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Perché il governo della “seconda Nakba” vuole ricostruire lo Stato israeliano

Meron Rapoport e Ameer Fakhoury

9 dicembre 2022 – +972 Magazine

In Israele la crociata dell’estrema destra contro il liberalismo laico sta provocando una diffusa opposizione, ma non può essere distinta dalla missione anti-palestinese dello Stato.

È difficile ricordare l’ultima volta che un governo israeliano ha suscitato un’opposizione e una resistenza così diffuse prima ancora di insediarsi. La nuova coalizione di estrema destra del primo ministro entrante Benjamin Netanyahu ha indotto decine di sindaci in tutto il Paese a dichiarare che non collaboreranno con il membro ultra-religioso e palesemente omofobo della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Avi Maoz, destinato a dirigere l’organo responsabile dei corsi extracurriculari [“Dipartimento dell’identità ebraica nazionale”, con delega sui contenuti dei programmi scolastici, ndt.] e che sembra prepararsi a bloccare i programmi educativi volti a insegnare i valori liberali, l’uguaglianza di genere e la tolleranza verso le minoranze.

Gadi Eizenkot, ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha invitato a protestare in massa nelle strade, così come il primo ministro uscente Yair Lapid, che si è impegnato a “proteggere i tribunali, l’esercito e le scuole”. Allo stesso modo, il responsabile dell’Israel Bar Association [l’associazione forense che accoglie tutti gli avvocati israeliani, ndt.] ha affermato che le persone dovrebbero “scendere in piazza” per impedire al governo di attuare i suoi piani rivolti a frenare l’autorità dei tribunali e consentire ai politici di determinare le nomine giudiziarie. Lunedì il capo di stato maggiore uscente, Aviv Kochavi, avrebbe affermato in colloqui riservati che non permetterà a nessun politico – che non sia il ministro della Difesa – di nominare alti ufficiali militari, né di sottrarre ai militari la responsabilità della polizia di frontiera della Cisgiordania. La presidente della Corte Suprema, Esther Hayut, ha affermato che se l’indipendenza del sistema giudiziario dovesse essere messa a repentaglio i giudici non saranno in grado di “adempiere al loro dovere”.

Mentre Netanyahu distribuisce i più importanti incarichi ministeriali agli elementi più estremisti della sua coalizione, il termine “disobbedienza civile” è diventato un grido di battaglia per le persone che costituiscono il cuore pulsante della classe dirigente israeliana. I semi di questa nuova resistenza non sono stati piantati solo in risposta ai termini scritti degli accordi della nuova coalizione, ma anche a seguito delle iniziative che non compaiono sulla stampa.

Sebbene i piani della coalizione coprano varie questioni della vita politica israeliana, possono essere riassunti in due temi principali: primo, consegnare tutti gli “affari palestinesi” su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.] alla destra razzista dei coloni, promuovendo al contempo un’annessione e un apartheid formalizzati; in secondo luogo, imporre all’opinione pubblica israeliana una visione sfacciatamente anti-liberale dell’ebraismo e stravolgere le istituzioni democratiche già indebolite di Israele, in particolare la magistratura.

Il tentativo di rafforzare l’annessione e l’apartheid nei territori occupati può essere immediatamente riscontrabile nel consenso di Netanyahu a dare il controllo dell’Amministrazione Civile e del Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), che gestiscono gli affari quotidiani di milioni di palestinesi sotto occupazione, a Bezalel Smotrich [leader del Partito Sionista Religioso, di estrema destra, ndr.] e alla riassegnazione della polizia di frontiera all’autorità di Itamar Ben Gvir [leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, ndt.] come nuovo “ministro della sicurezza nazionale”.

Queste mosse non solo hanno ricevuto forti risposte dalla sinistra radicale e dalle organizzazioni per i diritti umani, ma anche da membri direttivi della sicurezza israeliana, che temono che questa nuova titolarità possa cambiare lo status quo dell’occupazione e portare al crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese come subappaltatore della sicurezza di Israele. Se si aggiungono i tentativi di attuare misure anti-liberali e anti-democratiche si potrà assistere alla discesa in campo di gran parte del settore laico-liberale, e persino di alcuni sostenitori del Likud [partito nazionalista liberista e di destra israeliano, guidato da Netanyahu, ndt.]. Questi due ceppi di resistenza si stanno ora fondendo per formare qualcosa che non si vedeva da decenni.

Un antidoto ai vecchi paradigmi

Quindi ci si deve chiedere perché Netanyahu abbia deciso di unire così saldamente le iniziative anti-palestinesi e anti-liberali della sua coalizione. Il Primo Ministro entrante comprende sicuramente che la sua più grande minaccia dall’interno della società israeliana proviene proprio da coloro che si oppongono ai disegni del nuovo governo sia contro il secolarismo che contro i tribunali. Detto questo, affidare a uno come Avi Maoz l’incarico su programmi educativi aggiuntivi è semplicemente una manovra diversiva per consentire alle politiche anti-palestinesi di passare inosservate, come sostengono alcuni? O fa davvero parte di un pacchetto completo che non può essere scomposto nella somma delle sue parti?

