtr], nel 2019 erano circa 300 i camion che entravano a Gaza, e Israele continua a limitare fortemente, arrivando spesso a proibirlo del tutto, l’ingresso di merci essenziali per l’industria, il settore edilizio e altre esigenze della popolazione civile. E tuttavia, alla data della conferenza, soltanto 130 camion al giorno vengono autorizzati ad entrare, ha affermato Tzaban, dato in linea con quello di 4.300 carichi rilevato dall’OCHA lo scorso mese.

“Gaza è un problema di Israele”

Ad una domanda sulla “politica di separazione” di Israele fra Gaza e la Cisgiordania, Tzaban ha risposto che, mentre giova alla Cisgiordania, questa politica “è pessima per Gaza.” L’apertura di Gaza, ha aggiunto, sarebbe molto vantaggiosa per Israele. “E’ nell’interesse di Israele che 200.000 gazawi entrino oggi [in Israele] per costruire case e dare sostegno economico ai 2,2 milioni di palestinesi [che vivono nella Striscia] che non hanno nulla a che vedere col conflitto,” ha affermato.

Tzaban si è mostrato assolutamente convinto che l’apertura di Gaza non comporti rischi per la sicurezza: “Dal 2006 ad oggi ho autorizzato nove milioni di palestinesi ad entrare da Gaza in Israele. Ci sono state zero vittime e zero terroristi,” ha dichiarato. “Se si aprono i valichi, non ci sarà neppure un attacco suicida.”

Lo Shin Bet, l’agenzia israeliana di sicurezza interna, “sa distinguere fra buoni e cattivi,” ha detto Tzaban, e Israele “dispone delle migliori tecnologie al mondo” per controllare chi entra in Israele. “Dobbiamo fargli [ai palestinesi] provare ciò che hanno conosciuto fra il 1967 e il 1987, i benefici dell’economia, dell’occupazione, del livello di vita, e restituirgli la dignità,” ha aggiunto.

Tzaban ha pure espresso fermo sostegno per un coordinamento diretto con Hamas. “Non lo dico da oggi: dobbiamo portare Hamas al valico di Erez, dobbiamo portare qui i loro funzionari,” ha affermato.

“Sapevate che prima del 1987 il leader [e cofondatore] di Hamas Ahmad Yassin ed altri, visitavano liberamente la Kirya? – ha osservato Tzaban, facendo riferimento al complesso militare a Tel Aviv. “Dovete rendervi conto: gli accordi si fanno coi nemici, non c’è bisogno di accordi con gli amici. Sono favorevole all’uso di mediatori, ma bisogna anche comunicare direttamente [con Hamas], come abbiamo fatto per gli Accordi di Oslo [firmati nel 1993 fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr].”

A proposito di Hamas, se Tzaban ha dichiarato da un lato che “le organizzazioni terroristiche vanno distrutte e i capi terroristici spazzati via”, ha contestualmente sostenuto che l’apertura dei valichi fra Israele e Gaza è nell’interesse comune. “Hamas non impedirà agli abitanti di Gaza di entrare in Israele,” ha ipotizzato.

“Fra cinque anni ci saranno tre milioni di palestinesi residenti a Gaza nello spazio di 365 chilometri quadrati [141 miglia quadrate].” ha dichiarato Tzaban. “Gaza è un problema israeliano, non palestinese.”

Ha quindi aggiunto: “Se non troviamo una soluzione, grazie ad un immenso coraggio, e creatività, nonché l’impegno di tutti i Paesi del mondo – USA, Unione Europea, il Quartetto [gruppo creato nel 2002 per favorire una soluzione alla questione israelo-palestinese che comprende ONU, USA, UE e Russia, ndtr] ed altri – continueremo a passare da uno scontro all’altro, da un conflitto all’altro, da una guerra all’altra, che coinvolgeranno anche i nostri nipoti e pronipoti,” ha detto Tzaban. “[Non farlo] non aiuterà – sinistra, destra, falco, colomba. Dobbiamo attivarci qui, aprire le porte di Gaza e nell’arco di un decennio non ci sarà più un’organizzazione terroristica.”

