Il sentore di antisemitismo nel discorso di Abbas non cambia il suo appoggio alla soluzione dei due Stati

Amira Hass

2 maggio 2018, Haaretz

Il discorso del presidente davanti al Consiglio Nazionale Palestinese ha rispecchiato il suo stile autoritario e il suo rifiuto di ascoltare le critiche.

La storia degli ebrei è stata imposta ai palestinesi e quindi questi ultimi l’affrontano in ogni occasione. Tutti i palestinesi si vedono come legittimati, e in effetti lo sono, a proporre la storia della propria terra e del proprio popolo – come un contrappeso rispetto alla narrazione sionista.

Questo è quanto fa anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas nei suoi discorsi durante incontri pubblici, e lo ha fatto di nuovo lunedì pomeriggio all’apertura della 23^ sessione, attesa da tempo, del Consiglio Nazionale Palestinese, che dovrebbe essere il parlamento di tutti i palestinesi.

La sintesi di Abbas della storia di Israele è che la fondazione di uno Stato per gli ebrei è stato un progetto colonialista intrapreso da Nazioni cristiane e che i fautori del progetto erano antisemiti che non volevano che gli ebrei vivessero nei loro Paesi. Ma la legittima sintesi del presidente palestinese contiene imbarazzanti errori, importanti omissioni e anche un’opinione con un forte sentore di antisemitismo: in Europa gli ebrei erano odiati non per la loro religione, ma a causa delle loro attività che riguardavano l’usura e le banche.

Questa insistenza nel cadere nella trappola di dichiarazioni che aiutano l’hasbara (diplomazia pubblica) israeliana, che inoltre ignora totalmente i suoi importanti messaggi riguardanti il cammino verso la pace, rivela qualcosa riguardo all’uomo ed al suo stile di governo: è fermo sulle le sue posizioni, non ascolta le critiche e non si consulta con altri – oppure sceglie consiglieri che non gli dicano niente che lui non voglia sentire. Inoltre sceglie di essere aggiornato solo su quello che gli conviene.

Queste sono alcune delle caratteristiche di cui Abbas ha avuto bisogno per riuscire a diventare il leader autoritario di Fatah, dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt.] e dell’Autorità Nazionale Palestinese, insieme al suo controllo delle finanze e all’appoggio che continua a ricevere dai Paesi europei grazie al fatto di rimanere legato agli accordi di Oslo. Queste caratteristiche gli hanno consentito di continuare con quello che aveva iniziato Yasser Arafat: svuotare l’OLP del suo contenuto che riuniva tutti i palestinesi e, in pratica, subordinarla all’ANP. 

In quanto unico governante, Abbas ignora costantemente le decisioni delle istituzioni rappresentative. Di conseguenza il coordinamento sulla sicurezza tra gli apparati di sicurezza palestinese e Israele continua, nonostante le decisioni di porvi fine prese negli scorsi anni da Fatah e dall’OLP.

La parte storiografica del discorso di Abbas di lunedì non è quella importante. La sua sottesa minaccia agli abitanti della Striscia di Gaza e ad Hamas di aver intenzione di non includerli più nel bilancio dell’ANP o di ridurre ulteriormente la quota che li riguarda, è molto più importante e ha preoccupanti conseguenze per il futuro.

Il presidente dell’ANP ha anche rilevato che “quelle che vengono chiamate Primavere Arabe” sono state notizie false, inventate dall’America come mezzo per smantellare i Paesi arabi. Una simile dichiarazione mostra un fondamentale, profondo disprezzo per le rivolte popolari e una sottovalutazione delle sofferenze dei civili sotto i loro regimi autoritari.

Data questa mancanza di rispetto, le affermazioni di Abbas secondo cui la strada per uno Stato palestinese passerà attraverso una lotta popolare (non armata) contro l’occupazione israeliana insieme ad iniziative diplomatiche possono essere interpretate come niente più che dichiarazioni di circostanza. Una lotta popolare è molto più di manifestazioni in aree di conflitto contro l’esercito israeliano e, come hanno detto importanti membri di Fatah, richiede un cambiamento fondamentale nell’atteggiamento dell’ANP verso gli accordi di Oslo. Il messaggio implicito dei giudizi di Abbas sulle Primavere Arabe è che, finché rimarrà al potere, un simile cambiamento non avverrà.

La sintesi storiografica di Abbas termina con questa conclusione: “Noi diciamo: non li espelleremo. Noi diciamo: vivremo insieme a voi sulla base dei due Stati.”

Nelle sue considerazioni ha ripetuto alcune volte che “ci impegniamo” per questa soluzione del conflitto con Israele (cioè all’interno dei confini del 1967), con Gerusalemme est come capitale dello Stato di Palestina. Qui il suo autoritarismo consente ad Abbas di attenersi a una soluzione a lungo proposta che ha perso il suo senso e la sua logica, soprattutto agli occhi della generazione più giovane.

Abbas ha affermato di basare le proprie opinioni su autori ebrei, e persino sionisti, a iniziare da Arthur Koestler il “sionista,” ha sottolineato, e sulla tesi proposta nel libro di Koestler “La tredicesima tribù”, secondo la quale gli ebrei askenaziti sarebbero discendenti del popolo khazaro [vissuto tra il Caucaso e l’Ucraina orientale fino al XIII secolo e convertitosi nel VIII secolo all’ebraismo, ndt.]. Questo popolo non è semita, ha affermato Abbas: “Non hanno alcun rapporto con i (popoli) semiti o con i nostri signori Abramo e Giacobbe.”

Questi ebrei (in altre parole, i khazari convertiti), ha aggiunto, si sono spostati nell’Europa orientale ed occidentale e, ogni 10 o 15 anni, hanno patito un massacro in un Paese o nell’altro, dall’XI secolo fino all’Olocausto. “E perché ciò è successo? Diranno “perché siamo ebrei”. E io vorrei presentare tre ebrei in tre libri, e sono: Giuseppe Stalin…”

A questo punto del discorso di Abbas, che avrebbe dovuto spiegare che gli ebrei sono stati perseguitati a causa delle loro attività nell’usura e nelle banche, c’è stato un mormorio; qualcuno gli ha sussurrato che Stalin non era ebreo. Nel testo scritto del discorso di Abbas di lunedì, rilasciato dall’agenzia ufficiale di notizie palestinese Wafa, Stalin era di nuovo definito un “autore ebreo.”

In seguito nel testo erano citati i nomi di “Abraham e Yishaq Notsherd” – due personaggi che chi scrive non conosce. Durante lo sproloquio del presidente dell’ANP, diffuso dal vivo sul canale palestinese, sembra che egli abbia detto Isaac Deutscher, uno storico marxista.

Abbas ha anche sottolineato che la fondazione di uno Stato per gli ebrei in Palestina è nata come idea dei cristiani e di statisti come Cromwell e Napoleone, e del “console americano a Gerusalemme nel 1850.” Prima che Arthur Balfour stilasse la sua famosa dichiarazione [che impegnò l’impero britannico a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], ha detto Abbas, “egli aveva preso una decisione che avrebbe impedito l’ingresso degli ebrei in Gran Bretagna a causa del suo odio per loro” Si stava in realtà riferendo all’ “Aliens Act” [legge sugli stranieri] approvato nel 1905 dal parlamento inglese, quando Balfour era primo ministro. La legge limitava l’immigrazione da luoghi che non facessero parte dell’impero britannico ed intendeva essere una risposta all’immigrazione di massa di ebrei, in particolare dall’Europa orientale dal 1880 [in seguito a pogrom nell’impero zarista, ndt.]).

Tale interpretazione della dichiarazione Balfour e il suo rapporto con l’avversione di Balfour verso gli ebrei non è infrequente. Abbas non ha mancato di citare l’“Accordo di trasferimento” tra le autorità naziste e l’Agenzia Ebraica (o con la banca Anglo-Palestinese di Gerusalemme, come ha detto Abbas), che consentì ad ebrei benestanti di emigrare dalla Germania in Palestina.

Abbas non cambierà. Durante i quattro giorni di riunione del CNP, risulterà chiaro se i suoi critici si sono sbagliati quando hanno detto che egli aggraverà la divisione interna tra i palestinesi e, in pratica, seppellirà definitivamente l’OLP come organizzazione pluralistica e di tutti i palestinesi.

La sua implicita minaccia agli abitanti di Gaza e ad Hamas secondo cui intende smettere di includerli nel bilancio dell’ANP è più rilevante.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come se Israele non avesse fatto niente di cui vergognarsi prima dell’avvento degli smartphone

Amira Hass

16 aprile 2018, Haaretz

I soldati israeliani che hanno ucciso palestinesi disarmati non sono spuntati dal nulla per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete, ricordate o credete.

La vergogna è importante, è un peccato che arrivi così tardi. La vergogna è necessaria, è triste che così poche persone la provino. Quello che rende possibile questa tardiva apparenza di vergogna è la tecnologia che ha trasformato ogni persona con uno smartphone in un fotografo e ogni applicazione delle reti sociali in uno schermo gigante, portando in ogni casa prove fotografiche imbarazzanti. In rari casi filtrano attraverso il muro dell’insabbiamento e della menzogna innalzato dall’esercito israeliano e attraverso la corazza del “sono comunque tutti terroristi” che gli israeliani indossano volontariamente.

Dalla vergogna a lungo rimandata possiamo intuire che ci sono israeliani che credono che i soldati dell’esercito abbiano iniziato solo poche settimane fa a sterminare palestinesi disarmati. Cioè credono che solo da quando sono comparsi gli smartphone, con la loro possibilità di smascherare pubblicamente in tutta la loro nuda vergogna i soldati e i loro superiori, i comandanti abbiano iniziato a ordinare ai loro soldati di uccidere anche in assenza di un pericolo mortale. In altre parole, che fino a poco tempo fa, finché non sono arrivati gli smartphone, la purezza delle armi venisse scrupolosamente rispettata e non ci fosse spazio per la vergogna. E quindi che sia così anche oggi, in tutti i casi in cui soldati e poliziotti uccidono e feriscono palestinesi quando non ci sono telefonini a riprenderli. Gli israeliani che si vergognano credono che l’esercito menta solo quando c’è una prova fotografica della bugia. In sua assenza l’esercito israeliano e la polizia dicono la verità, i palestinesi e un pugno di persone di sinistra sono quelli che mentono.

La vergogna è demoralizzante per un’altra ragione: ci ricorda della debolezza della parola scritta quando non si basa sulla versione degli avvenimenti del regime, ma piuttosto sulla testimonianza delle vittime del regime. Prima che ci fossero cellulari con videocamera e telecamere di sicurezza ad ogni angolo, raccoglievamo le testimonianze di decine di testimoni oculari. Incrociavamo le loro versioni, verificavamo, esaminavamo, facevamo domande – spesso eravamo sul posto quando avvenivano gli incidenti – e scrivevamo e pubblicavamo. Ma era sempre la nostra parola contro quella dell’essere assolutamente puro: l’ufficio del portavoce dell’esercito.

L’immagine che si voleva trasmettere dell’esercito e del governo era fabbricata sulle scrivanie delle redazioni e nelle strade di Tel Aviv e di Kfar Sava. Ogni giorno e in ogni operazione, il superpotere palestinese risorge per distruggerci e per attaccare la piccola Israele e i suoi teneri figli diciottenni che sono apparsi nel territorio della superpotenza. Non è così: i soldati israeliani che uccidono palestinesi disarmati non sono spuntati fuori per la prima volta tre settimane fa. Né le giustificazioni dell’esercito sono iniziate solo allora. Siete voi che non leggete o non ricordate o non credete.

Alla vostra attenzione

Ma ditemi, voi che vi vergognate, e a ragione, non vi vergognate del fatto che Israele rubi l’acqua ai palestinesi e imponga loro limitate quote di consumo? Non vi vergognate del rifiuto di Israele di collegare migliaia di palestinesi della Cisgiordania e del Negev israeliano al servizio idrico?

E quando Israele espelle gli abitanti di Umm al-Hiran dalla loro baraccopoli del Negev, non morite di vergogna per lo Stato e per la bella comunità modello, basata su valori ebraici, che sarà costruita sulla terra degli espulsi? Non vi vergognate dello Stato che in tutti questi anni ha impedito il collegamento di Umm al-Hiran alla rete idrica ed elettrica, o dei giudici della Corte Suprema che hanno permesso le espulsioni? Non provate vergogna quando un pugno di israeliani scende dalle proprie colonie e dagli avamposti per attaccare ripetutamente i villaggi palestinesi dei dintorni? Non arrossite, né sbiancate, alla vista dei soldati che stanno a guardare e lasciano che essi aggrediscano, distruggano, sradichino e taglino? E quando la polizia non fa nessuna ricerca dei responsabili, persino quando sono stati filmati e il loro luogo di residenza è noto, non vi vergognate ancora di più? Non provate vergogna per il solo fatto di sapere che questo metodo di violenza dei coloni – incoraggiato dal silenzio delle autorità – è vecchio tanto quanto la stessa occupazione?

Il seguente fatto – 2,5% della terra dello Stato è destinata al 20% della popolazione (i cittadini palestinesi di Israele) – non fa sì che voi, per la vergogna, vogliate che la terra si apra e vi inghiotta?

E cosa ne dite dei pochi abitanti di Gaza a cui è permesso di viaggiare all’estero attraverso il ponte di Allenby [posto di confine tra la Cisgiordania occupata e la Giordania, ndt.] che sono obbligati a promettere per iscritto di non tornare per un anno? E dei palestinesi della Cisgiordania a cui non è consentito incontrarsi con amici e parenti che vivono nella Striscia di Gaza? E del divieto di vendita dei prodotti di Gaza in Cisgiordania e di esportarli, tranne pochi camion che trasportano una ridotta quantità di beni? E cosa dite del fatto di tener imprigionate 2 milioni di persone dietro il filo spinato e il controllo militare e le torri da cui sparare? Secondo voi tutto questo non meriterebbe di essere incluso nell’elenco delle disgrazie collettive degli ebrei?

Israele non si è mai spaventato e non si spaventa ora ad uccidere civili palestinesi – individualmente, separatamente e in massa. Ma uccidere palestinesi non è un fine in sé. Al contrario i 70 anni di esistenza di Israele dimostrano che l’appropriazione della terra palestinese è un obiettivo supremo del nostro Stato, e che l’appropriazione si unisce alla riduzione del numero di palestinesi su quella terra.