Per capire come siamo arrivati a questo punto in cui due dei membri più dichiaratamente razzisti della Knesset che sostengono una seconda Nakbacome soluzione migliore sono ora responsabili degli affari palestinesi dobbiamo tornare agli anni ’90, quando Israele adottò gli Accordi di Oslo come percorso per affrontare il conflitto israelo-palestinese.

Gli accordi di Oslo si basavano sull’idea che attraverso l’istituzione di uno Stato palestinese o di un qualche tipo di entità che potesse essere etichettata come Stato” – in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, Israele potesse tornare ad essere ebraico e democratico, come i suoi fondatori apparentemente sognavano. Questo processo si basava anche sulla separazione dell’occupazione militare del 1967, a cui i funzionari israeliani ritenevano si potesse porre fine, dalla Nakba del 1948, che causò l’espulsione di oltre 750.000 palestinesi dalla loro patria e il rifiuto di lasciarli tornare, e che Israele vedeva come una questione conclusa. A trent’anni dalla nascita di Oslo appare chiaro che questa strategia è fallita.

Poi è arrivata la violenza brutale della Seconda Intifada [rivolta palestinese esplosa a Gerusalemme il 28 settembre del 2000, in seguito estesa a tutta la Palestina, ndt.], che ha incoraggiato la convinzione che Israele potesse porre fine al conflitto, o almeno ridurlo al minimo, attraverso mosse unilaterali. L’istituzione della barriera di separazione all’interno della Cisgiordania e il disimpegno da Gaza sono stati i due risultati più eclatanti di questa strategia. L’idea di “circoscrivere il conflitto”, che da allora ha guidato il pensiero politico di Israele, potrebbe non essere scomparsa, ma neanche i suoi più grandi assertori sostengono che risolverà il conflitto.

Da quando è tornato al potere nel 2009 Netanyahu ha rafforzato l’idea di mantenere lo “status quo”. Ma questo status quo è stato tutt’altro che stagnante: i successivi governi israeliani hanno perseguito un’annessione strisciante e la lenta costruzione dietro le quinte di un regime di apartheid. Ma al centro della strategia di Netanyahu c’è la convinzione che Israele possa fiorire e prosperare rimuovendo la questione palestinese dall’agenda pubblica. In altre parole, viene spianata la strada verso uno splendido nuovo futuro col rendere la storia palestinese priva di interesse e irrilevante.

Questa politica in generale ha avuto successo e gli Accordi di Abramo, che hanno visto Israele firmare trattati di normalizzazione con diversi Stati arabi, avrebbero dovuto costituire il suggello finale. Ma gli eventi del maggio 2021 e l’esplosione della violenza nelle cosiddette “città miste” di Israele hanno ricordato all’opinione pubblica ebraica ciò che i palestinesi hanno sempre saputo: il conflitto non sta andando da nessuna parte e continua a condizionare la vita di tutti gli ebrei e palestinesi tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo).

Ben Gvir e Smotrich propongono un antidoto a questa situazione in cui sia il paradigma di Oslo che quello dello status quo si sgretolano davanti ai nostri occhi. Entrambi i politici cercano di porre in ginocchio i palestinesi dando loro due opzioni: o una resa totale e l’accettazione della supremazia ebraica in tutto il Grande Israele, o l’emigrazione. Il piano dettagliato di Smotrich per la resa palestinese, pubblicato nel 2017, include una clausola in base alla quale le forze di sicurezza israeliane possono trattare chiunque si opponga a queste due opzioni “con una forza maggiore di quella che usiamo oggi e sulla base di condizioni a noi più favorevoli”. Insomma, una nuova Nakba.

Questo è anche ciò che sta alla base degli accordi di coalizione di Smotrich e Ben Gvir con Netanyahu. Ben Gvir ambisce al controllo della polizia non per diminuire la criminalità nella società araba in Israele, poiché così facendo si otterrebbe l’ultima cosa che desidera: permettere ai cittadini palestinesi di vivere in pace e sicurezza nelle loro comunità. Se la criminalità dovesse diminuire, la causa nazionale tornerà probabilmente al centro della scena, proprio ciò che Ben Gvir vuole impedire. Il ministro della Sicurezza Nazionale entrante vuole uno scontro frontale tra i cittadini palestinesi e le autorità, e prevede di utilizzare la polizia di frontiera in Cisgiordania per lo stesso scopo: intensificare il conflitto.

Allo stesso modo, Smotrich vuole avere il controllo dell’Amministrazione Civile e del COGAT non solo perché andrà a vantaggio dei coloni. La sua massima priorità è portare allo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese, nella speranza di seminare il caos nei centri urbani della Cisgiordania. Tale caos richiederà l’intervento dell’esercito israeliano e Smotrich e Ben Gvir sperano che tale intervento conduca al momento decisivo in cui i palestinesi o cederanno o verranno espulsi.

