Guai ai vinti

Ahron Bregman, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati. Einaudi, Torino 2017, pp. XXXVII – 340, 33 €.

Recensione di Francesco Ciafaloni

Ahron Bregman, nato nel ‘58 in Israele, ha partecipato come ufficiale di artiglieria dell’esercito israeliano – é facile scoprirlo in rete – alla campagna del Litani nel 1978 e alla Guerra del Libano del 1982. In un’intervista ad Haaretz nel 1988 dichiarò che avrebbe rifiutato di presentarsi se fosse stato richiamato come riservista nei territori occupati, emigrò in Inghilterra e condusse al King’s College il suo lavoro di storico, soprattutto sulle guerre di Israele e sulle politiche dell’occupazione, che aveva direttamente conosciuto e rifiutato.

La vittoria maledetta, quella di Israele del ‘67, è la storia delle politiche di occupazione e repressione, area per area, periodo per periodo, nei territori occupati, da Gerusalemme Est alla Cisgiordania, al Golan. A differenza di Cinquant’anni dopo di Chiara Cruciati e Michele Giorgio, non ha due soggetti in conflitto, gli israeliani, occupanti, e i palestinesi, occupati, ma un solo soggetto: Israele. La vittoria maledetta, secondo l’autore, e come sembra evidente a tutti col senno di poi, non è mai messa in forse da rivolte o scelte degli occupati. Il libro sostiene che Israele, in 50 anni di occupazione, di rivolte, conflitti, trattative, Camp David 1 e 2, Oslo, governi di destra e di sinistra, Rabin, Begin e Dayan, non ha mai veramente pensato di rinunciare a parte della sua sovranità sui territori tra il Giordano ed il mare. Carter pensò che la rinuncia su alcuni territori fosse possibile; lo pensò il ministro degli Esteri marocchino. Ceausescu, dopo un incontro, sostenne che “Begin vuole la pace ed è sufficientemente forte per concederla.” Sadat, alla Knesset, offrì pace e accoglienza in cambio della restituzione dei territori occupati. Ma il Governo di Israele non ha mai pensato a una cessione di sovranità. “Al cuore – scrive Bregman – vi era l’idea che, mentre Israele avrebbe garantito l’autonomia personale delle popolazioni palestinesi che vivevano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, grazie alla quale esse avrebbero potuto condurre la propria vita senza alcuna ingerenza israeliana, i palestinesi da parte loro non avrebbero detenuto alcun controllo del territorio perché questo sarebbe rimasto proprietà di Israele e sottoposto esclusivamente alla sua sovranità.” Il programma di Begin per l’autonomia palestinese prevedeva un consiglio amministrativo di 11 membri eletti a suffragio universale diretto, paritario e segreto: “la sicurezza e gli affari esteri, gli attributi della sovranità più importanti, avrebbero continuato ad essere materia di Israele.”

Il libro racconta le trattative, gli accordi di Oslo, i mutamenti di maggioranze, ma come schermaglie all’interno di una posizione inamovibile della potenza vincitrice, Israele, sulla sovranità. La documentazione, in parte di colloqui e posizioni riservate, è abbondante. È il contrario di molte cronache giornalistiche secondo cui il rifiuto a impegnarsi in una firma definitiva è stato sempre dei palestinesi, per diffidenza, per timore di perdere consensi. L’autore sostiene che non di un ingiustificato rifiuto si è trattato, ma dell’impossibilità di accettare la pura e semplice rinuncia all’indipendenza, anche solo di una parte, dei territori occupati.

In questo quadro complessivo, le storie delle singole aree sono storie di scelte arbitrarie di Israele subite dagli abitanti dei territori occupati; o, peggio, di trattamenti inumani e degradanti di prigionieri. Il controllo della forza ha sempre permesso ai vincitori di consentire o proibire, secondo la propria convenienza del momento, senza possibilità per i palestinesi di ricorrere ad una autorità imparziale, come avviene oggi con la dichiarazione di importanza militare di una certa area. Come è avvenuto anche nel Golan, che è territorio siriano, in cui spostamenti ritenuti temporanei si sono rivelati deportazioni permanenti.

Il libro ha un solo protagonista vero, ma dà voce a innumerevoli testimoni della parte sconfitta; testimoni della umiliazione, dell’impossibilità di prevedere, di conoscere i criteri del giusto e dell’ingiusto in base a cui dovevano comportarsi; dell’impossibilità di considerare sicuro neanche lo spazio della propria casa, il percorso dei propri figli.

È difficile per gente civile credere a quello che succede laggiù. L’umiliazione, la paura, le difficoltà materiali, l’angoscia del sapere che, senza alcuna ragione, puoi venir trattenuto, rimandato indietro, indurre la tua famiglia a pensare che, forse, come migliaia di altre persone, sei stato arrestato.” (citato da Izzeldin Abuelaish, Non odierò).

La distruzione delle case, su cui molto si è battuto e molto ha scritto Jeff Halper, è uno dei temi ricorrenti.

Sono particolarmente dettagliate le descrizioni di maltrattamenti e torture di detenuti: “Si picchiava il detenuto appeso a un sacco chiuso, con la testa coperta e le ginocchia legate; lo si legava tutto contorto a una conduttura esterna, con le mani dietro la schiena per ore.” (da un rapporto dell’asociazione israeliana per i diritti umani “B’Tselem”).

Non è un libro che si proponga di raccontare una storia equilibrata di un lungo conflitto in cui non si è direttamente coinvolti. È il libro di un cittadino dello Stato vincitore, che ha combattuto per il proprio Stato, ha partecipato all’ oppressione, si rifiuta di continuare a farlo e sceglie l’esilio per non farlo più. È un libro di denuncia non solo del proprio governo ma anche del proprio Stato, perché se ne denunciano gli atti costitutivi. Bregman non accetta l’apartheid costitutivo dello Stato di Israele, non crede alla possibilità di una via di uscita e perciò se n’è andato.

Il libro si legge con angoscia perché è il racconto di una serie di trappole a cui i palestinesi (o i siriani che abitavano le alture del Golan), una volta sconfitti e occupati, non hanno avuto la possibilità di sottrarsi. Le situazioni sono presentate dal punto di vista di chi le subisce, come mi sembra giusto.

L’autore, come è immaginabile data la sua storia, deve aver avuto accesso a fonti interne riservate, a testimonianze di chi ha condotto le trattative e preso le decisioni. Ha sostenuto che Ashraf Marwan, egiziano, genero di Nasser, nel ‘70 si arruolò nel Mossad, il servizio segreto israeliano, ma poi lo ingannò nel ‘73, durante la guerra dello Yom Kippur. Marwan fu trovato morto sotto la finestra della sua casa a Londra, il giorno in cui doveva incontrare Bregman, che ne ha raccontato la storia in un suo libro, The spy that fell to earth.

Vorrei aggiungere che La vittoria maledetta non è una storia di complotti ma la storia di una tragedia sociale, una delle molte di questo nostro secolo. È una storia di fatti evidenti interpretati secondo una tesi molto netta. Che l’oppressione ci sia e i fatti siano veri non è in dubbio. Che le trattative siano fallite è storia nota. Che siano fallite per la inflessibile volontà di Israele di non rinunciare alla sovranità su tutti i territori tra il Giordano e il mare, e quindi sulle popolazioni che li abitano, è la tesi che l’autore ritiene dimostrata dalle sue fonti.




La stretta mortale di Israele sull’area C: lo sviluppo come resistenza

Ahmad El-Atrash

27 Settembre 2018, al-shabaka

Gli sforzi di Israele di stringere la sua presa sulla Cisgiordania sono senza precedenti da quando il governo israeliano attuale è stato formato nel 2015. L’anno scorso, per esempio, si è visto il numero più alto di bandi per la costruzione di colonie israeliane, con più di 3100 proposte governative rilasciate per la costruzione di unità abitative. Eppure tale situazione non è per niente nuova. Cinque decenni di occupazione israeliana – in particolare a partire dagli Accordi di Oslo firmati nel 1993 – hanno permesso a Israele di continuare la sua colonizzazione della terra palestinese stroncando, al contempo, lo sviluppo palestinese, distorcendolo, e rendendolo, addirittura, mitologico.

Tutto questo è particolarmente evidente nell’area C. Quest’area controllata da Israele, secondo l’impianto degli Accordi di Oslo, costituisce più del 60% della Cisgiordania. Israele l’ha sviluppata, in particolare, in funzione dei suoi interessi, cioè costruendoci colonie e infrastrutture militari.

Di fronte alle politiche israeliane in Cisgiordania i palestinesi considerano il loro proprio sviluppo come un mezzo di resistenza. Tuttavia, essi non sono stati in grado finora di realizzare un programma di sviluppo efficace che riesca ad opporsi a Israele. E questo non è una sorpresa: lo sviluppo sotto occupazione è tutto fuorché possibile. Tuttavia, i palestinesi possono lavorare collettivamente per realizzare le loro necessità attuali senza pregiudicare i loro diritti, incluso il diritto allo sviluppo di un futuro stato palestinese.

Questo articolo esamina come i palestinesi possono investire su, e promuovere ulteriore resistenza alla geopolitica attuale dello sviluppo, attraverso un focus sull’area C. Esso delinea la storia dell’area, analizza i modi in cui lo sviluppo palestinese è negato a beneficio dei coloni israeliani, e offre modi ai palestinesi per rivendicare progetti di sviluppo che servano loro per le future generazioni.

La Storia dell’area C

Come è ben noto, gli Accordi di Oslo, che cominciarono ad essere firmati nel 1993, crearono le aree A, B e C nel 1995, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che controllava l’area A, mentre Israele e l’ANP condividevano il controllo dell’area B. Nonostante l’ANP sia responsabile, nella teoria, della vita civile nell’area C, inclusa l’educazione e la sanità, le autorità israeliane hanno totale controllo sulla sicurezza e sull’amministrazione [del territorio, ndt], inclusa la pianificazione e lo sviluppo.

La situazione doveva essere temporanea. In base a Oslo, tutte le aree dovevano essere assegnate ai palestinesi entro il 1998, ma l’accordo non si realizzò mai e l’intera Cisgiordania rimase sotto occupazione israeliana.

Il diritto umanitario internazionale definisce i palestinesi come “popolazione protetta” e Israele come “potenza occupante”, alla quale è proibito apportare cambiamenti permanenti [al territorio, ndt] e che è obbligata a proteggere lo status quo ante. Eppure, oggi i blocchi di colonie in costante crescita sono tutt’altro che temporanei. L’area C è attualmente abitata da solo il 6% dei palestinesi della Cisgiordania, cioè da circa 300.000 palestinesi e più di 340.000 coloni israeliani. Più di 20.000 dei palestinesi che vivono in area C sono beduini e comunità di pastori che vivono prevalentemente in tende, baracche di stoffa e metallo e caverne.

Le autorità israeliane hanno ostacolato lo sviluppo palestinese dell’area C e in molte altre parti della Cisgiordania attraverso ordini militari. Questi ordini impediscono ai palestinesi di registrare terre e di costruire, e vietano ai comitati locali e distrettuali la pianificazione. Come risultato, i palestinesi sono esclusi dalla partecipazione ai processi che guidano lo sviluppo territoriale, mentre Israele confisca terreni per presunti servizi pubblici quali le strade costruite per l’utilizzo esclusivo degli israeliani ebrei.
Il progetto israeliano non è temporaneo o casuale, ma è un sistema etno-nazionale e coloniale di insediamento.

Come tale, solo il 30% dei territori dell’area C sono designati per lo sviluppo a guida palestinese. Il restante 70% è classificato come zone militari chiuse che sono interdetti ai palestinesi, a meno che essi ottengano dei permessi dalle autorità israeliane. Queste gravi restrizioni sullo sviluppo territoriale dei palestinesi continuano ad intensificarsi nonostante il fatto che lo stato palestinese sarebbe impensabile senza l’area C. Infatti, l’area C contiene risorse naturali di grande valore e una ricca eredità culturale, e rappresenta la gran parte dell’area disponibile per lo sviluppo territoriale del futuro stato palestinese.

Coloro che si aggrappano al “processo di pace”, che ha prodotto la designazione dell’area C, continuano a nascondere ciò che sta avvenendo di fatto: politiche e pratiche israeliane che creano condizioni equivalenti ad un sistema di apartheid. Uno sguardo critico sull’area C conferma che il progetto israeliano non è semplicemente temporaneo e casuale – cioè un’occupazione militare – ma un sistema etno-nazionale e coloniale d’insediamento permanente. È il risultato dell’ideologia sionista e una pratica che aspira a stabilire uno Stato esclusivamente ebraico dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Questo è evidente nello schema di controllo israeliano, che include il sistema di identificazione, le strade di circonvallazione israeliane, i checkpoint militari, l’implementazione di un sistema giuridico separato per palestinesi e coloni israeliani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), il monopolio israeliano sulle risorse naturali palestinesi, e il muro di separazione – tutti elementi che continuano a violare il diritto internazionale.

Chiaramente, come risultato, lo sviluppo palestinese è soffocato dalle demolizioni israeliane, dal divieto delle costruzioni palestinesi e dalla “cooperazione” idrica tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, per alcuni, anche i progetti di sviluppo e gli aiuti internazionali minano, invece di portare avanti, gli interessi palestinesi.

Sviluppo Represso

Distruzioni e restrizioni israeliane
Al momento sono imminenti più di 12.500 ordini di demolizione israeliani contro approssimativamente 13.000 strutture palestinesi nell’area C. Come risposta a queste demolizioni i palestinesi hanno preparato 116 piani generali che dovrebbero accomodare 132.000 palestinesi in 128 comunità. Questi piani delineano la costruzione di case e dei servizi sociali necessari, incluse le scuole e le cliniche. Nonostante il fatto che questi piani rispettino gli standard internazionali, l’Amministrazione Civile Israeliana (ICA), che amministra la pianificazione e l’urbanistica nell’area C in base all’impianto di Oslo, ha approvato solo 5 dei 102 [progetti] presentati, e 99 altri sono stati trattenuti per più di 18 mesi a causa di discussioni tecniche. Dal 2009 al 2013, sono stati approvati solo 34 permessi di costruzione su 2000 richieste per i palestinesi nell’area C.

Questo impedisce, chiaramente, lo sviluppo di infrastrutture essenziali per la comunità palestinese. Per esempio, l’area C ha una grave carenza di aule e di scuole primarie situate nelle comunità per i palestinesi, e questo influisce sull’accesso dei bambini all’educazione, in particolare quello delle bambine. Le restrizioni nell’area C impediscono anche la naturale espansione delle città urbane, dei centri e dei villaggi rurali. La comunità internazionale ha supportato l’agenda dello sviluppo compresa nei piani generali, e nonostante alcune infrastrutture sociali di vitale importanza siano state realizzate, il gap nello sviluppo rimane enorme.

In relazione a ciò, la densità della popolazione palestinese nelle zone costruite dell’area C è di 250 volte più alta di quella dei coloni israeliani. Questo contrasto, che rivela l’ampia differenza nell’accesso allo spazio vitale e alle risorse, è ancora più grande quando si comparano le densità di popolazione all’interno delle aree destinate allo sviluppo – cioè, come delineate nei piani generali presentati dai palestinesi alla luce delle attuali restrizioni israeliane. La densità della popolazione palestinese all’interno di questi piani proposti è quasi del 600% più alta della densità per i coloni israeliani nei piani per le colonie.

Inoltre, questa densità di popolazione palestinese è molto più alta della densità approvata nei piani generali delle aree A e B. Quest’alta densità pianificata per l’area C significa che c’è poco spazio per la crescita della popolazione, la fornitura dei servizi basilari, e l’agricoltura o qualsiasi altro mezzo di sviluppo economico. Limitare lo sviluppo delle comunità palestinesi nell’area C costringe i palestinesi a migrare verso i centri urbani e le comunità dell’area A e B, come parte dell’obiettivo israeliano di ridurre la popolazione palestinese nell’area C.