Espellere palestinesi dalle loro case, dalla loro patria e dal loro Paese in tempo di guerra è un mezzo collaudato per ridurre il numero di una popolazione. Quando questo non è fattibile, concentrare i palestinesi in affollate riserve (su entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra lo Stato di Israele e la Giordania prima dell’occupazione della Cisgiordania, ndt.]) è un altro metodo, di routine e continuo. Chiunque abbia trovato ciò difficile da credere prima del 1993 ha ottenuto la prova definitiva negli accordi di Oslo: sotto l’ombrello del processo di pace il principale obiettivo dei governi (laburisti e del Likud) e delle loro burocrazie è stato di dimostrare la giustezza delle accuse secondo cui nel profondo siamo davvero un’entità coloniale. Ciò vi fa sentire orgogliosi?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quello che i palestinesi ci possono insegnare sulla resistenza popolare

Ramzy Baroud

11 Aprile 2018, Al Jazeera

La gente di Gaza si è ribellata non per le fazioni politiche palestinesi, ma nonostante loro.

La continua mobilitazione popolare sul confine di Gaza è una reminiscenza di avvenimenti storici precedenti, in cui il popolo palestinese si è sollevato all’unisono per sfidare l’oppressione e chiedere la libertà.

La resistenza popolare palestinese non è né un fenomeno nuovo né estraneo. Scioperi generali di massa e disobbedienza civile, sfidando l’imperialismo britannico e gli insediamenti sionisti in Palestina, iniziarono circa un secolo fa, culminati nel 1936 con uno sciopero generale di sei mesi.

Da allora la resistenza popolare è stata un elemento fondamentale nella storia palestinese ed una caratteristica rilevante della Prima Intifada, la rivolta popolare del 1987.

È superfluo dire che i palestinesi non hanno bisogno di lezioni su come resistere all’occupazione israeliana, lottare contro il razzismo e sfidare l’apartheid. Loro, e solo loro, sono in grado di sviluppare la strategia adeguata e i mezzi che alla fine li porteranno alla vittoria. Oggi la necessità di questa strategia è più che mai urgente, e c’è una ragione di ciò.

Gaza viene soffocata. Il decennale blocco israeliano, insieme all’indifferenza araba e al prolungato conflitto tra le fazioni palestinesi, sono serviti a portare i palestinesi a un passo dal morire di fame e alla disperazione politica. Qualcosa si è spezzato.

Venerdì 30 marzo decine di migliaia di palestinesi si sono ammassati sul confine orientale di Gaza per iniziare una serie di proteste e veglie che dovrebbero durare fino al 15 maggio.

In quella data, settant’anni fa, Israele ha dichiarato l’indipendenza, obbligando centinaia di migliaia di palestinesi all’esilio. Per molti palestinesi la dichiarazione d’indipendenza di Israele, come risultato della distruzione della loro patria, è stato un crimine indimenticabile. Per gli israeliani il 15 maggio è una festa; per il popolo palestinese, è la nostra Nakba, o catastrofe.

Ma la continua mobilitazione di massa non è solo per sottolineare il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi (come sancito dalle leggi internazionali), né solo la commemorazione del “Giorno della Terra”, un evento che ha unito tutti i palestinesi dalle sanguinose proteste del 1976. La manifestazione riguarda la richiesta di un progetto che superi le lotte intestine e che ridia voce al popolo.

Ci sono parecchie somiglianze storiche tra questa mobilitazione e il contesto che ha preceduto la Prima Intifada nel 1987.

All’epoca in tutta la regione i governi arabi avevano largamente relegato la causa palestinese allo status di “problema di qualcun altro”. Alla fine del 1982 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), già esiliata in Libano, venne espulsa insieme a migliaia di combattenti palestinesi ancora più lontano, in Tunisia, Algeria, Yemen e vari altri Paesi. Questo isolamento geografico rese irrilevante la dirigenza tradizionale della Palestina rispetto a quanto stava succedendo sul terreno, in patria.

Con scarse pressioni su Israele perché ponesse fine all’occupazione illegale di Gerusalemme est, di Gaza e della Cisgiordania, l’occupazione militare israeliana lentamente diventò lo status quo. I palestinesi divennero poco più che prigionieri in una serie di carceri urbane separate – controllati ad ogni incrocio stradale principale, sottoposti ad incursioni nelle loro case in modo prevedibilmente irregolare, e spiati giorno e notte da terra, aria e, nel caso di Gaza, dal mare.

Ma, in quel momento di apparente disperazione, scattò qualcosa. Nel dicembre 1987 la gente (per lo più bambini ed adolescenti) scese in strada con una mobilitazione prevalentemente non violenta che durò oltre sei anni. Ma la dirigenza palestinese non approfittò dell’energia di massa del suo popolo. Peggio, ne approfitto per arrivare alla firma degli accordi di Oslo nel 1993.

Oggi la dirigenza palestinese si trova in una situazione simile di crescente irrilevanza. Di nuovo isolata geograficamente (con Fatah che controlla la Cisgiordania e Hamas Gaza), ma anche dalle divisioni ideologiche.

È vero, ovviamente, che le divisioni politiche ed ideologiche sono tipiche di ogni lotta anticolonialista. Dall’India all’Algeria al Sud Africa, le divisioni interne sono state la norma, non l’eccezione, nei movimenti di liberazione di massa.

Ma mai prima d’ora queste divisioni interne sono state utilizzate come arma in modo così efficace dagli avversari della causa ed usate come argomento contro la causa primaria, per delegittimare la richiesta di un intero popolo per i diritti umani fondamentali: “I palestinesi sono divisi, per cui devono rimanere imprigionati.”

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah sta rapidamente perdendo credibilità tra i palestinesi, a causa delle prolungate accuse di corruzione, con molti che chiedono che il leader dell’ANP dia le dimissioni (tecnicamente il suo mandato è scaduto nel 2009).

Lo scorso dicembre il nuovo presidente USA Donald Trump ha accentuato l’isolamento dell’ANP, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, sfidando le leggi internazionali e il consenso dell’ONU. Molti vedono questa come nient’altro che la prima di una serie di mosse destinate a marginalizzare ulteriormente l’ANP.

L’Autorità Nazionale non è l’unica fazione palestinese che sta diventando sempre più isolata.

Hamas – in origine un movimento di base nato nei campi di rifugiati di Gaza durante la Prima Intifada – ora è altrettanto indebolita dall’isolamento politico.

Per oltre un decennio, fin dalla sua sanguinosa presa del potere a Gaza nel 2007, la dirigenza di Hamas ha compiuto infinite manovre politiche per rompere l’assedio di Gaza, ma ha ripetutamente fallito. Finalmente ha iniziato a capire di non poter essere utile a quella causa nell’isolamento politico ed ha cominciato a prendere iniziative per la riconciliazione con Fatah. Più di recente, nell’ottobre dello scorso anno i due partiti hanno firmato al Cairo un accordo di riconciliazione.

Come precedenti tentativi di riconciliazione, quest’ultimo ha iniziato quasi subito a vacillare. Il principale ostacolo si è manifestato il 13 marzo, quando il corteo del primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah è stato bersaglio di un apparente tentativo di assassinio. Hamdallah stava andando a Gaza attraverso un posto di frontiera israeliano. Subito l’ANP ha incolpato Hamas dell’attacco. Quest’ultimo l’ha fermamente smentito. La politica palestinese è tornata al punto di partenza.

Ma poi c’è stato il 30 marzo. Quando migliaia di palestinesi hanno camminato nella mortale “zona di sicurezza” lungo il confine di Gaza, cioè pacificamente e consapevolmente nel mirino dei cecchini israeliani, la loro intenzione era chiara: essere visti dal mondo come cittadini comuni, che finora sono rimasti invisibili dietro i politici.

I gazawi hanno eretto tende, cantato insieme e sventolato bandiere palestinesi – non quelle delle varie fazioni. Famiglie si sono riunite, bambini hanno giocato, sono comparsi persino dei clown da circo ed hanno fatto spettacoli. È stato un raro momento di unità.

La risposta dell’esercito israeliano è stata, bisogna dirlo, “degna del personaggio”. Uccidendo 17 manifestanti disarmati e ferendo migliaia di persone in un solo giorno, utilizzando le più moderne tecnologie in pallottole esplosive, hanno pensato di poter impartire una lezione ai palestinesi. Si è trattato del manuale 101 delle guardie carcerarie: picchiali, e picchiali di nuovo. Uccidili. Uccidili di nuovo. Persino giornalisti che hanno semplicemente cercato di informare il mondo su questo eroico ma tragico momento sono stati colpiti, feriti e uccisi.

Condanne per questo massacro sono piovute da personaggi rispettati di tutto il mondo come papa Francesco ed organizzazioni come Human Right Watch. Questo barlume di attenzione può aver fornito ai palestinesi un’opportunità di portare l’ingiustizia dell’assedio fino all’ordine del giorno della politica globale, ma sarà una magra consolazione per le famiglie delle vittime.

Consapevole di trovarsi al centro dell’attenzione internazionale, Fatah ha approfittato dell’opportunità di attribuirsi il merito di questo atto spontaneo di resistenza popolare. Il vice presidente, Mahmoud al-Aloul, ha affermato che i manifestanti si sono mobilitati per appoggiare l’ANP “di fronte alle pressioni ed alle cospirazioni architettate contro la nostra causa,” riferendosi senza dubbio alla strategia di isolamento contro l’ANP controllata da Fatah da parte di Trump. Anche Hamas ha cercato di sfruttarla allo stesso modo.

Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Questa volta è il popolo palestinese, sono gli audaci ragazzi e ragazze di Gaza che stanno forgiando la propria strategia, indipendentemente dalle fazioni, di fatto a dispetto delle divisioni. E questa volta dobbiamo ascoltare, smettere di dare lezioni e forse imparare da questi giovani uomini e donne che stanno a petto nudo davanti a cecchini e assassini solo con i loro slogan per la libertà e la loro fede in una vittoria sicura.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente l’orientamento redazionale di Al Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Per ottenere uno Stato, i palestinesi devono lavorare anche per i due Stati.

Nadia Hijab 

7 febbraio 2018, Al Shabaka

In seguito al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente USA Donald Trump, e rafforzato dalla promessa del vice presidente Mike Pence di spostarvi l’ambasciata USA prima della fine del 2019, c’è stata una raffica di articoli che hanno sostenuto l’imminente spostamento della strategia palestinese verso la soluzione dello Stato unico con pari diritti. Sia i negoziatori palestinesi direttamente coinvolti nel moribondo processo di pace di Oslo che palestinesi che fin da allora hanno avuto poche speranze in Oslo hanno dichiarato che è tempo di modificare la lotta. Nel contempo Israele ha continuato ad espandere le colonie, reprimere le proteste e pianificare l’annessione di parte o di tutta la Cisgiordania.

La soluzione dei due Stati è davvero destinata al fallimento ed è tempo di passare ad una lotta per uno Stato unico? Questo commento sostiene che entrambi gli esiti statali possono essere messi in atto per ottenere le aspirazioni ed i diritti dei palestinesi, e che, oltretutto, soddisfare i diritti dei palestinesi richiede alcune delle risorse di potere associate ad un sistema statale. Invita inoltre a dedicare tempo ed energie per chiarire gli obiettivi palestinesi e per comprendere perché non sono ancora stati raggiunti, e in seguito concentrarsi sugli elementi di forza necessari per raggiungerli. L’ultima parte discute nel dettaglio uno di questi elementi di forza, quello della narrazione palestinese, e chiede una ridefinizione di questa narrazione, compresa quella relativa al BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). 1

Obiettivi palestinesi negli esiti di uno Stato unico e dei due Stati

L’obiettivo della lotta palestinese continua ad essere espresso in termini di strutture statuali. Anche nei termini del raggiungimento dei diritti palestinesi, cosa otterrebbe un esito politico dello Stato unico che non otterrebbero i due Stati? È il caso di esaminare brevemente entrambi i risultati. La prospettiva di una soluzione dello Stato unico, come quella stabilita dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1968 è sempre stata più convincente per i palestinesi di quella dei due Stati. Uno Stato unico è strettamente legato al diritto al ritorno dei rifugiati alle proprie case e terre.

Con uno Stato unico i palestinesi avrebbero esercitato il proprio diritto all’autodeterminazione ritornando e vivendo su tutta la terra che era stata Palestina, accanto agli ebrei che vi vivono, con gli stessi diritti per tutti. Mentre la carta dell’OLP del 1968 parlava degli ebrei che abitavano in Palestina prima della conquista sionista che ha determinato la creazione di Israele, gli attuali sostenitori palestinesi della soluzione di uno Stato unico riconoscono che debba comprendere tutti i suoi abitanti.

Riguardo alla soluzione dei due Stati, è importante distinguere tra la visione espressa nel 1988, quando il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) la adottò, e la parodia di giustizia monca, economicamente e politicamente bloccata istituita dagli accordi di Oslo che iniziarono ad essere firmati nel 1993. Quando venne adottata nel 1988, la soluzione dei due Stati era vista come un riconoscimento pragmatico, realizzabile della realtà. I palestinesi avrebbero esercitato il diritto all’autodeterminazione attraverso uno Stato sovrano che avrebbe garantito i diritti dei suoi cittadini. Un simile Stato avrebbe consentito alla Palestina di unirsi alla comunità delle Nazioni. Inoltre la risoluzione del CNP sosteneva le risoluzioni ONU relative ai diritti dei rifugiati palestinesi. E la lotta per i due Stati non significa abbandonare la lotta vitale per l’uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele.

Fin dall’inizio Oslo ha destinato alla rovina un progetto di Stato basato sui diritti. Da parte palestinese l’accettazione degli accordi incluse un implicito riconoscimento che i diritti dei rifugiati palestinesi sarebbero stati gravemente limitati, sacrificando quindi un diritto fondamentale dei palestinesi. Da parte israeliana non c’è mai stata nessuna intenzione di consentire la costituzione di uno Stato palestinese sovrano accanto ad Israele. Yitzhak Rabin, sbandierato come un grande pacificatore, mise in chiaro poco dopo il primo accordo di Oslo che egli intendeva garantire che i palestinesi non avrebbero avuto nient’altro che un’entità che fosse “meno di uno Stato”, con i confini di sicurezza di Israele nella valle del Giordano. Queste posizioni vennero mantenute nel corso degli anni di negoziati. Le posizioni israeliane si sono notevolmente indurite da allora: più di recente il comitato centrale del Likud ha votato all’unanimità per chiedere ai dirigenti del partito di annettere la Cisgiordania.

