Ripensare la nostra definizione di apartheid: non solo un regime politico

27 agosto 2017, Al-Shabaka

Haidar Eid, Andy Clarno

Sintesi

Poiché Israele intensifica il suo progetto di insediamenti coloniali, l’apartheid è diventato un quadro di riferimento sempre più importante per comprendere e contrastare il ruolo di Israele nella Palestina storica. Sicuramente, Nadia Hijab e Ingrid Jaradat Gassner sono convincenti nella loro affermazione che l’apartheid è la cornice analitica più strategica. Nel marzo 2017 la Commissione Economica e Sociale per l’Asia occidentale dell’ONU (ESCWA) ha pubblicato un possente rapporto che documenta le violazioni israeliane del diritto internazionale e conclude che Israele ha instaurato un “regime di apartheid” che opprime e domina l’intero popolo palestinese.

In base al diritto internazionale, l’apartheid è un crimine contro l’umanità e gli Stati possono essere resi responsabili delle proprie azioni. Tuttavia il diritto internazionale ha i suoi limiti. Un problema specifico riguarda ciò che manca nella definizione giuridica internazionale di apartheid. Poiché la definizione si incentra solamente sul regime politico, non fornisce una solida base per criticare gli aspetti economici dell’apartheid. Per affrontare questo problema, proponiamo una definizione alternativa di apartheid, che si è affermata durante la lotta in Sudafrica negli anni ’80 ed ha ottenuto consenso tra i militanti, a causa dei limiti della decolonizzazione in Sudafrica dopo il 1994 – una definizione che riconosce l’apartheid come strettamente connesso al capitalismo.

Questo documento politico esplicita in dettaglio ciò che il movimento di liberazione della Palestina può apprendere dalla situazione del Sudafrica, riconoscendo in particolare l’apartheid sia come sistema di discriminazione razziale legalizzata che come sistema di capitalismo basato sulla razza. Esso si conclude con dei suggerimenti su come i palestinesi possono contrastare questo doppio sistema per ottenere una pace giusta e duratura fondata sull’uguaglianza sociale ed economica.

La forza ed i limiti del diritto internazionale

La Convenzione Internazionale dell’ONU sull’eliminazione e la punizione del crimine di apartheid definisce l’apartheid come un crimine che implica “atti inumani compiuti al fine di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su ogni altro gruppo razziale di persone ed opprimerle sistematicamente.” Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definisce l’apartheid come un crimine che implica “un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica da parte di un gruppo razziale su un altro o altri gruppi razziali.”

Sulla base di un’accurata lettura di questi statuti, il rapporto ESCWA analizza la politica israeliana in quattro ambiti. Documenta la discriminazione legale formale contro i palestinesi cittadini di Israele; il doppio sistema giuridico nei Territori Palestinesi Occupati (TPO); i fragili diritti di residenza dei palestinesi di Gerusalemme; il rifiuto israeliano di permettere ai rifugiati palestinesi di esercitare il diritto al ritorno. Il rapporto conclude che il regime di apartheid israeliano agisce attuando una frammentazione del popolo palestinese e il suo assoggettamento a differenti forme di dominio razziale.

La forza dell’analisi dell’apartheid è risultata evidente dal modo in cui gli USA ed Israele hanno reagito al rapporto. L’ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU ha denunciato il rapporto e ha sollecitato il Segretario Generale ONU a respingerlo. Il Segretario generale ha fatto pressione su Rima Khalaf, capo dell’ESCWA, perché cancellasse il rapporto. Rifiutando di farlo, lei si è dimessa dal suo incarico.

L’importanza del rapporto ESCWA non può essere sopravvalutata. Per la prima volta un organismo dell’ONU ha affrontato formalmente la questione dell’apartheid in Palestina/Israele. Ed il rapporto ha preso in considerazione le politiche israeliane verso i palestinesi nel loro insieme, anziché incentrarsi su una parte della popolazione. Sollecitando gli Stati membri e le organizzazioni della società civile a far pressione su Israele, il rapporto ONU dimostra anche l’utilità del diritto internazionale come strumento per rendere responsabili regimi come Israele.

Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, formula delle critiche evidenziando i suoi limiti. Anzitutto, le leggi internazionali sono valide solo quando recepite ed applicate dagli Stati e la struttura gerarchica del sistema prevede un gruppo di Stati con potere di veto. La rapida cancellazione del rapporto ESCWA ha reso evidenti questi limiti. Inoltre c’è un problema più specifico relativamente alla definizione internazionale dell’apartheid come sopra riportata. Incentrandosi soltanto sul regime politico, la definizione giuridica non fornisce una solida base di critica agli aspetti economici dell’apartheid e sicuramente spiana la strada ad un futuro post-apartheid in cui prevale la discriminazione economica.

Il capitalismo su base razziale e i limiti della liberazione del Sudafrica

Negli anni ’70 e ’80 i neri sudafricani si impegnarono in vivaci dibattiti sul come interpretare il sistema di apartheid contro cui combattevano. Il gruppo più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African National Congress (ANC) ed i suoi alleati – sosteneva che l’apartheid fosse un sistema di dominazione razziale e che la lotta dovesse concentrarsi sull’eliminazione delle politiche razziali e sulla richiesta di uguaglianza in base alla legge. I neri radicali rifiutavano questa analisi. Il dialogo tra il Movimento della Coscienza Nera ed i marxisti indipendenti portò ad una definizione alternativa di apartheid come sistema di “capitalismo sulla base della razza”. I neri radicali insistevano che la lotta dovesse affrontare contemporaneamente lo Stato ed il sistema capitalistico su base razziale. Prevedevano che, se non fossero stati combattuti sia il razzismo che il capitalismo, il Sudafrica del dopo apartheid sarebbe rimasto diviso e iniquo.

La transizione degli ultimi 20 anni ha dato ragione a questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale fu abolito e i neri sudafricani hanno conquistato l’uguaglianza per legge – compreso il diritto al voto, a vivere in qualunque luogo ed a spostarsi senza permessi. La democratizzazione dello Stato è stata una notevole conquista. Certo, la transizione sudafricana dimostra la possibilità di coesistenza pacifica sulla base dell’uguaglianza giuridica e del reciproco riconoscimento. Questo è ciò che rende il Sudafrica così convincente per molti palestinesi e alcuni israeliani che cercano un’alternativa alla frammentazione ed al fallimento di Oslo.

Nonostante la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha preso in considerazione le strutture del capitalismo sulla base della razza. Nel corso dei negoziati, l’ANC fece importanti concessioni per ottenere l’appoggio dei bianchi sudafricani e dell’elite capitalista. Soprattutto, l’ANC accettò di non nazionalizzare la terra, le banche e le miniere ed invece accettò garanzie costituzionali per la distribuzione della proprietà privata vigente – nonostante la storia di spoliazione coloniale. Inoltre il governo dell’ANC adottò una strategia economica neoliberista, promuovendo il libero commercio, l’industria per l’esportazione e la privatizzazione delle imprese statali e dei servizi municipali. Il risultato è che il Sudafrica post-apartheid è uno dei Paesi più ineguali al mondo.

La ristrutturazione neoliberista ha fatto emergere una piccola élite nera ed una crescente classe media nera in alcune parti del Paese. Ma la vecchia élite bianca controlla ancora la gran maggioranza della terra e della ricchezza in Sudafrica. La deindustrializzazione e la quota crescente di popolazione costretta a contare su lavori precari ha indebolito il movimento dei lavoratori, intensificato lo sfruttamento della classe lavoratrice nera e prodotto una crescente sovrappopolazione su base razziale che soffre di una permanente disoccupazione strutturale. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, se si includono coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro. In certe zone il tasso di disoccupazione supera il 60% ed i lavori disponibili sono precari, a breve termine e a bassi salari. (1)

I neri poveri si confrontano anche con una grave carenza di terre e di abitazioni. Invece di ridistribuire le terre, il governo dell’ANC ha adottato un programma basato sul mercato attraverso cui lo Stato aiuta i clienti neri ad acquistare terre di proprietà di bianchi. Questo ha dato avvio al sorgere di una piccola classe di ricchi proprietari terrieri neri, ma solo il 7,5% della terra sudafricana è stata ridistribuita. Di conseguenza, la maggior parte dei neri sudafricani resta senza terra e le élite bianche continuano ad avere la proprietà della maggior parte della terra. Analogamente, il crescente costo delle case ha moltiplicato il numero di persone che vivono in baracche, edifici occupati e sistemazioni informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali riguardo al diritto ad una casa decente.

Nel Sudafrica del post-apartheid la razza continua a determinare un accesso ineguale alla casa, all’educazione e al posto di lavoro. Modella anche la rapida crescita della sicurezza privata. Approfittando dei timori razziali riguardo alla criminalità, la sicurezza privata ha costituito l’industria cresciuta più rapidamente in Sudafrica dagli anni ’90. Le compagnie di sicurezza private e le associazioni di abitanti facoltosi hanno trasformato le periferie storicamente bianche in comunità fortificate, caratterizzate da muri intorno alle proprietà private, cancellate che circondano i quartieri, sistemi d’allarme, pulsanti antipanico, servizi di sorveglianza, pattuglie di quartiere, video sorveglianza e squadre armate di intervento rapido. Questi sistemi privatizzati di sicurezza residenziale si basano sulla violenza e sulla categorizzazione su base razziale che prende di mira i neri e i poveri.

Secondo il diritto internazionale, l’apartheid si estingue con la trasformazione dello Stato razzista e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela i tranelli di tale approccio e segnala l’importanza di ripensare le nostre definizioni di apartheid. L’uguaglianza giuridica formale non ha prodotto una reale trasformazione sociale ed economica. Al contrario, il neoliberismo del capitalismo su base razziale ha consolidato l’ineguaglianza creata da secoli di colonizzazione e apartheid. La razza resta una forza motrice dello sfruttamento e dell’abbandono, nonostante la vernice liberale dell’uguaglianza giuridica. Le lodi del governo guidato dall’ANC cercano di nascondere l’impatto del capitalismo neoliberista su base razziale nel Sudafrica dopo il 1994.

Le critiche all’apartheid israeliana hanno ampiamente ignorato i limiti della trasformazione in Sudafrica. Invece di considerare l’apartheid un sistema di capitalismo basato sulla razza, la maggior parte delle critiche all’apartheid israeliano si basa sulla definizione giuridica internazionale di apartheid come sistema di dominazione razziale. Certamente queste critiche sono state molto produttive. Hanno affinato l’analisi del governo israeliano, contribuito allo sviluppo delle campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e fornito una base giuridica agli sforzi per rendere Israele responsabile [delle sue azioni]. L’importanza del diritto internazionale in quanto risorsa per le comunità in lotta non deve essere sminuita.