La “cooperazione” israelo-palestinese
La cooperazione israelo-palestinese nell’area C è tutto fuorché innocua. Nel gennaio del 2017, per esempio, l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele hanno dichiarato che il conflitto che durava da 6 anni sulla cooperazione idrica tra di loro era finito. Il comitato congiunto israelo-palestinese per l’acqua di Oslo non si era incontrato dal 2010 quando l’Autorità Idrica Palestinese rifiutò di continuare a rilasciare permessi per progetti di infrastrutture idriche nelle colonie israeliane sparse nell’area C.

Il nuovo accordo approvato da entrambe le parti dà ai palestinesi il diritto di collegare le comunità palestinesi in area C alla rete idrica senza chiedere il permesso a Israele, ma non affronta i piani palestinesi per l’estrazione di ulteriore acqua dai pozzi, per l’aggiornamento dei pozzi o lo scavo di nuovi. Inoltre, permette anche agli israeliani di costruire infrastrutture idriche e tubature senza il permesso della parte palestinese – una pratica che essi avevano portato avanti nonostante lo scontro sulla questione della cooperazione idrica.

Fondamentalmente, l’accordo non riuscì ad affrontare le profonde diseguaglianze idriche evidenti sin dagli Accordi di Oslo. I coloni israeliani, per esempio, consumano più di 4 volte tanto quanto consumano i palestinesi in Cisgiordania, inclusa l’area C, e le famiglie palestinesi in difficoltà spendono un quinto del loro salario per l’acqua. Inoltre, le autorità israeliane non negano solo ai palestinesi l’accesso alle terre e alle risorse idriche, ma distruggono anche le strutture palestinesi, tra cui le infrastrutture idriche.

Lo sviluppo idrico nell’area C perciò si dimostra quasi impossibile per i palestinesi. Se vogliono costruire piccole tubature per l’acqua per una comunità palestinese remota e vulnerabile, devono farlo in mezzo alle grandi tubature delle colonie israeliane in costante crescita.

La complicità internazionale

Anche i piani ideati dalla comunità internazionale per e con le comunità palestinesi nell’area C e in partenariato con l’Autorità Nazionale Palestinese dimostrano come lo sviluppo territoriale sia limitato. Israele ha usato queste iniziative come strumento per controllare ulteriormente la Cisgiordania e Gerusalemme e i suoi dintorni.

Le autorità israeliane, per esempio, hanno approvato una rete di strade regionali che sono state riabilitate o costruite per i palestinesi con il supporto della comunità internazionale, dato che erano di beneficio anche per i coloni israeliani in Cisgiordania. Queste strade palestinesi sono di complemento per le strade designate per gli israeliani e che collegano le colonie israeliane in Cisgiordania con Israele stesso, aggirando le comunità palestinesi. Ciò comporta gravi ripercussioni sul diritto dei palestinesi alla libertà di movimento; questo tipo di infrastruttura pregiudica anche altri diritti palestinesi connessi, come il diritto al culto e all’educazione, in quanto li costringe a fare i pendolari utilizzando strade più lunghe e più costose.

I palestinesi devono affrontare la questione dello sviluppo nell’area C con strategie che vanno oltre il soccorso e i piccoli tentativi di sviluppo.

Inoltre, i programmi di emergenza, di soccorso e quelli umanitari hanno oscurato gli interventi in direzione dello sviluppo in Cisgiordania, in particolare nell’area C. Le necessità di sicurezza rivendicate da Israele hanno reso i palestinesi dipendenti dai donatori internazionali, e le decisioni chiave sono state spostate in modo crescente fuori dal controllo dei locali.

Queste politiche, sviluppate sulla base dello schema dei due Stati, permettono ai palestinesi nell’area C al massimo di sopravvivere. Sopravvivere – cioè semplicemente esistere – è essenziale per salvaguardare la soluzione dei due Stati. Ma sebbene i palestinesi trovino modi per rimanere resilienti sotto le immense pressioni e incertezze che caratterizzano il contesto di sviluppo nell’area C, sono sempre più insicuri.

Un esempio è il villaggio di Susiya, a sud di Hebron. I 340 abitanti di Susiya, che si procurano da vivere principalmente tramite la pastorizia, resistono alle pratiche israeliane sul terreno sin da quando i coloni israeliani hanno dichiarato che Susiya era stata costituita sulla loro terra, nel 1983. Nel 1986, l’ICA ha informato i residenti palestinesi di Susiya che il loro villaggio era stato appropriato “per scopi pubblici”, e l’esercito israeliano li ha espulsi dalle loro case. Le famiglie hanno spostato le loro dimore lì vicino. L’ ICA li ha spostati di nuovo nel 2001.

Oggi Susiya continua a sopravvivere, principalmente tramite interventi umanitari e misure di sostegno da parte di attori internazionali. I residenti del villaggio hanno pure sviluppato dei piani per il futuro, come il piano generale del 2013. L’ICA ha rifiutato di approvare il piano, il quale darebbe ai residenti la sicurezza e l’accesso alle tubature per la fornitura di acqua. In contrasto, ha emesso decine di ordini di demolizione. I coloni israeliani hanno limitato l’accesso degli abitanti del villaggio ad alcune delle loro terre agricole, e la loro violenza è spesso documentata.


Che cosa possono fare i palestinesi?

Se i palestinesi vogliono ottenere le loro terre e i loro diritti, devono affrontare lo sviluppo nell’area C con interventi che rispondono alle pratiche di occupazione israeliane. Queste strategie devono andare oltre gli sforzi di soccorso e di sviluppo di piccole dimensioni.

Preservazione
Innanzitutto i palestinesi devono preservare qualsiasi loro presenza [sul territorio, ndt] attuale. La società civile palestinese, l’Autorità Nazionale Palestinese e i donatori possono trovare modi in cui le comunità palestinesi nell’area C, inclusi i beduini e le comunità di pastori, continuino a crescere e a lavorare sulle loro terre. Questi gruppi hanno diritti codificati secondo il diritto umanitario internazionale ad utilizzare le risorse naturali della terra senza subire minaccia per la loro sicurezza, nonché a mantenere la loro proprietà e i loro legami storici con la terra così come i loro valori culturali.

La capacità di sostenere queste comunità può essere rafforzata attraverso il mantenimento dei legami di parentela e dei nessi economici tra palestinesi nelle aree A, B e C. Le autorità palestinesi competenti, per esempio, possono assicurare che le grandi municipalità nelle aree A e B forniscano i servizi basilari alle zone rurali dell’area C.

La società civile palestinese può anche supportare la preservazione della presenza palestinese in Cisgiordania creando e sostenendo la creazione di mappe di fonti disponibili che includano tutte le comunità palestinesi.

Legislazione
L’Autorità Nazionale Palestinese deve sbarazzarsi delle leggi e dei sistemi di regole arcaici in modo da incentivare la crescita tra le comunità palestinesi. Le politiche datate devono essere sostituite da criteri che enfatizzino i diritti umani e la partecipazione inclusiva. Una nuova legge palestinese sulle costruzioni e sulla pianificazione, per esempio, potrebbe sostituire le leggi sulla costruzione e sulla pianificazione in atto sin dai tempi del mandato britannico (gli anni ’40) e sin dall’amministrazione giordana (anni ’60). Queste leggi non danno più risposte utili alle sfide affrontate dai palestinesi nella vita reale. Una nuova legge dovrebbe aspirare ad assicurare processi di partecipazione pubblica, e dunque la titolarità locale dei piani e dei progetti, specialmente nell’area C.

La società civile palestinese e i leader politici devono riappropriarsi dello sviluppo attraverso piani che rispondono alle necessità della popolazione.

L’Autorità Nazionale Palestinese deve anche incoraggiare il lavoro di cooperazione e sviluppo tra le comunità palestinesi nelle aree A, B e C in modo da incrementare la crescita economica territoriale. Potrebbe supportare e creare delle unità amministrative più ampie, che connettano diverse aree, per esempio, come dei consigli congiunti per i servizi e delle municipalità congiunte.

Decolonizzazione
I palestinesi devono anche ideare dei piani di decolonizzazione per l’area C. Il Piano Territoriale Nazionale per la Palestina, a supporto europeo, del 2009, include una visione di sviluppo per l’area C nota come “Previsioni per la Palestina, 2025, 2050”. Il documento rappresenta una cornice di ampia prospettiva per sette principali settori: economia, sviluppo urbano, infrastrutture, demografia, relazioni internazionali, servizi e risorse naturali. L’Autorità Nazionale Palestinese deve ultimare e adottare la prospettiva dello sviluppo territoriale come piano ufficiale che offra procedure specifiche in merito a come affrontare le colonie israeliane nell’area C. Un manuale su come comportarsi con le colonie israeliane, per esempio, potrebbe essere sviluppato in collaborazione tra tutte le parti interessate palestinesi, inclusi i profughi nella diaspora. Le linee guida detterebbero a quali settori verrebbero allocate le colonie quando si sviluppasse uno Stato palestinese, come l’agricoltura o l’industria. Questi settori determinerebbero il destino delle colonie – cioè la demolizione o la conversione.

I palestinesi e i loro alleati devono continuare a supportare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) e lavorare con le organizzazioni internazionali per lottare per i diritti dei palestinesi allo sviluppo nell’area C. I partner di sviluppo e quelli multilateriali, incluse le Nazioni Unite, dovrebbero supportare tale sviluppo promuovendo costruzioni di grande scala nell’area C in accordo con i parametri della soluzione dei due Stati.

I passi proposti qui sopra non possono realizzare uno sviluppo palestinese sostenibile, ma possono aiutare a respingere l’occupazione militare israeliana nell’area C e oltre. Adottando queste e altre misure, la società civile palestinese e i leader politici devono prendere lo sviluppo nelle loro mani attraverso piani che rispondano alle necessità della popolazione e che la mantengano sulla sua terra, per contrapporsi ai piani coloniali di Israele.

Ahmad El-Atrash

Membro di Al-Shabaka, Ahmad El-Atrash è un pianificatore territoriale palestinese e uno specialista in sviluppo urbano. Ha avuto ampia esperienza nel lavoro con think-tank, istituzioni accademiche, ONG e agenzie ONU riguardo questioni relative alla pianificazione geopolitica e strategica, alla riforma della governance, la resilienza e lo sviluppo sostenibile nel contesto palestinese. Ahmad ha conseguito un dottorato in Pianificazione Territoriale all’Università TU-Dortmund in Germania.

Traduzione di Tamara Taher




Amnesty International: ‘La demolizione di Khan al-Ahmar è un crimine di guerra’

3 ottobre 2018, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Martedì Amnesty International ha dichiarato che la demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, ad est di Gerusalemme occupata, ed il trasferimento dei suoi abitanti da parte delle forze israeliane come parte di un piano illegale israeliano di espansione delle colonie è un “crimine di guerra”. Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nordafrica, ha denunciato la programmata demolizione israeliana di Khan al-Ahmar ed ha sottolineato che “questa azione non solo è spietata e discriminatoria, ma è illegale.”

La demolizione del villaggio porterebbe al trasferimento di 181 abitanti, il 53% dei quali sono minori e il 95% rifugiati registrati presso l’UNRWA, Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi. A settembre l’Alta Corte israeliana ha respinto un appello contro la demolizione del villaggio ed ha sentenziato a favore della sua evacuazione e demolizione, concedendo ai residenti un periodo fino al 1 ottobre perché se ne vadano.

L’Alta Corte israeliana ha deciso la demolizione sulla base della mancanza dei permessi di costruzione israeliani, quasi impossibili da ottenere, cosa che le Nazioni Unite hanno detto essere la conseguenza del regime urbanistico e di pianificazione discriminatorio praticato nell’area C – l’oltre 60% della Cisgiordania occupata sotto completo controllo israeliano.

Gli accordi di Oslo del 1995 tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e le autorità israeliane hanno diviso la Cisgiordania in tre settori: le aree A, B e C. L’area A, comprensiva delle popolose città palestinesi e che rappresenta il 18% della Cisgiordania, sarebbe stata sotto il controllo dell’appena costituita Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre l’area B sarebbe rimasta sotto il controllo dell’esercito israeliano, e all’ANP sarebbe spettato quello per l’amministrazione civile.

Invece l’area C, la maggior parte della Cisgiordania, è stata posta sotto il completo controllo militare israeliano e include la maggioranza delle risorse naturali e degli spazi liberi sul territorio palestinese. In base agli accordi di Oslo, era previsto che la terra sotto controllo israeliano sarebbe stata gradualmente trasferita all’ANP entro un periodo di 5 anni.

Tuttavia, circa due decenni dopo, la terra continua ad essere sotto il controllo israeliano.

L’area C, insieme a Gerusalemme est – considerata la capitale di un futuro Stato palestinese come parte di una soluzione a due Stati – è stata terreno della rapida espansione degli insediamenti, mentre il muro israeliano di separazione ha ulteriormente diviso le comunità palestinesi ed ha posto restrizioni ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza anche rispetto alla possibilità di andare a visitare quella che doveva essere la loro capitale.

Lunedì Amnesty International, insieme a Jewish Voice for Peace (Voci Ebraiche per la Pace, organizzazione ebraica statunitense contraria all’occupazione, ndtr.), ha lanciato una campagna sui social media nei confronti del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori [occupati], un’unità del ministero della Difesa israeliano che è responsabile di attuare la politica del governo nell’area C.

La campagna afferma che “le politiche di Israele di insediamento di civili israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, di arbitrarie distruzioni delle proprietà e di trasferimenti forzati di palestinesi che vivono sotto occupazione, costituiscono violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra e sono crimini di guerra previsti dallo Statuto della Corte Penale Internazionale.”

Aggiunge che dal 1967 Israele ha espulso e trasferito con la forza intere comunità e demolito più di 50.000 case e strutture palestinesi.

Amnesty International ha dichiarato: “Dopo circa un decennio di tentativi di combattere l’ingiustizia di questa demolizione, i residenti di Khan al-Ahmar vedono ora avvicinarsi il giorno terribile in cui vedranno le loro case, possedute da generazioni, crollare davanti ai loro occhi.”

Ha sottolineato che “il trasferimento forzato di Khan al-Ahmar si configura come un crimine di guerra”, specificando che “Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle case e delle esistenze palestinesi per fare spazio alle colonie.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Il mattino seguente

Edward Said

21.10.1993  The London Review of Books

Ora che è svanita parte dell’euforia, possiamo riesaminare l’accordo Israele-OLP con il dovuto buonsenso. E ciò che emerge da questa analisi è un accordo più lacunoso e più sfavorevole, almeno per la maggior parte della popolazione palestinese, di quello che in molti si aspettavano. La volgarità mondana della cerimonia alla Casa Bianca, lo spettacolo degradante offerto da un Yasser Arafat che ringraziava tutti per aver sospeso la maggior parte dei diritti del suo popolo e la fatua solennità della performance di Bill Clinton, che sembrava un imperatore romano del ventesimo secolo mentre guida due re vassalli a rituali di riconciliazione e di rispetto: tutto questo ha oscurato solo temporaneamente le proporzioni davvero sorprendenti della capitolazione palestinese.