I docenti del corso Mendel and Halevi hanno dichiarato di non avere diffuso loro il discorso di Tzaban alla stampa. Hanno spiegato che questo è il secondo anno che propongono il corso sulla storia di Gaza, in cui hanno invitato oltre venti esperti su Gaza. Gli studenti hanno ascoltato studiosi israeliani, palestinesi e internazionali; esperti sul campo; membri dell’ex colonia ebraica di Gush Katif, evacuata da Israele nel 2005; giornalisti; artisti; rappresentanti dell’ONU e persino funzionari governativi. “Neppure uno dei relatori ha ritenuto sostenibile l’assedio di Gaza,” si sostiene nella dichiarazione.

Alla richiesta di commentare le osservazioni di Tzabar, un portavoce del Ministero della Difesa israeliano ha dichiarato che “Tzaban ha esposto le proprie opinioni personali, che non rappresentano le posizioni del Ministero della Difesa.”

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Coloni sparano ad un palestinese e ne mutilano il corpo mentre giace in fin di vita

Basil al-Adraa e Yuval Abraham

8 giugno 2021 – +972 MAGAZINE

Testimoni affermano che dei coloni israeliani avrebbero sparato a Ismail Tubasi e lo avrebbero aggredito con oggetti appuntiti nel corso di una loro irruzione nel suo villaggio in Cisgiordania. Nessuna inchiesta è stata aperta.

Ismail Tubasi è stato ucciso venerdì 14 maggio, appena a sud di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Tubasi, 27 anni, del villaggio palestinese di al-Rihiya, è stato trasportato gravemente ferito in un ospedale locale, dove ne è stato constatato il decesso.

Secondo le prove raccolte da Local Call [sito di notizie in lingua ebraica co-fondato e co-redatto da Just Vision e 972 Advancement of Citizen Journalism che pubblica anche +972 Magazine, ndtr.], sembra che Tubasi sia stato colpito con armi da fuoco da coloni israeliani, forse in compagnia di soldati, e dopo, mentre era a terra incapace di muoversi, brutalmente aggredito con oggetti appuntiti.

Secondo due testimoni i coloni avrebbero sparato a Tubasi dopo aver iniziato ad appiccare il fuoco a campi e alberi di proprietà palestinese ad al-Rihiya [città palestinese situata a sei chilometri a sud-ovest di Hebron, ndtr.]. I testimoni oculari hanno detto che Tubasi e altri palestinesi si sarebbero recati nei campi per cercare di spegnere le fiamme. Lì dei coloni armati di pistole, asce e bastoni avrebbero iniziato a inseguirlo, dopo di che i testimoni avrebbero sentito una serie di colpi di pistola.

Uno dei testimoni, il nipote di Tubasi, ha detto di aver visto suo zio steso a terra dopo che era stato colpito da un proiettile, ma non avrebbe notato nessuna ferita sul viso. Il nipote sarebbe poi fuggito dal luogo per paura che i coloni, che si stavano avvicinando a Tubasi ferito, se la prendessero anche con lui.

Tuttavia mezz’ora dopo, quando Tubasi è giunto in ospedale, il suo volto era sanguinante per ferite fresche e profonde, che non c’erano quando gli hanno sparato. Secondo la testimonianza, Tubasi sarebbe stato aggredito con un oggetto appuntito mentre non era in grado di muoversi.

Tubasi è stato trasportato all’ospedale Shaheed Abu Hassan al-Qassam nella città di Yatta, in Cisgiordania, dove ne è stato dichiarato il decesso. Secondo il referto dell’ospedale il corpo di Tubasi non aveva una ferita d’uscita del proiettile. Il referto dice anche che egli è stato ferito alla fronte da due oggetti appuntiti, uno lungo 20 centimetri e l’altro sette centimetri. Secondo il referto la causa della morte è stata un proiettile che ha colpito Tubasi alla testa. Il referto, che include una foto del corpo del deceduto, è stato visionato da Local Call e +972.