Ma l’analisi e l’organizzazione possono andare anche oltre, considerando l’apartheid un sistema di capitalismo sulla base della razza, piuttosto che basandosi così rigidamente sulle definizioni giuridiche internazionali. Attribuendo un valore differente alle vite ed al lavoro delle persone, i regimi di capitalismo su base razziale intensificano lo sfruttamento, esponendo i gruppi marginalizzati alla morte precoce, all’abbandono o all’eliminazione. Quindi il concetto di capitalismo su base razziale evidenzia la contemporanea costituzione dell’accumulazione di capitale e della cultura razziale e afferma che non è possibile eliminare sia la dominazione razziale che la disuguaglianza di classe senza combattere il sistema nel suo complesso.

Considerare l’apartheid come un sistema di capitalismo sulla base della razza ci permette di prendere seriamente in considerazione i limiti della liberazione in Sudafrica. Lo studio del successo della lotta sudafricana è stato molto produttivo per il movimento di liberazione palestinese; anche comprendere i suoi limiti può rivelarsi produttivo. Anche se i neri sudafricani hanno conquistato l’uguaglianza giuridica formale, la mancata attenzione agli aspetti economici dell’apartheid ha posto seri limiti alla decolonizzazione. In una parola, l’apartheid non è finito – è stato ristrutturato. Basarsi troppo strettamente sulla definizione giuridica internazionale di apartheid potrebbe condurre a problemi simili nel percorso in Palestina. Solleviamo questa questione come monito preventivo, nella speranza che possa contribuire allo sviluppo di strategie per contrastare contemporaneamente il razzismo ed il capitalismo neoliberista di Israele.

Il capitalismo sulla base della razza in Palestina/Israele

Vedere l’apartheid da questo punto di vista ci permette anche di comprendere che il colonialismo da insediamento israeliano ora agisce attraverso il capitalismo neoliberista su base razziale. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il suo progetto coloniale sotto l’apparenza della pace. Tutta la Palestina storica continua ad essere soggetta alla dominazione israeliana, che lavora ad una frammentazione della popolazione palestinese. (Gli accordi di) Oslo hanno messo Israele in grado di frammentare ulteriormente i Territori Palestinesi Occupati e di integrare il dominio militare diretto con elementi di dominazione indiretta. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un “campo di concentramento” e in una specie di “riserva indiana” attraverso un assedio mortale e medievale, descritto da Richard Falk come una “preludio al genocidio” e da Ilan Pappe come un “ genocidio progressivo”. In Cisgiordania la nuova strategia coloniale israeliana consiste nel concentrare la popolazione palestinese nelle aree A e B e colonizzare l’area C. Invece di garantire ai palestinesi libertà ed uguaglianza, Oslo ha ristrutturato i rapporti di dominio. In breve, Oslo ha intensificato, invece di invertirlo, il progetto coloniale israeliano.

La riorganizzazione della dominazione israeliana è proceduta di pari passo alla ristrutturazione neoliberista dell’economia. A partire dagli anni ’80 Israele ha messo in atto una profonda trasformazione da un’economia statale incentrata sul consumo interno ad un’economia imprenditoriale integrata nei circuiti del capitale globale. La ristrutturazione neoliberista ha prodotto grandi profitti d’impresa smantellando al contempo il welfare, indebolendo il movimento dei lavoratori ed aumentando le disuguaglianze. I negoziati di Oslo sono stati un perno di questo progetto. Shimon Peres e l’élite imprenditoriale israeliana hanno sostenuto che il “processo di pace” avrebbe aperto i mercati del mondo arabo al capitale statunitense ed israeliano e favorito l’integrazione di Israele nell’economia globale. (2) Dopo Oslo, Israele ha subito sottoscritto accordi di libero commercio con Egitto e Giordania.

La ristrutturazione neoliberista ha permesso ad Israele di condurre la sua nuova strategia coloniale riducendo in modo significativo la sua dipendenza dalla forza lavoro palestinese. La transizione israeliana verso un’economia ad alta tecnologia ha ridotto la domanda di lavoratori industriali ed agricoli. Gli accordi di libero scambio hanno permesso alle aziende israeliane di trasferire la produzione dai terzisti palestinesi alle aree di produzione per l’esportazione nei Paesi vicini. Il crollo dell’Unione Sovietica seguito dalla “dottrina shock” neoliberista ha spinto oltre un milione di ebrei russi a cercare nuove opportunità in Israele. E la ristrutturazione neoliberista su scala globale ha portato all’immigrazione di 300.000 lavoratori dall’Asia e dall’Europa dell’est. Questi gruppi ora si contendono con i palestinesi i posti di lavoro con bassi salari che sono rimasti. Quindi lo Stato colonialista ha usato la ristrutturazione neoliberista per programmare la flessibilità [come manodopera] della popolazione palestinese.

La vita per i palestinesi della classe lavoratrice è diventata sempre più precaria. Con l’accesso limitato al lavoro in Israele, la povertà e la disoccupazione sono aumentate vertiginosamente nelle enclave palestinesi. Benché l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) abbia sempre appoggiato l’impostazione neoliberista di un’economia a conduzione privata, orientata all’esportazione e al libero mercato, inizialmente ha reagito alla crisi occupazionale creando migliaia di posti di lavoro nel settore pubblico.

Tuttavia a partire dal 2007 l’ANP ha seguito un programma economico rigidamente neoliberista che implica tagli al pubblico impiego ed un’espansione degli investimenti del settore privato. A dispetto di questi piani, il settore privato rimane debole e frammentato. I progetti di aree industriali lungo il muro illegale di Israele, che si snoda attraverso i Territori Palestinesi Occupati, sono ampiamente falliti a causa delle restrizioni israeliane all’importazione e all’esportazione e del costo relativamente alto della forza lavoro palestinese in confronto a quella di Egitto e Giordania.

Benché le politiche neoliberiste abbiano reso la vita sempre più difficile per la classe lavoratrice palestinese, hanno però contribuito allo sviluppo di una piccola élite palestinese nei TPO, composta da dirigenti dell’ANP, capitalisti palestinesi e funzionari di ONG. Chi visita Ramallah è spesso sorpreso di vedere palazzi sontuosi, ristoranti di lusso, alberghi a cinque stelle e automobili di lusso. Non sono indicatori di un’economia prospera, ma piuttosto di una crescente divisione di classe. Analogamente è emersa a Gaza dal 2006 una nuova borghesia legata ad Hamas. La sua ricchezza deriva dalla declinante “industria dei tunnel”, un monopolio sui materiali edili contrabbandati dall’Egitto e sui limitati prodotti importati da Israele. Le élite sia di Fatah che di Hamas accumulano le proprie ricchezze da attività non produttive e sono caratterizzate dalla totale assenza di strategia politica . Haidar Eid definisce tutto questo ‘Oslizzazione’ in Cisgiordania e ‘Islamizzazione’ nella Striscia di Gaza.

Inoltre, arruolarsi delle forze di repressione è diventata una delle rare opportunità di lavoro disponibili per la maggioranza dei palestinesi, soprattutto dei giovani. Anche se alcuni degli impieghi presso l’ANP sono nel campo dell’educazione e della sanità, la maggior parte sono nelle forze di sicurezza. Come ha dimostrato Alaa Tartir (direttore del programma di Al-Shabaka, ndtr.), queste forze hanno il compito di proteggere la sicurezza di Israele. Dal 2007 sono state riorganizzate sotto la supervisione degli Stati Uniti. Con oltre 80.000 effettivi, le nuove forze di sicurezza dell’ANP sono addestrate dagli USA in Giordania e dispiegate in tutte le enclave della Cisgiordania in stretto coordinamento con le forze militari israeliane. Israele e l’ANP condividono i servizi di intelligence, coordinano gli arresti e collaborano nel sequestro di armi. Prendono di mira congiuntamente non solo islamisti e militanti di sinistra, ma tutti i palestinesi che criticano Oslo. Ultimamente, il coordinamento per la sicurezza tra Israele e l’ANP ha preceduto l’assassinio dell’attivista Basil Al-Araj [militante, scrittore e farmacista ucciso dalle forze israeliane nel marzo 2017, ndt].

L’unico settore dell’economia israeliana dove si è mantenuta una domanda relativamente stabile di lavoratori palestinesi è quello dell’edilizia, soprattutto in seguito all’espansione delle colonie israeliane ed alla costruzione del muro in Cisgiordania. Secondo una ricerca del 2011 di “Democracy and Workers’Rights” [organizzazione non governativa indipendente palestinese, ndtr.], l’82% dei palestinesi impiegati nelle colonie lascerebbero il loro lavoro se trovassero un’ alternativa conveniente.

Ciò significa che due degli unici lavori disponibili per i palestinesi della Cisgiordania oggi sono costruire insediamenti sulle terre palestinesi confiscate o lavorare nelle forze di sicurezza dell’ANP per aiutare Israele a sopprimere la resistenza palestinese all’apartheid.

I palestinesi della Striscia di Gaza non hanno nemmeno queste “opportunità”. Infatti Gaza è una delle forme più estreme di disponibilità pianificata. L’espulsione colonialista ha trasformato Gaza in un campo profughi nel 1948, quando le milizie sioniste e poi l’esercito israeliano espulsero oltre 750.000 palestinesi dalle loro città e villaggi. Il 70% dei due milioni di residenti di Gaza sono rifugiati, un ricordo vivente della Nakba ed incarnazione vivente del diritto al ritorno. La ristrutturazione politica ed economica attraverso Oslo ha permesso ad Israele di trasformare Gaza in una prigione costruita per concentrare e contenere questo indesiderato surplus di popolazione. E l’assedio sempre più stretto dimostra la completa disumanizzazione di Gaza. Per il progetto coloniale neoliberista di Israele le vite dei palestinesi non valgono niente e le loro morti non hanno importanza.

Nel complesso quindi, il neoliberismo abbinato al progetto coloniale israeliano ha trasformato i palestinesi in una popolazione da eliminare. Ciò ha consentito ad Israele di attuare il suo progetto di concentrazione e colonizzazione. Comprendere le dinamiche neoliberiste del regime coloniale israeliano può contribuire allo sviluppo di strategie per combattere l’apartheid israeliano non solo come sistema di dominazione razzista, ma come regime di capitalismo basato sulla razza.

Affrontare la natura economica dell’apartheid israeliano.

Una questione importante per il movimento di liberazione palestinese è come evitare le trappole del post apartheid sudafricano, sviluppando una strategia per il post apartheid palestinese-israeliano. Come avevano predetto i neri radicali, un’attenzione esclusiva verso lo Stato razzista ha condotto a gravi problemi socioeconomici in Sudafrica a partire dal 1994. La liberazione palestinese non deve cadere nella stessa “soluzione” offerta dall’ANC. Ciò richiederà di porre attenzione non solo ai diritti politici, ma anche alle spinose questioni relative alla ridistribuzione delle terre ed alla struttura economica, per garantire un risultato più equo. Un cruciale punto di partenza è continuare le discussioni sulle dinamiche concrete del ritorno dei palestinesi.