Quindi, prima di tutto, chiamiamo l’accordo con il suo vero nome: uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese. Ciò che lo rende peggiore è che, almeno negli ultimi quindici anni, l’OLP avrebbe potuto negoziare un accordo ben migliore di questo piano Allon modificato, senza così tante concessioni unilaterali a Israele. Per ragioni che la leadership conosce bene, tutte le precedenti aperture sono state rifiutate. Per citare solo un esempio di cui sono personalmente a conoscenza: alla fine degli anni Settanta, il Segretario di Stato americano Cyrus Vance mi chiese di convincere Arafat ad accettare la Risoluzione ONU 242 con una clausola, accettata dagli Stati Uniti e formulata dall’OLP, che avrebbe insistito sui diritti nazionali del popolo palestinese e sulla sua autodeterminazione. Vance promise che gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto immediatamente l’OLP e avrebbero inaugurato negoziati con Israele. Arafat rifiutò categoricamente l’offerta, come fece con altre offerte simili. Poi c’è stata la Guerra del Golfo e, a causa delle disastrose posizioni assunte in quel periodo, l’OLP perse ancora più terreno. Le conquiste dell’intifada erano state gettate al vento e oggi i sostenitori del nuovo documento dicono: “Non avevamo alternative”. Il modo corretto di frasare il concetto è: “Non avevamo scelta perché abbiamo perso o buttato via molte altre alternative, lasciandoci solo questa”.

Per poter avanzare verso l’autodeterminazione palestinese – che ha un significato solo se ha come obiettivo la libertà, la sovranità e l’uguaglianza, piuttosto che la perenne sottomissione a Israele – dobbiamo riconoscere onestamente dove siamo adesso, ora che l’accordo temporaneo sta per essere negoziato. Ciò che appare particolarmente mistificante è il modo in cui così tanti leaders palestinesi e gli intellettuali al loro seguito continuino a parlare dell’accordo come di una “vittoria”. Nabil Shaath l’ha definita una “completa parità” tra israeliani e palestinesi. Ma rimane il fatto che Israele non ha concesso nulla, come ha affermato anche l’ex Segretario di Stato americano James Baker in un’intervista televisiva, tranne, in modo blando, il riconoscimento dell’esistenza dell’ OLP come rappresentante del popolo palestinese. Come sostenuto dalla “colomba” israeliana Amos Oz nel corso di un’intervista alla BBC, “questa è la seconda più grande vittoria nella storia del sionismo”.

Invece, il riconoscimento da parte di Arafat del diritto all’esistenza di Israele porta con sé tutta una serie di rinunce: alla Carta dell’OLP; alla violenza e al terrorismo; a tutte le risoluzioni ONU pertinenti, eccezion fatta per la 242 e la 338 che non dicono una parola sui diritti e le aspirazioni dei palestinesi. Di conseguenza, l’OLP ha accantonato numerose altre risoluzioni ONU (che, insieme ad Israele e agli Stati Uniti, sembra ora voler tentare di modificare o rescindere) che, dal 1948, hanno riconosciuto ai palestinesi lo status di rifugiati, compresi il diritto al rimpatrio o ad essere indennizzati. I palestinesi avevano vinto numerose risoluzioni internazionali – approvate, tra gli altri, dalla Comunità Europea, dal movimento dei paesi non allineati, dalla Conferenza Islamica e dalla Lega Araba, così come dall’ONU – risoluzioni che vietavano o condannavano gli insediamenti, le annessioni e i crimini israeliani contro il popolo sotto occupazione.

Sembrerebbe quindi che l’OLP abbia posto fine all’intifada, che non incarnava il terrorismo o la violenza ma il diritto palestinese alla resistenza, anche se Israele continua ad occupare la Cisgiordania e Gaza. Nel documento, la considerazione principale riguarda la sicurezza di Israele, mentre non si parla della sicurezza dei palestinesi dalle incursioni israeliane. Nella sua conferenza stampa del 13 settembre, Rabin è stato molto esplicito sul fatto che Israele avrebbe mantenuto il controllo. E inoltre, che Israele si sarebbe tenuta il fiume Giordano, i confini con l’Egitto e la Giordania, il mare, la terra tra Gaza e Gerico, Gerusalemme, gli insediamenti e le strade. Nel documento c’è ben poco che faccia pensare ad una rinuncia israeliana alla violenza contro i palestinesi o, come è stato costretto a fare l’Iraq dopo il suo ritiro dal Kuwait, ad un risarcimento alle vittime delle sue politiche degli ultimi 45 anni.

Né Arafat né gli altri leaders palestinesi che hanno incontrato gli israeliani ad Oslo hanno mai visto un insediamento israeliano. Ne esistono oltre duecento, principalmente su colline, promontori e punti strategici in tutta la Cisgiordania e a Gaza. Molti probabilmente si ridurranno fino a morire, ma i più grandi sono progettati per essere permanenti. Un sistema indipendente di strade li collega ad Israele, creando una discontinuità invalidante tra i principali centri della popolazione palestinese. La terra occupata da questi insediamenti, più la terra destinata all’esproprio, ammonta – si calcola – ad oltre il 55 per cento della superficie totale dei Territori Occupati. La sola “grande Gerusalemme”, annessa ad Israele, comprende un’enorme fetta di terra virtualmente rubata, pari ad almeno il 25 per cento del totale. Gli insediamenti di Gaza nel nord (tre), nel centro (due) e nel sud, lungo la costa fra il confine egiziano fino a Khan Yunis (12), costituiscono almeno il 30% della Striscia. Inoltre, Israele ha sfruttato tutte le falde acquifere della Cisgiordania e ora utilizza circa l’80% dell’acqua per gli insediamenti e per Israele. (Probabilmente ci sono simili installazioni idrauliche anche nella “zona di sicurezza” libanese occupata da Israele.) Quindi negli accordi di Oslo la questione del dominio (se non il furto definitivo) della terra e delle risorse idriche passa inosservato nel caso dell’acqua, o, nel caso della terra, viene rimandato ad una soluzione futura.

Ciò che peggiora ulteriormente le cose è che tutte le informazioni sugli insediamenti, la terra e l’acqua sono detenute da Israele, che le ha condivise solo in minima parte con i palestinesi, così come non ha condiviso le entrate generate dalle tasse spropositate che ha imposto su di loro per 26 anni. Tavoli tecnici di ogni tipo (ai quali hanno partecipato palestinesi non residenti in Palestina) sono stati istituiti dall’OLP nei territori per prendere in considerazione tali questioni, ma ci sono poche prove che i risultati delle commissioni, se ce ne sono stati, siano stati utilizzati dalla delegazione palestinese a Oslo. Quindi rimane l’impressione di un’enorme discrepanza tra ciò che Israele ha ottenuto e ciò che i palestinesi hanno concesso o trascurato.

Dubito che ci sia un solo palestinese che, assistendo alla cerimonia della Casa Bianca, non abbia sentito che un secolo di sacrificio, privazione e lotta eroica stava finendo nel nulla. E la cosa che disturbava di più e che mentre Rabin ha pronunciato un discorso, Arafat ha pronunciato parole che suonavano come un accordo di affitto. Lungi dall’essere visti come vittime del sionismo, i palestinesi sono stati presentati agli occhi del mondo come i suoi aggressori pentiti: come se le migliaia di vittime dei bombardamenti israeliani sui campi profughi, gli ospedali e le scuole in Libano; l’espulsione da Israele di 800.000 persone nel 1948 (i cui discendenti ora sono circa tre milioni, molti dei quali privi di nazionalità); la conquista della loro terra e della loro proprietà; la distruzione di oltre quattrocento villaggi palestinesi; l’invasione del Libano; le devastazioni di 26 anni di brutale occupazione militare – come se tutte queste sofferenze fossero state riassunte nell’essere un popolo di terroristi e violenti, rinunciando a rivendicarle e facendole passare sotto silenzio. Israele ha sempre descritto la resistenza palestinese come terrorismo e violenza, e quindi anche nella formulazione dell’accordo ha ricevuto uno storico dono morale.

Ed in cambio, cosa si è ottenuto esattamente? Il riconoscimento israeliano dell’OLP – indubbiamente un significativo passo avanti. Oltre a ciò, anche accettando che le questioni sulla terra e la sovranità vengano rimandate ai “negoziati sullo status finale”, i palestinesi hanno in effetti rinunciato alla loro rivendicazione unilaterale e internazionalmente riconosciuta sulla Cisgiordania e su Gaza: questi sono ora diventati “territori contesi”. Così, con l’assistenza palestinese, a Israele è stata riconosciuta almeno una rivendicazione alla pari su questi territori. Il calcolo israeliano sembra puntare sul fatto che accettando di fare i poliziotti a Gaza – un lavoro che Begin cercò già di far fare a Sadat quindici anni fa – l’OLP cadrà presto in disgrazia in favore dei concorrenti locali, Hamas fra gli altri. E inoltre, piuttosto che diventare più forti durante il periodo provvisorio, i palestinesi potrebbero indebolirsi, diventare più succubi di Israele, e quindi essere meno in grado di opporsi alle rivendicazioni israeliane quando inizierà l’ultima serie di trattative. Ma sulla questione di come, con quale specifico meccanismo, passare dallo stato provvisorio ad uno successivo, il documento è intenzionalmente reticente. Questo significa, minacciosamente, che lo stato provvisorio potrebbe essere quello definitivo?

I commentatori israeliani hanno suggerito che entro, diciamo, sei mesi l’OLP e il governo di Rabin negozieranno un nuovo accordo che rinvierà ulteriormente le elezioni, consentendo così all’OLP di continuare a governare. Vale la pena ricordare che almeno due volte durante la scorsa estate Arafat ha affermato che la sua esperienza di governo si basa sui dieci anni durante i quali ha “controllato” il Libano, un pensiero non confortante per i molti libanesi e palestinesi che hanno un ricordo molto amaro di quel periodo. E al momento non esiste una procedura di svolgimento delle elezioni, anche se fossero programmate. L’imposizione del potere dall’alto e il lungo retaggio dell’occupazione non hanno contribuito alla crescita delle istituzioni democratiche e di base. Indiscrezioni della stampa araba indicano che l’OLP avrebbe già nominato i ministri fra la sua cerchia ristretta di Tunisi, e i vice ministri fra residenti fidati della Cisgiordania e di Gaza. Ci saranno mai istituzioni veramente rappresentative? Non si può essere molto ottimisti, dato il totale rifiuto di Arafat di condividere o delegare il potere, per non parlare delle risorse finanziarie che lui solo conosce e controlla.

Sulle questioni di sicurezza interna e di sviluppo economico Israele e l’OLP sembrano ora allineati. Membri e consulenti dell’OLP hanno incontrato funzionari del Mossad sin dallo scorso ottobre per discutere dei problemi di sicurezza, compresa la sicurezza di Arafat. E questo nel periodo della peggiore repressione israeliana sui palestinesi sotto occupazione militare. Il pensiero alla base della collaborazione è che impedirà a qualsiasi palestinese di manifestare contro l’occupazione. Nonostante il fatto che Israele non si ritirerà, ma si limiterà a un ridispiegamento. Inoltre, i coloni israeliani resteranno dove sono sempre stati, sotto una giurisdizione diversa da quella dei palestinesi. L’OLP diventerà quindi spalleggiatore di Israele, una prospettiva infelice per la maggior parte dei palestinesi. È interessante notare che l’African National Congress di Mandela si rifiutò sempre di fornire funzionari di polizia al governo sudafricano finché il potere non sarebbe stato condiviso, proprio per evitare di apparire come spalleggiatori del governo bianco. Alcuni giorni fa si è saputo che ad Amman 170 membri dell’esercito di liberazione della Palestina, addestrati in Giordania per il lavoro di polizia a Gaza, si sono rifiutati di cooperare proprio per la stessa ragione. Con circa 14.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane – alcuni dei quali saranno forse rilasciati da Israele – c’è una contraddizione intrinseca, per non dire incoerenza, con le nuove disposizioni sulla sicurezza. Ci sarà più spazio per la sicurezza palestinese?

L’unico argomento su cui la maggior parte dei palestinesi è d’accordo è lo sviluppo economico, descritto nei termini più ingenui che si possano immaginare. Ci si aspetta che la comunità mondiale dia alle aree semi-autonome un sostegno finanziario su larga scala; dalla diaspora palestinese ci si attende lo stesso. Tuttavia, tutti i finanziamenti per la Palestina dovranno essere convogliati attraverso il “Comitato congiunto di cooperazione economica israelo-palestinese”, anche se, secondo il documento, “entrambe le parti coopereranno sia congiuntamente che unilateralmente con attori regionali e internazionali per sostenere questi obiettivi”. Israele è il potere economico e politico dominante nella regione – e il suo potere è naturalmente rafforzato dalla sua alleanza con gli Stati Uniti. Oltre l’80 per cento dell’economia della Cisgiordania e di Gaza dipende da Israele, che probabilmente controllerà le esportazioni, la produzione e la manodopera palestinesi nel prossimo futuro. A parte la piccola classe imprenditoriale e borghese, la grande maggioranza dei palestinesi è impoverita e priva di terra, soggetta ai capricci della produzione israeliana e della comunità commerciale che impiega i palestinesi come manodopera a basso costo. La maggior parte dei palestinesi, dal punto di vista economico, rimarrà quasi certamente nella stessa situazione, anche se ora dovrà lavorare nel settore privato, in parte nel settore di servizi controllati dai palestinesi, tra cui resort, piccoli impianti di assemblaggio, fattorie e simili.

Un recente studio del giornalista israeliano Asher Davidi cita Dov Lautman, presidente dell’Associazione israeliana dei produttori: “Non è importante se ci sarà uno Stato palestinese, un’autonomia o uno stato palestinese-giordano. I confini economici tra Israele e i territori devono rimanere aperti”. Con le sue istituzioni ben sviluppate, le strette relazioni con gli Stati Uniti e la sua economia aggressiva, Israele in pratica incorporerà i territori economicamente, mantenendoli in uno stato di dipendenza permanente. Israele si rivolgerà poi al resto del mondo arabo, usando i benefici politici dell’accordo palestinese come trampolino per irrompere nei mercati arabi, che sfrutterà e probabilmente dominerà.

Ad inquadrare tutto questo sono gli Stati Uniti, l’unica potenza globale, la cui idea di Nuovo Ordine Mondiale si basa sul dominio economico di poche corporazioni gigantesche e sulla pauperizzazione, se necessario, delle popolazioni subalterne (anche quelle nei paesi sviluppati). Gli aiuti economici per la Palestina sono supervisionati e controllati dagli Stati Uniti, scavalcando di fatto le Nazioni Unite, le cui agenzie UNRWA e UNDP sarebbero di gran lunga in miglior posizione per farlo. Prendi il Nicaragua e il Vietnam. Entrambi sono ex nemici degli Stati Uniti; Il Vietnam ha effettivamente sconfitto gli Stati Uniti, ma ora ne ha bisogno economicamente. Il boicottaggio contro il Vietnam continua e i libri di storia vengono scritti in modo tale da mostrare come i vietnamiti abbiano peccato e “maltrattato” gli Stati Uniti per il suo gesto idealistico di aver invaso, bombardato e devastato il loro paese. Il governo sandinista del Nicaragua è stato attaccato dal movimento Contra finanziato dagli Stati Uniti; i porti del paese sono stati minati, la sua gente devastata da carestie, boicottaggi e ogni forma immaginabile di insicurezza. Dopo le elezioni del 1991, che portarono al potere un candidato sostenuto dagli Stati Uniti, la signora Chamorro, gli Stati Uniti promisero molti milioni di dollari in aiuti, di cui solo 30 milioni si sono materializzati. A metà settembre tutti gli aiuti furono interrotti. Ci sono ora carestia e guerra civile in Nicaragua. Non meno sfortunati sono stati i destini di El Salvador e Haiti. Gettarsi fra le braccia, come ha fatto Arafat, della tenera misericordia degli Stati Uniti significa quasi certamente subire lo stesso destino che gli Stati Uniti hanno riservato ai popoli ribelli o “terroristi” del Terzo mondo, dopo che questi hanno promesso di non resistere più agli Stati Uniti.