Se la soluzione dei due Stati fosse rimasta all’interno del quadro originario, avrebbe potuto soddisfare i diritti dei palestinesi all’autodeterminazione ed al ritorno, come lo avrebbe fatto la soluzione dello Stato unico, se i palestinesi fossero stati in grado di costruirsi un potere sufficiente a garantire che Israele avrebbe rispettato il diritto al ritorno ed uguali diritti in uno Stato unico, il diritto al ritorno e la sovranità in due Stati.

Oggi la realtà è che il popolo palestinese non ha il potere di ottenere nessuno dei due risultati nel futuro prevedibile e di imporre ad Israele o alla comunità internazionale il riconoscimento e la messa in pratica dei suoi diritti. Infatti la dirigenza palestinese, convinta che Oslo stesse portando a uno Stato palestinese, lasciò disperdersi i punti di forza che aveva accumulato negli anni ’70 e ’80, compresi un vivace movimento di solidarietà e forti legami con i Paesi del Sud, l’Unione Sovietica e la Cina.

Il presidente dell’OLP Mahmoud Abbas non ha dichiarato la fine della soluzione dei due Stati e chiaramente spera che gli europei interverranno ora che egli si è, forse temporaneamente, allontanato dagli USA. Tuttavia chiedere agli Stati europei di fungere da mediatori non farà progredire la causa palestinese. Non c’è niente da mediare: gli israeliani hanno messo in chiaro i loro obiettivi: il meglio che i palestinesi possono sperare sono bantustan [entità pseudo-statali istituite nel Sudafrica dell’apartheid per la popolazione nera, ndt.] divisi tra loro. Uno scenario peggiore sarebbe un “accordo” che apparirebbe come la realizzazione di alcuni diritti dei palestinesi, dopo il quale il mondo se ne tirerebbe fuori, lasciando i palestinesi alla mercé di Israele. Nessuno farà niente per il popolo palestinese – non gli europei, né gli USA, né Israele – finché non sarà obbligato a farlo.

In breve, i palestinesi dovranno costruirsi un potere consistente per esercitare le pressioni necessarie a raggiungere una soluzione che garantisca i loro diritti. E per fare ciò avranno bisogno di alcune delle risorse di potere che hanno acquisito attraverso la partecipazione al sistema statale, sia legale, diplomatico o attraverso la partecipazione ad organizzazioni internazionali. Tuttavia queste risorse di potere devono essere utilizzate in modo molto più efficace e strategico di quello superficiale con cui le ha utilizzate l’OLP. Persino la combattuta adesione all’UNESCO, che è costata parecchio all’organizzazione, avrebbe potuto essere utilizzata per stabilire la sovranità palestinese su terra e mare.

Inoltre immaginate la diversa situazione oggi se l’OLP avesse “attivato” la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul muro illegale di Israele che serpeggia nei TPO [Territori Palestinesi Occupati, ndt.]. Benché fosse un’opinione consultiva, il suo chiaro richiamo a ogni Stato a “non riconoscere la situazione illegale determinata dalla costruzione del muro” e, cosa ancora più importante, a non fornire alcun aiuto o assistenza che potesse mantenere la situazione, avrebbe potuto essere utilizzato per spingere i Paesi europei consapevoli delle regole a garantire in modo molto più decisivo che le loro relazioni con Israele non appoggiassero le illegali colonie israeliane.

È stato a causa del fatto che l’OLP non ha capitalizzato quello che all’epoca un membro della delegazione palestinese descrisse in privato come questa “grande vittoria” che la società civile palestinese, esattamente un anno dopo, ha lanciato il movimento BDS, con il chiaro intento di difendere le leggi internazionali e investire un’importante fonte di potere in esse.

La strada che abbiamo davanti è lunga. Nessuno si affretta ad aiutare i palestinesi a ottenere i loro diritti. Perciò non c’è fretta per decidere sul definitivo risultato politico: entrambe [le soluzioni] possono servire pur di raggiungere i diritti dei palestinesi. Questo è stato l’intelligente approccio strategico dei fondatori del movimento BDS. Data la confusione del movimento nazionale e la mancanza di consenso riguardo agli obiettivi politici, i fondatori si sono piuttosto concentrati sui diritti come obiettivi, chiedendo la realizzazione dell’autodeterminazione attraverso la liberazione dall’occupazione, l’uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele e la giustizia per i rifugiati palestinesi nel rispetto del loro diritto al ritorno. Ciò ha permesso al movimento di raggiungere il più ampio spettro della società palestinese così come degli attivisti della solidarietà internazionale – e di costruire una considerevole posizione di forza.

Ogni elemento di forza a disposizione dovrebbe essere analizzato e compreso per quello che può offrire, per le sue positività e i suoi tranelli, e la società civile palestinese dovrebbe allearsi con l’OLP (o ciò che ne rimane) per quanto possibile per portare avanti gli interessi nazionali palestinesi e per opporsi ai rappresentanti politici palestinesi quando mettono a rischio questi interessi. 2 Nella discussione che segue mi concentrerò su uno dei principali punti di forza, la narrazione palestinese, e sui modi in cui possa essere più efficacemente utilizzata per portare avanti i diritti dei palestinesi.

Ridefinire la narrazione sulla Palestina (e sul BDS)

Parte della narrazione palestinese ha a che fare con il passato, e parte con gli obiettivi della lotta palestinese e guarda più verso il futuro. La parte rivolta al futuro rimane in silenzio e poco efficace, mentre quella sul passato è molto più dettagliata.

La narrazione del passato è, per i palestinesi, una questione esistenziale: esigono che la realtà di quanto successo alla Palestina e ai palestinesi sia vista come l’ingiustizia che è stata. È per questo che lo scorso anno durante il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour [con cui l’impero inglese si impegnò a favorire la formazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.] così tanto tempo è stato dedicato a chiedere le scuse da parte della Gran Bretagna, i cui obiettivi coloniali consentirono la perdita della Palestina e la creazione di Israele. E questa è la ragione per cui così tanto tempo verrà dedicato quest’anno, il settantesimo anniversario della Nakba (catastrofe), a quella narrazione della perdita.

Le scuse da parte della Gran Bretagna sarebbero bastate ma non sono mai state in discussione: gli ex-poteri coloniali non vogliono offuscare le loro stesse narrazioni, per quanto orribili possano essere, o aprire loro stessi la strada a richieste di riparazione. Ma la situazione è diversa nel caso di Israele. Se ci deve essere un diverso, miglior futuro tra Israele e il popolo della Palestina storica ci dev’essere non solo il riconoscimento dell’ingiustizia che il progetto sionista ha perpetrato sui palestinesi, ma anche una manifestazione di pentimento, e un risarcimento. È necessario per sanare la ferita nazionale del popolo e di ogni singolo palestinese.

Può sembrare donchisciottesco parlare di questa richiesta in un momento in cui Israele appare così potente e i palestinesi così oppressi e senza aiuti. Eppure il riconoscimento, le scuse e le riparazioni sono anche necessarie per esorcizzare il fantasma che perseguita gli israeliani. C’è un timore profondamente radicato che la narrazione che sostiene la creazione dello Stato di Israele – quella di coraggiosi pionieri che fanno miracoli in un deserto ostile e disabitato – sia messa in evidenza per la vergogna che è stata, come lo sarebbe tutta la crudeltà deliberata che l’accompagnò e ancora l’accompagna. Ciò danneggerebbe il progetto sionista alla radice.

Di fatto andare oltre questa narrazione non è affatto impossibile: ciò è stato ottenuto dai molti ebrei che si stanno allontanando o si sono allontanati dall’ideologia del sionismo per difendere diritti umani universali. Ed è la base di un futuro alternativo in cui palestinesi ed ebrei vivano insieme come uguali. Questo futuro è già presente in alcune organizzazioni degli Stati Uniti, tali come “Jewish Voice for Peace” [“Voci ebraiche per la Pace, ndt.], in rapida crescita, che comprende parecchi palestinesi tra i suoi membri, così come gruppi di “Studenti per la Giustizia in Palestina” nei campus negli USA, che comprendono palestinesi, ebrei e un insieme di altre etnie e religioni.

Ma i palestinesi hanno urgentemente bisogno di una narrazione che guardi oltre, che li unifichi e che comunichi la forza della loro visione. Israele continua a dominare la narrazione in Occidente, dove ha la maggior parte della sua base di potere, nonostante gli attacchi realizzati da scrittori ed analisti palestinesi e da numerose organizzazioni ed individui del movimento di solidarietà con i palestinesi. È in parte la mancanza di una visione unitaria che guardi avanti e sia positiva da parte dei palestinesi che consente ad Israele di farlo.

Inoltre una narrazione rivolta al futuro può fornire una visione ed una direzione al movimento palestinese finché non verrà il tempo in cui si prenda una decisione se l’esito politico finale possa essere uno o due Stati. Una narrazione unificata è anche importante perché è improbabile che l’unità politica dei palestinesi sia raggiunta nel prossimo futuro. Fatah e Hamas sono troppo divisi, e la frammentazione fisica del popolo palestinese ad opera di Israele ha creato con successo barriere tra loro. Una narrazione unitaria consentirebbe ad ogni parte del popolo palestinese di lavorare verso gli stessi obiettivi – e di continuare la lotta fino a che siano raggiunti questi obiettivi, piuttosto che fermarsi a metà strada del percorso, come è successo con Oslo.

Questa narrazione unitaria palestinese esiste già: libertà, giustizia, uguaglianza. Questi sono gli obiettivi identificati dal movimento BDS. Questi sono anche gli obiettivi a cui tutti i palestinesi possono aspirare e che possono appoggiare, e parlano alla situazione di ogni segmento del popolo palestinese, di quelli che vivono sotto occupazione, dei palestinesi cittadini di Israele o dei rifugiati ed esiliati. Deve essere evitata una trappola: chiedendo l’uguaglianza, bisogna adottare ogni cautela per specificare che questo riguarda i palestinesi cittadini di Israele e non l’uguaglianza tra i palestinesi che vivono sotto occupazione e i coloni che vivono nelle illegali colonie israeliane.

Comunque perché questi obiettivi prendano con successo il proprio posto in prima linea nel movimento nazionale palestinese, il discorso riguardo al BDS deve essere ridefinito. Di solito l’attenzione è concentrata sulla strategia del BDS e non sugli obiettivi identificati dall’appello per il BDS, benché siano ospitati in primo piano del suo sito web. Da sola, la strategia del BDS non può ottenere libertà, giustizia ed uguaglianza, come ben sanno i suoi fondatori. Proprio perché nessun’ altra strategia è così efficacemente utilizzata e proposta quanto quella del BDS, esso domina la scena. Bisogna porre attenzione a presentare il BDS come una delle molte strategie che i palestinesi devono utilizzare, comprese quelle legali e diplomatiche. Anche cultura ed arte giocano un ruolo fondamentale nella richiesta dei diritti palestinesi, e stanno prosperando.

E’ urgente che gli obiettivi siano messi in prima linea: sono un’esaltante e positiva visione che può rapidamente occupare il primo piano. Politici palestinesi, società civile e movimento di solidarietà dovrebbero unificarsi attorno ad essa e chiedere libertà, giustizia ed uguaglianza. E libertà, giustizia ed uguaglianza possono essere ottenute con uno Stato unico o con due Stati.

Note:

  1. Parte del materiale di questo articolo è stato presentato in un discorso all’assemblea annuale della Campagna di Solidarietà con la Palestina il 27 gennaio 2018. Il discorso è stato pubblicato da Mondoweiss il 31 gennaio 2018.

  2. Le fonti di potere e le opzioni palestinesi sono l’argomento di un altro articolo con suggerimenti di numerosi analisti.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab debate on women at work” [Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro], è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è co-autrice di “Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel” [Cittadini in disparte: un ritratto dei palestinesi in Israele] (I. B. Tauris). È stata capo redazione della rivista londinese “Medio Oriente” prima di essere assunta alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-co-direttrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi ed ora fa parte del suo consiglio di amministrazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




ISRAELE E I MITI SIONISTI (II)

Joseph Halevi

Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171

Seconda parte

rproject.it

Un paese che si basa sulla pulizia etnica e sulla colonizzazione permanente non può essere definito democratico. In verità nessuna entità statuale ove é in atto una colonizzazione a scapito della popolazione autoctona é definibile come democratica: si veda il caso dell’Australia ove fino al 1967 gli aborigeni, già violentemente decimati durante il diciannovesimo secolo, non venivano nemmeno contati nei censimenti. Eppure l’Australia era considerata una fiorente democrazia, il che significa che il termine è perfettamente malleabile a piacere senza un valore universale. Il settimo capitolo del volume di Pappé si prefigge di dimostrare la fallacia insita nella propaganda americano-israeliana riguardo l’unica democrazia nel Medioriente. Il capitolo é più incisivo di quello precedente appena discusso.

Pappé inizia osservando che la visione di Israele nel mondo, condivisa anche da rispettabili autori palestinesi, é che, dopo la guerra del 1967, il paese pur incorrendo in delle difficoltà con l’occupazione e il dominio sui palestinesi, rimane comunque uno Stato democratico. Scrive però Pappé che anche prima del 1967 in nessun modo poteva lo Stato d’Israele essere considerato democratico; a meno che, aggiungo, non si consideri la democrazia applicabile solo ad una parte della popolazione. A questo punto l’autore passa in rassegna le misure e le politiche di repressione nei confronti dei pochi palestinesi scampati alla Naqba. Nei due anni che trascorsero dalla fine della guerra del 1948-49 il parlamento, la Knesset, incorporò le leggi speciali di emergenza varate dalle autorità britanniche nel 1945 durante gli anni del terrorismo sionista dell’Irgun di Begin e compagnia, ma che non era soltanto una prerogativa della destra bensì vi partecipava anche l’establishment socialista-sionista. (10) La popolazione palestinese rimasta venne sottoposta ad un governatorato militare retto dalle leggi di emergenza, le stesse che al tempo del dominio britannico tutte le organizzazioni sioniste denunciarono come di stile nazista. La conseguenza fu la totale assenza di uno stato di diritto per questa popolazione che in teoria avrebbe dovuto godere di tutti i diritti in quanto formalmente di cittadinanza israeliana. Il governatore militare poteva – in maniera assolutamente insindacabile – requisire case, espellerne ed arrestarne gli abitanti, confiscare terreni, revocare permessi. Il governatore poteva dichiarare delle aree chiuse per motivi di sicurezza rendendo ‘illegali’ casolari e agglomerati di abitazioni palestinesi ubicate dentro queste aree che poi venivano assegnate a insediamenti che per statuto erano esclusivamente ebraici. Tale pratica continua tutt’oggi con la messa fuori legge di agglomerati beduini nel Negev a sud di Tel Aviv. Accadeva e accade, che dei palestinesi fossero – e siano ancora – condannati per aver violato un’area chiusa di cui erano o sono proprietari. (11) Spesso i villaggi palestinesi erano sottoposti a coprifuoco e fu in queste circostanze che, sottolinea Pappé, alla vigilia della guerra del 1956, accadde il massacro di Kafr Qasim che costò la vita a 49 palestinesi. Sul villaggio, assieme ad alcuni altri nelle vicinanze, il coprifuoco scattò quando molte persone erano ancora al lavoro nei campi per cui man mano che rientravano, ignare della decisione del governatore militare, venivano uccise dall’esercito israeliano. Tale evento non fu casuale: Pappé scrive che l’eccidio va inquadrato nell’ambito dell’operazione “Talpa”, un piano di espulsione dei restanti palestinesi in caso di un nuovo conflitto con i paesi arabi e il massacro di Kafr Qasim costituiva un test circa la propensione della restante popolazione palestinese a fuggire oltre la linea verde. Malgrado il governo di Ben Gurion avesse cercato di occultare l’eccidio, questo fu portato alla luce del sole grazie all’attività dei deputati comunisti e di un deputato del partito socialista sionista Mapam. Il processo che seguì inflisse delle pene molto leggere seguite da ulteriori condoni.