Separare la democrazia dal colonialismo

Questa situazione così pericolosa ha radici che vanno molto più in profondità di questa schiera relativamente nuova di fondamentalisti. Uno Stato che è nato nel 1948 da una pulizia etnica e che ha tenuto sotto controllo militare milioni di persone per oltre mezzo secolo non può essere considerato una democrazia. Eppure, è imperativo capire esattamente perché la destra ha accelerato ora la sua crociata antiliberale e antidemocratica.

Come altre società di colonizzatori, il sionismo ha cercato di stabilire una “società modello” che fosse democratica – solo per i coloni. In questo senso il colonialismo di insediamento israeliano non è del tutto esclusivo; modelli simili potrebbero essere riscontrati negli Stati Uniti, in Sud Africa e in Australia. Questa società modelloera necessaria per tenere uniti all’interno i coloni ebrei che arrivarono in Palestina per fondare una casa sicura per se stessi, ma che si trovarono di fronte a una società autoctona giustamente resistente.

Tuttavia ciò che distingue il sionismo dalle altre società improntate sul colonialismo di insediamento è che le condizioni per l’ammissione nella società dei coloni si basano sia sull’etnia che sulla religione. I primi coloni in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti erano dei bianchi che arrivavano dall’Europa, ma la società americana trovò il modo di raccogliere i coloni provenienti dall’Asia, dal Sud America, dall’Irlanda e altri luoghi intorno alle sue ambizioni coloniali nei confronti dei nativi americani. In Israele, con la sua esclusività etnico-religiosa, questo è impossibile. E mentre in Nord America la popolazione indigena è stata quasi completamente spazzata via dal genocidio, in Israele-Palestina i palestinesi autoctoni sono rimasti in massa, mettendo a dura prova lo Stato colonizzatore.

Tuttavia negli ultimi anni il contratto sociale ebraico-israeliano che consentiva l’unità e la coesione interna ebraica si è inaridito. Agli occhi di molti ebrei israeliani l’ideale di un modello di società democratica ha perso la sua magia, e ora essi preferiscono una versione diversa del regime in cui l’ebraismo come religione – dalla versione haredi [ultra-ortodossa, ndt.] proposta dallo Shas [partito politico israeliano che rappresenta principalmente gli ebrei ultra ortodossi sefarditi e mizrahì, in gran parte immigrati dai Paesi arabi, ndt.] e United Torah Judaism [alleanza di due partiti politici che rappresentano gli interessi degli ebrei aschenaziti, discendenti degli ebrei dell’Europa centrale e orientale, ndt.], alle visioni nazionaliste-religiose di Smotrich e Ben Gvir — è posto al di sopra delle istituzioni secolari che furono costruite dai fondatori del sionismo.

Le ragioni di questa crisi sono molteplici. Come ha spiegato in queste pagine Avi-ram Tzoreff, questo è in gran parte il risultato della ridistribuzioneall’interno della società coloniale dei frutti della colonizzazione tra la vecchia élite ashkenazita, che ha raccolto i benefici della Nakba e della guerra del 1967, e le classi medie e lavoratrici costituite soprattutto dai mizrahi, che vogliono una fetta più grande della torta.

Queste tendenze sono state rafforzate da diversi altri fattori, tra i quali: il fatto che il sionismo non ha mai veramente deciso se basarsi su una definizione nazionalista o religiosa, il che ha portato all’indebolimento del campo laico in Israele; un cambiamento demografico a favore degli haredi e delle popolazioni nazional-religiose; il processo per corruzione in corso nei confronti di Netanyahu, e il modo in cui egli ha fatto tutto il possibile per minare il sistema giudiziario. Ma soprattutto c’è il fatto che i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde rifiutano di accettare la supremazia ebraica come legge del territorio, sfidando apertamente il regime più e più volte.

L’opposizione del nuovo governo all’Ancien Régime è, in fondo, un’opposizione al vecchio contratto sociale che ha costituito le fondamenta del sionismo laico che ha dato vita allo Stato di Israele. Per cambiare il regime dovrà subordinare i tribunali e i consulenti giuridici ai capricci della coalizione, aggiungendo un forte sapore fondamentalista religioso alle sue nuove politiche, come cambiare i criteri per la Legge del Ritorno in modo che solo gli ebrei “purosangue” possano trasferirsi in Israele.

Inoltre sembra che l’estrema destra veda i resti del vecchio regime, che conserva una versione più gentiledella supremazia ebraica gradita al mondo occidentale, come un ostacolo al progetto di sconfiggere i palestinesi. Pertanto solo la loro versione di uno Stato ebraico – teocratico e fermamente antiliberale, in cui vengano soggiogate le minoranze razziali, etniche e sessuali di ogni tipo – può portare alla vittoria finale di Israele. In questo senso, c’è un’intima connessione tra le ambizioni antipalestinesi e antisecolari della destra. Per intenderci, senza un fondamentalismo messianico a sostenerla la sola logica coloniale  non riuscirà a portare a termine il lavoro.