Di pari passo con il controllo economico e strategico dei paesi del Terzo mondo che sono in possesso di risorse necessarie agli Stati Uniti come il petrolio, o che capitano nei paraggi, viene il controllo del sistema dei media, la cui presa sul pensiero è davvero sbalorditiva. Per almeno venti anni, Yasser Arafat era stato considerato l’uomo meno attraente e moralmente repellente sulla terra. Ogni volta che appariva nei media, o che si parlava di lui, veniva presentato come se avesse un solo pensiero in testa: uccidere ebrei, in particolare donne e bambini innocenti. Nel giro di pochi giorni, i “media indipendenti” hanno completamente riabilitato Arafat. Ora è diventato una figura accettata e amabile il cui coraggio e il cui realismo hanno concesso a Israele i suoi diritti. Si è pentito, è diventato un ‘amico’, e lui e il suo popolo sono ora dalla “nostra” parte. Chiunque si opponga o critichi il suo operato è un fondamentalista come i coloni del Likud o un terrorista come i membri di Hamas. È diventato quasi impossibile dire qualsiasi cosa tranne che l’accordo israelo-palestinese – di solito senza leggerlo o esaminarlo, oppure parlandone in modo poco chiaro, senza dozzine di dettagli cruciali – è il primo passo verso l’indipendenza palestinese.

Per quanto riguarda i critici e gli analisti veramente indipendenti, il problema è come possono liberarsi dal sistema ideologico presentato dall’accordo e dai media. Ciò di cui necessitiamo adesso sono la memoria e lo scetticismo, se non addirittura il sospetto. Anche se è palesemente ovvio che la libertà palestinese in senso reale non sia stata raggiunta, e chiaramente non si pianifica che questo possa avvenire al di là dei limiti angusti imposti da Israele e dagli Stati Uniti, la celebre stretta di mano diffusa in tutto il mondo non è pensata solo per simboleggiare un grande momento di successo, ma anche per cancellare le realtà passate e presenti.

I palestinesi con un minimo di onestà dovrebbero essere in grado di vedere che la grande maggioranza delle persone che l’OLP dovrebbe rappresentare non trarrà veramente vantaggi dall’accordo, se non sul piano cosmetico. È vero, i residenti della Cisgiordania e di Gaza sono giustamente lieti di vedere che alcune truppe israeliane si ritireranno, e che potrebbero iniziare a entrare grosse somme di denaro. Ma è palese disonestà non rendersi conto di ciò che l’accordo comporta in termini di ulteriore occupazione, controllo economico e profonda insicurezza. Poi c’è il gigantesco problema dei palestinesi che vivono in Giordania, per non parlare delle migliaia di profughi apolidi in Libano e in Siria, stati arabi “amichevoli” che hanno sempre avuto una legge per i palestinesi e una per i nativi. Questi doppi standard si sono già rafforzati, come testimoniano le spaventose scene di ritardo e di molestie che si sono verificate sul ponte Allenby da quando è stato annunciato l’accordo.

Quindi cosa si deve fare, se piangere sul latte versato è inutile? La prima cosa è mettere in chiaro non solo le virtù dell’essere riconosciuti da Israele e accettati alla Casa Bianca, ma anche le mancanze veramente gravi. Prima il pessimismo della ragione, poi l’ottimismo della volontà. Non si può migliorare una situazione negativa che è in gran parte dovuta all’incompetenza tecnica dell’OLP – che ha negoziato in inglese, una lingua che né Arafat né il suo emissario a Oslo conoscono, senza alcun consulente legale – finché almeno a livello tecnico non sono coinvolte persone che possono pensare con la loro testa e non essere meri strumenti di quella che è ormai una unica autorità palestinese. Trovo straordinariamente scoraggiante che tanti intellettuali arabi e palestinesi, che una settimana prima si lamentavano dei modi dittatoriali di Arafat, del suo controllo unilaterale sul denaro, della cerchia di cortigiani e parassiti che lo hanno circondato a Tunisi negli ultimi anni, dell’assenza di responsabilità e di riflessione, almeno dalla Guerra del Golfo, abbiano improvvisamente fatto una giravolta di 180 gradi, iniziando ad applaudire il suo genio tattico e la sua vittoria finale. La marcia verso l’autodeterminazione può essere intrapresa solo da un popolo con aspirazioni e obiettivi democratici. Altrimenti non ne vale la pena.

Dopo tutto il trambusto per celebrare “il primo passo verso uno stato palestinese”, dovremmo ricordare a noi stessi che molto più importante che avere uno stato è il tipo di stato che abbiamo. La storia del mondo postcoloniale è sfigurata da tirannie di partiti unici, oligarchie rapaci, dislocazione sociale causata da “investimenti” occidentali e pauperizzazione su larga scala causata da carestie, guerre civili o rapine a titolo definitivo. Più che un fondamentalismo religioso, il semplice nazionalismo non è, e non potrà mai essere, la “risposta” ai problemi delle nuove società secolari. Purtroppo si possono già vedere nella potenziale statualità della Palestina i lineamenti di un matrimonio tra il caos del Libano e la tirannia dell’Iraq.

Se ciò non dovesse accadere, è necessario affrontare una serie di problemi specifici. Uno è la diaspora palestinese, che è all’origine dell’ascesa al potere di Arafat e dell’OLP, che li ha mantenuti lì finora, e che adesso è relegata in esilio permanente o con status di rifugiato. Poiché i palestinesi della diaspora costituiscono almeno la metà della popolazione totale palestinese, i loro bisogni e aspirazioni non sono trascurabili. Una piccola parte della comunità di esuli è rappresentata dalle varie organizzazioni politiche “ospitate” dalla Siria. Un numero significativo di indipendenti (alcuni dei quali, come Shafik al-Hout e Mahmoud Darwish, si sono dimessi in segno di protesta dall’OLP) hanno ancora un ruolo importante da svolgere, non semplicemente applaudendo o condannando a margine, ma sostenendo specifiche modifiche alla struttura dell’OLP, cercando di cambiare l’atmosfera trionfalistica del momento in qualcosa di più appropriato, mobilitando il sostegno e costruendo un’organizzazione all’interno delle varie comunità palestinesi in tutto il mondo per continuare la marcia verso l’autodeterminazione. Queste comunità sono rimaste disilluse, prive di leaders e indifferenti da quando è iniziato il processo di Madrid.

Uno dei primi compiti è un censimento palestinese, che deve essere considerato non solo come un esercizio burocratico, ma come l’affrancamento dei palestinesi ovunque essi siano. Israele, Stati Uniti e stati arabi – tutti loro – si sono sempre opposti ad un censimento: darebbe ai palestinesi un profilo troppo alto nei paesi in cui dovrebbero essere invisibili, e prima della Guerra del Golfo avrebbe reso chiara ai vari governi del Golfo al loro dipendenza da una comunità ‘ospite’ impropriamente grande, di solito sfruttata. Soprattutto, l’opposizione al censimento deriva dal rendersi conto che, se i palestinesi fossero contati tutti insieme, nonostante la dispersione e l’espropriazione, tramite quell’esercizio potrebbero avvicinarsi a costituire una nazione piuttosto che una semplice raccolta di persone. Ora più che mai, tenere un censimento e forse, in seguito, elezioni mondiali – dovrebbe essere un elemento chiave nell’agenda dei palestinesi ovunque. Sarebbe un atto di autorealizzazione storica e politica al di fuori dei limiti imposti dall’assenza di sovranità. E darebbe corpo al bisogno universale di partecipazione democratica, ora apparentemente limitato da Israele e dall’OLP in un’alleanza prematura.

Certamente un censimento dovrebbe sollevare ancora una volta la questione del ritorno per quei palestinesi che non sono in Cisgiordania e a Gaza. Questo problema deve essere sollevato ora, anche se è stato compresso nella formula generale del “rifugiato”, rinviata alle trattative finali da tenersi in un indefinito futuro. Il governo libanese, ad esempio, ha pubblicamente scaldato la retorica contro la cittadinanza e la naturalizzazione per i 350-400.000 palestinesi in Libano, la maggior parte dei quali sono apolidi, poveri, permanentemente in stallo. Una situazione simile si verifica in Giordania e in Egitto. Queste persone, che hanno pagato il prezzo più pesante di tutti i palestinesi, non possono né essere lasciate a marcire né sbattute da qualche altra parte contro la loro volontà. Israele è in grado di offrire il diritto al ritorno ad ogni ebreo nel mondo: i singoli ebrei possono diventare cittadini israeliani e vivere in Israele in qualsiasi momento. Questa straordinaria iniquità, intollerabile per tutti i palestinesi da quasi mezzo secolo, deve essere rettificata. È impensabile che tutti i rifugiati del 1948 vogliano o siano in grado di tornare in un posto così piccolo come uno stato palestinese: d’altra parte, è inaccettabile che a tutti venga detto di trasferirsi altrove, o di abbandonare qualsiasi idea di rimpatrio o risarcimento.

Una delle cose che l’OLP e i palestinesi indipendenti dovrebbero quindi fare è sollevare una questione non affrontata dagli Accordi di Oslo – per svuotare di contenuti in anticipo i colloqui sullo status finale – ovvero chiedere il risarcimento ai palestinesi che sono stati vittime di questo terribile conflitto. Sebbene secondo il desiderio del governo israeliano (espresso con forza da Rabin alla sua conferenza stampa di Washington) l’OLP dovrebbe chiudere “le sue cosiddette ambasciate”, questi uffici dovrebbero essere mantenuti aperti selettivamente in modo che le richieste di rimpatrio o risarcimento possano essere sottomesse.

In sintesi, dobbiamo passare dallo stato di supina abiezione in cui gli accordi di Oslo sono stati negoziati (“accetteremo qualsiasi cosa se ci riconoscete”) ad uno che ci consenta di perseguire accordi paralleli con Israele e gli arabi in merito alle aspirazioni nazionali palestinesi, piuttosto che a quelle municipali. Ma ciò non esclude la resistenza contro l’occupazione israeliana, che continua indefinitamente. Finché esistono occupazione e insediamenti, legittimati o meno dall’OLP, i palestinesi e tutti quanti devono denunciarli. Una delle questioni non sollevate, né dagli Accordi di Oslo, né dallo scambio di lettere OLP-Israele o dai discorsi di Washington, è se la violenza e il terrorismo a cui l’OLP rinuncia includano la resistenza non violenta, la disobbedienza civile e così via. Questi sono diritti inalienabili di qualsiasi popolo a cui si neghi la piena sovranità e l’indipendenza, e devono essere sostenuti.

Come tanti governi arabi impopolari e antidemocratici, l’OLP ha già iniziato ad appropriarsi dell’autorità definendo “terroristi” e “fondamentalisti” i suoi oppositori. Questa è demagogia. Hamas e la Jihad islamica sono contrari all’accordo di Oslo, ma hanno detto più volte che non useranno la violenza contro altri palestinesi. Inoltre, la loro influenza combinata equivale a meno di un terzo dei cittadini della Cisgiordania e di Gaza. Per quanto riguarda i gruppi con base a Damasco, mi sembrano paralizzati o screditati. Ma ciò non esaurisce affatto l’opposizione palestinese, che comprende anche noti esponenti laici, persone impegnate in una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese, realisti e democratici. Mi considero parte di questo gruppo che, credo, sia molto più grande di quanto si pensi.

Il pensiero centrale in questa opposizione è il disperato bisogno di una riforma all’interno dell’OLP, per metterlo in guardia fin da ora sul fatto che affermazioni riduttive sull’unità nazionale non sono più una scusa per l’incompetenza, la corruzione e l’autocrazia. Per la prima volta nella storia palestinese tale opposizione non può essere equiparata al tradimento, se non con una logica assurda e insensata. La nostra affermazione è che siamo contrari al settarismo palestinese e alla cieca lealtà verso la leadership: rimaniamo impegnati nei vasti principi democratici e sociali di responsabilità e capacità che il nazionalismo trionfalista ha sempre cercato di annullare. Credo che un’opposizione su vasta scala alla pasticciata storia dell’OLP emergerà nella diaspora, ma arriverà ad includere anche persone e partiti nei Territori Occupati.

Infine, c’è la questione confusa dei rapporti tra israeliani e palestinesi che credono nell’autodeterminazione per due popoli, reciprocamente e con pari diritti. Le celebrazioni sono premature e, per troppi ebrei israeliani e non israeliani, sono una facile via d’uscita dalle enormi disparità che rimangono. I nostri popoli sono già troppo legati l’uno all’altro in un conflitto e in una storia condivisa di persecuzione perché basti  uno spettacolino in stile americano per poter curare le ferite e aprire la via da seguire. Ci sono ancora una vittima ed un carnefice. Ma può esserci solidarietà nel lottare per porre fine alle ingiustizie, e gli israeliani possono fare pressioni sul loro governo per porre fine all’occupazione, all’esproprio e agli insediamenti. Dopo tutto, i palestinesi hanno ben poco da dare. La comune battaglia contro la povertà, l’ingiustizia e il militarismo deve ora essere unita seriamente, e senza le richieste rituali di sicurezza psicologica per gli israeliani – perché se non ce l’hanno ora, non la avranno mai. Più di ogni altra cosa, questo dimostrerà se la simbolica stretta di mano sarà davvero un primo passo verso la riconciliazione e la vera pace.

 Traduzione a cura dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze




Rivendicare la dimensione politica della narrazione palestinese

Hazem Jamjoum

12  settembre 2018, Al Shabaka

Nota del redattore: questo articolo inaugura il “Circolo sulle Politiche di narrazione e dibattito” di Al-Shabaka, un gruppo di analisti politici di Al-Shabaka che collabora al di là dei confini per affrontare la questione se i palestinesi debbano avere una sola e legittima narrazione e, se sì, quale dovrebbe essere. Il circolo politico di Al-Shabaka è un tentativo metodologico specifico di coinvolgere un gruppo di analisti in studi e riflessioni sul lungo periodo intorno ad un punto di fondamentale importanza per il popolo palestinese.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), un tempo incarnazione del movimento di liberazione palestinese, si è praticamente trasformata in un’entità non sovrana – l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – che che svolge il ruolo di carceriere di un arcipelago di prigioni nella Cisgiordania occupata. La frattura prodotta da questa trasformazione si è manifestata nella società palestinese in tutto il mondo in una serie di gravi lacerazioni nella narrazione storica palestinese. Nel 25° anniversario dell’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, questo articolo fa il punto su uno scenario fra i più significativi per il prosieguo della lotta di liberazione, nonostante la resa dell’OLP a Oslo, e cioè gli approcci alla liberazione basati sui diritti, e ne valuta i pro e contro.1

Trattando di comunità di persone, “narrazione” è la “nostra” storia, chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando e perché.

Ovunque vi sia stata una dominazione straniera, sono invariabilmente emersi movimenti nazionali anticolonialisti, rivendicando spesso la narrazione immaginaria di un idilliaco passato pre-coloniale (e anacronisticamente nazionale). Questo passato, ci dice la narrazione, è stato lacerato dalla brutalità del colonizzatore e può essere superato solo da un’eroica lotta anti-coloniale che conduca alla liberazione. Questa liberazione è spesso immaginata nella forma di uno Stato indipendente, sovrano e immancabilmente nazionale.

Il “politico” è espressione del potere in un corpo sociale. Per quanto esteso possa essere questo potere, si coagula in specifici assi di interazione che creano gerarchie complesse e concentrate di privilegi e marginalità, condizionando così il limite entro cui gruppi e individui possono costruire la propria storia.2

In effetti, il politico è un luogo di lotta in costante cambiamento. Nei contesti coloniali le linee di potere nazionali e razziali diventano così importanti nelle narrazioni tanto dei colonizzatori quanto dei colonizzati da appiattire sia le società coloniali che quelle native: le strutture interne di subordinazione – come la supremazia maschile in entrambe le società – sono superate dalla narrazione nazionale e rimandate ad una utopica data futura, al “Giorno dell’Indipendenza”, quando l’asse di subordinazione ” principale” (leggi: coloniale) cesserà di esistere.