Gran parte delle leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi passano, senza mai menzionare i soggetti verso cui sono dirette, attraverso il fatto che gli arabi israeliani sono esenti dal servizio militare. Ad esempio, disposizioni riguardo l’usufrutto di servizi sociali o di altri tipi di sovvenzioni includono la clausola che i richiedenti devono aver effettuato il servizio militare. Nella popolazione ebraico-israeliana – la sola che veramente conti dato che gli altri ci sono perché o l’esercito non ha fatto in tempo a cacciarli via o perché sono riusciti a rimanere aggrappati ai loro paesi e/o a nascondersi in villaggi vicini a quelli investiti dal terrorismo dell’Haganà –  l’esonero dei palestinesi dall’esercito fornisce la giustificazione circa la natura non razzista delle misure di discriminazione. Meritatamente Pappé porta a conoscenza del grande pubblico la vera storia dell’esclusione dalla leva dei palestinesi israeliani. A metà degli anni ’50 il governo israeliano mise i palestinesi di fronte alla prova, chiamandoli ai centri di reclutamento dell’esercito. Sollecitati anche organizzativamente dal Partito Comunista d’Israele, che era la maggiore formazione politica tra i palestinesi israeliani e la sola forza di ricostituzione della loro identità palestinese, i giovani in età di leva accorsero in massa con grande sorpresa del governo. Colte in contropiede le autorità non ripeterono mai più l’esercizio ma hanno da sempre usato la falsa scusa del rifiuto palestinese di servire nell’esercito per giustificare le misure discriminatorie.

L’arbitrio del regime militare verso i palestinesi era totale. Non solo i coprifuoco erano ingiustificati e applicati per terrorizzare la popolazione palestinese ma i soldati potevano intimare l’alt e sparare, anche su bambini, in condizioni ‘normali’. Avendo, una parte di quegli anni, vissuto da ragazzo in Israele come figlio di una famiglia dell’establishment sionista socialista, posso dire che la segregazione era totale. Pappé scrive che il governatorato militare proibiva ai palestinesi l’accesso al 93% del territorio nazionale. Per noi ‘ebrei’ del luogo, Israele era – ed é per gli ‘ebrei’ israeliani di oggi – un paese liberissimo di cui si poteva e si può dire peste e corna fermo restando il fatto che gli ‘arabi’ volevano e vogliono ‘distruggerci’ e quelli rimasti in Israele – una potenziale quinta colonna – dovevano ringraziarci per tollerarli. In ogni caso, la Terra d’Israele è nostra da oltre 3000 anni, eccetera.  Noi ‘ebrei’ abbiamo quindi ragione a priori!

Benché sottoposti al regime militare i palestinesi israeliani potevano votare e questo, dal lato propagandistico, cancellava ogni discriminazione. Guardando poi da vicino si scopre che la situazione era ed é assai diversa, ma su questo tema rinvio ad un altro lavoro di Pappé. (12) La situazione, allargando il tema trattato da Pappé, era gravissima per i palestinesi cittadini israeliani di terza o quarta classe col diritto di voto come foglia di fico che copriva la realtà effettiva. L’assenza per loro di uno stato di diritto significava essere esposti ad uccisioni da far west. Ben Gurion era consapevole dello stato di cose e ne era preoccupato non per ragioni di democrazia verso i palestinesi  ma perché pensava che gli assassinii compiuti dai soldati verso gli arabi israeliani potessero ripercuotersi sull’immagine di Israele. Di recente Gidi Weitz di Ha-aretz ha riportato alla luce i verbali desecretati di una riunione del consiglio dei ministri del 1951 nella quale Ben Gurion parlò nella veste del suo secondo ruolo, quello di Ministro della Difesa, strabiliando gli stessi ministri:

“Non sono il Ministro della Giustizia, non sono il Ministro di Polizia e non sono a conoscenza di tutte le azioni criminali commesse ma come Ministro della Difesa, conosco alcuni di questi crimini e devo dire che la situazione fa paura specialmente in relazione a due aspetti: 1) omicidi e 2) atti di stupro”. E aggiunse: “persone dello Stato Maggiore mi dicono – ed é anche la mia opinione –  che fintanto che un soldato ebreo non viene impiccato per aver ucciso degli arabi, questi omicidi non cesseranno”. Ben Gurion colse perfettamente l’essenza della dimensione razzista di Israele, allora ancora in formazione ma oggi non più eradicabile su cui la professoressa (Premio Sakharov del Parlamento Europeo) Nurit Peled Elhanan dell’Università ebraica di Gerusalemme, ha scritto pagine preziosissime. (13)

Continuiamo a leggere Ben Gurion:

“In linea di massima coloro che hanno i fucili li usano”  e (alcuni) “credono che gli ebrei siano persone ma non gli arabi e che quindi sia possibile far contro di loro qualsiasi cosa. Alcuni pensano che uccidere arabi sia un comandamento e che tutto quello che il Governo dice contro le uccisioni di arabi  non sia una cosa seria e il divieto di uccidere arabi é solo una finzione ma che in effetti sia un atto ben accetto perché così vi saranno meno arabi in giro. Fintanto che continueranno a pensare in questo modo le uccisioni non si fermeranno.” E infine: “Presto non saremo più in grado di mostrare la nostra faccia al mondo. Gli ebrei incontrano un arabo e (che fanno?) lo uccidono”. (14)

La stampa ebraico-israeliana era allora completamente passiva e rarissimamente riportava gli assassinii perpetrati dai soldati – criminali a piede libero – sulle strade di campagna d’Israele, e mai come degli omicidi. A loro volta, i giornali dei movimenti kibbutzistici erano falsi, in quanto predicavano idee socialiste per poi partecipare a man bassa alla spoliazione della popolazione palestinese. Solo i giornali comunisti Kol ha-am (La voce del popolo) in ebraico e Al Ittihad (L’Unità) in arabo, costituivano una voce fortemente critica riguardo i soprusi subiti dai palestinesi. I comunisti però erano molto guardinghi proprio perché conoscevano bene la situazione sul terreno essendo la maggiore forza tra gli arabi israeliani ed erano consapevoli del rischio di una nuova ondata di pulizia etnica come erano consapevoli della pulizia etnica in atto condotta dall’esercito israeliano nella zona demilitarizzata. Tuttavia non tutto è controllabile soprattutto se la critica viene dall’élite europea degli ebrei israeliani. Anche in Sudafrica del resto il regime dell’ apartheid non riusciva a silenziare completamente le critiche provenienti da bianchi democratici specialmente se si trovavano ad essere membri del Parlamento di Città del Capo come nel caso della famosa deputata Helen Suzman (1917-2009), con 36 anni di vita parlamentare sulle spalle e amica di Nelson Mandela che andava a visitare in prigione.

Nel 1953 Azriel Karlibach, fondatore e direttore di Maariv, il maggior quotidiano – politicamente di centro – d’Israele, pubblicò un suo pezzo, scritto in forma poetica, di una potenza straordinaria, ancor oggi insuperata. Il titolo dell’articolo è molto significativo in quanto è preso da un’opera letteraria sudafricana nota per essere un testo di critica e protesta contro il tipo di società che darà vita all’apartheid. Si tratta del romanzo di Alan Paton pubblicato nel 1948 col titolo Cry Beloved Country (Piangi terra amata). (15) L’articolo di Karlibach, avendo lo stesso titolo, stabiliva un legame diretto col regime di apartheid sudafricano e – essendo l’autore liberaleggiante ed anti-socialista – puntava apertamente il dito contro la falsità dei kibbutzim che da un lato esprimevano solidarietà con gli africani e, dall’altro, derubavano gli arabi delle loro terra. Il tema del poema, stilato nella forma di un dialogo tra padre e figlia mentre vanno a vedere cosa stava succedendo in Galilea, è una disamina molto dettagliata dei meccanismi messi in atto per espropriare i palestinesi israeliani delle proprio terre. In tale contesto, il parlamento israeliano, la Knesset, viene esplicitamente accusato di essere non un’assise democratica ma un consesso ove arbitrariamente viene legalizzata la spoliazione degli arabi d’Israele, contro la quale, in seguito ai ricorsi da parte delle vittime, si erano formalmente espressi i magistrati israeliani. Tuttavia, scrive Karlibach, per aggirare le sentenze, in effetti giuste, dei tribunali israeliani, coloro che hanno partecipato al furto si riuniscono nella Knesset e decretano che questi terreni non sono regolati da alcuna legge stabilendo altresì che ai legittimi proprietari è fatto divieto di rivolgersi alla magistratura. La critica di Karlibach si connette alle osservazioni di Ben Gurion riguardo le uccisioni arbitrarie effettuate dai sodati israeliani in libertà, che si appaiano all’arbitrarietà della legislazione votata dalla Knesset, funzionante come un parlamento dell’apartheid sionista avente quindi poca o nessuna legittimità democratica. Il quadro che emerge circa la democrazia israeliana nei confronti dei palestinesi rimasti in Israele è preciso e sconvolgente.

Quando nel 1966 gran parte dei terreni arabi erano ormai stati requisiti e la popolazione ammassata in villaggi impoveriti e resi asfittici per mancanza di aree disponibili, il regime militare, divenuto troppo ingombrante rispetto alla pretesa di democraticità dello Stato nei confronti di tutti i suoi cittadini, venne abrogato. Non fu così però con le prerogative già in possesso del governatore militare che vennero trasferite alle autorità civili. Intatta rimase la prerogativa di dichiarare illegali degli insediamenti arabi, di raderli al suolo e  adibire le zone così ‘ripulite’ a nuovi insediamenti per soli ebrei.  Succede ancor oggi e non mi riferisco alle distruzioni di case palestinesi, 50 mila dal 1967, di uliveti, frutteti, e delle requisizioni di terreni che avvengono ormai da cinquant’anni nei territori conquistati con la guerra del 1967. L’ottavo capitolo del volume di Pappé tratta di tutto questo in maniera egregia. Mi riferisco invece a fatti accaduti recentemente, nel 2016, dentro la vecchia linea verde, come la distruzione del villaggio beduino di Um-Al-Hiram nel Negev settentrionale dichiarato illegale cui é seguita la rapida assegnazione del suolo alla costruzione di una località per soli ebrei. (16) I mesi intercorsi tra l’abolizione del governo militare sui palestinesi di Israele e la guerra del 1967 hanno costituito l’unico periodo in cui, dal 1948, i Palestinesi dell’ insieme della Palestina non fossero soggetti ad un regime militare. Con la conquista della Cisgiordania e di Gaza il governo israeliano, nota giustamente Pappé, trasferì l’intero apparato repressivo perfezionato dal governo militare riguardo i palestinesi di Israele sui palestinesi delle zone conquistate senza che essi potessero usufruire perfino di una minima protezione non avendo diritti politici e civili.

Rispetto all’evento del 1960, il 1967 rappresentò la grande occasione di conquistare l’insieme della Palestina. L’occupazione ebbe immediatamente un carattere di conquista – di “liberazione” di tutta la Terra di Israele, come allora recitavano in coro giornali e partiti ad eccezione del quello comunista Rakah. (17) Liberazione da chi? dal controllo arabo ovviamente. Purtroppo, per i dirigenti israeliani, i nuovi territori non vennero liberati dalla presenza della popolazione palestinese. Un esodo oltre il Giordano vi fu: circa trecentomila profughi lo attraversarono ma il restante milione e passa di abitanti della Cisgiordania rimase fissa sul posto. Da Gaza poi era impossibile andarsene sebbene Levi Eshkol, Primo Ministro laburista durante il 1967, ne avesse vagheggiato l’espulsione. Immediatamente in Israele si sviluppò il dibattito su come annettere i nuovi territori senza però assorbirne la popolazione araba, ingombrante e superflua quindi. Questo è Israele, un paese razzista fino al midollo, razzismo che nasce dall’ideologia sionista di insediamento coloniale volta espressamente a sostituire popolazione araba con una ebraica. Molto rapidamente venne prodotto un piano noto come il Piano Allon, ideato da Ygal Allon, ministro nel governo laburista di Levi Eshkol, un’importante figura nel movimento kibbutzistico e nella storia dell’esercito israeliano. Una prima versione apparve nell’estate del 1967 e una seconda agli inizi del 1968. Il piano prevedeva l’annessione di una parte della Cisgiordania, una fascia assai ampia  lungo la valle del Giordano e di tutta Gerusalemme collegata alla fascia con una striscia. In tal modo la Cisgiordania veniva spaccata in tre parti: una zona annessa ad Israele con completa continuità territoriale e due zone palestinesi separate tra loro: una a nord di Gerusalemme e del suo corridoio verso la valle del Giordano e una a sud di Gerusalemme. Queste erano le aree con la più alta concentrazione di palestinesi. Il piano non venne mai adottato ufficialmente dal governo ma servì da piattaforma di riferimento per le politiche di colonizzazione. L’idea di un’autonomia palestinese nella forma dei bantustan del Sudafrica dell’apartheid nasce col Piano Allon.