In Cisgiordania i coloni israeliani aggrediscono regolarmente i palestinesi, bruciano le loro coltivazioni e alberi e danneggiano le loro proprietà. Il gruppo per i diritti umani Yesh Din afferma di aver ricevuto 216 denunce di violenze compiute da coloni tra gennaio 2020 e giugno 2021. Un recente rapporto dell’organizzazione ha elencato 63 casi di gravi aggressioni tra il 2017 e il 2020. In nessuno di questi casi è stata avviata una procedura d’accusa contro gli aggressori.

L’esercito israeliano si è rifiutato di fornire una risposta ufficiale riguardo l’episodio, ma fonti militari hanno riferito alla Israeli Public Broadcast Corporation [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] (che ha raccolto la storia in seguito alle indagini iniziali di Local Call) che i soldati sarebbero arrivati ​​sul luogo dopo la sparatoria. Secondo le stesse fonti, l’esercito ha riferito alla polizia che un palestinese era stato effettivamente ucciso, ma la polizia deve ancora iniziare ad indagare.

Sebbene la brutale violenza dei coloni sia pervasiva è abbastanza raro che tali aggressioni conducano all’uccisione delle vittime. Secondo il gruppo per i diritti umani B’Tselem dal 2014 civili israeliani avrebbero ucciso 30 palestinesi residenti in Cisgiordania, molti dei quali durante presunti tentativi da parte di palestinesi di accoltellare israeliani o lanciare pietre contro veicoli israeliani.

Nel novembre 2017, ad esempio, i coloni hanno ucciso a colpi di arma da fuoco Mahmoud Za’al Odeh, del villaggio di Qusra [15 km a sud est di Nablus, ndtr.], sostenendo di essere stati attaccati con pietre mentre si trovavano sulla sua terra. Uno dei casi più infami di violenza mortale dei coloni è l’omicidio nel luglio 2015 dei membri della famiglia Dawabshe, bruciati vivi nelle loro case nel villaggio di Duma mentre dormivano.

La morte di Tubasi è avvenuta in un giorno di manifestazioni di massa in tutta Israele-Palestina, compresa la Cisgiordania, per protestare contro gli attacchi israeliani a Gaza e le violenze contro i cittadini palestinesi all’interno di Israele. Secondo il ministero della Sanità palestinese, quel giorno le forze di sicurezza israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] avrebbero ucciso in varie località della Cisgiordania 11 palestinesi. Sulla base di testimonianze palestinesi gruppi di coloni, spalleggiati da un piccolo numero di soldati, avrebbero assaltato, oltre che al-Rihiya, quattro villaggi in Cisgiordania: Urif, Asira al-Qabliya, Eskaka e Marda. La morte di Tubasi per mano dei coloni smentisce l’affermazione del ministero della Sanità palestinese che attribuiva ai soldati israeliani la responsabilità della morte degli 11 palestinesi.

Secondo gli amministratori di queste quattro località, gli assalti dei coloni hanno portato a scontri di massa e all’uso di armi da fuoco contro palestinesi da parte sia dei coloni che dei soldati. Secondo quanto riferito quattro giovani palestinesi, uno in ogni località, sarebbero stati uccisi in questo modo mentre decine di altri palestinesi sarebbero rimasti feriti. “Sono venuti per uccidere”, ha detto Hafez Saleh, l’amministratore di Asira al-Qabliya.