Nella maggior parte dei casi in Asia, Africa e America Latina, la transizione postcoloniale ha comportato la trasformazione delle leadership della liberazione in un nuovo genere di dispotismo.3 Questi gruppi dirigenti hanno indossato il mantello della lotta mentre svolgevano corrotte attività di autoritarismo in quanto Stati sovrani in un contesto neo-coloniale – e dal 1980, anche neoliberista. Per i palestinesi queste nuove forme di dominazione e immiserimento strutturali agiscono aggravando la brutalità dell’espansione coloniale in corso, intensificata dal fatto che le strutture dell’Autorità Nazionale Palestinese sono la prima linea di difesa di Israele, in conformità agli accordi di pace di Oslo.

L’approccio basato sui diritti: cedere la politica all’Autorità Nazionale Palestinese

Cercando di superare l’impasse costituito dagli accordi di Oslo e dal grave squilibrio di potere militare e diplomatico che ha portato a quello storico atto di sottomissione, alcuni palestinesi inseriti strategicamente nel fiorente settore delle ONG hanno visto nel sistema giuridico internazionale una possibilità di liberazione. Mosso dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, quest’ultimo ha sottolineato il diritto di individui e comunità ad essere liberi da crudeltà e dominazioni arbitrarie. L’adozione da parte palestinese di una strategia “basata sui diritti” per contrastare l’impasse di Oslo aveva lo scopo di aggirare il monopolio internazionale dell’ANP come rappresentante dei palestinesi.

Questo approccio ha riunito insieme gruppi e individui dell’intero spettro politico e istituzionale in un amalgama che è arrivato ad autodefinirsi “società civile” palestinese. Questa tendenza ha evitato di rivendicare una rappresentanza politica dei palestinesi, concentrandosi invece sulla rappresentanza “civile”, morale-giuridica. L’ANP e la “società civile” hanno quindi iniziato una elegante ‘dabka’ (danza palestinese, ndtr.): la difesa basata sui diritti eviterebbe di pestare i piedi ai politici, lasciando all’ANP la scelta delle campagne che rientrano nella propria narrazione in quanto tutore delle preoccupazioni nazionali palestinesi, pur mantenendo i piedi ben piantati nei pragmatici anti-principi della divisione e dell’irrisolto processo di pace.

Questa strategia della società civile basata sui diritti ha avuto un grande successo, come ben si vede nel prolungato slancio delle campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), nonostante che la crisi di legittimazione della leadership sia dell’OLP che dell’ANP abbia contrassegnato gli ultimi decenni di politica palestinese. Sottolineo la parola “nonostante” perché la dirigenza dell’Autorità Palestinese ha regolarmente adottato misure per sabotare l’azione della campagna BDS. I successi basati sui diritti, tuttavia, hanno avuto un costo: spostando l’enfasi sull’ambito giuridico, la lotta palestinese, almeno su scala internazionale, rischia di perdere di vista la sua natura fondamentalmente politica.

Questo è esemplificato dalla frase: “Chiediamo il diritto al ritorno”. È  una formula che omette di dire che i palestinesi espulsi hanno già diritto al ritorno. La richiesta politica dovrebbe essere il ritorno effettivo dei palestinesi e, insieme ad esso, tutte le conseguenze politiche per un progetto coloniale che nega questo ritorno per scopi di ingegneria demografica di supremazia razziale. Se qualcuno ti sequestra, il problema non è che il tuo diritto alla libertà sia stato violato, ma che non sei più libero.

Le implicazioni più generali del cedere “il politico” all’ANP nell’arena internazionale non si limitano al modo in cui concettualizziamo e formuliamo obiettivi di liberazione della Palestina, quali esigere il ritorno oppure rivendicare il diritto al ritorno. Dato il primato del nazionalismo nella narrazione OLP-ANP (“Siamo la Nazione palestinese, abbiamo diritto a uno Stato palestinese”), quali sedi abbiamo per discutere di classe, genere e liberazione sessuale all’interno della società palestinese in tutto il mondo?

Come ci relazioniamo con le lotte regionali e globali per la giustizia socio-politica, e come vogliamo che si relazionino con noi? È una questione di particolare importanza, poiché la maggior parte dei palestinesi ha sperimentato le deportazioni della perdurante Nakba e continua a condurre la lotta di liberazione oltre i confini del territorio sotto il controllo coloniale israeliano.

A un certo livello, concentrare l‘attenzione sul formalismo del diritto ci priva del linguaggio e dello spazio per pensare sino in fondo a queste domande. Ad un altro livello, questi ambiti giuridici hanno un significativo effetto determinante su quali movimenti e strutture politiche scegliamo come alleati e, soprattutto, su come e su quali basi impostiamo tali alleanze e rapporti di solidarietà. La ben nota American Civil Liberties Union [Unione Americana per le Libertà Civili, potente Ong statunitense che si occupa di diritti civili e libertà individuali, ndtr.] (ACLU) può essere un alleato potente e molto apprezzato per arginare l’ondata di violazioni dei diritti costituzionali che, per esempio, gli organizzatori BDS devono affrontare negli Stati Uniti. Tuttavia, c’è una chiara linea oltre la quale un’istituzione professionale con un mandato legale come l’ACLU non può andare – una linea che si ferma molto prima di porre pubblicamente la propria autorità a favore di una “causa controversa” come la liberazione palestinese.

Un movimento popolare organizzato come i “Dream Defenders” [‘Difensori di Sogni’, organizzazione americana per i diritti umani, ndtr.], al contrario, , non si pone simili limiti. Non si impegna per la liberazione palestinese in quanto galvanizzato dalle sfumature dell’esegesi del diritto internazionale sfornata dalla società civile palestinese. Secondo l’analisi dei ‘ “Dream Defenders”, la lotta palestinese è una lotta politica contro l’ingiustizia di un colonialismo di insediamento razzista, che assomiglia e gode di una “relazione speciale” con lo Stato coloniale razzista che i “Dream Defenders” contrastano con la propria lotta. La linea che distingue il sostegno istituzionale dalla solidarietà nella lotta raramente è sottile: segna la differenza tra i contributi attentamente pianificati da parte di soggetti consolidati e la solidarietà che rischia in prima persona di coloro che non hanno nulla da perdere se non le proprie catene.

La politica dei diritti, dei gentleman della legge e delle istituzioni legali, ha offerto alla “società civile” palestinese un modo per aggirare l’impasse di Oslo permettendo ai suoi leader – e ai nostri unici legittimi rappresentanti – l’accesso alla buona società.4 Questo è potuto accadere a costo di abbassare la guardia, e cioè ad una condizione per cui l’ordine legale internazionale stabilisce non solo un limite alle nostre richieste politiche, ma anche il linguaggio che usiamo nel ragionarci immaginando cosa possa significare per noi liberazione. Questo basso livello, o “giuristizzazione” e depoliticizzazione della politica palestinese ha fatto sì che istituzioni ben finanziate e altamente professionalizzate – quelle, come l’ACLU, con il massimo da perdere in termini di accessi, finanziamenti e problemi di pubbliche relazioni – diventino sia partner privilegiati che modelli per la nostra stessa organizzazione politica quando ci imbarchiamo in una “difesa” basata sui diritti.

È un’ulteriore ragione per cui l’Autorità Nazionale Palestinese non percepisce alcuna minaccia al suo ruolo in prima linea di difesa del colonialismo israeliano di insediamento dalle campagne basate sui diritti: tali campagne operano con la stessa logica, linguaggio e limiti del compromesso tra gentiluomini che l’OLP ha adottato nella sua metamorfosi in ANP. Faremmo bene a ricordare che ogni grande vittoria palestinese non avrebbe potuto essere raggiunta senza i sacrifici dei poveri “Andala” [popolare figura di bambino palestinese ideata dal famoso artista vignettista Naji Al- Ali, ucciso nel 1987, ndtr.] della società palestinese, all’interno e all’esterno del territorio della Palestina del Mandato [britannico]. Anche se alcuni indossano collane con Andala, che valgono più di tutto quello che ci vuole a mantenere per diversi mesi la famiglia di un bambino rifugiato, ciò non dovrebbe farci dimenticare che ogni grande resa palestinese è stata il prodotto dei compromessi fra gentleman della buona società.

Consideriamo, ad esempio, la centralità dei lavoratori e dei contadini nello sciopero generale del 1936 e la rivolta armata che durò fino al 1939, e il ruolo delle grandi famiglie di proprietari terrieri palestinesi nel porre fine a entrambi i movimenti di massa. Si potrebbe anche confrontare il servizio di intelligence libanese (il temuto deuxième bureau [secondo ufficio]) – contro il quale si ribellò il movimento dei rifugiati palestinesi perché venisse cacciato dai campi in Libano negli anni Sessanta – all’attuale ruolo dell’ “ambasciata” dell’OLP in Libano, che agevola la raccolta di informazioni e il monitoraggio dei palestinesi in quel paese. È molto più importante in questo articolo contrapporre il movimento di massa dei palestinesi da entrambi i lati della “Linea Verde” [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndtr.] iniziato negli anni Settanta e culminato nell’Intifada del 1987 al ruolo della danarosa élite palestinese nel sostenere “la pace dei coraggiosi” [definizione data da Arafat agli accordi di Oslo, ndtr.].

Cosa succede alle campagne BDS? Al massimo, ci dovrebbe essere maggiore partecipazione e sostegno al BDS, specialmente da parte di coloro che ne riconoscono le possibilità politiche e i limiti nella cornice legale. È ben oltre il mandato delle campagne BDS affrontare le politiche sociali delle comunità palestinesi, per non parlare della politica delle strategie di liberazione e delle “soluzioni”. Le organizzazioni BDS non pretendono di essere organizzazioni rappresentative o assemblee, anzi, non possono esserlo, e dal momento che prendono di mira prevalentemente terze parti –imprese, fondi di investimento, istituzioni culturali, accordi interstatali – che non sono né lo Stato israeliano né il regime collaborazionista palestinese, non possono essere ritenute responsabili dei fallimenti del movimento di liberazione in generale.

È altrettanto importante rendersi conto che il tentativo di rendere Israele moralmente e legalmente responsabile a livello internazionale non è una politica in sé e per sé, meno che mai una strategia di liberazione. È una tattica ausiliaria che, al massimo, contribuisce a creare le giuste condizioni per una lotta politica che ponga fine al progetto sionista di insediamento coloniale che ha istituito uno Stato etnico esclusivista e patriarcale in Palestina. Ciò che ho cercato di evidenziare qui sono le insidie dell’elevare una tattica – l’uso di forum e istituzioni legali internazionali a sostegno degli obiettivi di liberazione – allo stato di strategia della liberazione. Vale la pena notare che la tattica della “lotta armata” ha goduto di una simile esaltazione in quanto soluzione mirabolante che avrebbe liberato la Palestina.

Alla ricerca di una narrazione della mobilitazione politica per arrivare alla liberazione

Come accennato, quando i movimenti di liberazione basano le loro strategie di liberazione e le loro narrazioni sulla solidarietà delle istituzioni internazionali, sono costretti a rispettare la lingua e la logica di quelle istituzioni. Una delle migliori illustrazioni storiche di ciò viene proprio dall’esperienza dell’OLP. Dopo la guerra del 1967, il principio della spartizione della Palestina raggiunse lo status del “consenso internazionale” attraverso le interpretazioni della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati e il reciproco riconoscimento degli Stati, ndtr.]. Molti Stati arabi erano davvero ansiosi di sottoscriverlo, per eludere l’OLP e parlare in nome dei palestinesi accettando quel consenso a nome dei palestinesi. La spartizione è stata praticamente data come precondizione per il riconoscimento internazionale dell’OLP come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, e la leadership dell’OLP ha visto quella legittimazione come condizione preliminare per la liberazione. In altre parole, non ci sarebbe stato alcun discorso di “pistola e ramo d’ulivo” da parte di Yasser Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel novembre 1974 se la Lega Araba non avesse appoggiato l’OLP come detentore del monopolio politico palestinese al summit di Rabat un mese prima. Tale riconoscimento, a sua volta, non si sarebbe verificato se l’OLP non avesse avallato ufficialmente la spartizione della Palestina nel suo programma di dieci punti del giugno 1974.

Anche con il senno di poi, non possiamo biasimare del tutto Arafat per aver riconosciuto sia la debolezza dell’OLP nello squilibrio internazionale del potere quanto il pericolo che altre entità più potenti potessero usurpare il diritto ad una rappresentanza autonoma che i palestinesi avevano faticato tanto a conquistare. Allo stesso modo, i rappresentanti politici palestinesi negli anni 2000 hanno dovuto trovare un modo per eludere la dura realtà dei fatti, cioè che il programma del 1974 avesse dato il via alla trasformazione della leadership politica palestinese in un’appendice del potere coloniale di insediamento mantenendone il monopolio sulla rappresentanza politica palestinese. Analogamente, posto che operare nell’ambito della società civile globale richiede il linguaggio del diritto internazionale e il consenso internazionale come base comune per la comunicazione e il processo decisionale, non possiamo criticare i sostenitori delle campagne basate sui diritti di fare tutto il possibile per usare l’accordo internazionale riguardo ai diritti umani per accusare Israele delle sue violazioni.

Piuttosto che cercare un capro espiatorio, spero invece di trasmettere l’urgenza di promuovere forum e azioni in cui le questioni politiche siano al centro dell’attenzione, al di sopra e al di là delle limitazioni a livello nazionale o del consenso dell’opinione pubblica internazionale. Non è un invito ad abbandonare il diritto internazionale. Piuttosto, si vuole sostenere il ritorno allo spirito originario dell’Intifada del 2000, quando i leader che sarebbero diventati la “società civile palestinese” stavano formulando insieme sia gli inizi del BDS che i modi di usare il regime legale internazionale per aggirare l’impasse politica di Oslo.

Nel 2004, quando la Corte Internazionale di Giustizia emise il suo verdetto [di condanna, ndtr.] sulle conseguenze del muro di separazione di Israele, l’ormai famoso romanziere China Miéville [scrittore, fumettista, saggista ed attivista britannico, ndtr.] stava concludendo il suo libro Between Equal Rights. Dopo essersi informato sul modo in cui gli organizzatori politici palestinesi cercavano di rispondere alla storica sentenza, prima che andasse in stampa Miéville ha aggiunto al manoscritto quanto segue:

… proprio memori della realtà politica che sta alla base della concezione e stesura del diritto internazionale, i palestinesi sono pronti a mettere da parte la “legalità internazionale” della loro stessa vittoria giudiziaria internazionale per tentare invece di usarla per mobilitare l’opinione pubblica extra-legale. È la consapevolezza che è la pressione popolare dal basso piuttosto che il diritto internazionale a rappresentare la migliore speranza per la causa palestinese e che la sentenza giudiziaria internazionale più “progressista” funziona meglio fuori dal campo del diritto internazionale.”

La scelta di Miéville dell’espressione “opinione pubblica” rappresenta il tipo di mobilitazione politica di massa a cui in quegli anni ci si riferiva a livello internazionale con “globalizzazione dell’intifada” – una mobilitazione che andasse ben oltre la lotta per ottenere uno Stato in cui i VIP palestinesi potessero sfruttare persone molto poco importanti senza interferenze da parte del colonialismo di insediamento. La globalizzazione dell’intifada è stata la politica delle manifestazioni per il ritorno dei rifugiati nel 2011, ed è stata la politica delle “Marce del Ritorno” simili ma ben più estese nella Striscia di Gaza degli ultimi mesi.