E’ importante anche riconoscere che la situazione attuale in Palestina è strettamente legata ai processi che stanno rimodellando i rapporti sociali a livello mondiale. Il Sudafrica e la Palestina, per esempio, stanno affrontando cambiamenti sociali ed economici simili, a prescindere dai loro percorsi politici radicalmente differenti. In entrambi i contesti il capitalismo neoliberista su base razziale ha prodotto disuguaglianze estreme, emarginazione razziale e strategie all’avanguardia per proteggere i potenti e sorvegliare i poveri in base alla razza. Andy Clarno definisce questa combinazione ‘apartheid neoliberista’.

In tutto il mondo, la ricchezza ed il reddito sono sempre più sotto il controllo di un pugno di capitalisti miliardari. Mentre cede il terreno sotto i piedi della classe media, la forbice tra ricchi e poveri si allarga sempre più e le vite dei più poveri diventano sempre più precarie. La ristrutturazione neoliberista ha permesso ad alcuni strati della popolazione storicamente oppressa di entrare nei ranghi delle élite. Questo spiega l’emergere della nuova élite palestinese nei Territori Occupati e della nuova élite nera in Sudafrica.

Al tempo stesso, la ristrutturazione neoliberista ha approfondito l’emarginazione dei poveri su base razziale, intensificando sia lo sfruttamento che l’abbandono. I lavori sono diventati sempre più precari ed intere regioni hanno visto una caduta della domanda di forza lavoro. Mentre alcune popolazioni connotate dalla razza sono afflitte da un supersfruttamento nelle fabbriche e nel settore dei servizi, altre – come i palestinesi – sono destinate ad una vita di disoccupazione e di precarietà.

I regimi di apartheid neoliberista come Israele dipendono da avanzate strategie sicuritarie per mantenere il potere. Israele esercita la sovranità sui TPO mediante operazioni militari, sorveglianza elettronica, incarcerazioni, interrogatori e tortura. Lo Stato ha anche creato una geografia frammentata di zone palestinesi isolate, circondate da muri e checkpoints e gestite con chiusure e permessi. E le imprese israeliane sono all’avanguardia nel mercato globale degli impianti avanzati di sicurezza, sviluppando e testando nei TPO i dispositivi di alta tecnologia. Tuttavia il maggior apporto al regime sicuritario israeliano è una rete di forze di sicurezza agevolata da USA e UE, sostenuta da Giordania ed Egitto e messa in atto da operazioni coordinate di forze militari israeliane e della sicurezza dell’ANP.

Al pari di Israele, altri regimi di apartheid neoliberista si basano su muri di recinzione, forze di sicurezza private e statali e strategie di controllo basate su criteri razziali. In Sudafrica il sistema della sicurezza ha implicato la costruzione di mura attorno ai quartieri abbienti, la rapida espansione dell’industria della sicurezza e la dura repressione statale di sindacati indipendenti e movimenti sociali. Negli Stati Uniti gli sforzi per garantire sicurezza ai potenti includono comunità blindate, muri di confine, incarcerazioni e deportazioni di massa, sorveglianza elettronica, guerre con i droni e il rapido incremento di polizia, carceri, pattuglie di confine, forze militari e di intelligence.

A differenza del Sudafrica, Israele continua ad essere un aggressivo Stato coloniale. In tale contesto, il neoliberismo è parte della strategia coloniale israeliana per eliminare la popolazione palestinese. Ma la combinazione di dominazione razziale e capitalismo neoliberista ha prodotto crescente disuguaglianza, emarginazione razziale e sistemi avanzati di sicurezza in molte parti del mondo. Poiché i movimenti e i militanti creano connessioni tra le lotte contro la povertà e la militarizzazione in Palestina, Sudafrica, USA ed altrove, la considerazione dell’apartheid israeliano come una forma di capitalismo su base razziale potrebbe contribuire all’espansione dei movimenti contro l’apartheid neoliberista globale. Potrebbe anche favorire lo spostamento del discorso politico in Palestina dall’indipendenza alla decolonizzazione. Nella sua fondamentale opera ‘The wretched of the earth’ [ed. italiana: “I dannati della terra”, Einaudi, ndtr.], Frantz Fanon sostiene che una delle trappole della coscienza nazionale è un movimento di liberazione che porti ad uno Stato indipendente governato da un’élite nazionalista che riproduca il potere coloniale. Per evitare che ciò accada, Fanon auspica un passaggio dalla coscienza nazionale alla coscienza politica e sociale. Passare dall’indipendenza politica alla trasformazione sociale e alla decolonizzazione è la sfida che sta di fronte al Sudafrica post apartheid. Evitare questa trappola è una sfida che oggi devono affrontare le forze politiche palestinesi nella lotta per la liberazione.

Note:

1. Intervista al direttore dell’ Alexandra Renewal Project, Johannesburg, Sudafrica, agosto 2012.

  1. Shimon Peres, The new Middle East [Il nuovo Medio Oriente, ndt.] (New York: Henry Holt, 1993)

Haidar Eid

Il consulente politico di Al-Shabaka Haidar Eid è professore associato di Letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al-Aqsa di Gaza. Ha scritto molto sul conflitto arabo-israeliano, compresi articoli pubblicati su Znet, Electronic Intifada, Palestine Chronicle e Open Democracy. Ha pubblicato scritti sugli studi culturali e la letteratura in parecchie riviste, comprese Nebula, Journal of American Studies in Turkey, Cultural Logic e Journal of Comparative Literature. E’ autore di “Worlding Postmodernism: Interpretive Possibilities of critical theory” [Postomodernismo mondiale: possibilità interpretative di una teoria critica, ndt.] e di “Countering the palestinian Nakba: one state for all” [Contrastare la Nakba palestinese: uno Stato per tutti, ndt.] .

Andy Clarno

Andy Clarno è professore assistente di Sociologia e Studi afroamericani e direttore ad interim dell’Istituto di giustizia sociale all’università dell’Illinois di Chicago. Il suo ambito di ricerca riguarda il razzismo, il capitalismo, il colonialismo e l’imperialismo agli inizi del XXI secolo. Il suo nuovo libro, “Neoliberal Apartheid” [Apartheid neoliberista, ndt.] (University of Chicago Press, 2017), analizza i cambiamenti politici, economici e sociali in Sudafrica e Palestina/Israele dal 1994. Si occupa dei limiti della liberazione in Sudafrica, evidenzia l’impatto della ristrutturazione neoliberista in Palestina/Israele e sostiene che in entrambe le regioni è emersa una nuova forma di apartheid neoliberista.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Solo i palestinesi possono cambiare la loro realtà

Amira Hass, 23 agosto 2017, Haaretz

I palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

Cominciamo dalla fine: anche se i palestinesi avessero un’unica, unita, rispettata leadership che avesse una reputazione di integrità, ed anche se i suoi membri avessero eccellenti doti intellettuali, si dedicassero al loro popolo ed avessero capacità strategiche, sarebbe stato difficile per loro sfidare l’ attività di esproprio/acquisizione che Israele continua a rafforzare e intensificare. Difficile, ma possibile.

Ma non c’è un’unica leadership, ce ne sono parecchie, e litigano tra di loro anche quando appartengono allo stesso partito (Fatah), organizzazione (OLP) o contesto istituzionale (due governi). Non è colpa del Presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma di un sistema e di un modus operandi di cui lui è al tempo stesso uno dei creatori ed uno dei risultati.

L’atteggiamento della popolazione verso la leadership è caratterizzato da sospetto, sdegno e disprezzo, insieme a paura. Le accuse più blande rivolte alla leadership di Ramallah parlano di mancanza di organizzazione, inefficienza e indolenza. Quelle più gravi riguardano la corruzione e l’attaccamento al potere per motivi personali e settari. Accuse simili sono lanciate in modo leggermente meno esplicito al governo ed alle Ong di Gaza.

A molti è chiaro che il quadro di riferimento di Oslo, che è scaduto nel 1999, era una trappola. I Paesi donatori a favore dei palestinesi continuano a sostenerlo per timore di un disastro umanitario ancor più grave, della perdita di controllo e perché sono incondizionatamente fedeli ad Israele. Le donazioni sono diminuite, ma restano una trappola. Implicano obbedienza e mantenimento della “calma”, o consentono solo una collera di bassa intensità. Ma i palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

La testa gira ed il cuore duole, perché di fronte a loro c’è un nemico sofisticato, malvagio ed efficiente, che non ha confini.

Visivamente, l’immagine di una piovra potrebbe essere appropriata, ma vi sono due problemi nell’utilizzarla per raffigurare il regime israeliano. Uno è che ricorda le caricature antisemite, ma quello è il problema di un regime che imita le caricature. Il secondo è che Israele sfodera molto più di otto tentacoli, in quanto mette insieme diverse tradizioni di dominazione – occupazione militare, colonialismo (l’espulsione di un popolo dalla sua patria per insediare altri al suo posto) e apartheid (poiché l’espulsione non è del tutto riuscita, ne è seguita la separazione basata sull’ineguaglianza). Dovrebbe essere chiaro che questo si riferisce alla situazione su entrambi i lati della Linea Verde (linea di demarcazione tra Israele ed i Paesi arabi confinanti fino alla guerra del 1967, ndtr.). Israele ha avuto un’opportunità per cambiare nel 1993. Ha scelto di non coglierla.

Un’immagine più adeguata potrebbe essere quella di un computer che emette comandi in tutte le direzioni. Una volta programmato, non si ferma più. Spedisce squadre armate a irrompere nelle case della gente mentre dorme ed a confiscare denaro e proprietà; squadroni di distruzione a demolire asili, case e pozzi: squadre armate non ufficiali a scacciare pastori e contadini. Impiega anche ladri di terra – funzionari, progettisti, architetti e imprese di costruzione – che fanno in modo che i palestinesi soffochino nei loro centri abitati. Lo spazio è tutto per gli ebrei, dice il comando supremo. Il computer emette anche comandi mentali: ignora qualunque cosa dedicandoti in modo esclusivo all’eredità ebraica. Attraverso l’orgoglio per la nostra Nazione, che produce premi Nobel, elimina qualunque altra cosa come non importante. Declama la nostra sofferenza ed eroismo ad Auschwitz.

Contro gli efficienti e complessi apparati israeliani stanno i palestinesi, con una pletora di dirigenti in competizione, strategie in conflitto, ministri del governo che non si coordinano tra loro, un’informazione che non è di dominio pubblico e non è accurata, la faticosa duplicazione di istituzioni il cui lavoro si sovrappone, i vuoti slogan e la disperazione. Una manifestazione di questa disperazione è l’enunciato che Israele è la parte forte, per cui il cambiamento può e deve venire solo da Israele. Ma no, gli israeliani non hanno interesse a cambiare la situazione. Noi ne traiamo beneficio. La spinta al cambiamento può e deve venire dagli stessi palestinesi, a casa loro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Seguire il percorso della causa palestinese a partire dal 1967

Nadia Hijab, Mouin Rabbani, 5 giugno 2017 Al-Shabaka

Guardando al passato

Alla vigilia del 5 giugno 1967 i palestinesi erano dispersi tra Israele, la Cisgiordania (inclusa Gerusalemme est) governata dalla Giordania, la Striscia di Gaza amministrata dall’Egitto e le comunità di rifugiati in Giordania, Siria, Libano e altri Paesi più lontani.