È molto probabile che Ben Gvir e Smotrich temano che il liberalismo laico possa minare l’intera struttura coloniale, aprirla e distruggerla dall’interno. Lo slogan elettorale di Ben Gvir, in cui ha promesso di ricordare ai cittadini israeliani – e in particolare ai cittadini palestinesi – chi sono i veri “signori della terra”, indica una preoccupazione che la logica liberal-progressista, che la destra sostiene abbia preso il sopravvento sulla maggioranza della società israeliana, possa mettere in pericolo il monopolio ebraico del potere nel Paese. In questo modo, i nuovi signori della terra non stanno giungendo solo per i palestinesi, ma anche per il “tipo sbagliato” di ebrei.

Tuttavia il fatto che in Israele ci siano molte voci che si oppongono a questo nuovo governo non dovrebbe nascondere le profonde connessioni ideologiche che ancora esistono tra molti di loro. Mentre l’opposizione all’esplicita istituzionalizzazione dell’apartheid riguarda il regime israeliano di supremazia ebraica, di fatto gran parte dell’opposizione all’attacco contro il sistema giudiziario e all’opinione pubblica laica mira ancora a preservare la supremazia ebraica, anche se in modo più moderato. E mentre la resistenza interna è attualmente molto più ampia di quanto ci si aspettasse, e probabilmente crescerà, la stragrande maggioranza di coloro che chiedono agli israeliani di scendere in strada non fa domande sull’occupazione o sulla supremazia ebraica. Per loro la questione della democrazia rimane separata dalla questione del colonialismo.

È difficile sapere dove porteranno queste lotte contro il nuovo governo e se si collegheranno alla lotta contro l’annessione, l’apartheid e un’altra espulsione di massa dei palestinesi. Ma non si può negare che siamo arrivati a un momento in cui tutte le contraddizioni iintrinseche del sionismo fin dai suoi primi giorni sono diventate più chiare e importanti che mai.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mondiali 2022: come i tifosi arabi dicono la verità a Israele sulla Palestina

Emile Badarin

2 dicembre 202-Middle East Eye

Rifiutando le interviste ai giornalisti israeliani, i tifosi arabi si rifiutano di conferire legittimità al sistema di apartheid dello Stato israeliano.

I giornalisti israeliani sono accorsi a Doha questo mese per coprire la Coppa del Mondo, alcuni trasformandola in una missione per far “parlare con Israele” l’opinione pubblica araba. Ma nelle frequenti interazioni catturate tramite i social media, i tifosi hanno cortesemente rifiutato l’offerta in modi diversi.

Alcuni si sono rifiutati di dialogare; altri hanno sottolineato il loro impegno per la causa palestinese; altri si sono semplicemente allontanati dopo aver capito che il giornalista proveniva da Israele.

La politica del riconoscimento ispira la “missione giornalistica” israeliana in Qatar e altrove. Questi giornalisti, come gran parte dell’opinione pubblica israeliana e dei media occidentali, sembrano essersi convinti che la Palestina e i palestinesi siano scomparsi dalla coscienza araba a causa dei mutamenti geopolitici in tutto il mondo arabo.

Per gli “esperti” israeliani e occidentali questi cambiamenti geopolitici hanno rappresentato una versione ridotta della fine della storia in Medio Oriente. Generalmente considerano la presunta “scomparsa” dei palestinesi come un fattore positivo che ha consentito nel 2020 i cosiddetti Accordi di Abramo e la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e quattro Stati arabi.

Forse non c’è occasione migliore per raccogliere i frutti della normalizzazione di una Coppa del Mondo ospitata da uno Stato arabo che ha temporaneamente permesso ai media israeliani di viaggiare liberamente e informare dal Qatar, anche se questo non ha legami ufficiali con Israele. Sembra che alcuni giornalisti israeliani si siano presi la briga di dimostrare che non sono stati solo i regimi arabi a riconciliarsi con – o meglio, a capitolare davanti al progetto coloniale sionista, ma anche la popolazione araba.

In questo senso l’atto di “parlare a Israele” è interpretato come una forma di riconoscimento, o almeno un potente indicatore di avvicinarsi sempre più verso l’evanescente punto finale del colonialismo di insediamento in Palestina. Punto finale che richiede la legittimazione della sovranità di Israele dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo [cioè su tutta la Palestina storica, ndt.] e la deportazione della popolazione indigena.

In Qatar hanno trovato l’opposto. Sebbene Israele abbia ottenuto il riconoscimento di alcuni regimi arabi, inclusa l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, non è riuscito assolutamente a ottenere il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica araba.

Espropriazione dei palestinesi

Parlare con Israele” in questo contesto ha lo scopo di ottenere un riconoscimento popolare che legittimerebbe e normalizzerebbe la struttura del colonialismo d’insediamento israeliano che continua a espropriare i palestinesi. Pertanto, rifiutandosi di parlare, i cittadini arabi inviano un chiaro messaggio a coloro che sono al potere in Medio Oriente e in Occidente: sono contrari alla normalizzazione senza giustizia, indipendentemente da quanti accordi di “pace” firmi Israele con i regimi arabi.