Cinquant’anni dopo stiamo ancora alla stesso punto con un’importante differenza: già nel 1990 il Piano Allon non era più realizzabile in quanto gli insediamenti coloniali, tutti al 100% illegali, punteggiavano le tre zone. L’alternativa venne in effetti da Rabin: collegare gli insediamenti con Israele e tra di loro attraverso un sistema di strade speciali chiuse ai palestinesi. Queste strade frammentano le zone della supposta autorità palestinese in un mosaico di piccole aree senza continuità territoriale e soggette al regime dei posti di blocco dell’esercito israeliano. Ciò implica che l’esercito oppressore deve essere presente in permanenza controllando i passaggi da una zona palestinese all’altra attraverso dei posti di blocco. Da molti anni i posti di blocco costituiscono uno strumento di vessazione ed umiliazione costante della popolazione palestinese, una prova quotidiana che – nella ‘democrazia’ israeliana – essi non hanno diritti e sono ciecamente soggetti al dominio militare. Parallelamente gran parte della popolazione ebrea israeliana si trova da circa due generazioni ormai a partecipare attivamente alla repressione dei palestinesi con la gestione dei posti di blocco e dell’occupazione militare, sia attraverso il servizio militare che coinvolge uomini e donne, sia attraverso il periodico richiamo nel servizio di riserva degli uomini fino a circa 50 anni.  Con una politica di bantustan come principio guida, gli accordi di Oslo non potevano che fallire. Ed è questo che dimostra Pappé nell’ottavo capitolo. All’autorità palestinese veniva richiesto di gestire i bantustan secondo i criteri dell’occupazione, di riconoscere la ‘realtà’ sul terreno, cioè la colonizzazione, e veniva escluso il riconoscimento dei diritti dei rifugiati della Naqba. Nei negoziati durante il fallito accordo di Camp David patrocinati da Clinton, fu respinta perfino la richiesta di Arafat di cessare gli abusi quotidiani nei confronti della popolazione palestinese. Gli accordi che avrebbero dovuto portare ad una soluzione negoziata del ‘conflitto’ comportavano inoltre un ulteriore restringimento e frammentazione delle aree palestinesi e, osserva Pappé, ad ogni proposta di spartizione il popolo palestinese ha visto aumentare la violenza nei suoi confronti. Le proposte di Ehud Barak, il leader laburista allora al governo, erano talmente inaccettabili che anche l’allora ministro degli esteri di Israele nel governo Barak, Shlomo Ben Amì, dichiarò nel 2006 in un dibattito televisivo sul canale di “Democracy Now”, che se fosse stato palestinese non avrebbe firmato gli accordi di Camp David. (18)

Particolarmente importante é il racconto che nel nono capitolo Pappé fa della situazione a Gaza ove ricapitola le fasi della crescita di Hamas mostrando che si tratta di un movimento politico, e non terroristico in quanto tale, sviluppatosi sul vuoto creato da Al-Fatah e con una posizione) netta sul diritto al ritorno dei profughi del 1948. Quest’ultimo aspetto è molto importante a Gaza dato che nel 1948 la striscia era stata scelta da Israele per espellervi i palestinesi delle zone meridionali del loro stesso paese. Il fallimento pianificato di Camp David e Taba (19) – località questa sul confine tra Egitto e Israele vicino a Eilat sul Golfo di Aqaba – diede luogo alla Seconda Intifada mentre Ariel Sharon del Likud (‘destra’) diventava il nuovo Primo Ministro. In questo contesto Pappé mostra come Sharon sfruttò la nuova situazione e la crescita di Hamas a Gaza per ottenere da parte degli USA via libera riguardo l’annessione di gran parte della Cisgiordania. L’impossibilità di controllare Gaza dall’interno fornì lo spunto per la messa in opera di una strategia che da un lato presentava il ritiro da Gaza come una concessione di pace e, dall’altro, chiedeva agli Stati Uniti, allora governati da Bush figlio, di escludere i profughi della Naqba da ogni negoziato. Un fatto riportato da Pappé chiarifica la strategia di Ariel Sharon. Gli Stati Uniti erano riluttanti ad accettare il piano di ritiro da Gaza proposto da Sharon. Contando sulle affinità ideologiche con Bush riguardo il mondo arabo, Sharon scommise che sarebbe riuscito a far accettare il piano alla Casa Bianca. E così in effetti fu con l’aggiunta della promessa da parte di Washington di non includere i profughi nelle trattative e di non far pressione su Israele riguardo l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Lo sganciamento da Gaza e la trasformazione della Striscia in una prigione controllata dall’esterno e regolarmente bombardata ha sortito, nota Pappé, l’effetto di silenziare  l’opposizione – tra gli ebrei di Israele – all’occupazione e di formare un vastissimo consenso in favore di essa. Ergo conclude Pappé nel decimo ed ultimo capitolo del libro, la sola via è quella di una battaglia per un solo Stato di tutti i cittadini, come nel caso del Sudafrica dopo l’apartheid. Anzi, prosegue Pappé, continuare a parlare della soluzione a due Stati significa appoggiare l’apartheid, dato che con i due Stati la colonizzazione non verrà eliminata né arrestata mentre lo Stato palestinese sarà una serie di bantustan e Gaza rimarrà una prigione dalle orribili condizioni di vita diventate ormai insostenibili.

Negli ultimi quattro decenni si sono formati degli storici che hanno profondamente cambiato lo studio del Medioriente. Essi sono ebrei israeliani, palestinesi israeliani e palestinesi, dai Khalidi, a Nur Masahla, a Avi Shlaim, a Joseph Massad, a Ilan Pappé. Fino alla formazione di questi storici la propaganda israeliana dominava e si basava su criteri tanto semplici quanto falsi. Secondo tale propaganda, gli “ebrei” hanno diritto alla Terra di Palestina perché era la loro storicamente e ne sono stati stati espulsi definitivamente dai romani. Nei tempi più recenti la Palestina era pressoché disabitata, atta dunque a ricevere i presunti discendenti degli abitanti originari perseguitati da un razzismo anti-ebraico immanente ed incancellabile. Al loro arrivo per costruire il loro legittimo Stato essi  si sono confrontati con l’ostilità araba anch’essa motivata da un’innata anti-ebraicità. I ‘pochi’ abitanti arabi della Palestina avrebbero potuto facilmente sistemarsi nei paesi arabi vicini solo che i governi ‘arabi’ hanno preferito la via di distruggere Israele. Gira e rigira questa è la storia ufficiale ormai del tutto invalidata. Essa è stata talmente invalidata che perfino gli storici ufficiali rimasti la negano sul piano metodologico, come é successo nel caso delle loro reazioni ai volumi di Shlomo Sand ed anche in altre circostanze, per poi farla riemergere quando respingono la natura del sionismo come un movimento di insediamento coloniale ed esclusivo.

Ilan Pappé é sicuramente la persona che ha maggiormente studiato la storia della Palestina e di Israele in tutte le sue molteplici forme fornendoci un quadro storiografico incontrovertibile. Per i suoi imprescindibili contributi, Pappé ha ricevuto, nel novembre del 2017 a Londra, il massimo premio del Palestine Book Awards. (20) Tuttavia non é detto che le conclusioni da lui raggiunte in questo volume siano realizzabili e tali da poter arrestare la colonizzazione. E’ perfettamente possibile, anzi probabile, che mentre la soluzione a due Stati sia ormai defunta, quella che liberi il popolo palestinese dall’oppressione coloniale sia di là da venire e nemmeno individuabile.

Fine

Note

10 E’ indicativo che durante il massacro di Deir Yassin perpetrato dall’Irgun nell’aprile del 1948, una formazione dell’ufficiale Haganà stazionasse a pochissimi chilometri di distanza senza alzare un dito. Le bande criminali ebbero tutto il tempo di esibire la popolazione catturata per le strade di Gerusalemme, di riportarla a Deir Yassin e di sterminarla senza che l’Haganà facesse nulla per impedirlo.

11 Vedi Mondoweiss del 27/12/2017: http://mondoweiss.net/2017/12/israeli-sentences-trespassing/?utm_source=Mondoweiss+List&utm_campaign=32481edf23-RSS_EMAIL_CAMPAIGN&utm_medium=email&utm_term=0_b86bace129-32481edf23398519897&mc_cid=32481edf23&mc_eid=9728f22b82

12 Ilan Papp é, The Forgotten Palestinians: A History of the Palestinians in Israel, New Haven, CT: Yale University Press, 2013.

13 Nurit Peled Elhanan: La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nellistruzione. Milano: EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2015.

14 Le citazioni provengono dall’ edizione in inglese di Ha-aretz e sono state tradotte da me. Vedi Gedi Weitz in Ha-aretz 1/4/2016: Ben-Gurion in 1951: Only Death Penalty Will Deter Jews From Gratuitous Killing of Arabs.

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.712125

15 Azriel Karlibach: Cry Beloved Country, in ebraico in Maariv 25/2/1953. Tradotto e stampato in Inglese in Uri Davis e Norton Mezvinsky (a cura di), Documents From Israel: 1967-1973. London: Ithaca Press, 1975, pp. 14-20.

16 https://972mag.com/authorities-start-process-of-replacing-bedouin-town-with-a-jewish-one/121065/

17 Nel 1965 il Partito Comunista d’Israele si spaccò a causa del fatto che il suo segretario generale, Shmuel Mikunis effettuò una svolta filosionista e critica verso la posizione dell’ URSS sul Medioriente. Il grosso dell’ufficio politico e del partito non seguì Mikunis il quale però era il titolare legale del nome del partito MAKI (partito cominista d’Israele). Si formarono cosi due gruppi parlamentari, quello di Mikunis dal nome Maki e composto dal solo Mikunis, e RAKAH (nuova lista comunista) con tre parlamentari. Molto rapidamente il gruppo Mikunis si sciolse nelle liste piu radicali della sinistra sionista che, dopo varie mutazioni, oggi si condensano nel piccolo partito MERETZ, mentre RAKAH diede vita a HADASH (acronimo per fronte democratico per la pace) oggi facente parte della Lista Unita – terzo gruppo parlamentare alla Knesset – che raccoglie una serie di organismi politici palestineso-israeliani. In tal modo però HADASH ha perso il suo carattere di unica formazione politica israeliana non ‘etnicamente’ schierata. La scelta è stata imposta dal cambiamento delle legge elettorale che, aumentando la soglia di sbarramento, ha obbligato i partiti che operano nel settore arabo o, come i comunisti, che ricevono voti soprattutto dai palestinesi israeliani, ad accorparsi.

18 https://www.democracynow.org/2006/2/14/fmr_israeli_foreign_minister_if_i, anche:

https://www.theguardian.com/commentisfree/2010/jul/01/israel-palestinian-peace-camp-david

19 I colloqui di Taba si tennero tra il 21 e il 27 gennaio 2001 e avrebbero dovuto essere lo strumento per l’applicazione degli accordi di Camp David II dell’ anno precedente. I colloqui furono però interrotti per le elezioni israeliane che portarono al governo israeliano Ariel Sharon.

20 http://www.middleeasteye.net/news/three-authors-highlighted-palestine-book-awards-489086373

Il ringraziamento di Pappé, breve ma importante, si trova a:https://www.versobooks.com/blogs/3532-ilan-pappe-s-keynote-address-at-2017-palestine-book-awards




La “soluzione dei due Stati” ha sempre e solo voluto dire un grande Israele che governa su un bantustan palestinese. Lasciamola perdere

Jeff Halper

18 gennaio 2018, Haaretz

Quando gli ebrei della sinistra “estrema” conducono una battaglia per uno Stato unico, sostenendo il solo orizzonte politico che non sia l’apartheid, gli ebrei USA ci attaccano – perché lottiamo per gli stessi valori democratici che essi apprezzano così tanto a casa loro

Nel suo editoriale su Haaretz (“Ciò che una ‘soluzione dello Stato unico’ significa realmente: l’apartheid sancito da Israele o un’eterna, sanguinosa guerra civile”) Eric Yoffie chiede: “Non ci sono là israeliani sensati – di sinistra, di destra e soprattutto di centro – che comprendano i pericoli (di una soluzione dello Stato unico)?”

Questa domanda potrebbe essere posta esattamente al contrario: cos’altro deve succedere prima che gli israeliani, di sinistra, di destra e di centro, finalmente capiscano che il loro governo ha già deliberatamente, sistematicamente e concretamente eliminato la soluzione dei due Stati?

Yoffie propone una falsa simmetria: una sinistra e una destra “estremiste” che sostengono entrambe, nei fatti o esplicitamente, un unico Stato bi-nazionale, mentre un presunto futuro governo israeliano incarnerebbe ancora una volta un’“orgogliosa, liberale e democratica patria ebraica”, che viva in pace accanto ai suoi vicini palestinesi in una soluzione dei due Stati.

Questa è un’opinione, a dir poco, distorta. Di fatto ogni governo israeliano dal 1967 non è mai stato all’altezza di quegli orgogliosi valori liberali, perseguendo un Israele allargato che dominasse su un bantustan palestinese monco, anche se lo hanno fatto spacciandolo per una “soluzione dei due Stati”.

A poche settimane dall’inizio dell’occupazione nel 1967, il piano Allon (sotto il governo del primo ministro laburista Levi Eshkol) aveva già proposto che Israele annettesse il territorio circondando ed isolando i centri abitati palestinesi.

Questo piano ha guidato la politica di colonizzazione israeliana negli ultimi 50 anni ed è oggi un fatto compiuto irreversibile. Quando il “processo di pace” di Oslo iniziò, c’erano 200.000 coloni (e, sì, io includo Gerusalemme est, che è occupata, indipendentemente da quello che sostengono Israele e l’amministrazione Trump).

Nel 2000, alla fine di Oslo, c’erano 400.000 coloni in popolosi “blocchi di colonie” che hanno frammentato il territorio palestinese in circa 70 piccole enclave delle Aree A e B, oltre alla prigione che è Gaza. Oggi la popolazione di coloni si avvicina agli 800.000.

Se la soluzione dei due Stati è finita, ciò è dovuto ai successivi israeliani “sensati” al governo, in particolare Golda Meir e Ehud Barak [entrambi laburisti, ndt.], così come quelli del Likud [partito di destra, ndt.], di Kadima [partito di centro, ndt.] e della destra religiosa, e della sinistra sionista, della destra “estremista” e del sempre disponibile centro che li ha portati al governo.

Netanyahu e la destra religiosa hanno proclamato ai quattro venti la fine della soluzione dei due Stati, mentre entrambi i partiti della sinistra sionista, il Laburista ed il Meretz, hanno di fatto abbandonato la lotta per la pace, dichiarandosi partiti “socialdemocratici” preoccupati principalmente di questioni interne israeliane. I dirigenti laburisti, in particolare, per parecchi anni sono stati esplicitamente d’accordo con il Likud che “i tempi non sono maturi per una soluzione dei due Stati”.