Le loro aspirazioni di salvezza ed autodeterminazione poggiavano sugli impegni dei leader arabi a “liberare la Palestina” – che all’epoca si riferiva a quelle parti della Palestina mandataria che erano diventate Israele nel 1948 – e soprattutto sul carismatico leader egiziano Gamal Abdel-Nasser.

La Guerra dei Sei Giorni, che portò all’occupazione israeliana dei territori palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, delle alture del Golan siriane e della penisola del Sinai egiziana, apportò drastiche modifiche alla geografia del conflitto. Produsse anche un profondo cambiamento nella politica palestinese. Con una netta rottura rispetto ai decenni precedenti, i palestinesi divennero padroni del proprio destino invece che spettatori di decisioni regionali ed internazionali che influivano sulle loro vite e determinavano la loro sorte.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che era stata fondata nel 1964 sotto l’egida della Lega Araba nel suo primo incontro al vertice, nel 1968-69 fu surclassata dai gruppi guerriglieri palestinesi che si erano sviluppati clandestinamente dagli anni ’50, con a capo Fatah (il movimento nazionale di liberazione palestinese). La sconfitta araba del 1967 determinò un vuoto in cui i palestinesi riuscirono a ristabilire l’egemonia sulla questione della Palestina, a trasformare le componenti disperse della popolazione palestinese in un popolo unito e in un soggetto politico ed a porre la causa palestinese al centro del conflitto arabo-israeliano.

Questo, che è stato forse il più importante risultato dell’OLP, ha tenuto alto lo spirito della richiesta palestinese di autodeterminazione, nonostante la miriade di ferite inferte da Israele e da alcuni Stati arabi – e nonostante quelle autoinflitte. Le sconfitte subite dall’OLP sono state molte, anche se è riuscita a porre la questione palestinese ai primi posti dell’agenda internazionale. Vale la pena ripercorrere i successi e le sconfitte dell’OLP per comprendere in che modo il movimento nazionale palestinese è arrivato alla situazione attuale.

La prima vittoria dell’OLP ha anche gettato i semi di una sconfitta. La battaglia di Karameh del 1968 nella Valle del Giordano, in cui i guerriglieri e l’esercito giordano respinsero un corpo di spedizione israeliano molto più potente, guadagnò al movimento molti aderenti palestinesi ed arabi, sia rifugiati, sia guerriglieri, sia uomini d’affari di tutto lo spettro politico. Al tempo stesso, l’implicita minaccia alla monarchia hashemita era evidente e le relazioni palestinesi con la Giordania peggiorarono fino a che l’OLP venne espulso dalla Giordania durante il ‘settembre nero’ del 1970. Questo in pratica ha significato che l’OLP non ebbe più una potenzialità militare credibile contro Israele, ammesso che l’abbia mai avuta. Anche se i palestinesi avrebbero mantenuto un’estesa presenza militare in Libano fino al 1982, si trattava di una misera alternativa alla più lunga frontiera araba con la Palestina storica.

Durante la guerra dell’ottobre 1973, l’Egitto e la Siria ottennero parziali vittorie contro Israele, ma subirono anche gravi sconfitte, dimostrando che anche gli Stati arabi avevano solo limitate possibilità contro Israele. Al tempo stesso, il movimento nazionale palestinese raggiunse il suo culmine a livello internazionale con il discorso del defunto leader palestinese Yasser Arafat all’Assemblea Generale dell’ONU nel 1974, con il riconoscimento da quel momento dell’OLP come l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese. In quello stesso anno l’OLP iniziò anche a porre le basi per una soluzione di due Stati quando il suo parlamento, il Consiglio Nazionale Palestinese, adottò un piano in 10 punti per istituire una “autorità nazionale” in ogni parte della Palestina che era stata liberata.

Il processo fu necessariamente dolorosamente lento, in quanto condusse la maggioranza dei palestinesi a riconoscere che un eventuale Stato palestinese non sarebbe stato stabilito sulla totalità dei territori del precedente mandato britannico. Dal 1974, l’accettazione del dato di fatto di Israele come Stato e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sarebbe progressivamente diventato l’obiettivo del movimento nazionale palestinese.

La visita a Gerusalemme dell’allora presidente egiziano Anwar Sadat nel 1977, che condusse agli Accordi di Camp David del 1979 e al ritiro di Israele dalla penisola del Sinai, completato nell’aprile del 1982, aprì la strada all’invasione israeliana del Libano nello stesso anno. Il principale obiettivo di Israele era estromettere l’OLP dal Paese e consolidare l’occupazione permanente dei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Con l’uscita dal conflitto del più potente degli Stati arabi, la capacità dell’OLP di ottenere una soluzione di due Stati fu gravemente compromessa ed il conflitto arabo-israeliano si trasformò gradualmente in un conflitto iasraelo-palestinese, molto più conveniente per Israele.

Mentre l’OLP cercava di riunificarsi in Tunisia ed in altri Paesi arabi, nei TPO ebbe luogo una delle più grandi sfide ad Israele, con lo scoppio della prima Intifada nel dicembre 1987, in gran parte guidata da una leadership cresciuta all’interno [della Palestina]. Ciò riportò in auge l’opzione di contrastare in modo vincente Israele sulla base di una mobilitazione di massa non violenta in dimensioni che non si vedevano più dalla fine degli anni ’30.

Tuttavia l’OLP si dimostrò incapace di capitalizzare il successo locale e globale della prima Intifada. Alla fine, la dirigenza dell’OLP in esilio mise i propri interessi, soprattutto l’ambizione di ottenere l’ appoggio dell’Occidente, ed in particolare dell’America, al di sopra dei diritti nazionali del popolo palestinese, espressi nella Dichiarazione di Indipendenza adottata nel 1988 ad Algeri.

Queste contraddizioni divennero palesi nel 1992-93, quando la dirigenza palestinese dovette scegliere se appoggiare la posizione negoziale della delegazione palestinese a Washington, che insisteva su una moratoria totale delle attività di colonizzazione israeliane [in Cisgiordania] come precondizione per accordi transitori di autogoverno, oppure condurre negoziati segreti con Israele che concessero molto meno, ma la riportarono ad una posizione di rilievo internazionale sulla scia del conflitto del Kuwait del 1990-91. In seguito agli accordi di Oslo del 1993, l’OLP riconobbe Israele e il suo “diritto ad esistere in pace e sicurezza”, nel contesto di un documento che non menzionava né l’occupazione, né l’autodeterminazione, né l’esistenza di uno Stato, o il diritto al ritorno. Prevedibilmente, i decenni seguenti hanno visto un’accelerazione esponenziale del colonialismo di insediamento israeliano e l’effettiva vanificazione delle intese per l’autonomia previste in vari accordi israelo-palestinesi.

Guardando avanti

Sotto alcuni aspetti, oggi la situazione è tornata al punto di partenza del 1967. Il movimento nazionale palestinese complessivamente unitario che è stato egemone dagli anni ’60 agli anni ’90 si è disintegrato, forse in modo definitivo. Oggi è diviso tra Fatah e Hamas, con quest’ultimo, insieme alla Jihad islamica, escluso dall’OLP, mentre dilagano le divisioni all’interno di Fatah e dell’OLP. I palestinesi a Gaza soffrono tremendamente sotto un assedio israeliano decennale, che sta peggiorando a causa delle pressioni su Hamas da parte dell’ANP e di Israele. I palestinesi nei campi profughi in Siria e in Libano stanno patendo terribilmente per la guerra civile in Siria e la precedente frammentazione dell’Iraq, ed anche per i conflitti tra differenti gruppi all’interno dei campi.

Quanto ad Israele, il 1967 lo ha trasformato da Stato della regione a potenza regionale. E’ impaziente di normalizzare i rapporti con l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo arabo, usando l’Iran come spauracchio per alimentare questa relazione. A sua volta, vuole usare tale alleanza per imporre un accordo ai palestinesi che di fatto perpetuerebbe il dominio israeliano, ottenendo un trattato di pace finale in cui manterrebbe il controllo della sicurezza nei TPO, conserverebbe le sue colonie e continuerebbe la colonizzazione.

Ma sul percorso di Israele verso la legittimazione dell’occupazione continuano a sussistere ostacoli, che mantengono aperta la porta ad un movimento e ad una strategia palestinesi per ottenere diritti e giustizia. Non è cosa da poco il fatto che, in un lasso di tempo di mezzo secolo, nessuno Stato abbia formalmente approvato l’occupazione israeliana del territorio palestinese – o siriano. Se da un lato i governi europei, ad esempio, hanno temuto che facendolo avrebbero compromesso i loro rapporti con altri Paesi della regione, dall’altro sono anche tra i più impegnati a sostenere un ordine internazionale basato sulle leggi; il ricordo della Prima e della Seconda Guerra Mondiale non è stato cancellato. Essi quindi non possono riconoscere l’occupazione israeliana, anche se non sono stati in grado di sfidare Israele negli stessi termini con cui hanno affrontato l’occupazione russa della Crimea.

Inoltre l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, poco dopo che lo scorso anno il Regno Unito ha votato per abbandonare l’Unione Europea, rafforza la determinazione dell’Unione Europea a consolidare il proprio potere economico e politico e a ridurre la dipendenza dagli USA per la difesa. Questo offre ai palestinesi un’opportunità per appoggiare le modeste misure europee, come il divieto di finanziare la ricerca delle imprese delle colonie israeliane e l’etichettatura dei prodotti delle colonie, e per promuovere la distinzione tra Israele e la sua impresa coloniale, per usare le parole della Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU di dicembre 2016.

Israele sta incontrando resistenza anche in situazioni inaspettate. Mentre il movimento nazionale palestinese si è indebolito, il movimento globale di solidarietà con la Palestina, compreso il movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), lanciato nel 2005, è cresciuto rapidamente, soprattutto in seguito ai ripetuti attacchi israeliani alla Striscia di Gaza. Questo contrasta con la situazione negli anni ’70 e ’80, quando l’opinione pubblica occidentale tendenzialmente dava un ampio sostegno ad Israele. Israele sta reagendo ferocemente contro questo movimento, assimilando le critiche ad Israele con l’antisemitismo e istigando i legislatori negli USA ed in Europa a vietare le iniziative di boicottaggio. Tuttavia finora non è riuscito a soffocare il dibattito o a impedire alle chiese e ai gruppi studenteschi in tutti gli USA di sostenere attività di solidarietà con il popolo palestinese.

L’opposizione di Israele è anche indebolita in conseguenza di una terza tendenza che è interamente autoprodotta. Il fatto che sia riuscito a violare impunemente il diritto internazionale con la sua occupazione dei territori palestinesi, così come con i propri cittadini palestinesi, lo sta portando a strafare. Persino la determinazione di Trump a “fare un accordo” che consegnerebbe sicuramente ad Israele vaste porzioni della terra palestinese ed il controllo permanente sulla sicurezza, probabilmente si scontrerà con il sempre più potente movimento di destra [israeliano], che respinge per principio ogni concessione ai palestinesi.