Invece di “parlare” i tifosi arabi hanno mostrato uno specchio davanti alle telecamere israeliane, ricordando agli spettatori ciò che hanno ostinatamente tentato di dimenticare: la Palestina. Ciò ricorda ai giornalisti israeliani e al loro pubblico il colonialismo di insediamento, la pulizia etnica, l’occupazione, i rifugiati palestinesi e la Nakba (catastrofe) in corso dal 1948. I tifosi del Marocco alludevano a questo quando hanno dispiegato una bandiera della Palestina al 48° minuto della partita Marocco-Belgio.

Ciò che sorprende è lo shock israeliano nel vedere riflesso, nonostante il passare del tempo, l’indignazione per la violenza e la costruzione di Israele sulla terra rubata ai palestinesi che non è svanita.

Questa è la stessa realtà coloniale che la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh ha mostrato instancabilmente al mondo, fino a quando un cecchino israeliano le ha sparato uccidendola lo scorso maggio, un omicidio che è stato ripreso dalle telecamere. Inoltre non è un caso che un anno prima, nel maggio 2021, Israele abbia distrutto la torre dei media di Gaza che ospitava diverse agenzie di stampa internazionali che informavano dall’enclave assediata.

Come i tifosi di calcio in Qatar, Abu Akleh e i suoi colleghi giornalisti in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme e altrove hanno alzato degli specchi che hanno riflesso la brutta immagine del colonialismo israeliano che i popoli arabi non hanno né dimenticato né perdonato. Mentre Abu Akleh è stata uccisa e il mondo non può più vedere il riflesso di Israele attraverso la sua macchina fotografica, non è stato possibile reprimere i messaggi dei tifosi in Qatar.

Coscienza distorta

Di conseguenza, alcuni giornalisti israeliani sembrano essersi rivolti alla narrativa del vittimismo per respingere l’immagine inquietante del colono, il che richiede creatività e autoinganno. È notevole la rapidità con cui alcuni sono ricorsi al “manuale” sionista, presentando il loro fallimento nell’ottenere una “buona parola” su Israele come una manifestazione di odio arabo e musulmano e un desiderio di “cancellare (gli israeliani) dalla faccia della terra”.

Non solo in Israele, ma in tutto il mondo del colonialismo d’insediamento europeo, il senso di vittimismo tra i coloni è un veicolo per rivendicare un’innocenza che galleggia in una coscienza distorta che rappresenta l’anormale e l’ingiusto come normale e giusto.

In questa prospettiva, Israele è solo un altro Stato “normale”- se non l’unico Stato civile e rispettoso dei diritti umani in Medio Oriente, indipendentemente dal fatto che secondo Human Rights Watch ha varcato la soglia dell’apartheid – che ha relazioni “normalizzate” con diversi Stati arabi: uno Stato che gli arabi dovrebbero ammirare, con cui fare amicizia e guardare come un esempio.

Affinché questa normalità immaginaria abbia un senso gli israeliani devono vivere il mito sionista della terra senza popolo per un popolo senza terra. Pertanto devono attivamente dimenticare che i palestinesi esistono davvero, anche dopo un secolo di espropriazione ed eliminazione da parte del colonialismo d’insediamento sionista. L’ironia di far dimenticare continuamente i palestinesi è che li rende più presenti.

Il movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti ha sostenuto la necessità di dire la verità al potere nella lotta contro la segregazione razziale e l’ingiustizia. Ma cosa succede se il parlare stesso può essere trasformato in un veicolo per togliere potere e spogliare?

Tentando di far parlare il popolo arabo con Israele i giornalisti hanno cercato un riconoscimento popolare che conferisse legittimità normativa all’apartheid e all’ingiustizia israeliane. Rifiutarsi di parlare è un atto di resistenza. Paradossalmente [il rifiuto di parlare, ndt.] sta dicendo la verità al potere dei regimi arabi, di Israele e del resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La normalizzazione non farà sparire i palestinesi

Noa Landau

29 marzo 2022 – Haaretz

Se solo avessi avuto uno shekel da ogni persona che di recente mi ha spiegato che il problema israeliano nel Negev è la perdita della governabilità, che i russi non avanzano sul fronte ucraino come avevano sperato, che Israele non è riuscito a imparare la lezione dell’Olocausto sui rifugiati e il cliché sull’attualità che al momento preferisco: che oggi possiamo dire con certezza che Francis Fukuyama aveva torto!

È quello che noi umani facciamo: aggrapparci ai cliché e ripeterli fino all’ovvietà per dare ordine e logica al caos delle nostre vite.