“L’esercito ha visto tutto, ma non è intervenuto”

Secondo tre testimoni oculari con cui ha parlato Local Call, il 14 maggio alle 14 diverse decine di coloni sarebbero arrivati ​​dalla direzione di Beit Hagai, una colonia israeliana situata a 700 metri da al-Rihiya, e avrebbero iniziato ad incendiare i campi e gli alberi del villaggio, entrando persino nell’abitato. Gli abitanti del villaggio li avrebbero identificati come coloni in quanto vestiti da civili, con addosso la kippah e alcuni con riccioli sui lati del volto. Gli abitanti del villaggio hanno detto che quando hanno cercato di spegnere il fuoco sarebbero stati picchiati dai coloni. I soldati israeliani sarebbero arrivati ​​sul posto senza intervenire.

“Mi sono svegliato a casa con la gente che urlava: ‘Al fuoco, hanno appiccato un fuoco’”, ricorda Kazem al-Hallaq, un abitante di Al-Rihiya di 62 anni. Sono uscito e ho visto un grande incendio nella zona degli ulivi e dei campi di grano e di orzo. La fonte dell’incendio era a nord, cioè nella direzione di Beit Hagai. Molti coloni, circa 50 persone, stavano nei pressi delle fiamme. Hanno continuato ad appiccare il fuoco ai campi e si sono assicurati che bruciassero e che le fiamme si diffondessero”.

Al-Hallaq riferisce di aver visto due giovani della sua famiglia che cercavano di spegnere il fuoco con delle coperte, ma subito ha visto i coloni correre verso di loro e picchiarli, e ad un certo momento gettarli a terra. I soldati si tenevano lontani. Hanno visto tutto, ma non sono intervenuti”, dice al-Hallaq.

“Quando sono arrivati ​​altri palestinesi per spegnere l’incendio, l’esercito è intervenuto e ha iniziato a sparargli contro lacrimogeni e proiettili di gomma”, ha continuato al-Hallaq. La maggior parte delle persone è fuggita verso le proprie case e la scuola. I coloni li hanno inseguiti, proprio davanti ai soldati, sono entrati nel villaggio e hanno iniziato a lanciare pietre contro le case.

I coloni sono venuti proprio a casa mia e hanno distrutto l’auto parcheggiata all’ingresso. E’ stato spaventoso. Ho chiuso la porta di casa e sono salito sulla terrazza con i bambini per nasconderli. Mentre stavo nascosto sul tetto i coloni sono saliti sulla mia auto e hanno iniziato a ballare e cantare.

Improvvisamente ho visto un altro gruppo di coloni che si stava dirigendo verso la terra che appartiene alla famiglia Tubasi. Era difficile vedere cosa stesse succedendo lì. Ho visto un fumo denso salire dal terreno e mi sono reso conto che i coloni avevano dato fuoco a un altro campo. Pochi minuti dopo ho sentito cinque colpi di pistola, spari di armi da fuoco. Ho visto gli abitanti del villaggio correre lì e ho sentito il suono di un’ambulanza che si avvicinava.

“A un certo punto sono anche uscito di casa e sono andato a vedere cosa fosse successo”, dice al-Hallaq. C’era molta confusione. Alcune persone sostenevano che qualcuno era morto. Altri dicevano che qualcuno era stato ferito. Dopo un’ora mi è stato detto che un giovane della famiglia Tubasi era stato ucciso. I nostri campi erano completamente bruciati. I coloni e l’esercito scomparsi dalla zona”.

“I coloni ci hanno detto con orgoglio di aver bruciato i nostri campi”

A mezzogiorno di venerdì, mi ha chiamato mio ​​zio Ismail, riferisce Jamal Tubasi, nipote della vittima. Ero a casa di mia zia per la festa di Eid al-Fitr [festività che segna la fine del periodo di digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ismail era sconvolto e mi ha chiesto di andare subito. Ho chiesto dove, e lui ha detto: ‘All’uliveto, a nord del paese. I coloni stanno bruciando i nostri campi, le fiamme sono forti.’