Se un qualche settore della società israeliana ha mai sostenuto sinceramente la soluzione dei due Stati è stata la sinistra “estremista” – alla sinistra del Meretz – che ha lottato instancabilmente per questo al di fuori di qualunque governo (e, siamo onesti, anche l’Autorità Nazionale Palestinese sotto Arafat e Abbas l’ha appoggiata, persino quando i governi israeliani la stavano logorando).

Chi, se non la sinistra extraparlamentare, ha costantemente manifestato contro la costruzione di colonie, un’impresa perseguita con altrettanto vigore dai laburisti come dal Likud?

Quando, nel 1999, l’allora primo ministro Ehud Barak dichiarò, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, che “non c’erano controparti (palestinesi) per la pace,” l’opinione pubblica ebrea israeliana, compresi il Meretz, Peace Now [organizzazione pacifista, ndt.] e il resto della “sinistra sionista”, abbandonarono la ricerca di una pace giusta – ma non la sinistra “estremista”, che ha continuato ad impegnarsi persino quando la soluzione dei due Stati è scomparsa dalla nostra vista.

Ma Yoffie si sbaglia anche quando descrive quello che lui chiama la posizione per lo Stato unico della “sinistra estrema”. I gruppi di sinistra che riconoscono la fine della soluzione dei due Stati non si sono spostati verso un’alternativa dello Stato unico – almeno non ancora. Jewish Voice for Peace [gruppo di ebrei americani contrario all’occupazione ed alla colonizzazione della Cisgiordania, ndt.], che Yoffie demonizza perché appoggia il BDS, non sostiene attivamente una simile soluzione. Ed il resto della sinistra “estremista” sta ancora dibattendo su dove andare.

Benché molti di noi sostengano ancora la soluzione dei due Stati come una soluzione percorribile, se non giusta, ciò non può significare apartheid. Se l’“estrema” sinistra si è in effetti spostata su una posizione dello Stato unico è semplicemente perché abbiamo avuto il coraggio di riconoscere la realtà politica e i “fatti sul terreno”: la soluzione dei due Stati è morta quando l’impresa di colonizzazione ha raggiunto una massa critica, quando la frammentazione del territorio palestinese ha reso impossibile uno Stato palestinese sostenibile e sovrano.

Siamo rimasti con una sola via d’uscita. Dobbiamo trasformare lo Stato unico dell’ apartheid, che Israele ha creato, in uno Stato democratico di uguali diritti per tutti i suoi cittadini. Una democrazia – che non dovrebbe essere un concetto assolutamente estraneo a un americano come Yoffie, o agli israeliani che sostengono che il loro Paese è l’unica democrazia del Medio Oriente.

La sinistra “estremista” deve ora condurre una lotta per un unico Stato democratico binazionale in Israele/Palestina, non perché lo vogliamo, ma perché sono stati i sionisti “sensati” di Yoffie che ci hanno lasciato questa come unica opzione possibile rispetto all’apartheid. È l’unico modo per evitare che gli ebrei diventino gli afrikaaner [popolazione di origine olandese che ha colonizzato il Sudafrica ed ha imposto l’apartheid alla popolazione nativa, ndt.] , o peggio, del Medio Oriente.

Vogliamo una via d’uscita dal vicolo cieco del sionismo politico, e un ritorno al sionismo culturale di Ben-Yehuda, Henrietta Szold, Ahad Ha-am, Judah Magnes e Martin Buber, che immaginavano un popolo ebraico che vivesse insieme ai propri vicini palestinesi.

Questa è una sfida che libererà realmente entrambi i popoli, un progetto positivo di una nuova generazione di sionisti culturali. Abbiamo bisogno di uno Stato che offra uguali diritti a tutti i propri cittadini – un’unica cittadinanza, un unico voto, un unico parlamento – ma che garantisca il diritto costituzionale sia degli ebrei israeliani che degli arabi palestinesi alla propria identità, alla propria narrazione e alle proprie istituzioni.

Non c’è motivo di credere che ciò porterebbe ad una “guerra civile senza fine e sanguinosa”, come sostiene Yoffie. Gli ebrei israeliani avrebbero il diritto di vivere ovunque, comprese le colonie; i rifugiati palestinesi potrebbero tornare a casa; si svilupperebbe una società civile comune; economicamente il Paese fiorirebbe, sostenuto da due ricche e colte diaspore parallele, ebraica e palestinese.

Questa è la sfida che l’“estrema” sinistra deve cercare di realizzare. Che piaccia o meno, questo è tutto ciò che ci hanno lasciato i sionisti “sensati” sbandierati da Yoffie, insieme con la destra “estrema” che ci governa.

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Jeff Halper è il capo del Israeli Committee Against House Demolitions   [ICAHD, Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Apartheid dall’interno? I palestinesi cittadini di Israele

Yara Hawari

23 novembre 2017,Al-Shabaka

Sintesi

Importanti personalità del panorama internazionale hanno descritto la situazione in Cisgiordania come apartheid, citando caratteristiche proprie della segregazione, quali strade per soli coloni, insediamenti fortificati e il muro di separazione. Nel suo libro del 2006 “Peace not apartheid” [“Pace non Apartheid] , l’ex presidente USA Jimmy Carter ha adottato questo termine proprio a proposito dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), mentre John Kerry nel 2014 ha avvertito che Israele “potrebbe” diventare uno Stato di apartheid se non si verificasse la soluzione dei due Stati.

Tuttavia, più recentemente, eminenti voci hanno applicato il termine alla situazione dei palestinesi cittadini di Israele. Jodi Rudoren, ex capo dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times, ha detto: “…Penso che la questione dell’apartheid sia più attinente a come gli arabi israeliani (i palestinesi cittadini di Israele) vengono trattati nel contesto di Israele.” La Commissione Socio-Economica per l’Asia Occidentale delle Nazioni Unite (ESCWA) all’inizio di quest’anno ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che Israele, fin dall’inizio, “ha imposto un regime di apartheid che domina il popolo palestinese nel suo complesso” – intendendo i palestinesi non solo dei TPO, ma anche quelli in esilio e quelli all’interno di Israele stesso. (1)

Questo documento politico prende in esame l’analisi dell’apartheid relativamente ai palestinesi cittadini di Israele, con particolare attenzione alla cittadinanza, alla terra, all’educazione e alle politiche. Si conclude con le strategie su come tale analisi possa essere utilizzata per sostenere i diritti dei cittadini palestinesi [di Israele] e contribuire a contrastare la frammentazione all’interno del popolo palestinese nel suo complesso.

L’apartheid e i suoi inizi

Il diritto internazionale consuetudinario e lo Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale definiscono l’apartheid come “atti inumani….compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica di un gruppo razziale su qualunque altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di mantenere tale regime.”

Benché molti associno l’apartheid al Sudafrica, la definizione è applicabile universalmente e perciò confuta l’errato concetto che l’apartheid sia stato un caso eccezionale che da allora non si è più verificato. La definizione inoltre consente una comprensione dell’apartheid come un sistema che può assumere diverse caratteristiche e manifestarsi in vari modi, compreso quello economico (vedere l’articolo Rethinking our definition of apartheid [Ripensare alla nostra definizione di apartheid], che sostiene che l’apartheid non è ancora stato superato in Sudafrica).

Mentre 750.000 palestinesi furono espulsi dai confini del nuovo Stato ebraico nel 1948, 150.000 Palestinesi rimasero e vennero sottoposti alla legge marziale per quasi 20 anni. Quel periodo, noto come regime militare, si basava sulle Norme di Emergenza del 1945 introdotte dalle autorità del Mandato britannico, che le utilizzava per controllare gli arabi di Palestina. I meccanismi limitavano ogni aspetto della vita dei palestinesi all’interno del nuovo Stato, compresa la libertà di movimento e di espressione politica.

Questo periodo vide una massiccia appropriazione di terre, compiuta attraverso la Legge sulla Proprietà degli Assenti, varata dalla Knesset  nel 1950. La legge continua ad essere il principale strumento con cui Israele confisca i terreni, anche a Gerusalemme est. (2) Essa ha consentito allo Stato di appropriarsi della proprietà di chiunque abbia lasciato il proprio luogo di residenza tra il 29 novembre 1947 e il 19 maggio 1948. Questa legge ed altre, comprese quelle che costituiscono la Legge Fondamentale – che tuttora funge da Costituzione di Israele – hanno codificato l’apartheid nel sistema giuridico. Queste leggi hanno anche stabilito la dottrina fondamentale di Israele del predominio ebraico in uno Stato ebraico, con disuguaglianza per tutti gli altri.

Benché il regime militare sia stato abolito nel 1966, la comunità palestinese è rimasta una minaccia demografica e potenzialmente politica alla natura dello Stato. Perciò Israele ha mantenuto sia la segregazione che l’emarginazione dei palestinesi. Oggi i palestinesi di Israele sono 1,5 milioni, un quinto della popolazione totale. Non ci sono stati tentativi di assimilarli nella struttura coloniale, come in altri casi di regimi di colonizzazione di insediamento. La preoccupazione che Israele avesse un carattere esclusivamente ebraico ha lasciato i suoi cittadini palestinesi ai margini, eppure loro continuano a sopravvivere.

La cittadinanza come meccanismo di apartheid

Si dice spesso che i palestinesi in Israele sono cittadini “di seconda classe”, eppure questa frase non rispecchia la realtà. Anche se ai palestinesi rimasti all’interno dei confini del nuovo Stato è stata concessa la cittadinanza israeliana, fin dall’inizio non è stata usata come meccanismo di inclusione. Questo perché in Israele, a differenza della maggior parte dei Paesi, cittadinanza e nazionalità sono termini e categorie distinte. Mentre esiste la cittadinanza israeliana, non esiste la nazionalità israeliana; piuttosto, la nazionalità viene definita in base a criteri etnico-religiosi. Israele conta 137 possibili nazionalità, compresi ebrei, arabi e drusi, che sono registrate sulle carte di identità e nelle banche dati dell’anagrafe. Ma poiché lo Stato si definisce costituzionalmente come ebraico, coloro che hanno nazionalità ebraica contano di più della popolazione non ebrea (in maggioranza palestinese).

Dato che la nazione ebraica e lo Stato di Israele sono considerati una sola cosa, la conseguenza è l’esclusione dei cittadini non ebrei. Il rapporto ESCWA spiega che la distinzione tra cittadinanza e nazionalità consente un sistema razzista sofisticato e occulto, non necessariamente rilevabile dall’osservatore non esperto. Il sistema divide la popolazione in due categorie (ebrei e non ebrei), incarnando proprio la definizione di apartheid. I cittadini palestinesi sono quindi definiti “arabi israeliani”, termine diventato usuale nei principali media. Oltre a far parte del meccanismo binario di esclusione, questo termine tenta di negare l’identità palestinese di questi cittadini, mentre consente ad Israele di presentarsi come uno Stato eterogeneo e multiculturale. Questo incide sull’accesso alla terra, all’abitazione e all’educazione, come si esporrà più avanti.

Sia i cittadini palestinesi che gli ebrei israeliani hanno più volte sollevato la questione della cittadinanza e della nazionalità nei tribunali israeliani. Mentre i palestinesi lo hanno fatto nel tentativo di ottenere pieni diritti all’interno dello Stato, gli ebrei israeliani hanno in genere richiesto di abbandonare l’identità etnica e religiosa. Finora la Corte Suprema ha respinto tutte le petizioni per cambiare la legge, sulla base del fatto che la nazionalità israeliana potrebbe tecnicamente aprire all’inclusione di cittadini non ebrei e minacciare il dogma sionista di Israele come Stato della nazione ebraica.

Segregazione e esproprio della terra

Anche l’organizzazione dello spazio all’interno di Israele configura l’apartheid. La maggior parte dei palestinesi cittadini di Israele vive in villaggi e città di soli arabi, soltanto alcuni vivono in “città miste”. Questa segregazione non è casuale, né un “naturale” modello residenziale. Un esame sommario rivela l’obiettivo israeliano di comprimere il maggior numero di arabi palestinesi nella più piccola porzione possibile di terra. I villaggi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 hanno visto espropriata molta della loro terra e da allora non è stata permessa alcuna espansione. Il risultato è che questi villaggi e cittadine arabi soffrono di un grave sovraffollamento e non hanno opportunità di riscatto attraverso sviluppo o crescita. Inoltre, dal 1948 non è stato costruito un solo nuovo villaggio o città arabi.

Se i palestinesi lasciano le loro città e villaggi di origine, non hanno la possibilità di comprare o affittare terra grazie a due principali meccanismi: i comitati di ammissione e le politiche discriminatorie del Fondo Nazionale Ebraico (JNF) e delle autorità statali. Le comunità rurali possono istituire comitati di ammissione che controllano l’“idoneità sociale” dei potenziali residenti, consentendo il fatto che i palestinesi che fanno richiesta vengano “legalmente” non accettati in quanto non sono ebrei. L’Alta Corte ha avallato questa prassi nonostante le contestazioni contro di essa.

L’Autorità Israeliana per la Terra (nota come Israeli Land Administration [Amministrazione Israeliana della Terra] fino al 2009) è stata incaricata fin dall’inizio di mantenere il mandato del Fondo Nazionale Ebraico per agire come affidatario della terra di Palestina per il popolo ebraico ed operare in base alla Legge del 1952 sullo status dell’Organizzazione Mondiale Sionista-Agenzia Ebraica, la cui funzione principale consiste nel radunare e insediare gli ebrei di tutto il mondo in Israele.

Quindi la pianificazione urbana e rurale e l’organizzazione dello spazio mantengono la preminenza del carattere ebraico dello Stato e corroborano la narrazione sionista. L’obiettivo del Piano Generale di Israele, formulato in base alla Legge del 1965 sulla pianificazione e l’edilizia, ribadisce questa politica: “Sviluppare aree in Israele in modo da permettere la realizzazione degli obbiettivi della società israeliana e delle sue diverse componenti, la realizzazione del suo carattere ebraico, l’inserimento di immigrati ebrei ed il mantenimento del suo carattere democratico.”

Questa ideologia e le politiche che la supportano hanno avuto conseguenze devastanti per le zone palestinesi lungo i confini del 1948. In Galilea, dove i palestinesi sono la maggioranza, il governo israeliano ha condotto decisi tentativi di “giudaizzare” la regione. Questo comprende l’accerchiamento dei villaggi palestinesi con insediamenti ebrei per impedire la contiguità geografica, – rivelando le preoccupazioni demografiche dello Stato, soprattutto il suo timore per la crescita della popolazione palestinese. Questa preoccupazione israeliana si è espressa anche attraverso continue espulsioni e trasferimenti di decine di migliaia di beduini palestinesi nel Naqab (Negev).