Uno di questi cliché usurati è la clamorosa intuizione che oggi vari Paesi arabi hanno interessi comuni con Israele non correlati alla situazione palestinese (e ora in coro ripetete con me: Iran, sicurezza informatica, gas naturale). La teoria che la pace con il mondo arabo possa e debba essere perseguita senza tenere conto dei palestinesi è stata promossa principalmente da Benjamin Netanyahu. A quasi tutte le riunioni diplomatiche da primo ministro sollevava il suo “paradigma ribaltato” del conflitto israelo-palestinese che spiegava così:

Il metodo (della sinistra) è questo: bisogna fare pericolose concessioni ai palestinesi perché è necessario un accordo con i palestinesi per fare la pace con gli arabi e di conseguenza con il mondo. … Io prima mi rivolgo al mondo e da lì vado al mondo arabo musulmano e dal mondo arabo musulmano arriviamo ai palestinesi. Solo così, se siamo così forti, capiranno che non hanno altra scelta che arrivare a un compromesso con noi.”

Presumibilmente gli accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, sponsorizzati da Trump, ndtr.] e ora il summit del Negev sono la manifestazione di questa teoria ora ovvia: un “nuovo Medio Oriente” senza la precondizione di una soluzione con i palestinesi. A causa della disperazione dovuta all’impasse nel contesto Gerusalemme-Ramallah, hanno smesso di negare il premio di una normalizzazione aperta per la fine dell’occupazione e l’hanno offerta in cambio della necessità condivisa di bloccare l’Iran e promuovere accordi su armi, energia e tecnologia, oltre all’accesso ad Al-Aqsa [la moschea più importante di Gerusalemme, ndtr.]. 

Persino il tragico attacco terroristico a Be’er Sheva avvenuto durante il summit a Sde Boker [tra i ministri degli esteri di Israele, USA e i Paesi arabi coinvolti negli Accordi di Abramo, ndtr.], un evento che in passato sarebbe potuto diventare un incubo diplomatico, è diventato, a causa dell’insolito legame con l’ISIS [che ha rivendicato l’attentato, ndtr.], un simbolo della lotta di Israele e dei Paesi arabi moderati contro il comune nemico islamista.

Il problema con questa tesi, che in realtà riflette l’ovvio, è che tutto ciò non significa che i palestinesi stiano scomparendo. Persino nello scenario di Netanyahu l’obiettivo alla fine sarebbe di adoperarsi per la pace anche con loro.

Perciò la più estesa normalizzazione fra Paesi arabi e Israele non significa che adesso noi possiamo ignorare i palestinesi, ma piuttosto che, ora più che mai, sta a noi trovare una soluzione. Perché a un cittadino degli Emirati (non che ce ne siano molti o che la loro opinione là conti molto) dovrebbe importare del conflitto israelo-palestinese più che a un israeliano o un palestinese? L’interesse in una soluzione era e resta innanzitutto nostro. 

Questo sogno infantile dell’apertura alla normalizzazione con il mondo arabo che farebbe evaporare i palestinesi è stato commentato dal Segretario di Stato USA Antony Blinken, che ci ha ricordato quello che la maggior parte degli israeliani preferirebbero dimenticare: gli accordi di Abramo non “sostituiscono i progressi fra palestinesi e israeliani.”

Anche la maggior parte dei ministri arabi nei loro discorsi hanno messo l’accento sui palestinesi. È molto facile descrivere questo come parole al vento e la semplice adesione all’assioma, ma sono forse gli arabi che hanno deciso di ribaltare il paradigma su di noi? Noi potremmo raggiungere i palestinesi tramite il mondo arabo e musulmano, aveva detto Netanyahu, e infatti è stato a causa degli Accordi di Abramo che il suo piano di annessione [di parte dei territori palestinesi occupati, ndtr.] è stato cestinato. Rafforzare le relazioni con il mondo arabo potrebbe essere anche un’opportunità nel contesto palestinese, ma dipende principalmente da noi e loro, non dall’opinione pubblica del Bahrain.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Che cosa ha fatto l’ANP per bloccare l’apartheid in Israele? 

Ramona Wadi

4 maggio 2021 – Middle East Monitor

L’Autorità Nazionale Palestinese non avrebbe potuto sperare in un momento migliore per la pubblicazione del rapporto dell’Human Rights Watch [nota Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] che descrive il sistema israeliano di apartheid e le violazioni.

Per l’ANP è un peccato che i palestinesi non si facciano ingannare da leader che invocano l’intervento della comunità internazionale in seguito al rapporto, mentre ancora una volta annullano le elezioni in un ciclo che si ripete e che, nello stesso momento stesso in cui sono state annunciate le date, era ovviamente destinato a verificarsi.

Una brevissima nota dell’agenzia di stampa palestinese Wafa ha fornito dettagli circa Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’ANP, che invoca le Nazioni Unite e le istituzioni ad esse affiliate perché riconoscano i crimini israeliani e “la necessità di formare un fronte internazionale per porre fine all’occupazione israeliana nei territori palestinesi.”