Questa mobilitazione ha distrutto la narrazione illusoria del conseguimento dello Stato attraverso le sottigliezze di un ordine internazionale che non ha mai mostrato alcuna propensione a far valere i propri standard morali-legali nei confronti di Israele. Ancora una volta, erano gli esausti Andala a gettare in campo i propri corpi mentre i gentiluomini sfruttavano ciò che rimaneva dei loro cadaveri a brandelli per farne miglior uso nei salotti VIP.

È tempo che la politica che sta alla base dell’intifada globale sia considerata fondamentale nel plasmare il modo in cui usiamo il diritto internazionale come uno dei tanti strumenti di lotta, non il contrario. La narrazione che ci aiuta a vedere e ad agire chiaramente ai fini della mobilitazione politica verso la liberazione deve essere messa al centro dell’attenzione – non la narrazione che esibisce la nostra vittimizzazione nazionale “basata sui diritti” di fronte alla piccola nobiltà della buona società, nella speranza che l’élite palestinese possa assicurarsi un buon posto da cui godersi la grottesca orgia dello sfruttamento che consuma il nostro mondo.

Hazem Jamjoum

Membro del gruppo di commentatori politici di Al-Shabaka, Hazem Jamjoum è laureato in Modern Middle East History presso la New York University. I suoi testi si concentrano, tra gli altri temi, sugli approcci politico-economici al colonialismo israeliano e alla formazione delle élite palestinesi, e sulle critiche alle “soluzioni” di gestione del conflitto basate sulla spartizione.

(traduzione di Luciana Galliano)

1 Al-Shabaka è grato per gli sforzi compiuti dai difensori dei diritti umani per tradurre i suoi pezzi, ma non è responsabile di alcun cambiamento di significato.

2 L’importanza di questi elementi – come classe, genere, razza, abilità, sessualità e così via – non risiede nel loro essere identità che esistono in natura, ma nella loro costruzione sociale come identità che conferiscono uno status ai loro possessori. In altre parole, il loro significato è funzione dei regimi di disuguaglianza che li rendono significativi come categorie politiche, non come singoli indicatori di identità di per sé.

3 Fra le analisi più profonde rimangono quelle scritte come predizioni: Frantz Fanon, The Pitfalls of National Consciousness (Grove Press 1961 – Le insidie della coscienza nazionale), I dannati della terra (Einaudi 2007, ed. orig. The Wretched of the Earth, Grove Press 1961).

4 In un passaggio memorabile dell’autobiografia di Shafiq al-Hout [scrittore e politico dell’OLP, ndtr.] (che non c’è nella traduzione inglese), l’importante personaggio, all’opposizione nell’OLP, racconta di essere stato scherzosamente sgridato per aver criticato la quantità di tempo trascorso dai leader dell’OLP nei salotti VIP. Chi lo ha redarguito ha cinicamente spiegato che l’accesso dell’OLP nei salotti VIP è stato il principale, se non l’unico, esito positivo del sacrificio dei martiri palestinesi.




Romano si sarebbe piazzato davanti a un bulldozer israeliano

Secondo la sua avvocatessa, dopo uno scontro in Cisgiordania Israele trattiene il professore franco-statunitense in base alla legge militare.

Redazione di Times of Israel e agenzie

15 Settembre 2018, Times of Israel

Il fermo di Frank Romano sarebbe stato prolungato grazie a una applicazione “straordinaria” delle leggi militari; l’avvocatessa non è in grado di confermare se il suo cliente abbia iniziato lo sciopero della fame.

Secondo la sua avvocatessa, il docente universitario franco-statunitense arrestato venerdì durante una protesta in un villaggio beduino in Cisgiordania in via di demolizione da parte di Israele, rimarrà agli arresti fino a lunedì.

Sabato Gaby Lasky ha detto che il suo cliente, Frank Romano, è stato portato in una prigione di Gerusalemme e la polizia avrebbe detto che comparirà lunedì davanti a un tribunale militare israeliano.

Con una procedura straordinaria la legislazione militare applicata in Cisgiordania è stata messa in pratica per Frank Romano, accusato di aver ostacolato l’azione della polizia e dei soldati israeliani, per cui il tempo massimo prima di comparire davanti al giudice è di 96 ore,” ha detto Lasky all’AFP [agenzia di stampa francese, ndtr.].

Ha aggiunto che la legge israeliana prevede che civili e turisti vengano portati davanti a un giudice entro le 24 ore e che chiederà a un giudice israeliano di intervenire in modo che il destino del suo cliente venga deciso in base alle leggi israeliane [non a quelle militari, ndtr.].

Secondo B’Tselem, una Ong israeliana che lavora in Cisgiordania, Romano ha iniziato uno sciopero della fame e continuerà “fino al ritiro” della decisione di radere al suolo il villaggio beduino.

Lasky ha detto all’AFP di non essere in grado di confermare lo sciopero della fame.

Romano era tra le decine di attivisti a Khan al-Ahmar che cercavano di bloccare la prevista demolizione dell’accampamento. L’azione programmta da Israele ha sollevato la condanna internazionale.

Venerdì sul posto sono scoppiati tafferugli tra le forze di sicurezza israeliane e i manifestanti filo-palestinesi. Gli attivisti hanno detto che Romano si è piazzato davanti a un bulldozer che stava rimuovendo le barricate messe per rallentare la demolizione.

La polizia israeliana ha confermato che venerdì tre persone sono state arrestate per aver provocato disordini a Khan al-Ahmar, ma non ha rilasciato dettagli sulle loro identità.

La scorsa settimana l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha dato il via alla demolizione di Khan al-Ahmar respingendo un ultimo ricorso tra le crescenti proteste internazionali sul destino della comunità cisgiordana.

Israele afferma che Khan al-Ahmar, un villaggio di baracche di lamiera a est di Gerusalemme, era stato costruito illegalmente e ha proposto di risistemare gli abitanti a 12 km di distanza.

Chi si oppone alla demolizione sostiene che fa parte del tentativo di consentire l’ulteriore espansione della vicina colonia di Kfar Adumim e creare una zona di controllo israeliano da Gerusalemme fin quasi al Mar Morto, una mossa che secondo gli oppositori dividerebbe in due la Cisgiordania rendendo impossibile uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Giovedì le forze israeliane hanno demolito cinque roulotte che erano state piazzate di recente fuori dal villaggio. Le roulotte, costituite da container da trasporto, erano state sistemate all’inizio della settimana come forma di protesta contro la prevista demolizione.

L’attivista Abdallah Abu Rahmeh ha detto che collocare le bianche strutture, su una delle quali sventola una bandiera palestinese, serviva come messaggio a Israele che “è nostro diritto costruire sulla nostra terra.”

Le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno ripetutamente avvertito Israele che distruggere Khan al-Ahmar avrebbe minacciato i tentativi di pace con i palestinesi e costituito una violazione delle leggi internazionali.

Giovedì il parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui si afferma che mettere in atto la sentenza rappresenterebbe un “precedente negativo” per le altre comunità beduine in Cisgiordania minacciate di demolizione.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, Israele ha la responsabilità assoluta di fornire i servizi necessari, compresi l’istruzione, le cure mediche e i servizi sociali, alle persone che vivono sotto la sua occupazione,” recita la risoluzione.

Israele sostiene che le strutture, per lo più baracche e tende, sono state costruite senza permessi e rappresentano una minaccia per gli abitanti del villaggio a causa della loro vicinanza a un’autostrada.

Ma gli abitanti – che hanno vissuto in questo luogo, all’epoca controllato dalla Giordania, fin dagli anni ’50, dopo che lo Stato [di Israele] li aveva cacciati dalle loro case nel Negev – affermano che non hanno alternative se non costruire senza i permessi edilizi israeliani, in quanto i permessi non vengono praticamente mai rilasciati ai palestinesi per costruire in posti, come Khan al-Ahmar, nell’Area C della Cisgiordania, dove Israele ha il pieno controllo sulle questioni civili.

In base agli accordi di Oslo la Cisgiordania è stata divisa in tre aree: A, governata dall’ANP [Autorità Nazionale Palestinese]; B, sotto il controllo misto israeliano e dell’ANP; C, sotto totale controllo israeliano.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che la demolizione è parte di un piano per ridurre al minimo la presenza palestinese nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un “accordo tra gentiluomini”: come Israele ha ottenuto quello che voleva a Oslo

Jonathan Cook

14 settembre 2018,Midddle East Eye

Venticinque anni dopo, alcuni analisti ritengono che Oslo non sia stato un fallimento: in realtà l’accordo ha offerto ad Israele una formula per bloccare la nascita di uno Stato palestinese e rafforzare la sua occupazione.

Questa settimana non ci sono state commemorazioni per ricordare la firma del primo accordo di Oslo a Washington 25 anni fa. Si tratta di nozze d’argento per le quali non ci sono festeggiamenti pubblici, né tazze commemorative, né monete coniate appositamente.

I palestinesi hanno praticamente ignorato questo anniversario storico, mentre la commemorazione di Israele non è stata altro che una manciata di tristi articoli sulla stampa israeliana su quello che è andato storto.

L’avvenimento più importante è il documentario “I diari di Oslo” (“Al cuore degli accordi di Oslo”), trasmesso dalla televisione israeliana e la cui diffusione è prevista questa settimana negli Stati Uniti. Ripercorre gli avvenimenti riguardanti la creazione degli accordi di pace, firmati dal dirigente palestinese Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin a Washington il 13 settembre 1993.

Secondo la maggior parte degli osservatori l’euforia causata dal processo di pace iniziato dalla Norvegia un quarto di secolo fa sembra ormai del tutto superata. Il ritiro per fasi dai territori palestinesi occupati promesso da Israele è rimasto fermo ad uno stadio iniziale.

E i poteri dell’Autorità Nazionale Palestinese, futuro governo palestinese creato da Oslo, non sono mai andati oltre la gestione dell’assistenza sanitaria e la raccolta della spazzatura nelle zone palestinesi densamente popolate, garantendo al contempo il coordinamento con Israele in materia di sicurezza.

Tutti gli sforzi attuali per trarre una lezione da questi sviluppi sono giunti alla stessa conclusione: Oslo fu un’occasione mancata per la pace, gli accordi non sono mai stati correttamente applicati e i negoziati sono stati spazzati via dagli estremisti palestinesi ed israeliani.

Una riorganizzazione dell’occupazione

 

Tuttavia gli analisti interpellati da Middle East Eye adottano un punto di vista molto diverso.

È errato pensare che Oslo sia fallito o cercare di identificare il momento in cui il processo di Oslo è morto”, sostiene Diana Buttu, avvocatessa palestinese ed ex-consigliera dell’Autorità Nazionale Palestinese. “Oslo non è mai morto. Continua a fare oggi esattamente quello per cui è stato creato.”

Michel Warschawski, attivista israeliano per la pace che ha sviluppato stretti legami con i dirigenti palestinesi nel corso degli anni di Oslo, concorda totalmente.

Quasi tutti quelli che conoscevo all’epoca ed io stesso siamo rimasti sedotti dal battage mediatico che annunciava che l’occupazione sarebbe ben presto finita. Ma in realtà Oslo stava per riorganizzare l’occupazione, non per farla terminare. Ha creato una nuova divisione del lavoro.

A Rabin non importava sapere se i palestinesi avrebbero ottenuto una sovranità simbolica – una bandiera e forse persino un seggio all’ONU.

Ma Israele era determinato a continuare a controllare le frontiere, le risorse dei palestinesi, la loro economia. Oslo ha cambiato la divisione del lavoro, subappaltando ai palestinesi stessi la parte difficile della sicurezza di Israele.”

Gli accordi sono stati firmati all’indomani di parecchi anni di rivolta palestinese nei territori occupati – la prima Intifada – che si sono rivelati costosi per Israele, sia in termini di vittime che di denaro.

Grazie ad Oslo, le forze di sicurezza palestinesi si sono messe a pattugliare le strade delle città palestinesi, sotto la supervisione e in stretto coordinamento con l’esercito israeliano. Quanto al conto, è stato pagato dall’Europa e da Washington.

In un’intervista rilasciata la settimana scorsa al giornale [israeliano di centro sinistra, ndtr.] “Haaretz”, Joel Singer, l’avvocato del governo israeliano che ha contribuito alla stesura degli accordi, ha ammesso la stessa cosa. Rabin, ha dichiarato, “pensava che, se fossero stati i palestinesi a combattere Hamas, ciò avrebbe rafforzato la sicurezza (israeliana).”

Come ha fatto notare l’ex primo ministro israeliano, l’occupazione non sarebbe più stata considerata responsabile davanti ai “cuori sensibili” della Corte Suprema israeliana e della comunità attiva a favore dei diritti dell’uomo in Israele.

Non un vero Stato

Secondo Buttu, anche l’ipotesi largamente diffusa secondo la quale Oslo avrebbe dato come risultato uno Stato palestinese era errata.

L’avvocatessa rileva che da nessuna parte negli accordi veniva menzionata l’occupazione, uno Stato palestinese o la libertà per i palestinesi. E non venne presa nessuna misura contro le illegali colonie di insediamento di Israele – il principale ostacolo alla creazione di uno Stato palestinese.

Invece l’obiettivo dichiarato del processo di Oslo era l’applicazione di due risoluzioni delle Nazioni Unite [rimaste] in sospeso – la 242 e la 338. La prima riguardava il ritiro dell’esercito israeliano dai ‘territori’ occupati durante la guerra del 1967, mentre la seconda esortava a negoziati che portassero a una ‘pace giusta e durevole’.

Ho parlato con Arafat e con Mahmoud Abbas (suo successore alla presidenza palestinese) a questo proposito,” spiega Buttu. “Essi pensavano che un linguaggio più esplicito riguardo allo Stato palestinese e all’indipendenza non sarebbe mai stato approvato dalla coalizione di Rabin.

Dunque Arafat ha trattato le risoluzioni 242 e 338 come parole in codice. I dirigenti palestinesi hanno definito Oslo ‘un accordo tra gentiluomini’. Il loro approccio andava oltre l’ingenuità: era sconsiderato. Si sono comportati come dilettanti.”

Secondo Asad Ghanem, professore di scienze politiche all’università di Haifa ed esperto del nazionalismo palestinese, fin dall’inizio i dirigenti palestinesi erano coscienti che Israele non offriva un vero Stato.

Nelle sue memorie Ahmed Qoreï (uno dei principali architetti di Oslo per quanto riguarda i palestinesi) ha ammesso il suo stupore quando ha cominciato ad incontrare il gruppo di negoziatori israeliani”, spiega Ghanem.

Uri Savir (il capo negoziatore israeliano) ha dichiarato con tutta franchezza che Israele non era favorevole a uno Stato palestinese e che proponevano qualcosa di meno. L’atteggiamento degli israeliani era ‘prendere o lasciare’.”

Simpatia verso i coloni

Tutti gli analisti concordano che fin dall’inizio era del tutto evidente una mancanza di buona fede da parte d’Israele, in particolare per quanto riguardava la questione delle colonie.

Così, invece di bloccare o d’invertire l’espansione delle colonie durante il presunto periodo di transizione di cinque anni previsto dall’accordo, Oslo ha permesso alla popolazione di coloni di crescere a un ritmo notevolmente accelerato.

L’incremento quasi del doppio del numero di coloni in Cisgiordania e a Gaza per raggiungere i 200.000 alla fine degli anni ’90 è stato spiegato in un’intervista del 2003 da Alan Baker, consigliere giuridico del ministero israeliano degli Affari Esteri dopo il 1996 e lui stesso colono.