Certo, la crescente ondata di quella che può solo essere definita come legislazione razzista sta palesando non solo le sue azioni attuali, ma anche quelle del periodo precedente e immediatamente successivo al 1948. Per esempio, per citarne solo alcune, la legge sulla cittadinanza e sulla famiglia, prorogata ogni anno dal 2003, nega ai cittadini palestinesi di Israele il diritto a sposare palestinesi dei territori occupati e di parecchi altri Paesi; la continua distruzione di villaggi palestinesi all’interno di Israele, come anche in Cisgiordania; la legge che legalizza retroattivamente il furto di terre private palestinesi in Cisgiordania. Tutto ciò rende impossibile immaginare che Israele accetti valori sia universali che “occidentali”, quali lo stato di diritto e l’uguaglianza.

Un utile indicatore di questo disvelamento è il rapido aumento di ebrei non israeliani che si allontanano sempre più da Israele, comprese associazioni come ‘Jewish Voice for Peace’. Quando prendono la parola, le rituali accuse di antisemitismo sono facilmente confutate ed essi legittimano altri a prendere posizioni simili.

Un altro ambito in cui Israele ha esagerato è stato fare del sostegno ad esso una questione di parte. Dal momento che il partito repubblicano [americano] assicura che non ci sono problemi tra sé ed Israele, l’opinione tra le fila del partito democratico si sposta stabilmente a favore dei diritti dei palestinesi ed i rappresentanti democratici sono lentamente sempre più incoraggiati ad alzare la voce.

Queste tendenze di lungo termine contrarie alle violazioni israeliane delle leggi internazionali non possono di per sé salvaguardare i diritti dei palestinesi. Il passaggio dall’egemonia araba sulla questione della Palestina all’egemonia palestinese alla fin fine ha prodotto il disastro di Oslo. Ciò che è necessario è una formula che unisca la mobilitazione palestinese in patria e all’estero con una strategia araba per conseguire l’autodeterminazione. E, benché gli sforzi per trasformare l’OLP in un reale rappresentante nazionale [del popolo palestinese] siano finora falliti, esistono modi per fare pressione su componenti dell’OLP che ancora funzionano – per esempio, in Paesi dove dei settori di rappresentanza diplomatica palestinese sono tuttora efficienti – allo scopo di rilanciare il programma e la strategia nazionali.

Oggi i palestinesi si trovano senza dubbio nella peggiore situazione che abbiano vissuto a partire dal 1948. Eppure, se mobilitano le risorse che hanno a disposizione – anzitutto e soprattutto il proprio popolo ed il crescente bacino di consenso mondiale nei confronti dei loro diritti e della loro libertà – possono ancora elaborare e mettere in atto con successo una strategia per garantirsi il loro posto al sole.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è direttrice esecutiva di ‘Al-Shabaka: the Palestinian policy network’, che ha co-fondato nel 2009. E’ spesso relatrice di conferenze e commentatrice sui media ed è ricercatrice presso l’Istituto di Studi sulla Palestina. Il suo primo libro, Womanpower: the arab debate on women at work [Manodopera femminile: il dibattito arabo sul lavoro delle donne] , è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è inoltre co-autrice di Citizens apart: a portrait of the palestinian citizens of Israel [Cittadini messi da parte: un ritratto dei cittadini palestinesi di Israele] (I.B. Tauris).

Mouin Rabbani

Il consulente politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato nella questione palestinese e nel conflitto arabo-israeliano. E’ ricercatore presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina ed è tra i redattori del Middle East Report. I suoi articoli sono usciti anche su The National ed ha scritto articoli di commento per il New York Times.

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente, neutrale e non-profit, il cui obiettivo è educare e favorire il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Il dibattito sulla legalità delle colonie: domande ricorrenti

Nathaniel Berman – 11 maggio 2017,Tikkun


I. Perché adesso?

Durante lo scorso decennio la ripresa dei dibattiti sulla legalità, in particolare sulla legalità delle colonie israeliane in Cisgiordania, è diventata un aspetto inatteso della discussione pubblica su Israele/Palestina. Questa ripresa è stata principalmente il prodotto di due tipi di forze. Per un verso, chi appoggia la colonizzazione ha sostenuto che la diffusa opinione internazionale sull’illegalità delle colonie è semplicemente sbagliata. Questi sostegni vanno da un “Rapporto sullo Stato delle Costruzioni nella Regione della Giudea e Samaria” (il “Rapporto della Commissione Levy”) del governo israeliano nel 2012, fino agli articoli pubblicati sulla stampa di destra e agli attivisti che appoggiano senza sosta queste posizioni nelle reti sociali. Dall’altro, l’illegalità delle colonie è stata fortemente sostenuta dagli attivisti delle campagne critiche nei confronti di Israele, soprattutto dal movimento BDS. Questo articolo prenderà in considerazione in primo luogo l’uso dell’argomento della legalità a favore della colonizzazione, valutandone la validità ed esaminando il significato contestuale di questo ritorno.

La ripresa del dibattito sulla legalità è sorprendente perchè, di primo acchito, sembra in contrasto con gli attuali sviluppi globali. Di sicuro c’è stato un periodo, all’incirca tra il 1990 e il 2003, in cui il dibattito internazionale sull’uso della forza è stato pervaso da argomentazioni giuridiche. A posteriori è stupefacente quanto del dibattito sull’invasione del Kuwait nell’agosto 1990 e sulla risposta militare guidata dagli Stati uniti nel gennaio 1991 sia stato inquadrato in un contesto giuridico. Il periodo che ne è seguito è stato una specie di età dell’oro per i giuristi di diritto internazionale. La convinzione che la fine della Guerra Fredda significasse che le leggi internazionali che regolano l’uso della forza potessero “finalmente” essere applicate, che il Consiglio di Sicurezza potesse “finalmente” giocare il ruolo per il quale era stato istituito, divenne praticamente unanime. Anche quando simili speranze vennero infrante nel corso del decennio – in particolare per l’incapacità internazionale di bloccare il genocidio in Ruanda del 1993 -, il discorso sul diritto internazionale rimase un punto fermo fondamentale dell’opinione pubblica mondiale sull’uso della forza. Ogni intervento – od ogni assenza di intervento – venne accompagnato da vivaci dibattiti sulla sua legalità. L’invasione del Kosovo da parte della NATO nel 1999, nonostante – o forse proprio a causa di ciò – la sua dubbia legalità, produsse una grande quantità di discussioni giuridiche originali.

Ora quel periodo sembra un lontano passato, benché non si possa identificare il momento preciso della sua fine. Il Kosovo ha giocato un ruolo, come anche la decisione degli USA di non chiedere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza perl’invasione dell’Afghanistan. Tuttavia entrambe queste azioni potrebbero essere plausibilmente (se non incontestabilmente) giustificate in base a teorie di lungo periodo (intervento umanitario nel primo caso, auto-difesa nel secondo). Ma furono l’invasione americana dell’Iraq nel 2001 e la successiva, anche se riluttante, acquiescenza nei suoi confronti da parte di gran parte della comunità internazionale, che indicarono il fatto che le norme internazionali sull’uso della forza avevano perso il loro potere di determinare la politica internazionale. Con l’invasione russa della Crimea nel 2014, entrambe le “superpotenze” di un tempo hanno chiaramente dimostrato il proprio disprezzo per queste norme internazionali. Di sicuro molti hanno condannato quell’invasione in base ad una flagrante illegalità, ma questi termini sono sembrati ben lontani dal nuovo carattere discorsivo del dibattito internazionale.

Nel conflitto Israele/Palestina, il dibattito giuridico ha giocato a lungo un ruolo centrale, anche se intermittente. Benché io non possa qui ripercorrerne l’intera storia, è sufficiente dire che il conflitto è stato modellato in modo decisivo dal dibattito su, e dall’adozione di, strumenti internazionali come il Mandato [inglese, ndtr.] in Palestina del 1922, la Risoluzione [dell’ONU, ndtr.] sulla partizione [della Palestina, ndtr.] del 1947, la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza del 1967 [che chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania, ndtr.], e così di seguito. Ma ci sono stati periodi in cui la questione della legalità pareva più o meno irrilevante per gli sviluppi politici in corso.

A mio parere, furono gli accordi di Oslo del 1993 e le loro conseguenze che hanno in gran parte favorito la più recente (anche se temporanea) marginalizzazione delle questioni giuridiche fondamentali del conflitto, come la legittimità dello Stato di Israele, il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità delle colonie e via di seguito. Il riconoscimento reciproco dello Stato di Israele e dell’esistenza del popolo palestinese da parte di Rabin e di Arafat nel 1993 si impegnava a mettere da parte dibattiti a somma zero su pretese legali opposte e totalizzanti. Al loro posto, Oslo sembrò (anche se per poco) presagire una particolare attenzione verso un pragmatico adeguamento degli interessi reciproci, la creazione di una società palestinese e una israeliana complementari e l’oblio graduale di richieste incompatibili sulla terra e sulla sua storia.

La morte di Oslo ha avuto dimensioni sia immediate che graduali, con cause troppo complesse per essere discusse in questa sede. La seconda Intifada ha segnato la sua fine – anche se alcune delle sue strutture formali hanno resistito, e continuano ad esistere. Tuttavia questa fine non è stata inizialmente accompagnata da un ritorno alla centralità del dibattito giuridico. Ciò è stato in parte dovuto alla violenza che l’ha accompagnata: sembrava che né i principi giuridici né gli interessi concreti da quel momento in poi sarebbero più stati importanti, ma solo la forza bruta.

Tuttavia, come sempre in questo conflitto, la forza bruta non ha deciso la questione, e la battaglia ideologica a somma zero è ritornata all’ordine del giorno: da una parte, la delegittimazione di Israele come tale; dall’altra, la delegittimazione di ogni rivendicazione palestinese sulla terra. O, per usare una sintesi corrente: i sostenitori di una “soluzione dello Stato unico”, che sia Israele o Palestina, sembrano aver conquistato il sopravvento nel determinare il dibattito internazionale, utilizzando argomentazioni giuridiche per proporre richieste inconciliabili.

II. Che cos’è la legge?

Passo a una rassegna delle questioni giuridiche relative alle colonie, iniziando da quelle basilari. Una discussione giuridica esaustiva richiederebbe un intero libro (o più di uno); mi sono sforzato qui di prendere in considerazione le questioni più importanti.

Israele è uno Stato (nel significato delle leggi internazionali, non in quello americano – cioè un Paese indipendente). La sua statualità è stata riconosciuta da molti altri Stati e, cosa più importante, dalla sua condizione di Stato membro dell’ONU. Se qualunque altro Stato dovesse usare la forza contro la sua “integrità territoriale o indipendenza politica…, o in qualunque altro modo incompatibile con le finalità delle Nazioni Unite,” violerebbe l’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, una delle regole più sacre delle leggi internazionali successive alla Seconda Guerra Mondiale. Ad un livello giuridico formale, problemi quali la “legittimità” del Sionismo, le rivendicazioni storiche ebraiche sulla terra ed altre sono semplicemente irrilevanti per lo status giuridico dello Stato di Israele.