Un fronte ipotetico, naturalmente, di cui la leadership palestinese non farebbe parte. Per l’ANP si è infatti dimostrata redditizia la sicurezza di cui gode grazie alla collaborazione con Israele e la comunità internazionale nel mantenere l’espansione israeliana, che è ricompensata generosamente, così come il coordinamento per la sicurezza, che consolida il sistema israeliano di apartheid.

Con HRW che denuncia l’apartheid proprio mentre l’ANP è indaffarata ad annullare le elezioni, si è aperta una breve finestra di opportunità durante la quale la dirigenza palestinese si è lanciata nelle lamentele, la sua strategia logora e sostanzialmente inutile. Non solo perché la comunità internazionale non avrebbe mai prestato attenzione a dichiarazioni che chiedono che uno dei suoi maggiori alleati sia ritenuto responsabile, ma anche perché l’ANP stessa è un’entità senza dignità.

Nessun autentico passo per combattere l’apartheid è stato compiuto dall’autorità guidata da Mahmoud Abbas. Ha sempre preso l’imbeccata da quello che altre organizzazioni, se possibile quelle influenti, hanno fornito ai media. Prima B’Tselem [organizzazione israeliana non governativa che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, ndtr.] e ora HRW hanno evidenziato il sistema israeliano di apartheid, entrambe in ritardo, ma comunque ancora accolte positivamente. Comunque l’ANP ha un’esperienza di prima mano dell’apartheid israeliano e ha mantenuto una posizione quasi silenziosa intervallata da occasionali minacce. L’approccio va ad aggiungersi alle occasioni in cui il presidente Mahmoud Abbas si è rimangiato le proprie decisioni che avrebbero potuto sfidare il sistema israeliano di apartheid.

Invece, Abbas ha optato per un ciclo ripetitivo che promuove falsamente un cambiamento in attesa del momento opportuno per porre fine alla débâcle a modo suo, a beneficio dell’ANP e di Israele.

Il suo unico avvertimento recente è stato il mese scorso durante la conferenza di J-Street [associazione ebraico-americana sionista progressista, ndtr.] quando ha avvertito che il popolo palestinese e la comunità internazionale non avrebbero accettato una situazione di apartheid de-facto in Palestina. Ovviamente i palestinesi non accetteranno tale asservimento, ma come fa Abbas a essere così sicuro che la comunità internazionale non chiuderà un occhio ora che gli Accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, sponsorizzati da Trump, ndtr.] hanno cambiato la percezione riguardo alla concezione israeliana di annessione ed espansione?

Abbas ignora il fatto che, mentre la comunità internazionale è stata disposta a esplorare alternative che proteggessero l’espansione israeliana, il che significa che un “Piano B” verrebbe preso in considerazione se favorisce Israele, lo stesso riconoscimento non verrebbe assegnato ai palestinesi, che restano legati alla fasulla diplomazia e politica dei “due Stati”. Il rapporto di HRW non è un argomento propagandistico che possa essere sfruttato dall’ANP. I fatti che contiene dovrebbero obbligare la dirigenza palestinese ad analizzare il proprio ruolo nel mantenere le pratiche israeliane di apartheid contro il popolo della Palestina occupata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele verso una massiccia espansione delle colonie dopo la normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti

Tamara Nassar 

9 ottobre 2020 – Electronic Intifada

Israele sta avanzando con migliaia di nuove unità di insediamento nella Cisgiordania occupata.

Si tratta di una imponente espansione dell’opera di colonizzazione da parte di Israele: la stragrande maggioranza delle unità abitative sono pianificate in colonie “isolate”, fuori dalle vaste zone già individuate per l’annessione israeliana nel cosiddetto piano “Pace per la prosperità” del presidente Donald Trump.

Circa 350 unità saranno aggiunte a ciascuno degli insediamenti di Beit El, a nord della città occupata di Ramallah in Cisgiordania, a quello di Geva Binyamin, a nord-est di Gerusalemme est occupata, e all’insediamento di Nili, nella Cisgiordania centrale.

Quasi 1.000 nuove unità abitative dovrebbero essere consentite nel cosiddetto insediamento di Har Gilo, stretto tra Gerusalemme e Betlemme.

Israele sta anche portando avanti piani per quasi 700 nuove unità abitative nella colonia di Eli nella Cisgiordania centrale.

La costruzione è già iniziata e alcune unità sono in fase di approvazione retroattiva.

Altre 140 unità abitative saranno aggiunte a Shiloh, una colonia tra i villaggi palestinesi di Jalud e Quryut, che hanno avviato un’azione legale contro la costruzione.

Si prevede che lunedì l’Amministrazione Civile – il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana – darà il via libera definitivo a 2.500 unità e la prima approvazione per altre migliaia.

Tutte le colonie israeliane sono illegali ai sensi del diritto internazionale e la costruzione di insediamenti nei territori occupati è un crimine di guerra.