La maggior parte delle colonie è stata presentata all’opinione pubblica israeliana come dei ‘blocchi’ israeliani, fuori del controllo della neonata Autorità Nazionale Palestinese. Con la firma degli accordi, ha dichiarato Baker, “noi non siamo più una potenza occupante, ma siamo presenti nei territori con il loro (dei palestinesi) consenso e in base al risultato dei negoziati.”

Recenti interviste realizzate da “Haaretz” a dirigenti dei coloni lasciano ugualmente trasparire la simpatia ideologica tra il governo cosiddetto di sinistra di Rabin e il movimento dei coloni.

Israel Harel, che all’epoca dirigeva il Consiglio Yesha, l’organismo dirigente dei coloni, ha giudicato Rabin “molto disponibile”. Ha sottolineato che Zeev Hever, un altro leader dei coloni, aveva lavorato con i responsabili della pianificazione dell’esercito israeliano quando crearono una ‘carta di Oslo’ tagliando la Cisgiordania in diverse aree di controllo.

In merito alle colonie che, secondo la maggior parte degli osservatori, sarebbero state smantellate in base agli accordi, Harel ha constatato: “Quando (Hever) è stato accusato (da altri coloni) di collaborazionismo, ha risposto che ci aveva salvati da un disastro. Loro (l’esercito israeliano) hanno segnato le zone che avrebbero potuto isolare dalle colonie e farle scomparire.

L’avvocato israeliano di Oslo, Joel Singer, ha confermato la reticenza dei dirigenti israeliani ad affrontare il problema delle colonie.

Ci siamo battuti con i palestinesi, per ordine di Rabin e di (Shimon) Peres, contro un congelamento delle colonie,” ha dichiarato ad “Haaretz”. “Fu un grave errore consentire alle colonie di continuare ad espandersi.”

Il rifiuto di Rabin ad agire

Neve Gordon, professore di scienze politiche all’università Ben Gurion, nel sud di Israele, spiega che la prova fondamentale della volontà di Rabin di occuparsi delle colonie si è presentata meno di un anno dopo il processo di Oslo, quando Baruch Goldstein, un colono, ha ucciso e ferito più di 150 musulmani palestinesi durante una preghiera nella città palestinese di Hebron.

Ciò forniva a Rabin l’occasione per espellere i 400 coloni estremisti che si trovavano nel centro di Hebron,” ha detto Gordon a MEE. Ma non lo fece. Gli permise di restare.”

La mancata risposta di Israele alimentò ‘come rappresaglia’ una campagna di attentati suicidi organizzati da Hamas, attentati che a loro volta vennero utilizzati da Israele per giustificare il suo rifiuto di ritirarsi dalla maggior parte dei territori occupati.

Warschawski afferma che Rabin avrebbe potuto smantellare le colonie se avesse agito rapidamente. “I coloni erano in ritirata all’inizio di Oslo, ma egli non agì contro di loro.”

Dopo l’assassinio di Rabin alla fine del 1995 da parte di un ebreo israeliano contrario a Oslo, il suo successore Shimon Peres, anche lui considerato l’architetto del processo di Oslo, secondo Warschawski cambiò tattica: “Peres preferì mettere l’accento sulla riconciliazione interna (tra israeliani) invece che sulla riconciliazione con i palestinesi. Dopo di che il discorso religioso dei coloni estremisti diventò dominante.”

Ciò diede luogo qualche mese più tardi al trionfo elettorale della destra sotto l’egida di Benjamin Netanyahu.

Il differenziale demografico

Gordon sostiene che, per quanto Netanyahu avesse fatto una violenta campagna elettorale contro gli accordi di Oslo, questi ultimi si rivelarono perfetti per il genere di politica di rifiuto che egli coltivava.

Dietro la facciata di vaghe promesse in merito a uno Stato palestinese, secondo il docente universitario “Israele poté rafforzare il progetto di colonizzazione. Le statistiche mostrano che quando ci sono dei negoziati, la crescita demografica della popolazione delle colonie in Cisgiordania aumenta. I coloni crescono rapidamente. E quando c’è un’intifada, le cose rallentano.

Dunque Oslo era ideale per il progetto israeliano di colonizzazione.”

E ciò non è semplicemente dovuto al fatto che, sotto la pressione di Oslo, i coloni religiosi si affrettarono ad ‘appropriarsi delle colline’, come lo presentò Ariel Sharon, celebre generale diventato più tardi primo ministro. Gordon fa riferimento a una strategia del governo, consistente nel reclutare dei coloni di un tipo nuovo nel corso dei primi anni successivi ad Oslo.

All’inizio degli anni ’90, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, Sharon e altri responsabili tentarono di sistemare dei nuovi immigrati russofoni nelle grandi colonie come quella di Ariel, nel centro della Cisgiordania. “Il problema era che molti russi avevano un solo figlio,” spiega Gordon.

Così, al loro posto, Israele iniziò a spostare degli ultraortodossi nei territori occupati. Questi ebrei fondamentalisti che fanno parte della comunità più povera di Israele hanno in genere sette o otto figli. Cercavano disperatamente delle soluzioni abitative, sottolinea Gordon, e il governo non esitò a mettere in opera degli incentivi per attirarli in due nuove colonie ultraortodosse, Modiin Illit e Beitar Illit.

In seguito a questo fatto,” continua Gordon, “Israele non ebbe più bisogno di reclutare molti nuovi coloni. Bastava solo guadagnare tempo con il processo di Oslo e la popolazione dei coloni si sarebbe sviluppata da sola.

Gli ultraortodossi diventarono la principale arma demografica di Israele. In Cisgiordania, i coloni ebrei hanno in genere due figli in più rispetto ai palestinesi – questo differenziale demografico ha un impatto enorme nel corso degli anni.”

Dipendenza palestinese

Secondo Diana Buttu un altro fattore mostra che Israele non ha mai voluto che gli accordi di Oslo dessero luogo a uno Stato palestinese. Poco prima di Oslo, a partire dal 1991, Israele introdusse delle restrizioni alla circolazione dei palestinesi molto più rigide, soprattutto un sistema di permessi sempre più perfezionato.

Gli spostamenti da Gaza verso la Cisgiordania diventarono impossibili se non in caso di necessità,” spiega. “Non erano più un diritto.”

Questo processo, rileva il professor Ghanem, si è radicato nel corso dell’ultimo quarto di secolo e alla fine ha dato come risultato una completa separazione fisica e ideologica tra Gaza e la Cisgiordania, ormai governate rispettivamente da Hamas e dal Fatah di Abbas.

Come ha osservato Gordon, le disposizioni economiche di Oslo, rette dal Protocollo di Parigi del 1995, hanno privato i palestinesi anche della loro autonomia finanziaria.

I palestinesi non hanno ottenuto una moneta propria, hanno dovuto utilizzare lo shekel israeliano. Anche un’unione doganale ha relegato i palestinesi in un mercato dipendente dai prodotti israeliani e ha permesso a Israele di percepire dei diritti doganali per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il rifiuto di trasferire questo denaro è una minaccia che Israele brandisce regolarmente contro i palestinesi.”

Secondo gli analisti, i dirigenti palestinesi che, come Arafat, furono autorizzati dal processo di Oslo a ritornare dal loro esilio in Tunisia – a volte indicati come ‘stranieri’ – ignoravano totalmente la situazione sul terreno.

Neve Gordon, che all’epoca dirigeva la sezione israeliana di “Medici per i diritti umani”, si ricorda di aver incontrato al Cairo dei giovani americani e canadesi di origine palestinese per discutere di accordi ulteriori in materia di salute di cui sarebbe stata responsabile l’Autorità Nazionale Palestinese.

Erano colti e brillanti, ma ignoravano quello che succedeva sul terreno. Non avevano alcuna idea di quello che era necessario esigere da Israele,” afferma.

Invece Israele aveva degli esperti che conoscevano profondamente la situazione.”

Warschawski ha ricordi simili. All’epoca accompagnò un palestinese di alto rango appena arrivato da Tunisi per una visita alle colonie. Seduto in macchina, il responsabile rimase a bocca aperta durante tutto il percorso.

Conoscevano dei dati, ma non sapevano fino a che punto le colonie fossero radicate ed integrate nella società israeliana,” spiega. “Fu in quel momento che cominciarono a capire per la prima volta la logica delle colonie e a rendersi conto delle reali intenzioni di Israele.”

Attirati in una trappola

Warschawski osserva che l’unica persona del suo ambiente che aveva rifiutato fin dall’inizio il battage pubblicitario riguardo agli accordi di Oslo era Matti Peled, un generale diventato attivista pacifista che conosceva bene Rabin.

Quando ci incontrammo per discutere degli accordi di Oslo, Matti ci prese in giro. Disse che non ci sarebbe stato alcun Oslo, non ci sarebbe stato nessun processo che avrebbe portato alla pace.”

Secondo Ghanem, i dirigenti palestinesi finirono per rendersi conto di essere stati attirati in una trappola.

Non potevano procedere verso la formazione di uno Stato perché Israele gli sbarrava la strada,” spiega. “Ma allo stesso modo non potevano neppure rinunciare al processo di pace. Non osarono smantellare l’Autorità Nazionale Palestinese e quindi Israele prese il controllo della politica palestinese.

Se se ne va Abbas, qualcun altro prenderà il suo posto alla testa dell’Autorità Nazionale Palestinese e il suo ruolo continuerà.”

Perché i dirigenti palestinesi entrarono nel processo di Oslo senza prendere maggiori precauzioni?

Secondo Diana Buttu Arafat, come gli altri dirigente dell’OLP che vivevano in esilio a Tunisi, aveva motivi per sentirsi in pericolo all’idea di stare fuori dalla Palestina, una questione che sperava di veder risolvere con Oslo.

Voleva rimettere piede in Palestina,” sostiene. “Si sentiva gravemente minacciato dai dirigenti ‘dall’interno’, anche se gli erano fedeli. La prima Intifada aveva dimostrato la loro capacità di guidare una rivolta e di mobilitare il popolo senza di lui.

Aveva anche un grande bisogno di un riconoscimento internazionale e di legittimità.”

Una guerra di trincea

Secondo Gordon, Arafat pensava di poter ottenere alla fine delle concessioni da Israele.

La vedeva come una guerra di trincea. Una volta nella Palestina storica, avrebbe avanzato da trincea a trincea.”

Warschawski nota che Arafat e altri dirigenti palestinesi gli dissero che pensavano di poter esercitare un’influenza importante su Israele.

Pensavano che Israele avrebbe posto fine all’occupazione in cambio di una normalizzazione dei rapporti con il mondo arabo. Arafat si considerava come il ponte che avrebbe portato a Israele il riconoscimento che esso desiderava. La sua posizione era che Rabin avrebbe dovuto baciargli la mano in cambio di un successo così grande.

Aveva torto.”

Gordon fa riferimento al discorso iniziale sui vantaggi economici di Oslo, secondo cui si pensava che la pace avrebbe aperto il commercio di Israele con il mondo arabo trasformando Gaza nella Singapore del Medio Oriente.

Questo ‘dividendo della pace’ è stato tuttavia contrastato da un ‘dividendo della guerra’ altrettanto attraente.

Ancora prima dell’11 settembre, l’esperienza di Israele nei campi della sicurezza e della tecnologia si era dimostrata redditizia. Israele capì che c’era parecchio denaro da guadagnare nella lotta contro il terrorismo.”

In realtà Israele è riuscito a trarre vantaggio dal dividendo della pace come da quello della guerra.

Diana Buttu ha rilevato che più di 30 Paesi, tra cui il Marocco e l’Oman, avevano sviluppato rapporti diplomatici o economici con Israele in seguito agli accordi di Oslo. Gli Stati arabi rinunciarono alla loro politica di boicottaggio e di opposizione alla normalizzazione e le grandi compagnie straniere smisero di temere di essere penalizzate dal mondo arabo se avessero commerciato con Israele.

Il trattato di pace (del 1994) tra Israele e la Giordania non avrebbe mai potuto essere concluso senza Oslo,” sottolinea.

Invece di denunce chiare contro l’occupazione, i palestinesi si sono ritrovati di fronte al vocabolario dei negoziati e dei compromessi per la pace.

I palestinesi sono diventati un problema di carattere umanitario, chiedono l’elemosina al mondo arabo perché l’Autorità Nazionale Palestinese possa aiutare a mantenere l’occupazione invece di guidare la resistenza.

Grazie a Oslo, Israele ha normalizzato i suoi rapporti nella regione, mentre paradossalmente i palestinesi sono diventati un corpo estraneo.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’UNRWA e il tentativo di Trump di cancellare il popolo palestinese

Neve Gordon

3 settembre 2018, Al Jazeera

Tagliando i finanziamenti all’UNRWA, Trump vuole eliminare la richiesta palestinese del diritto al ritorno

Il presidente Donald Trump sembra divertirsi a fare esperimenti sugli esseri umani.

Prima è arrivata la separazione di bambini dai loro genitori. Nel maggio 2018 Trump ha ordinato alla “United States Immigration and Customs Enforcement Agency” [“Agenzia USA per il Controllo dell’Immigrazione e le Dogane”] (ICE) di incarcerare nelle prigioni federali tutti gli adulti catturati mentre cercavano di attraversare il confine, trasferendo i loro figli a famiglie affidatarie o in centri di detenzione. La maggior parte di questi bambini è stata tenuta in quelle che sono sostanzialmente delle gabbie, e ad alcuni sono stati somministrati persino psicofarmaci senza il consenso dei genitori.

Il presupposto è che dolore, angoscia e sofferenza modificano il comportamento umano e che traumatizzare un gran numero di bambini e di loro genitori serve a scoraggiare altre persone, persino quelle che fuggono da zone di conflitto in cui la loro vita è in pericolo, dal cercare di entrare negli USA. Il punto di vista etico è che il fine giustifica i mezzi, anche se i mezzi includono politiche crudeli e disumane.

Ora ecco l’ultimo esperimento di Trump, questa volta con l’istruzione, le cure mediche e la fame. Adottando un discorso distorto, questo esperimento è presentato come parte di un innovativo piano di pace israelo-palestinese.

L’idea è di interrompere qualunque finanziamento alla United Nations Relief Works Agency [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione, ndtr.] (UNRWA), che negli ultimi 70 anni ha fornito un aiuto indispensabile a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Siria e in Giordania.

Il portavoce dell’UNRWA, Chris Gunness, ha chiaramente precisato le ripercussioni di simili iniziative: “A scanso di equivoci,” ha affermato, “questa decisione probabilmente avrà un impatto devastante sulla vita di 526.000 minori che ricevono quotidianamente un’istruzione dall’UNRWA; su 3,5 milioni di malati che si recano alle nostre strutture mediche per ricevere cure; a 1,7 milioni di persone in condizioni di insicurezza alimentare che ricevono assistenza da noi, e decine di migliaia di donne, bambini e disabili rifugiati in condizioni di vulnerabilità che si rivolgono a noi.”

Certamente, se la riduzione dei finanziamenti non verrà coperta da altri Paesi, la decisione di Trump avrà effetti devastanti sulle vite di milioni di palestinesi.

Questo esperimento sembra avere due diversi – anche se in relazione uno con l’altro – obiettivi.

Primo, a quanto pare Trump vuole verificare se una politica di distruzione e un intervento antiumanitario possono essere utilizzati come strumento di pacificazione in questo annoso conflitto.

Ciò rappresenta un’inversione delle parti rispetto al paradigma di Oslo, in cui l’Unione Europea e altri attori internazionali hanno deciso di investire centinaia di milioni di dollari ogni anno sui progetti di costruzione di uno Stato palestinese. Benché l’obiettivo di Oslo possa non essere mai stato la creazione di uno Stato palestinese indipendente, si pensava ancora che la vita dei palestinesi avesse un certo valore.