“Sono corso subito lì, a circa un chilometro e mezzo da casa”, prosegue Jamal. Quando sono arrivato ho visto un grande gruppo, 30 coloni, la maggior parte dei quali giovani, rannicchiati a circa 200 metri dagli ulivi in ​​fiamme. I coloni ci hanno detto con orgoglio di aver incendiato i nostri campi. E non solo i nostri campi, ma anche il resto.

Ismail mi ha riferito che [gli abitanti dei villaggi palestinesi] stavano cercando da molto tempo di spegnere l’incendio, ma i coloni glielo impedivano. Ho visto giungere sul posto altri gruppi di coloni, alcuni con grandi accette in mano, altri con armi da fuoco e bastoni. Accanto ai coloni c’erano anche i soldati.

Gli uomini più giovani, e con loro Ismail, hanno cercato di dirigersi verso il fuoco negli uliveti, ma i soldati hanno sparato contro di loro gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti. I coloni stavano dietro ai soldati e cercavano di avanzare verso di noi per attaccarci. Ismail mi ha chiesto di stargli vicino. Ma è diventato terribile quando è aumentata la quantità di gas lacrimogeni e granate stordenti e i coloni insieme ai soldati sono riusciti ad avvicinarsi molto a noi. Siamo scappati e ci siamo divisi in gruppi più piccoli.

Ho visto che mio zio Ismail era corso verso gli uliveti. In quel momento ho ricevuto una chiamata, ho risposto al telefono; era un parente che voleva sincerarsi che io e Ismail stessimo bene. Finita la chiamata, non sono riuscito a distinguere dove fosse andato Ismail.

È stato allora che ho sentito degli spari. Più di cinque proiettili. Da arma da fuoco. Non capivo cosa fosse successo. Una persona si è avvicinata e ha urlato “Ismail è stato ferito”. Ha indicato la direzione in cui Ismail era fuggito, a 300 metri da dove mi trovavo io”.

Il fratello di Ismail, Ibrahim, era al suo fianco mentre andavano a spegnere l’incendio nei campi di famiglia. “I soldati hanno sparato lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma per dividerci”, riferisce Ibrahim. Ero accanto a Ismail e l’ho visto correre verso gli alberi [di ulivi]. Ho corso nella direzione opposta. Ho visto un gruppo di coloni correre nella direzione in cui era fuggito Ismail, e poi ho avvertito quattro spari. Non ho capito né ho visto chi avesse aperto il fuoco, ma il suono proveniva dalla direzione in cui Ismail era fuggito. Ho sentito alcuni abitanti dire che Ismail era stato ferito”.

Secondo testimonianze di palestinesi che hanno chiesto che non venisse reso noto il loro nome, sono stati i coloni ad aprire il fuoco e non i soldati, che erano rimasti nei pressi del villaggio.

«Hanno ucciso mio fratello. La nostra terra è bruciata’

Jamal Tubasi, nipote di Ismail, riferisce di essere poi corso dove Ismail era stato colpito. Ho visto Ismail steso a terra tra due rocce, sul fianco destro. Quando mi ha visto, mi ha chiamato con voce molto debole. Quasi in un sussurro mi ha detto: “Sono ferito”, poi mi ha dato il suo telefono e mi ha chiesto di consegnarlo alla famiglia. «appoggia a terra la mia testa», ha sussurrato Ismail, «e fuggi il più in fretta possibile.» Gli ho detto che non l’avrei lasciato, ma lui ha sollevato la mano con grande difficoltà, mi ha guardato e mi ha detto di nuovo, con un voce molto flebile: ‘Corri.’

In quel momento ho visto un gruppo di cinque coloni che avevano con sé grandi accette, e accanto a loro due soldati, tutti che correvano verso di noi. Erano a circa 50 metri da me e si stavano avvicinando rapidamente. Sotto pressione, ho girato Ismail sulla schiena e sono scappato. Quando l’ho lasciato, il suo naso sanguinava e sanguinava anche dall’orecchio sinistro. A parte questo, il suo viso sembrava a posto. Non riuscivo a capire quale fosse la natura della sua ferita e se fosse in condizioni gravi o lievi.