Tuttavia, l’espansione di colonie da parte di Israele oltre i territori dei cosiddetti blocchi [di colonie] segnala la rinnovata fiducia di non dover affrontare alcuna conseguenza per le proprie azioni.

Gli Emirati Arabi Uniti fanno un regalo a Israele

Ciò avviene mentre i principali negoziatori degli Accordi di Abramo – l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele – continuano a sostenere di aver congelato il piano di Israele di annettere formalmente ampie zone della Cisgiordania in cambio dell’accordo.

In realtà, sono stati gli Stati Uniti a congelare i piani di annessione di Israele mesi prima che fosse annunciato ad agosto l’accordo Emirati Arabi Uniti-Israele.

Da quando l’accordo di normalizzazione è stato reso pubblico, i leader israeliani hanno ripetutamente ribadito il loro impegno per l’annessione.

L’ambasciatore degli Emirati a Washington Yousef Al Otaiba e il suo amico, il miliardario e grande finanziatore della lobby israeliana Haim Saban, hanno discusso in un panel virtuale dietro le quinte i preparativi per l’accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti e Israele.

L’incontro, alla fine del mese scorso, è stato ospitato dalla pubblicazione Jewish Insider e moderato dall’ex funzionaria dell’amministrazione Trump Dina Powell McCormick.

Al Otaiba ha detto che il governo degli Emirati lo aveva incaricato di pubblicare a giugno un editoriale su un giornale israeliano segnalando che un’annessione israeliana di territori in Cisgiordania avrebbe rallentato gli sforzi di normalizzazione delle relazioni.

Al Otaiba spiegava che l’annessione sarebbe stata “pericolosa per la regione” e “pericolosa per Israele”, aggiungendo che, “ancora peggio”, sarebbe stato difficile per gli “americani proteggere la nostra parte di mondo”.

Non ha fatto menzione di quale posto avessero nella faccenda i palestinesi, nonostante l’oggetto dei negoziati fosse la loro terra.

L’idea è venuta da Abu Dhabi [la capitale degli EAU, ndtr.]. E mi è stata comunicata”, ha detto.

Al Otaiba quindi si è consultato con Saban su “dove avrebbe dovuto apparire e quando, e l’indicazione di fondo è stata: lo devi fare in ebraico”.

L’articolo, pubblicato sull’israeliano Yedioth Ahronoth [per molti anni il quotidiano israeliano più venduto, ndtr.], non era tanto un avvertimento quanto una lettera d’amore per Israele: intriso di lusinghe e offerte a Israele di ulteriori normalizzazioni – e di quelle decise dagli Emirati Arabi Uniti.

Ora Al Otaiba ammette che l’intento era davvero questo. Dice che il messaggio era: “ Vi diamo in cambio qualcosa di molto meglio dell’annessione”.

In altre parole, invece di essere messo di fronte alle ripercussioni per il suo esteso e pluri-decennale furto e la avvenuta colonizzazione della terra palestinese occupata, Israele sarebbe ricompensato per non aggiungere il crimine di annessione ai crimini in corso.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di fare a Israele un regalo per il quale, come ha detto Saban, gli israeliani “avrebbero dato il braccio destro”.

Al Otaiba ha insistito sul fatto che gli Accordi di Abramo “salvaguardano la fattibilità e la possibilità di una soluzione a due Stati che sarebbe altrimenti sepolta”.

In realtà, la soluzione dei due Stati è sepolta da tempo.

Al Otaiba ha persino ammesso che gli Emirati Arabi Uniti intendevano solo “fissare un tempo sull’orologio”, indipendentemente da come “venga alla fine utilizzato quel tempo “.

L’espulsione forzata dei palestinesi da parte di Israele nella Cisgiordania occupata non è mai cessata, come l’espansione di colonie solo ebraiche.

L’annessione, che Israele la faccia ora o più tardi, è solo il timbro ufficiale a decenni di demolizioni, espulsioni e costruzione di colonie.

In effetti, come dimostrano gli ultimi annunci, Israele sta espandendo ulteriormente i suoi insediamenti, a dispetto del regalo degli Emirati Arabi Uniti.

Il blocco è temporaneo

Nel frattempo, a seguito di un’azione legale da parte del gruppo di difesa Adalah contro la demolizione di case palestinesi nella Gerusalemme est occupata, Israele avrebbe interrotto temporaneamente “a livello nazionale” le demolizioni.

II 5 ottobre Adalah ha inviato un’altra lettera all’Amministrazione Civile esortandola a cessare le demolizioni e a concedere licenze edilizie nel resto della Cisgiordania, non solo a Gerusalemme est annessa da Israele [è praticamente impossibile per i palestinesi ottenere permessi edilizi in Cisgiordania e a Gerusalemme, ndtr.].

Dall’inizio dell’anno Israele ha fatto di più di 700 palestinesi dei senzatetto, la maggioranza dei quali durante la pandemia.

Ma la sospensione delle demolizioni a Gerusalemme, come lo stop all’annessione, rimangono solo una tregua temporanea, sempre che Israele la rispetti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)