A quanto pare, l’idea che caratterizzava gli accordi di pace del 1993 era di trasferire il controllo di un certo numero di istituzioni e politiche – come quelle relative all’educazione, alla salute e alla sicurezza alimentare – ai palestinesi per liberare Israele dalla responsabilità di gestire la vita quotidiana della popolazione che aveva colonizzato. E, mentre Israele abbandonava le proprie responsabilità sul popolo palestinese, continuava a conservare il controllo sulla maggior parte della sua terra.

Al contrario l’attuale idea di Trump è semplicemente di imporre un “processo di pace” distruggendo tutte le istituzioni che gli Stati moderni utilizzano per gestire la propria popolazione, portando al contempo gli abitanti sull’orlo della morte sociale.

Pertanto non è un caso che nello stesso momento in cui Trump taglia ogni finanziamento all’UNRWA, egli abbia anche deciso di ridurre l’aiuto all’Autorità Nazionale Palestinese. La strategia è chiara: i palestinesi devono essere prima ridotti a quello che il politologo italiano Giorgio Agamben ha definito “nuda vita” per obbligarli ad accettare il “grande accordo” che il presidente Trump intende offrire loro.

Il secondo obiettivo dell’esperimento è cancellare la condizione di rifugiati dei palestinesi.

È importante ricordare che l’UNRWA è stata costituita per assistere i 700.000 rifugiati palestinesi dopo la creazione di Israele nel 1948. Che questi palestinesi fossero fuggiti o fossero stati espulsi con la forza dalle loro città e villaggi può essere un punto in discussione, ma non c’è alcun dubbio che, dopo che la guerra era finita, Israele abbia rifiutato di consentire ai palestinesi di tornare alle loro case, violando quindi l’articolo 11 della risoluzione 194 delle Nazioni Unite. È così che Israele ha creato il problema dei rifugiati.

Oggi i discendenti di quei rifugiati sono oltre 5 milioni e si è sempre dato per scontato che il loro status sarebbe stato risolto con la creazione di uno Stato palestinese. Dato che è estremamente improbabile che uno Stato palestinese vitale sia una componente dell’”accordo di pace” di Trump, la strategia ora si adopera per eliminare la grande maggioranza dei rifugiati palestinesi come dato storico e contemporaneo.

Ripetendo l’accusa del primo ministro Benjamin Netanyahu di “falsi” rifugiati palestinesi che minacciano lo Stato di Israele perpetuando il diritto al ritorno, Trump sta attualmente affermando che solo le persone nate e che hanno effettivamente vissuto nella Palestina mandataria [cioè governata dagli inglesi, ndtr.] prima della guerra del 1948 – gente che ora ha più di 70 anni – possono essere considerate rifugiate. I loro figli e nipoti no.

Anche qui la logica è chiara. Se viene bloccato il finanziamento all’agenzia che si occupa di milioni di rifugiati, allora essi non saranno più considerati tali, spianando così la strada ad un accordo nei termini decisi da Israele. Bloccare i finanziamenti USA, in altri termini, intende semplicemente avvalorare la folle realtà della post-verità che è diventata il marchio di fabbrica di Trump: in questo caso, che i rifugiati non siano rifugiati.

Mentre nel mondo degli affari di Trump il concetto che i diritti di proprietà possano essere abrogati dopo una generazione sembrerebbe una maledizione, in realtà, attaccare crudelmente gli oppressi collima perfettamente con il suo modus operandi. La sua visione del mondo forse viene espressa al meglio in un recente tweet postato dal suo alleato Netanyahu:

I deboli crollano, vengono massacrati e cancellati dalla storia mentre i forti, nel bene o nel male, sopravvivono. I forti sono rispettati, ci si allea con i forti, e alla fine con i forti si fa la pace.”

Dalla Cambogia alla Cina e fino all’Europa, il XX^ secolo ha mostrato la sua parte di esperimenti sugli esseri umani, tutti con conseguenze atroci. Sfortunatamente, Trump non ha studiato la storia. Ce la sta mettendo tutta per presentare la sua introduzione di nuovi esperimenti come la ricerca di un accordo di pace, ma, come ha scritto recentemente Gideon Levy su “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], in realtà si tratta di una dichiarazione di guerra contro il popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Sull’autore:

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Un ‘tradimento nazionale’ da parte di Fatah…o di Hamas?

Ramona Wadi

16 agosto 2018, Middle East Monitor


Ieri, quando è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, mediato dall’ONU e dall’Egitto, Ramallah è sbottata in una litania di furibondi commenti. L’ importante dirigente di Fatah Azzam Al-Ahmad è stato così citato dall’agenzia di informazioni Wafa: “La tregua tra Hamas e Israele di alcuni giorni fa è un tradimento del popolo palestinese e della sua causa nazionale.” La dirigenza palestinese, ha dichiarato, “non ha tempo per simili inutili pagliacciate.”

Il cessate il fuoco è soltanto un cessate il fuoco. La retorica ostile di Israele prosegue, in particolare da parte del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che ha ribadito che è imminente una nuova ripresa di violenze contro Gaza. Se si eliminano le sottigliezze diplomatiche, come occorrerebbe fare per ridurre la confusione riguardo alle intenzioni, è chiaro che né Hamas né Israele hanno concordato nulla che sia fuori dall’ordinario. Hamas ha solo chiesto l’adempimento delle condizioni che hanno portato alla conclusione dell’operazione “Margine Protettivo” nel 2014. Questo non è un tradimento nazionale, e neppure una pagliacciata, come sostenuto da Al-Ahmad. È una dimostrazione di quanto Hamas continui ad incontrare vincoli sia nella resistenza che nella diplomazia. Parte della colpa ricade sull’Autorità Nazionale Palestinese e sulla sua disponibilità ad appoggiare la pregiudizievole posizione internazionale che mira alla completa colonizzazione della Palestina.

Il tradimento nazionale di cui i dirigenti di Fatah dovrebbero parlare è, senza dubbio, l’accettazione degli Accordi di Oslo, che si sono dimostrati una grottesca pagliacciata per i palestinesi – per dirla in sintesi, un bagno di sangue che ha lacerato la terra e il popolo attraverso i compromessi su Gerusalemme, l’espansione delle colonie, il coordinamento sulla sicurezza con Israele, il mercanteggiamento sui prigionieri palestinesi, lo sfruttamento della resilienza e resistenza palestinese, il trascurare l’importanza del diritto al ritorno dei palestinesi e la collaborazione con la comunità internazionale nel mantenere la retorica compromissoria dei due Stati e spogliare i palestinesi del loro diritto alla Palestina storica.

Nel momento in cui Hamas si opponeva strenuamente agli Accordi di Oslo, Fatah era impegnata a celebrare il suo status compromissorio. Durante i periodi in cui Israele ha usato Gaza come terreno di sperimentazione per i suoi armamenti, l’ANP invitava i palestinesi ad abbandonare la resistenza. Quando Gaza cercava i mezzi per alleviare le proprie sofferenze dopo l’operazione “Margine Protettivo”, ed anche negli anni seguenti, l’ANP applicava la linea statunitense di costringere Hamas a rinunciare al suo governo dell’enclave. L’ANP ha anche accettato e contribuito alla frammentazione dell’identità palestinese tra Gaza e la Cisgiordania occupata, contrapponendo la resistenza armata a quella nonviolenta come prerogative di differenti entità, piuttosto che come strumenti complementari attraverso cui i palestinesi possono costruire la propria lotta anticoloniale.

Se Fatah può criticare Hamas riguardo ad un frettoloso accordo, non è forse tempo che l’ANP si guardi allo specchio e si faccia un’autocritica per aver accettato le condizioni che hanno lasciato i palestinesi senza opzioni politiche? I palestinesi non si fanno illusioni sulla sostanza dell’accordo. L’impegno del popolo palestinese alla resistenza rimane intatto. Perché Hamas sia accusato di tradimento nazionale, deve abbassarsi alle tattiche utilizzate dall’ANP. Se questo accadesse, sarà il popolo palestinese a parlare di tradimento nazionale. Non dimentichiamo che i palestinesi già sanno che cosa sia un tradimento nazionale – gli Accordi di Oslo e le loro conseguenze coloniali.

Suona ironico che Fatah dica di non avere tempo per “inutili pagliacciate”, quando la sua struttura non è altro che una gerarchia di patetici intrattenitori.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Palestina non è occupata, è colonizzata.

Ramzy Baroud

5 giugno 2018, Middle East Monitor

Il 5 giugno 2018 ricorre il 51° anniversario dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza.

Ma, a differenza della mobilitazione popolare di massa che ha preceduto l’anniversario della Nakba – la catastrofica distruzione della Palestina nel 1948 – il 15 maggio, è difficile che l’anniversario dell’occupazione generi una tale mobilitazione.

Il prevedibile fallimento del ‘processo di pace’ e l’inevitabile fine della ‘soluzione dei due Stati’ hanno spostato l’attenzione dal porre fine all’occupazione in sé al problema più ampio, e complessivo, del colonialismo israeliano in Palestina.

Le mobilitazioni dal basso a Gaza e in Cisgiordania, nonché tra le comunità beduine nel deserto del Negev, stanno di nuovo facendo crescere le aspirazioni nazionali nel popolo palestinese. Aspirazioni che per decenni, a causa della visione limitata della leadership palestinese, sono state confinate a Gaza e Cisgiordania.

In un certo senso, l’‘occupazione israeliana’ non è più un’occupazione secondo gli standard e le definizioni internazionali. È una semplice fase della colonizzazione sionista della Palestina storica, un processo che è iniziato più di 100 anni fa e continua ancora oggi.

Secondo il sito del Comitato della Croce Rossa Internazionale, “la legislazione sull’occupazione è innanzitutto motivata da considerazioni di tipo umanitario; sono esclusivamente la situazione sul campo a determinarne l’applicazione”.

È per motivi pratici che spesso utilizziamo il termine ‘occupazione’ in riferimento alla colonizzazione israeliana del territorio palestinese occupato dopo il 5 giugno 1967. Il termine consente l’enfasi costante sulle norme umanitarie che dovrebbero regolare il comportamento di Israele come potenza occupante.

Tuttavia, Israele ha già violato, e per diverse volte, la maggior parte delle condizioni di ciò che, da una prospettiva di diritto internazionale, viene considerata ‘occupazione’, come formulato nella Convenzione dell’Aia del 1907 (artt. 42-56) e nella Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

Secondo tali definizioni, con ‘occupazione’ si intende una fase provvisoria, una situazione temporanea che dovrebbe terminare con l’applicazione del diritto internazionale in relazione a quella particolare situazione.

Occupazione militare’ non vuol dire sovranità dell’occupante sull’occupato; non può comprendere il trasferimento di cittadini dai territori della potenza occupante verso le terre occupate; non può includere la pulizia etnica, la distruzione delle proprietà, le punizioni collettive e le annessioni.

Spesso si sostiene che Israele è un occupante che ha violato le regole dell’occupazione come stabilite dal diritto internazionale.

Sarebbe stato questo il caso un anno, due o cinque dopo che è avvenuta l’occupazione iniziale, ma non dopo 51 anni. Da allora, l’occupazione si è trasformata in una colonizzazione a lungo termine.

Una dimostrazione evidente è l’annessione, da parte di Israele, di territori occupati, comprese le Alture del Golan siriano e la palestinese Gerusalemme Est nel 1981. Tale decisione non ha rispettato in alcun modo le leggi internazionali, il diritto umanitario o qualsiasi altra normativa.

I politici israeliani hanno, per anni, discusso pubblicamente dell’annessione della Cisgiordania, soprattutto di aree popolate da insediamenti ebraici illegali, costruiti in violazione del diritto internazionale.

Le centinaia di insediamenti che Israele ha costruito in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non sono considerati strutture temporanee.

La divisione della Cisgiordania in tre zone – area A, B e C [in base agli accordi di Oslo e a seconda dell’attribuzione all’ANP o a Israele del controllo amministrativo e militare, ndt.] – ognuna regolamentata secondo diversi dettami politici e norme militari, non ha precedenti nel diritto internazionale.

Israele sostiene, contrariamente al diritto internazionale, di non essere più potenza occupante a Gaza; tuttavia, sulla Striscia è imposto, da oltre 11 anni, un assedio israeliano terrestre, marittimo e aereo. Tra un susseguirsi di guerre israeliane che hanno ucciso migliaia [di palestinesi, ndt] e un blocco ermetico che ha spinto la popolazione palestinese sull’orlo della carestia, Gaza sopravvive in isolamento.

Gaza è ‘territorio occupato’ solo di nome, senza che nessuna delle leggi umanitarie venga applicata. Solo nelle ultime 10 settimane, sono stati uccisi oltre 120 manifestanti disarmati, giornalisti e medici e 13.000 sono stati feriti, eppure la comunità e il diritto internazionale restano inerti, non in grado di far fronte o sfidare i leader israeliani o di sconfiggere i veti americani ugualmente spietati.

I Territori Palestinesi Occupati hanno passato, già da molto, il confine tra l’essere occupati e l’essere colonizzati. Ma ci sono dei motivi per i quali noi restiamo prigionieri delle vecchie definizioni, il principale dei quali è l’egemonia americana nei discorsi legali e politici sulla Palestina.

Uno dei più importanti risultati giuridici e politici della guerra israeliana del giugno del 1967 contro molti Paesi arabi – guerra condotta con il pieno supporto degli USA – è la ridefinizione della terminologia giuridica e politica sulla Palestina.

Prima di quella guerra, il dibattito era per lo più dominato da questioni urgenti come il ‘diritto al ritorno’ dei rifugiati palestinesi, che dovevano poter tornare alle loro case e proprietà nella Palestina storica.

La Guerra dei sei giorni ha spostato completamente gli equilibri di potere, e ha consolidato il ruolo dell’America come principale sostenitore di Israele sulla scena internazionale.

Vennero approvate numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU per delegittimare l’occupazione israeliana: le risoluzioni n. 242, 338 e quella di cui si parla meno, ma ugualmente significativa, la n.497.

La Risoluzione 242 del 1967 chiedeva “il ritiro delle forze armate israeliane” dai territori da esse occupati nella Guerra dei sei giorni. La Risoluzione 338, che seguì alla guerra del 1973, accentuò e rese più chiara quella richiesta. La Risoluzione 497 del 1981 fu la risposta all’annessione israeliana delle Alture del Golan. Rese tale iniziativa ‘nulla, come non avvenuta e priva di effetti sul piano legale e internazionale’.

Lo stesso dicasi per l’annessione di Gerusalemme e per ogni altro insediamento coloniale o tentativo israeliano volto a cambiare lo status legale della Cisgiordania.

Ma Israele agisce secondo uno schema mentale totalmente differente.

Considerando che oggi ci sono tra i 600.000 e i 750.000 ebrei israeliani che vivono nei ‘Territori Occupati’, e che la più grande colonia, quella di Modi’in Illit [a nord di Gerusalemme, ndt.], ospita oltre 64.000 ebrei israeliani, bisognerebbe chiedersi che tipo di progetto di occupazione militare stia mai implementando Israele.

Israele è un progetto coloniale di insediamento, iniziato quando il movimento sionista aspirava a costruire una patria esclusiva per gli ebrei in Palestina, a spese degli abitanti nativi di quella terra alla fine del XIX° secolo.

Da allora non è cambiato niente. Solo la facciata, le definizioni legali e il discorso politico. La verità è che i palestinesi continuano a soffrire le conseguenze del colonialismo sionista e continueranno a portare questo fardello finché quel peccato originale non sarà coraggiosamente affrontato e rimediato con la giustizia.

Il punto di vista espresso in questo articolo appartiene all’autore e non riflette necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)