Per parte loro, i palestinesi sono stati riconosciuti dall’ONU, da molti Stati e dalla Corte Internazionale di Giustizia (la “CIG”, ovvero la “Corte Internazionale”) come “popolo” con il diritto all’ “autodeterminazione”. In base alla Risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale, la maggior parte delle cui norme sono considerate dall’autorità giudiziaria internazionale come vincolanti, il diritto all’autodeterminazione può essere messo in pratica in uno di questi tre modi: “la costituzione di uno Stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o la formazione in qualunque altro status politico determinata da un popolo.” Quindi, in quanto “popolo”, i palestinesi sono in possesso del diritto, anche se non ancora messo in pratica, di scegliere una di queste tre opzioni. C’è una netta preferenza internazionale perché il diritto di auto-determinazione venga realizzato attraverso uno Stato indipendente, come espresso nelle prassi statuali durante la decolonizzazione e nella Risoluzione 1514 (1960) dell’Assemblea Generale, che ha preceduto la 2625 e documento fondamentale nel processo di maturazione dell’auto-determinazione come diritto internazionale generale.

La dimensione territoriale dello Stato di Israele e l’autodeterminazione palestinese richiedono la discussione di almeno altre due questioni giuridiche. La prima riguarda lo status della “Linea Verde”, il confine che ha delimitato Israele in base agli accordi armistiziali del 1949 tra Israele e i suoi vicini, in particolare l’Egitto e la Giordania. Gli accordi dichiararono esplicitamente che non erano definitivi riguardo alle rivendicazioni giuridiche delle due parti, comprese quelle territoriali. Tuttavia gli anni successivi al 1949 videro un crescente riconoscimento internazionale, per lo meno di fatto, della Linea Verde come il confine dello Stato di Israele. Il momento esatto in cui questo riconoscimento di fatto ha acquisito un valore legale può essere difficile da indicare, anche se a quanto pare si è ampiamente verificato. Pertanto, nella sua sentenza del 2004 sul Muro di sicurezza israeliano, la CIG ha accolto implicitamente lo status de jure della Linea Verde – in particolare nella sua dichiarazione secondo cui le disposizioni della Convenzione di Ginevra per i territori occupati si applicano ai “territori palestinesi…ad est della Linea Verde,” dichiarando implicitamente che sono inapplicabili ai territori ad ovest della Linea Verde perché si trovano all’interno del territorio sovrano di Israele.

Questa dichiarazione della CIG ci porta al termine legale “occupazione”. I recenti sostenitori della colonizzazione negano insistentemente che questo termine possa essere applicato alla Cisgiordania. Essi affermano che il termine “occupazione” si possa applicare solo quando un territorio è stato tolto da uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano. La Cisgiordania non ha avuto un riconoscimento internazionale fin dal lontano crollo dell’Impero ottomano. Gli inglesi, succeduti agli Ottomani nel governo della Palestina, erano solo un “Potere mandatario” , una specie di fiduciario che amministrava il territorio in nome della Società delle Nazioni. La Giordania, che conquistò la Cisgiordania nella guerra del 1948, venne condannata da tutti per la successiva annessione – un’annessione riconosciuta formalmente solo dalla Gran Bretagna e forse, a un livello informale e de facto, dagli USA. L’annessione venne inizialmente condannata in quanto illegale dalla Lega Araba, che per poco non espulse la Giordania per questo problema.

Nel 1968 Yehuda Blum, uno studioso israeliano di diritto internazionale e diplomatico, fornì quello che forse fu il primo, e il più influente, argomento legale per una rivendicazione israeliana della Cisgiordania: la teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] “. In base a questa teoria, l’insieme delle norme internazionali che regolano “l’occupazione in situazioni di conflitto” non si applica a causa dell’assenza di un legittimo potere governante precedente a cui il territorio potesse essere “restituito”. Tuttavia Blum non arrivò fino al punto di negare che si applicasse il termine “occupazione in situazione di conflitto”. Piuttosto, la “mancanza di qualcuno a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” significava che venissero applicate solo le norme “dirette a salvaguardare i diritti umani della popolazione”, e non quelle “che garantiscono i diritti di restituzione al potere legittimo”. Gli attuali sostenitori della rivendicazione israeliana, tuttavia, hanno assunto con decisione il punto da cui Blum si è astenuto: la negazione della reale esistenza di un’ “occupazione”. [1]

In ogni caso, la rilevanza della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] ” per la legge internazionale dell’occupazione è stata solidamente rifiutata dalla Corte Internazionale di Giustizia (così come da quasi ogni altra autorità) nella sua decisione del 2004, come ho rimarcato in precedenza. La CIG ha fondato il suo rifiuto sullo scopo delle disposizioni fondamentali delle Convenzioni di Ginevra, dei lavori preparatori (registrazione delle discussioni tra le parti della Convenzione), della successiva conferma dei pareri delle parti delle Convenzioni e di molte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – i metodi standard utilizzati per determinare il significato delle disposizioni di un trattato. Inoltre, come evidenzierò in seguito, la dichiarazione della Corte che tutte le disposizioni delle Convenzioni di Ginevra che governano l’occupazione di forze ostili si applicano alla Cisgiordania è ampiamente supportata dalle politiche complessive sottintese in queste disposizioni, così come altri sviluppi legali, su tutti il diritto all’autodeterminazione.

(Noto di non avere qui lo spazio per discutere della legalità dell’occupazione in quanto tale, ma solo quella della legalità delle colonie in ogni territorio occupato. Si potrebbe sostenere in modo plausibile che l’inizio dell’occupazione fosse legale nel 1967, in quanto esercizio del diritto all’auto-difesa, ma che, come ha mostrato recentemente Aeyal Gross, rimane la questione se sia diventata illegale a causa del modo in cui è stata condotta. [2])

L’argomento principale per sostenere l’illegalità delle colonie si basa su uno dei principali scopi delle regole che governano l’occupazione ostile: l’obbligo da parte dell’occupante di non cambiare il carattere del territorio occupato oltre a ciò che è richiesto da necessità strettamente militari. Questo scopo è alla base di una norma fondamentale sull’occupazione, codificata nell’articolo 43 delle Disposizioni dell’Aja del 1907: l’obbligo per lo Stato occupante di “prendere tutte le misure in suo potere per ripristinare, e garantire, il più possibile, l’ordine pubblico e la sicurezza, rispettando al contempo, eccetto in casi estremi, le leggi in vigore nel Paese.” Questa politica indica anche la proibizione di obbligare gli abitanti a giurare fedeltà allo Stato occupante (art. 45) e di confiscare la proprietà privata (art. 46), così come le norme sulla proprietà pubblica: “Lo Stato occupante deve essere visto solo come un amministratore ed usufruttuario di edifici pubblici, beni immobili, foreste e proprietà agricole dello Stato ostile, e situate nel Paese occupato. Esso deve salvaguardare il patrimonio di queste proprietà ed amministrarle in base alle norme sull’usufrutto” (art. 55). Gli articoli 46 e 55 non prevedono nessun terreno su cui un occupante possa costruire un insediamento civile, ancora meno di carattere permanente.

Di sicuro, le disposizioni dell’Aja sembrano supporre l’esistenza di un “potere sovrano a cui restituire [la terra occupata]” e vedere il ruolo dello Stato occupante come una specie di amministratore per questo potere sovrano fino ai negoziati di un trattato di pace. La teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.]” definirebbe ogni disposizione riguardante questo assunto inapplicabile alla Cisgiordania. E, di conseguenza, ci si potrebbe benissimo chiedere: per chi lo Stato occupante sarebbe un amministratore in assenza di un potere sovrano legittimo, per chi sarebbe obbligato ad osservare le norme di usufrutto riguardo alla proprietà pubblica, in nome di chi gli sarebbe vietato imporre il proprio sistema normativo – e, in generale, i diritti di chi dovrebbe salvaguardare?

La risposta in base alle attuali leggi internazionali è chiara: la beneficiaria di tutte queste norme è la popolazione, o piuttosto il “popolo”, dei territori occupati. Va ricordato che persino Blum ha affermato che, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, queste norme intese a garantire i “diritti umani della popolazione” sono applicabili alla Cisgiordania, riconoscendo quindi che l’assenza di un “potere a cui restituire” non implica l’assenza di un beneficiario di almeno alcuni dei diritti concessi dalla legge dell’occupazione. Di sicuro Blum ha fatto una distinzione tra tali “diritti umani” e le rivendicazioni politiche – queste ultime, in base alla sua teoria, inapplicabili in virtù dell’assenza di un precedente potere legittimo. E la posizione di Blum sarebbe stata plausibile nel 1907.

Ma la distinzione di Blum non è più valida in base alle attuali leggi internazionali, a causa del diritto all’ autodeterminazione, che riconosce i diritti politici di “popoli” non ancora organizzati in uno Stato sovrano, e l’applicazione delle leggi internazionali in generale, con i valori che rappresentano. In base a questo riconoscimento dei diritti politici dei popoli senza Stato, il beneficiario dello status simile a quello fiduciario del territorio occupato, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo, deve essere “il popolo” del territorio. E’ a suo beneficio che lo Stato occupante deve governare il territorio, astenersi da cambiamenti giuridici non necessari, salvaguardare la proprietà pubblica, e via di seguito.

L’argomentazione a favore della colonizzazione (e quindi dell’annessione) – secondo cui l’assenza di un precedente potere sovrano legittimo rende il territorio disponibile all’appropriazione da parte dell’occupante – ignora quindi del tutto l’emergere graduale nelle leggi internazionali del diritto all’autodeterminazione politica. Sebbene l’autodeterminazione dei popoli possa essere maturata pienamente nel diritto internazionale generale solo dopo il 1960, il principio regolò buona parte della ridefinizione dei confini europei nel primo dopoguerra. Woodrow Wilson fornì nel 1918 una delle sue prime e più esplicite formulazioni nel discorso “Quattro principi”, quando dichiarò che “popoli e province non devono essere barattati da un potere sovrano all’altro come se fossero beni mobili e pedine di un gioco” – un principio che va direttamente in senso contrario rispetto alla teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione.”

In effetti, il concetto del diritto internazionale prima del XX° secolo, che il diritto all’autodeterminazione rigetta esplicitamente, è l’antenato diretto della teoria della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione” : quello di “ terra nullius”, terra che non è di proprietà di nessuno e di conseguenza disponibile per l’acquisizione. Questa nozione ha un lungo ed ignobile percorso nella storia dell’imperialismo, le cui fasi sono state tratteggiate dal giudice della CIG Ammoun nel caso del Sahara occidentale del 1975:

(1) L’antichità romana, quando ogni territorio che non fosse romano era nullius.

(2) L’epoca delle grandi scoperte del XVI° e XVII° secolo, durante la quale ogni territorio che non era di un sovrano cristiano era nullius.