Ben 90.000 beduini vivono in “villaggi non riconosciuti”, il che significa che Israele considera questi villaggi illegali ed i loro abitanti “intrusi” nella terra dello Stato. La definizione di “illegali” deriva anzitutto dal fatto che molti dei villaggi sono precedenti alla nascita di Israele e la tradizione beduina determinava la proprietà della terra. Riguardo agli altri villaggi, i beduini li hanno creati dopo essere stati espulsi dalle loro terre ancestrali nel 1948 e non sono “autorizzati” dallo Stato. In questo modo, Israele rivendica la legittimità di privare molti beduini del Naqab dei servizi essenziali come l’acqua e l’elettricità e in molti casi distrugge i villaggi.

Il fatto che palestinesi ed ebrei vivano in aree segregate rende più facile per Israele privare dei servizi i palestinesi in altre zone all’interno dei confini del 1948. Le organizzazioni para-governative che si occupano di allocazione delle risorse favoriscono tale deprivazione. Queste organizzazioni sono enti ebraici o sionisti, comprese l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale, ed il loro compito è essere al servizio del popolo ebraico e mantenere il carattere sionista dello Stato. Di conseguenza, negano risorse ai palestinesi allo stesso modo in cui viene loro negato lo spazio, sulla base del fatto che non sono ebrei. Pur se in molti Paesi esiste una distribuzione iniqua ed ingiusta delle risorse e della terra, raramente tali politiche sono inserite in modo così esplicito nella legge come in Israele.

Conservare il regime

Israele mantiene questo regime di apartheid tramite vari metodi di controllo esterno ed interno. All’interno dei confini del 1948 lo Stato cerca di sottomettere i palestinesi fin dall’inizio della loro esistenza attraverso il sistema educativo. Stabilito durante il regime militare, il sistema scolastico statale ha posto i bambini palestinesi e quelli ebrei israeliani in scuole separate. Il docente di Educazione dell’università Ben Gurion del Negev, Ismael Abu-Saad, ha affermato che, mentre le strutture formali del regime militare sono cambiate da allora, la strategia di usare “l’educazione come strumento a fini politici è perdurata e continua ancora oggi a determinare l’esperienza educativa degli studenti arabi palestinesi autoctoni in Israele.”

Questa strategia politica include il controllo del curriculum per eliminare l’identità palestinese ed impedire la mobilitazione contro lo Stato. Inoltre le scuole palestinesi hanno grande carenza di risorse: meno di un terzo di quanto viene speso per gli scolari ebrei israeliani è speso per quelli palestinesi. Questa mancanza di risorse non solo dimostra le palesi ineguaglianze tra le due categorie di cittadini, ma è anche un ostacolo per le opportunità dei ragazzi palestinesi nella loro vita futura.

Le scuole ebree israeliane godono di ampia autonomia relativamente al loro curriculum, mentre il ministero dell’Educazione stabilisce il curriculum delle scuole palestinesi. Non sorprende quindi che il curriculum delle scuole palestinesi sia quasi del tutto incentrato sulla storia, sui “valori” e sulla cultura ebraica, senza riferimenti alla storia palestinese e araba. La narrazione della Nakba, come i palestinesi chiamano la catastrofe della loro espulsione nel 1948, non esiste – e di fatto è messa al bando. La “Legge sul Finanziamento delle Fondazioni “di Israele, comunemente nota come “Legge della Nakba”, autorizza il ministro delle Finanze a ridurre o eliminare i finanziamenti statali a qualunque istituzione che commemori la Nakba o definisca il giorno dell’indipendenza israeliana un giorno di lutto.

Ciò riguarda scuole, Ong e amministrazioni comunali. La negazione di questo aspetto fondamentale della storia palestinese mira a recidere l’identità collettiva dei palestinesi, in cui la Nakba riveste un ruolo essenziale.

Se i palestinesi possono ottenere qualche successo nell’ambito del sistema giuridico israeliano attraverso azioni legali o ricorsi, non sono in grado di minacciare seriamente il regime razziale. E benché la partecipazione politica palestinese alla Knesset (parlamento israeliano) sia spesso citata come esempio della pluralità e della democrazia dello Stato, dal 1948 nessun partito arabo è stato incluso in una coalizione di governo e solo alcuni cittadini palestinesi sono stati designati in posizioni ministeriali.

I candidati alla Knesset possono essere esclusi se negano l’esistenza di Israele come Stato ebraico e democratico, il che rende la partecipazione politica in Israele basata sulla premessa di accettare che lo Stato è per il popolo ebraico e che l’esistenza dei palestinesi nello Stato non sarà mai uguale a quella delle loro controparti ebree.

La mobilitazione politica contro il regime è stata perciò condotta al di fuori della politica istituzionale, sia nella società civile che negli ambienti militanti, entrambi i quali sono sotto costante controllo e intimidazione. “Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della minoranza araba in Israele, ha documentato la sistematica attività dello Stato di arresti e persecuzioni di soggetti rilevanti della società civile e di militanti politici. Analogamente, spesso lo Stato reprime con violenza le manifestazioni, in particolare nell’ottobre 2000, quando 13 cittadini palestinesi disarmati furono uccisi con armi da fuoco per aver protestato in solidarietà con i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Nonostante queste crudeli e violente prassi, Israele conserva un’immagine di democrazia liberale e multiculturale – un alleato dell’Occidente in una regione altrimenti ostile. Dipinge il sionismo come un’ideologia di liberazione nazionale ebraica, invece che come base di un regime coloniale di insediamento che mantiene un sistema di apartheid. Israele è anche riuscito a orientare la discussione su che cosa sia la Palestina e chi sia un palestinese.

Sicuramente la Nakba ha diviso il popolo palestinese in tre parti: i palestinesi cittadini di Israele, i palestinesi in Cisgiordania e Gaza e i palestinesi in esilio (i rifugiati). Israele ed i vari processi di pace, compresi gli accordi di Oslo, hanno continuato a consolidare questa frammentazione attraverso la volutamente limitata interpretazione della Palestina come i “Territori Palestinesi Occupati” – e del popolo palestinese come persone all’interno di quei territori. Questo omette di riconoscere la Nakba come parte della storia palestinese e quindi esclude sia i palestinesi cittadini di Israele che i rifugiati in esilio dalla lotta di liberazione palestinese. Il rapporto ESCWA sottolinea che questa frammentazione è il principale strumento con cui Israele impone l’apartheid al popolo palestinese. È perciò importante elaborare strategie per usare l’analisi dell’apartheid e sfidare quella frammentazione.

L’analisi dell’apartheid come strategia per garantire diritti a tutti i palestinesi

Il termine “apartheid”, senza dubbio a causa delle sue gravi implicazioni politiche e giuridiche, non è ancora entrato nella sfera dei principali ambiti mediatici e politici in relazione ad Israele e Palestina. È stato solo occasionalmente applicato alla situazione della Cisgiordania. Anzi, il rapporto ESCWA, con la sua conclusione che Israele pratica l’apartheid su tutta la popolazione palestinese, è stato ritirato poco dopo la pubblicazione, in seguito all’enorme pressione da parte di USA ed Israele.

Ciononostante, l’analisi dell’apartheid può essere utilizzata strategicamente per contrastare la frammentazione del popolo palestinese e promuovere i suoi diritti, compresi quelli dei palestinesi cittadini di Israele. Ci sono molte ragioni per cui ’analisi dell’apartheid è particolarmente utile al riguardo.

Anzitutto, il diritto internazionale fornisce un modello e una definizione universali del termine, che riconosce che l’apartheid può assumere diverse forme. La comprensione dell’apartheid non si limita quindi a quello del regime sudafricano. Apartheid è anche un meccanismo inserito nel sistema giuridico, praticato e mantenuto dallo Stato. In quanto tale, il problema non riguarda i partiti politici o i politici al governo, ma piuttosto il fondamento costituzionale dello Stato stesso. Infine, l’analisi dell’apartheid riconosce che il regime israeliano di oppressione e discriminazione non solo colpisce tutte le componenti della società palestinese, ma di fatto dipende da tale frammentazione. Perciò le soluzioni a lungo termine alla violazione dei diritti dei palestinesi devono prendere in considerazione tutte le componenti del popolo palestinese, non solo i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il problema dell’apartheid riguarda il fondamento costituzionale dello Stato.

Creare questi punti di forza consente alcune possibili strategie. Chi si occupa di diritto internazionale e di analisi politica non deve rinunciare a perseguire i diritti dei palestinesi nel quadro dell’occupazione militare, in particolare del riconoscimento della Linea Verde [il confine tra Giordania ed Israele prima della guerra del ’67, ndt.]. Tuttavia i politici ed i soggetti della società civile devono anche evidenziare che i palestinesi cittadini di Israele ed i palestinesi rifugiati non sono separati dalla complessiva lotta palestinese. Tenere insieme questi elementi può aiutare a sfidare i limiti del discorso internazionale che detta i criteri su chi sia un palestinese.

Per i palestinesi, soprattutto per la leadership politica e della società civile, uno dei compiti più importanti dovrebbe essere contrastare la frammentazione imposta dal regime israeliano. I dirigenti devono prendere in considerazione l’epoca antecedente a Oslo, un periodo di maggior cooperazione attraverso la Linea Verde, e portare avanti il lavoro già in atto, benché su piccola scala, da parte di diverse Ong che si occupano soprattutto di raggruppare insieme i giovani palestinesi, come Baladna (Associazione per la gioventù araba con sede ad Haifa). Ciò che è necessario è uno sforzo collettivo sviluppato dai palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde e in esilio, che spinga per una visione politica ed un futuro sostenibile.

Vi è un precedente di una tale visione tra i palestinesi cittadini di Israele. I ‘Documenti per una visione del futuro’, pubblicati nel 2006-2007, sono scaturiti dal lavoro collettivo di politici, intellettuali e leaders della società civile palestinesi. I documenti non solo enunciavano le richieste sociali e politiche della comunità palestinese in Israele, ma proponevano anche una sintetica narrazione palestinese. Ne è risultato un quadro teoretico e strutturato per i diritti dei palestinesi entro lo Stato di Israele. Il quadro disegnava il futuro a prescindere dalle limitazioni dall’alto al basso e avanzava proposte politiche concrete.

Però l’accento posto dai documenti su Israele mette in luce I loro limiti, soprattutto relativamente alla frammentazione. Ampliare questa visione attraverso ed oltre la Linea Verde e trasformarla in una richiesta di fine dell’apartheid e della frammentazione imposta, deve assumere un ruolo centrale nella lotta di liberazione palestinese. Solo attraverso un simile sviluppo tutti gli aspetti del regime israeliano di apartheid possono essere messi in discussione.

Note:

  1. Il rapporto ESCWA afferma: “Israele ha instaurato un regime di apartheid che domina i palestinesi nel loro complesso….Israele è colpevole di politiche e prassi che configurano il crimine di apartheid come giuridicamente definito nei dispositivi del diritto internazionale.”

  1. Un caso recente è stato il tentativo di sfratto nel 2014 della famiglia Ghaith-Sub Laban, che aveva vissuto nella sua casa nella città vecchia di Gerusalemme per 60 anni.

Yara Hawari

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka: rete di politica palestinese.

E’ una studiosa-attivista anglo-palestinese, i cui lavori sono sempre improntati al suo impegno per la decolonizzazione. Originaria della Galilea, Yara ha passato la sua vita tra la Palestina e il Regno Unito. Attualmente è dottoranda all’ultimo anno presso il Centro Europeo per gli Studi Palestinesi all’università di Exeter. La sua tesi si incentra su progetti ed iniziative di storia orale in Galilea, e più ampiamente sulla storia orale come forma autoctona di produzione di conoscenza. Yara è anche assistente all’insegnamento post-laurea e lavora come giornalista freelance pubblicando per diversi organi di informazione, compresi Electronic Intifada e The Independent.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”

Jack Khoury

15 gennaio 2018, Haaretz

Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”

Domenica il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.

Abbas ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”

Ha aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo politico che riguardi i negoziati.

L’ambasciatore USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”

Il consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington. Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”

Noi siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti, e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti quanti all’inferno.”

Poi Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour [in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione. Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità di sbarazzarsi dei palestinesi.”

Abbas ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza patirne le conseguenze.

Abbas ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata. Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

La nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del ’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i rifugiati.

Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.

Gli americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22 organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.], non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle organizzazioni.

Abbiamo accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli americani hanno posto il veto.

Israele ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato Israele alla FIFA.

Pubblicheremo una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di corruzione.

I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.

Le famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità internazionale.

Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.

Non saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi. Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”

Il capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz: “Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”

Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.

L’incontro di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.

Il portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali rappresentanti di tutte le fazioni.

Haaretz è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a continuare a rispettare i patti.

Altri membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei confini del 1967.

Secondo funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo politico.

Il vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale. “Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad abbandonare gli amici di Fatah.

Al-Aloul ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del riconoscimento di Israele.

Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.

Haaretz ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire un’azione a livello internazionale e diplomatico.

Un altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro Israele.

Il consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza, raccomandazioni relative alle politiche.

Un importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ANP sta sfruttando la storia invece di affrontare la realtà

Ramona Wadi

9 gennaio 2018, Middle East Monitor

Solo una settimana dopo che il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato che importanti decisioni verranno prese nel 2018, ci sono già degli indizi che una delle priorità sia prolungare lo stallo politico a beneficio di Israele.

Lunedì l’agenzia Wafa [agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ndt.] ha informato che il comitato centrale dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce la maggior parte dei gruppi politici palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.] terrà un incontro il 14 gennaio, apparentemente per “cercare una nuova prospettiva politica” riguardo alle conseguenze dell’annuncio del presidente USA Donald Trump del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.

La breve nota di stampa si riferisce a una dichiarazione del presidente del consiglio nazionale palestinese [il parlamento dell’OLP, ndt.], Salim Zanoun, che ha fornito ulteriori dettagli sull’imminente incontro. Tra le questioni citate c’è un riesame dello scenario politico dagli accordi di Oslo, l’unità nazionale e il rinnovamento della “resistenza popolare non violenta contro l’occupazione israeliana”. La riunione, secondo Zanoun, sarà aperta a tutte le fazioni palestinesi, compreso Hamas.