Ho corso per 200 o 300 metri. Da dove mi trovavo ho visto persone che cercavano di raggiungere l’area in cui era caduto Ismail. Andavano avanti e indietro, come se cercassero qualcosa. È passato molto tempo, è difficile per me dire quanto, più di mezz’ora. Poi ho visto tre o quattro persone, operatori sanitari, che trasportavano Ismail su una barella.

Sono corso lì e ho chiesto loro di vedere Ismail per assicurarmi che fosse vivo. Hanno abbassato la barella e poi ho visto la sua faccia. Non potevo crederci: il suo volto era completamente devastato, con ferite profonde, coperto di sangue che colava dappertutto. Non potevo sopportarne la vista. Ho urlato di terrore e sono caduto a terra privo di sensi.

Tutto quello che ricordo dopo è che la gente mi ha versato dell’acqua in faccia, e altri mi hanno sollevato le gambe e mi hanno schiaffeggiato per svegliarmi. Quando mi sono svegliato mi è stato detto che avevano portato Ismail all’ospedale di Yatta.

Un’auto mi ha portato in ospedale. E quando sono arrivato, ho sentito due persone che dicevano che Ismail era morto. Sono svenuto di nuovo. Mi sono svegliato e sono svenuto ancora. Sinceramente il mio corpo non si è riavuto dallo shock e faccio fatica a credere a quello che è successo.

“L’unica cosa di cui sono sicuro è che quando ho raggiunto mio zio, appena dopo il suo ferimento, la sua faccia era pulita, non c’era niente lì, solo sangue che gli colava dal naso e dall’orecchio. E ricordo che il gruppo di coloni che correva verso Ismail insieme a due soldati trasportava delle accette».

Altri abitanti di al-Rihiya hanno riferito che i coloni avrebbero circondato Ismail mentre giaceva a terra, rendendo loro difficile valutare con esattezza le modalità dell’aggressione.

“La mia famiglia è devastata”, dice Ibrahim, il fratello di Ismail. Hanno assassinato mio fratello. La nostra terra è bruciata. Non siamo in grado di tornare lì per controllare. Di solito i coloni vengono di notte e sradicano gli ulivi, ma questa volta l’esercito ha approfittato della situazione e i coloni si sono sentiti più forti e incoraggiati del solito, tanto da incendiare tutto e assassinare mio fratello”.

Ibrahim aggiunge: Oggi non c’è differenza tra un soldato e un colono. Questa gente ci ha distrutto. Due giorni dopo l’omicidio di mio fratello, l’esercito ha revocato i nostri permessi di lavoro in Israele. Cinque uomini della mia famiglia lavorano in Israele. Ora viene impedito a tutti noi di entrare».

La famiglia Tubasi ha dichiarato di aver sporto denuncia alla polizia palestinese dopo la morte di Ismail. Non è chiaro se la polizia palestinese abbia inoltrato la denuncia alla polizia israeliana. Tuttavia, se l’esercito ha effettivamente informato la polizia israeliana che Ismail è stato ucciso, non si capisce come la polizia non abbia aperto la propria indagine indipendentemente dal fatto che sia stata presentata una denuncia, come prevede la legge israeliana per un sospetto di crimine e specialmente nei casi di morte non naturale.

In relazione alluccisione la polizia israeliana ha rilasciato solo la seguente risposta: Nessuna denuncia è stata presentata alla polizia e i dettagli dell’incidente nei termini dichiarati non ci sono noti. Potete contattare la polizia e sporgere denuncia come di consueto”.

Basil al-Adraa è un attivista e fotografo del villaggio di a-Tuwani nelle colline a sud di Hebron.

Yuval Abraham è uno studente di fotografia e linguistica.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)