(3) Il XIX° secolo, durante il quale ogni territorio che non fosse di proprietà di un cosiddetto Stato civilizzato era nullius.

Nel caso del Sahara occidentale la CIG respinse totalmente la nozione di terra nullius, dichiarando che “territori abitati da tribù o popoli che hanno un’organizzazione sociale e politica” non possono essere visti come terrae nullius dal punto di vista legale. Poiché tutte le “tribù” e i “popoli” hanno “un’organizzazione sociale e politica,” la Corte correttamente dichiarò che solo un territorio disabitato può eventualmente essere nullius. Pertanto l’ “acquisizione di sovranità” su un qualunque territorio abitato non può essere “effettuata unilateralmente attraverso un’ ‘occupazione'”, ma piuttosto solo tramite “accordi conclusi con i poteri locali”, che tali poteri locali siano o meno i rappresentanti di Stati.

Torniamo ora alla norma giuridica fondamentale che regola specificamente la colonizzazione, l’articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra: “Il potere occupante non deve deportare o trasferire parti della propria popolazione civile nel territorio che occupa.” Il significato di questa disposizione è stato duramente messo in discussione nel contesto della Cisgiordania. I fautori della colonizzazione sostengono che si riferisce solo ai trasferimenti forzati di popolazione, e lo mette in relazione con le deportazioni di massa naziste nei campi di concentramento. Questa interpretazione considera i due termini, “deportazione” e “trasferimento” come sinonimi. Tuttavia l’autorevole commento sulle Convenzioni di Ginevra da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa (“CICR”) del 1958 ne fa una lettura molto diversa:

E’ intesa a proibire una pratica adottata durante la Seconda Guerra Mondiale da certe potenze, che trasferirono parte della propria popolazione in territori occupati per ragioni politiche e razziali o con lo scopo, come esse sostennero, di colonizzare questi territori. Tali trasferimenti peggiorarono la situazione economica della popolazione nativa e misero in pericolo la sua esistenza come etnia separata.

Nelle parole della CIG nel 2004, la norma proibisce “non solo le deportazioni o i trasferimenti forzati di popolazione come quelli messi in atto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche qualunque misura presa da un potere occupante per organizzare o incoraggiare trasferimenti di parti della sua stessa popolazione nel territorio occupato.” Questa interpretazione, sostenuta dal CICR, dalla CIG e dalla maggior parte dei giuristi internazionali, è in linea con il quadro politico complessivo delle leggi sull’occupazione, secondo cui gli Stati occupanti devono evitare di fare passi per cambiare il carattere del territorio occupato – e tentativi di modificare il carattere demografico con insediamenti, e a maggior ragione qualunque passo unilaterale verso l’annessione, vanno direttamente in senso contrario rispetto a questa politica.

III. E riguardo a Sanremo?

Uno degli aspetti più sorprendenti della recente argomentazione a favore della colonizzazoine è la sua ossessione per tre testi, di circa un secolo fa, che sono culminati nella nascita del Mandato in Palestina della Società delle Nazioni: la “Dichiarazione Balfour” (1917), la Risoluzione di Sanremo (1920) e il Mandato sulla Palestina (1922). Questi documenti hanno un signficato giuridico diverso. La “Dichiarazione Balfour” britannica, che “vede(va) con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”, era una dichiarazione unilaterale di politica da parte di uno Stato impegnato, all’epoca, in una lotta militare per il controllo della Palestina. Di per sé, non ha nessun valore giuridico internazionale. La Risoluzione di Sanremo fu un accordo tra quattro Stati (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone), che dichiararono la propria intenzione di accettare alcune condizioni per essere inclusi nei Mandati in Palestina, in Siria (che evidentemente includeva il Libano) e nella Mesopotamia (che sarebbe presto stata chiamata Iraq).

I quattro Stati concordarono che il Mandato in Palestina sarebbe stato concesso alla Gran Bretagna che sarebbe stata “responsabile della messa in pratica della Dichiarazione (Balfour)”. Di nuovo, la risoluzione era una dichiarazione politica da parte di quattro Stati, ma non aveva un valore giuridico indipendente. Infine, il Mandato sulla Palestina, un trattato internazionale vincolante tra la Gran Bretagna e la Società delle Nazioni, nel suo preambolo adottò la Dichiarazione Balfour e fornì un certo numero di disposizioni dettagliate per la sua attuazione. Di questi documenti, solo il Mandato, un trattato internazionale, era legalmente vincolante – il che rende l’attuale enfasi dei sostenitori della colonizzazione sulla Dichiarazione Balfour e sulla Risoluzione di Sanremo alquanto inspiegabile da un punto di vista giuridico.

In ogni caso, persino il Mandato ha perso ogni rilevanza giuridica attuale. Il Mandato ed i testi che lo hanno preceduto furono scritti in un periodo totalmente diverso, prima di una lunga serie di radicali cambiamenti di fatto e giuridici nella situazione internazionale e regionale. Prima di tutto, questi documenti furono adottati prima della fondazione dello Stato di Israele, internazionalmente riconosciuto. La fondazione dello Stato fece più che ottenere l’obiettivo della ” costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico”: lo ha sovra-realizzato – in quanto il vago termine “focolare”, una definizione senza un preciso significato giuridico nel 1917 o in qualunque tempo precedente o successivo, venne scelto proprio per evitare la promessa di uno Stato ebraico. Un confronto del Mandato sulla Palestina con qualunque altro trattato successivo alla Prima Guerra Mondiale lo evidenzia: quando l’intenzione era quella di garantire la creazione di uno Stato indipendente per i popoli, il testo lo affermava esplicitamente.

Si potrebbe cavillare ulteriormente sul linguaggio della Dichiarazione Balfour (per esempio, sembra promettere solo che “il focolare per il popolo ebraico” sarebbe stato da qualche parte “in Palestina”, piuttosto che prevedere la costituzione della Palestina nel suo complesso come focolare ebraico). Tuttavia, la fondazione dello Stato di Israele, con la sua sovra- realizzazione della politica del “focolare”, è sufficiente a rendere superate le relative disposizioni del Mandato. In base a una norma definita da molto tempo che guida i trattati internazionali, “rebus sic stantibus,” un “fondamentale cambiamento delle circostanze” che alteri le condizioni di base sotto le quali le disposizioni di un trattato sono state adottate rende nullo il loro carattere vincolante.

Altre due disposizioni sono spesso menzionate dai fautori della colonizzazione. La prima è la disposizione del Mandato che chiede alla Gran Bretagna di “incoraggiare…un insediamento concentrato da parte degli ebrei sul territorio.” Di nuovo, con la decadenza di tutte le disposizioni relative al “focolare” in seguito all’esecutività del rebus sic stantibus, anche questa disposizione è obsoleta. Quindi la fondazione di uno Stato di Israele internazionalmente riconosciuto rende piuttosto assurda l’obbligatorietà di un potere mandatario straniero di “ incoraggiare…un insediamento concentrato”.

La seconda disposizione è l’articolo 80 della Carta dell’ONU. L’articolo 80 è parte del capitolo XII della Carta, che stabilisce la costituzione di un “Sistema internazionale di amministrazione fiduciaria” per sostituire i Mandati della Società delle Nazioni. L’articolo 80 prevede che “niente nel” capitolo XII “deve essere interpretato in sé e per sé per alterare in alcun modo i diritti, qualunque essi siano, di ogni Stato o popolo o le disposizioni di documenti internazionali esistenti.” I sostenitori della colonizzazione, facendo ricorso ad un articolo scritto da Eugene Rostow nel 1978, interpretano questa norma come se mantenesse in vigore tutte le disposizioni del Mandato sulla Palestina in relazione ad ogni parte del territorio che non sia stata “assegnata” – un termine che utilizzano per significare un territorio non ancora concesso a un potere sovrano internazionalmente riconosciuto.

Questa tesi è confutabile sotto almeno due aspetti. Anzitutto l’effettività del rebus sic stantibus, che rende obsolete le disposizioni del focolare ebraico del Mandato, non è un portato del capitolo XII, e quindi le limitazioni dell’articolo 80 semplicemente non sono pertinenti. In secondo luogo, la trasformazione dell’auto-determinazione in un diritto internazionale non solo ha cambiato la situazione giuridica (rafforzando l’argomento del rebus sic stantibus), ma significa anche che il territorio non può essere considerato “non assegnato”, semplicemente in quanto non c’è un potere sovrano riconosciuto su di esso. In ogni caso tutti questi argomenti sono stati implicitamente rifiutati dalla CIG, da quasi tutti i giuristi e dalla comunità internazionale degli Stati.

IV. E riguardo alla Risoluzione 242?

Un altro vecchio dibattito che i fautori della colonizzazione hanno rispolverato riguarda il significato della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, adottata nel novembre 1967. Tra le altre cose, la risoluzione chiede “il ritiro delle forze armate di Israele da territori occupati” durante la Guerra dei Sei Giorni. I sostenitori della colonizzazione affermano che l’assenza di un articolo determinativo prima della parola “territori” significa che la risoluzione non chiede ad Israele di ritirarsi da tutti i territori occupati durante la guerra e che questa disposizione può essere rispettata ritirandosi da uno qualsiasi dei territori occupati – per esempio, ritirandosi dal Sinai in base agli accordi di Camp David del 1979. Simili argomentazioni spesso implicano il confronto tra il testo in francese ed in inglese, sottigliezze grammaticali tra l’inglese e il francese e affermazioni di varie persone coinvolte nella stesura della risoluzione. Chi appoggia la colonizzazione sostiene anche che la risoluzione legittima così le colonie israeliane.

Queste argomentazioni sono piuttosto sconcertanti. Anche se la questione grammaticale fosse corretta (cosa che non è affatto certa), la risoluzione deve essere interpretata alla luce delle norme giuridiche internazionali generali sui territori occupati. In base a queste norme, un territorio occupato durante una guerra non può essere annesso unilateralmente. Peraltro questo divieto è stabilito nella stessa Risoluzione 242, il cui secondo paragrafo introduttivo “sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra…” Anche se l’interpretazione di “territori” a favore della colonizzazione fosse corretta, la risoluzione stabilirebbe semplicemente che, in una soluzione negoziata del conflitto, le parti sarebbero libere di accettare cambiamenti dei confini di anteguerra. Questa lettura rende compatibile il secondo paragrafo dell’introduzione con la (controversa) interpretazione della parola “territori”. Faccio anche notare che la risoluzione non cita per niente le colonie.

In ogni caso, la risoluzione deve essere interpretata alla luce di sviluppi giuridici successivi, su tutti il quasi universale riconoscimento dei palestinesi come “popolo” con un diritto all’auto-determinazione. La risoluzione non menziona i palestinesi, che compaiono solo come anonimi “rifugiati”.