Continuare ad avere contrasti insanabili rimane una priorità per Ramallah. Israele, rafforzato dalla decisione unilaterale su Gerusalemme da parte degli USA, si è avvalsa del momento per rafforzare ulteriormente l’usurpazione del territorio palestinese. Invece i dirigenti dell’OLP staranno a riepilogare un passato che è stato analizzato ed esaminato dai suoi inizi, con l’insistenza condivisa sul fatto che il ruolo degli accordi [di Oslo] è stato di creare nuovi livelli di dipendenza e di violenza per i palestinesi. Pertanto la nuova prospettiva politica cui allude Zanoun è una prassi di risposta diplomatica dilatoria. Anche se il contesto storico è sempre importante e dovrebbe far parte di ogni analisi sull’attualità, sfruttare la storia con l’intento di allontanare l’attenzione dalle attuali violazioni dimostra la politica di esclusione che caratterizza l’ANP.

L’ANP è stata in grado di mettere in pratica una simile politica per fornire dei vantaggi ad Israele. Mettendo ai margini altre fazioni palestinesi, soprattutto Hamas, Abbas si è scavato una nicchia in cui la dissociazione tra la dirigenza e il popolo è arrivata a livelli pericolosi. A prescindere dalle attuali circostanze, comprese le proteste su Gerusalemme che la stessa ANP ha cercato di capitalizzare senza responsabilità riguardo la sicurezza dei civili, gli accordi di Oslo forniranno ora un temporaneo piedistallo come metafora per la messa in atto di ulteriori ritardi. Mentre Israele colonizza il territorio, la dirigenza palestinese collabora con questo processo con diverse forme di mistificazione. Queste tattiche rendono già vuoto di senso l’incontro, per non parlare della prova evidente di come gli accordi hanno contribuito alla frammentazione della Palestina con l’approvazione internazionale.

Oltretutto invitare Hamas a partecipare alla riunione dopo gli ultimi mesi di pressioni costituisce un’altra forma di mistificazione. Le fluttuazioni su Gaza sono dannose per l’enclave – ogni serie di violazioni è rapidamente dimenticata per spianare la strada a quelle che seguono, che sia una promessa di ricostruzione o di un graduale ripristino della fornitura elettrica, che è ancora inadeguata. La stessa manipolazione viene applicata quando il degrado della situazione umanitaria non è più una preoccupazione politica di Abbas.

Ci sono due principali tattiche utilizzate a questo proposito. Una è che Abbas conservi l’apparenza della riconciliazione e dell’unità nazionale. L’altra è la normalizzazione delle privazioni che hanno precipitato Gaza nella scelta tra due scenari disastrosi. La partecipazione di Hamas a questo imminente incontro rafforzerà questa dinamica, in cui la marginalizzazione del movimento avverrà comunque in entrambi i casi. Tuttavia, data l’insistenza sul discutere di Oslo decenni dopo il prolungamento della violenza coloniale sui palestinesi da parte dell’ANP, è importante ricordare che i fondamenti dell’unità nazionale non possono essere formulati da Abbas, data la sua dipendenza dal contesto che sostiene politiche autoritarie a spese dei palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Imporre la pace: Trump e i palestinesi

Osamah Khalil

18 dicembre 2017, Al Shabaka

L’annuncio del presidente Donald Trump secondo cui riconosce Gerusalemme come la capitale di Israele rappresenta il culmine della politica estera USA durante settant’anni in cui l’obiettivo del processo di pace è stato imporre una soluzione ai palestinesi.

Eppure per circa trent’anni la strategia della dirigenza palestinese è stata l’esaltazione della prevalenza dei negoziati e di politiche guidate dall’élite. Si è concentrata sul garantire la lealtà dei palestinesi al suo programma politico attraverso il clientelismo e la repressione. La dirigenza ha messo da parte, se non danneggiato attivamente, l’organizzazione di base ed ha consumato le istituzioni nella vana e sempre più disperata speranza che i suoi sforzi sarebbero stati premiati dagli Stati Uniti e da Israele. Al contempo la sua politica ha garantito che la ristretta cerchia che beneficia del processo di pace e dell’occupazione israeliana resistesse. I risultati di questa strategia sbagliata sono apparsi evidenti con l’annuncio di Trump, ma sono stati evidenti anche da parecchio tempo.

L’Autorità Nazionale Palestinese dipende dall’appoggio finanziario, soprattutto degli Stati Uniti. Pertanto è improbabile che faccia ricorso nel breve termine a qualcosa di più che iniziative retoriche e simboliche e vuote minacce. Continuerà a concentrarsi sulle élite internazionali e potrebbe tentare di trovare un nuovo mediatore per i negoziati con Israele. Tuttavia non ci sono ragioni per cui Israele riprenda i negoziati in questo momento e consenta che emerga un nuovo mediatore. Se la dirigenza palestinese è seria in merito a un cambiamento rispetto alla soluzione dei due Stati, come ha sostenuto recentemente uno dei suoi rappresentanti, allora l’unica iniziativa significativa che potrebbe prendere è lo scioglimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Benché un’azione così drammatica obbligherebbe Israele, gli Stati Uniti, i Paesi arabi e la comunità internazionale nel suo complesso ad una risposta, ciò implicherebbe che la dirigenza abbandonasse la propria posizione ed i propri privilegi. Ciò è ancora più improbabile che l’apparizione di un nuovo mediatore per i negoziati di pace che sfidi gli Stati Uniti.

La dichiarazione di Trump: settant’anni di preparazione

Il processo di pace può essere di fatto diviso in due periodi. Nel primo, dalla fine della guerra palestinese del 1948 e della Nakba [la “catastrofe”, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi ad opera delle milizie sioniste, ndt.] fino a metà degli anni ’70, gli Stati Uniti hanno cercato di ignorare la questione palestinese concentrandosi sugli Stati arabi. I palestinesi vennero trattati come un problema umanitario che doveva essere risolto senza il loro intervento piuttosto che una questione politica che li includesse come parte dei negoziati.

Mentre gli Stati arabi erano generalmente disponibili a un accordo di pace con Israele a patto che il problema dei rifugiati palestinesi venisse risolto, Israele rimase il principale impedimento. L’intransigenza israeliana non fece che aumentare dopo la guerra del giugno 1967 e l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est, della Striscia di Gaza, del Sinai e delle Alture del Golan. Subito dopo la guerra del giugno 1967 gli Stati Uniti misero in rilievo negoziati “terra in cambio di pace”, soprattutto con l’Egitto e con la Giordania. Continuarono ad ignorare l’emergere di organizzazioni politiche palestinesi, compresa Fatah, che col tempo avrebbe dominato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

In seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, Washington sembrò più interessata ad affrontare le rivendicazioni palestinesi. Eppure nel secondo periodo del processo di pace Washington cercò di limitare o sabotare la partecipazione dei palestinesi alle trattative. Pubblicamente ciò venne ottenuto imponendo all’OLP richieste perché dimostrasse la sua adeguatezza come partner nei negoziati. Washington insistette che l’organizzazione accettasse le risoluzioni 242 e 338 del consiglio di sicurezza dell’ONU e riconoscesse Israele.

In privato gli Stati Uniti ed Israele si coordinarono nei negoziati e Washington accettò di appoggiare, se non assecondare, la posizione israeliana sulle questioni chiave. Quindi Washington chiese all’OLP di fare importanti concessioni solo per partecipare ai negoziati, senza alcuna garanzia che avrebbero avuto successo. Gli accordi segreti e il coordinamento tra gli Stati Uniti ed Israele servirono a garantire che qualunque accordo sarebbe stato a scapito dei palestinesi.

Il mito del mediatore imparziale

Il concetto secondo cui gli Stati Uniti sono un “mediatore imparziale” è stato perpetuato da diplomatici americani egocentrici, da politici e dalla stampa. Non ha nessuna base nella realtà storica del conflitto arabo-israeliano e del processo di pace. L’eccessivo ruolo di Washington è in parte un riflesso del suo status come unica superpotenza che ha forgiato l’ordine internazionale e le istituzioni dopo la Seconda Guerra Mondiale. C’è spesso un malinteso fondamentale sulla Guerra Fredda e sull’influenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica sulla scena mondiale. Benché fossero in competizione, Washington era e rimase molto più potente e influente di Mosca sul piano politico, economico e militare.

Benché la posizione internazionale dell’America nei primi anni ’70 fosse ridotta a causa della guerra del Vietnam, la guerra arabo-israeliana del 1973 fornì a Washington un’opportunità per ribadire la propria influenza in Medio Oriente attraverso il processo di pace. Gli Stati arabi e i palestinesi non videro gli Stati Uniti come un mediatore imparziale. Semmai vennero visti come l’unico potere che sembrava in grado di imporre concessioni da parte di Israele. La nozione secondo cui gli USA potessero aiutare ad ottenere la pace con Israele era promossa dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, in quanto essi intendevano contenere l’influenza dell’Unione Sovietica nella regione ed a livello internazionale. Ciò è stato dimostrato dalla deliberata politica di Kissinger nei confronti del processo di pace, che intendeva escludere Mosca dai negoziati e rompere la posizione negoziale araba unitaria.

Gli accordi di Camp David del 1978 ed il trattato di pace finale tra Egitto ed Israele confermarono la strategia di Kissinger, che venne adottata dalle successive amministrazioni americane e le influenzò. Anche se Washington riuscì a contribuire a raggiungere la pace tra Egitto ed Israele, quello che è spesso trascurato è che le concessioni di Israele vennero fatte a spese dei palestinesi che vivevano sotto occupazione. Né gli accordi di Camp David comportarono successivi accordi di pace, come sperava il presidente Jimmy Carter, o ulteriori concessioni territoriali da parte di Israele.

Gli accordi di Oslo rafforzarono ulteriormente queste politiche. Washington non venne coinvolta nei negoziati originari né nella dichiarazione di principi del 1993. In effetti, una volta che il processo venne monopolizzato dal presidente Bill Clinton, i negoziati sullo status finale vennero rimandati e alla fine fallirono. Come le precedenti amministrazioni americane, Clinton si mise d’accordo in pubblico ed in privato con Israele. L’amministrazione Clinton si accordò segretamente con l’allora ed attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per discutere ogni proposta americana con Israele prima di presentarla al gruppo di negoziatori palestinesi.

Benché finalmente i palestinesi avessero un posto al tavolo dei negoziati quasi alla pari con gli israeliani, ed al presidente dell’OLP Yasser Arafat venisse consentito di recarsi varie volte alla Casa Bianca di Clinton, il ruolo di Washington era ancora quello di imporre un accordo di pace. Da Arafat e dalla neonata Autorità Nazionale Palestinese ci si aspettava che applicassero una pace inaccettabile e un’occupazione continua in cambio di una parvenza di statualità, ma senza una vera sovranità. A dispetto di tutte le iperboli sulla “generosa offerta” a Camp David nel 2000, Israele e l’allora primo ministro Ehud Barak non avevano intenzione di accettare neppure l’apparenza di uno Stato palestinese e di una Gerusalemme divisa. Guarda caso il fallimento dei negoziati per lo status finale venne attribuito ai palestinesi e ad Arafat, ma le sue radici risalgono al costante approccio al processo di pace fin dal suo inizio.

Il ruolo della politica USA

Benché gli Stati Uniti conservino la posizione dominante sulla scena mondiale, la loro politica interna è provinciale e guidata dai cicli elettorali di due e quattro anni. La necessità di ottenere fondi per le campagne delle elezioni politiche per il Congresso e per la presidenza si traduce nell’eccessiva influenza di importanti donatori su questioni di politica, compresi i rapporti internazionali. Ciò è risultato evidente nella volontà dei candidati presidenziali, compreso Barak Obama nel 2008, di dichiarare pubblicamente che Gerusalemme “dovrebbe rimanere la capitale di Israele e dovrebbe restare indivisa” durante le elezioni, ma di rimandare questa iniziativa fino al raggiungimento di un accordo finale.

Gli sconfortanti livelli di gradimento e gli scarsi risultati di Trump dopo circa un anno in carica hanno contribuito alla decisione su Gerusalemme. In particolare ciò potrebbe aiutare le possibilità del partito Repubblicano di conservare la sua maggioranza nelle elezioni di metà mandato del 2018 e le speranze di rielezione di Trump nel 2020. È probabile che l’annuncio rafforzi la posizione di Trump tra la base cristiana evangelica del partito Repubblicano ed alcuni importanti esponenti si sono affrettati ad acclamare l’annuncio. Questo soddisferà anche i principali donatori di fondi come Sheldon Adelson, un sostenitore di spicco delle colonie israeliane. Poiché la decisione ha un sostegno trasversale, compresi importanti dirigenti democratici, ciò potrebbe anche rendere Trump e il partito Repubblicano più graditi per i votanti filo-israeliani in Stati chiave in cui le elezioni sono sempre più combattute a causa di mutamenti demografici.

Manovre regionali

In quanto debole attore senza uno Stato, i palestinesi sono stati soggetti alle dinamiche regionali e alle politiche della grande potenza. Ciò include regimi che sono stati ostili al nazionalismo palestinese, come la Giordania, o quelli che intendono strumentalizzare i partiti politici palestinesi in competizione tra loro per i propri scopi e progetti regionali, come l’Egitto, la Siria e l’Iraq. Washington ha spesso cercato di fare pressione sui dirigenti palestinesi attraverso gli Stati arabi con risultati alterni.

Nel loro tentativo di stringere un’alleanza contro l’Iran che includa Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti potrebbero tentare di obbligare Mahmoud Abbas e la dirigenza palestinese ad accettare un accordo di pace. Tuttavia si renderanno conto che l’ostacolo non è rappresentato da Ramallah. Piuttosto, come altri leader arabi hanno imparato in ritardo, Israele incasserà ogni concessione facendo al contempo altre richieste e saboterà negoziati che possano dare come risultato uno Stato palestinese. L’annuncio di Trump su Gerusalemme, presumibilmente con il tacito accordo di Riyadh e di altre capitali arabe, ricompensa esclusivamente l’intransigenza di Israele a spese dei palestinesi che vivono sotto occupazione e nella diaspora.

Osamah Khalil

Consigliere politico di Al-Shabaka, Osamah Khalil è co-fondatore ed ex co-direttore di Al-Shabaka. È professore associato di storia presso la Maxwell School of Citizenship and Public Affairs dell’università di Syracuse. Khalil è autore di “America’s Dream Palace: Middle East Expertise and the Rise of the National Security State” [Il posto dei sogni dell’America: la conoscenza del Medio Oriente e la nascita dello Stato della Sicurezza Nazionale] (Harvard University Press, 2016).

(traduzione di Amedeo Rossi)