V. E riguardo ad Howard Grief?

Uno degli aspetti deludenti delle argomentazioni giuridiche a favore delle colonie è la loro apparente indifferenza verso le regole fondamentali che presiedono alla definizione dello Stato nel diritto internazionale. Ribadiscono ripetutamente l’esistenza di un piccolo numero di autori giuridici che hanno argomentato la legalità delle colonie, ignorando le migliaia che hanno espresso parere contrario, come anche le istituzioni autorevoli che hanno sostenuto la stessa cosa (quasi tutti gli Stati, le Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, il Comitato Internazionale della Croce Rossa, ecc.). Sostengono la superiorità degli argomenti degli autori da loro scelti e adducono che, quanto meno, la questione è “controversa” e che l’illegalità non può essere considerata definitivamente stabilita.

Gli autori giuridici citati a favore delle colonie sono un gruppo eterogeneo – comprendono alcuni avvocati di livello internazionale, come anche studiosi giuridici in altri campi che si sono occupati in certa misura di diritto internazionale; le carriere di alcuni di loro includono posizioni ufficiali nel governo di Israele. Uno di questi ultimi, particolarmente citato dai sostenitori delle colonie, è Howard Grief, un per altro oscuro avvocato canadese che è stato consulente ministeriale durante il governo Shamir, che pare sia responsabile della loro ossessione per la Risoluzione di San Remo. Quasi tutti sono personaggi chiaramente appartenenti alla destra o persino all’estrema destra dello spettro politico – compreso Howard Grief, la cui richiesta alla Corte Suprema israeliana di dichiarare illegittimi gli accordi di Oslo è stata sbrigativamente liquidata come “una posizione politica”.

Qualunque siano le variegate competenze in merito di questo gruppo, gli argomenti che prendono di mira le singole persone sono irrilevanti. Il diritto internazionale non è una scienza esatta in cui qualcosa può essere oggettivamente vera, anche se la grande maggioranza delle autorità non la riconosce come tale. E non è neppure un’indagine etica in cui (almeno secondo alcune teorie etiche) un valore può essere superiore agli altri nonostante il parere della maggioranza. Né si occupa di una ricerca religiosa sul disegno divino di una sacra scrittura. Al contrario, il diritto internazionale si definisce come relativo all’accordo tra Stati, al consenso o quasi-consenso degli studiosi e alle autorevoli interpretazioni istituzionali dei testi. Secondo le categorie universalmente accettate (codificate, tra l’altro, nello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), le fonti del diritto internazionale sono: 1) i trattati ratificati dagli Stati; 2) il “diritto consuetudinario internazionale” – prassi statali ampiamente diffuse che si trasformano in norme giuridiche in virtù della loro accettazione in quanto tali dalla maggioranza degli Stati (quest’ultima nota con l’espressione latina “opinio juris”); 3) “principi legislativi generali” – principi della legislazione interna agli Stati, che sono così diffusi da diventare norme giuridiche internazionali.

Inoltre, poiché molte controversie riguardano l’interpretazione dei trattati, dovremmo sottolineare che il principio che governa la formazione del diritto consuetudinario internazionale – che può essere sintetizzato nella formula “prassi + opinio juris” – ricompare in forma solo leggermente differente in relazione all’interpretazione di testi giuridici potenzialmente ambigui. Come stabilito nella Convenzione di Vienna sul “Diritto dei Trattati”:

Si dovrà prendere in considerazione, insieme al contesto:

  1. ogni successivo accordo tra le parti relativo all’interpretazione del trattato o all’applicazione delle sue disposizioni;

  2. ogni successiva prassi nell’applicazione del trattato che stabilisca l’accordo delle parti riguardo alla sua interpretazione;

  3. tutte le norme pertinenti di diritto internazionale applicabili alle relazioni tra le parti.

La polemica sull’erroneità del consenso preponderante riguardo all’illegalità delle colonie – condiviso da Stati, Corti e dall’ampia maggioranza dei giuristi di diritto internazionale – fraintende la natura del diritto internazionale. Si può, ovviamente, contestare in tutto o in parte il diritto internazionale. Ma trattarlo come se contenesse una verità eterna, che un singolo studioso o un gruppo di studiosi potrebbe scoprire indipendentemente da un simile consenso, è semplicemente un equivoco.

VI. Il dibattito come sintomo tragico ….e un’ultima fandonia

Come ho detto all’inizio, la mia opinione complessiva è che questa strana rinascita del dibattito giuridico sia un sintomo di una crescente sfiducia in una possibile soluzione del conflitto in un contesto che darebbe almeno una parziale espressione ad ognuna delle aspirazioni nazionaliste in confitto. Ma indica anche un fenomeno ancor più inquietante. Come è stato evidenziato per anni da molti osservatori, la soluzione dei due Stati – che a molti, me compreso, sembra tuttora fornire l’unico schema che potrebbe plausibilmente condurre ad una giusta e pacifica risoluzione del conflitto – è contraddetta da una “realtà di uno Stato unico” per la quale serve come alibi.

Inoltre, poiché l’occupazione appare sempre più permanente, l’argomentazione giuridica comincia ad apparire sempre più staccata dalla realtà, perché la permanenza è proprio la condizione che le norme giuridiche intendono impedire. E ancora, per tutte le ragioni esposte prima, una volta che [il termine] “occupazione” diventa obsoleto, l’alternativa non è legittimare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come pretendono i sostenitori delle colonie. Piuttosto, può essere sostituita solo da termini quali “colonialismo” e “apartheid”, categorie storiche che descrivono sistemi di governo in cui i coloni e la maggioranza della popolazione sono governati da due sistemi giuridici e in cui solo i primi hanno la cittadinanza e i diritti civili e politici. Nel contesto di una “realtà di uno Stato unico”, la campagna contro l’applicabilità della forma legale “occupazione” è quindi davvero agghiacciante.

Bisogna menzionare qui un’ ultima, spiacevole fandonia. I sostenitori delle colonie contestano che coloro che ritengono che tutte le colonie debbano essere evacuate auspicano che la Cisgiordania sia “judenrein” [libera dagli ebrei, ndtr.], paragonando così gli oppositori delle colonie ai nazisti. Questo è falso, davvero osceno, per così tanti aspetti ed in così tanti modi, che ci vorrebbe un altro saggio per citarli tutti. Dato che la mia attenzione qui si incentra sul diritto internazionale, mi limiterò ad un solo punto. Il progetto coloniale non può essere onestamente descritto come uno sforzo da parte di singoli ebrei di affittare o acquistare case e il cui diritto di farlo dovrebbe essere garantito da qualcosa come una legge anti-discriminazione. Il progetto coloniale implica lo spostamento collettivo di parti della popolazione civile di uno Stato in un territorio sotto occupazione militare di quello Stato.

Il progetto è stato avviato e continua ad essere diretto da dirigenti, dello Stato e non, la cui intenzione dichiarata era, ed è, agevolare la definitiva imposizione della sovranità israeliana sull’intero territorio o su parte di esso. Il progetto è stato avviato soprattutto (benché non esclusivamente), e continua ad essere ampiamente gestito, da persone guidate da un’ideologia nazionalista-messianica, che ritiene che la proprietà della terra da parte dello Stato di Israele e/o del popolo ebraico sia disposta dalla volontà divina. Il progetto è condotto con l’appoggio dell’intera potenza militare israeliana e da una massiccia spesa del governo in case ed infrastrutture. In breve: le questioni giuridiche essenziali non riguardano la discriminazione abitativa o la proprietà privata –e ancor meno il giudizio morale dei singoli coloni.

Se alcuni coloni sono estremisti violenti e razzisti e molti sono semplicemente indifferenti alla realtà umana dei palestinesi in quanto individui e in quanto popolo, altri sono normali famiglie attirate in Cisgiordania dagli incentivi economici del governo, alcuni sono esempi di spiriti apolitici e vi sono persino alcuni, come il rabbino Menachem Froman, che sono sinceri pacifisti. Le questioni giuridiche riguardano le azioni di uno Stato tenuto al rispetto di norme internazionali che regolano un territorio occupato durante un conflitto armato, norme che proibiscono atti che mirino all’imposizione unilaterale della sovranità su tale territorio ed alla subordinazione della sua popolazione, di cui il progetto di colonizzazione è la forma più eclatante.

1) Bisogna anche notare che gli scritti successivi di Blum, pubblicati dopo Oslo, indicano che non attribuisce più la stessa rilevanza alla teoria che propose nel 1968.

2) Aeyal Gross, “The writing on the wall: rethinking the international law of occupation” [ “La scritta sul muro: ripensare le leggi internazionali sull’occupazione”] (Cambridge, 2017).

Nathaniel Berman è professore di Affari Internazionali, Diritto e Cultura Moderna della cattedra Rahel Varnhagen presso il Centro Cogut per le Discipline Umanistiche della Brown University, e condirettore del progetto “Religione e Internazionalismo”.

Ha di recente pubblicato “Passion and ambivalence: colonialism, nationalism and international law” [“Passione e ambivalenza: colonialismo, nazionalismo e diritto internazionale”] (Brill, 2012).

(traduzione di Amedeo Rossi e Cristiana Cavagna)




Esperti israeliani e palestinesi redigono una ‘road map’ per salvare l’economia palestinese

Amira Hass, 25 marzo 2017, Haaretz

Circa 2 milioni di palestinesi sono ammassati nei 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Nella Valle del Giordano, che conta 1.600 chilometri quadrati, ci sono 65.000 palestinesi (e altri circa 10.000 coloni israeliani). Teoricamente gli accordi di Oslo avrebbero dovuto consentire a molti abitanti di Gaza di spostarsi nella Valle del Giordano – per lavorare nelle infrastrutture e in agricoltura (anche se solo per attività stagionali), nell’edilizia, nel turismo e nell’industria.

Ma in realtà queste due aree palestinesi “contribuiscono” al deterioramento dell’economia palestinese nel suo complesso. In entrambe, la principale ragione del declino sta nelle draconiane restrizioni alla libertà di movimento, di accesso alle risorse e alle possibilità di commercio, costruzione, agricoltura e sviluppo imposte da Israele.

Queste affermazioni non sono affatto nuove, già la scorsa settimana un gruppo di 11 economisti palestinesi ed israeliani ha pubblicato due studi a questo riguardo. Gli studiosi delineano un piano per espandere l’attività economica palestinese nella Valle del Giordano e salvare l’economia di Gaza (prima del 2020, data entro la quale, se nulla cambia, questa enclave isolata sarà inabitabile, come hanno avvertito due anni fa le Nazioni Unite).

Per ragioni di cortesia, e forse perché gli studi sono stati elaborati in collaborazione con la Banca Mondiale, gli autori si occupano di sincere affermazioni di politici israeliani circa il desiderio di vedere un miglioramento nell’economia palestinese. In effetti, i due autori – Saeb Bamya e il professor Arie Arnon che, insieme al dottor Shanta Devarajan, capo economista al MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ndtr.) della Banca Mondiale, hanno presentato i documenti mercoledì all’Istituto Truman di Gerusalemme – sono perfettamente coscienti che l’attuale situazione non è solamente il risultato di una casuale serie di errori umani.

Ma è stato il moderatore di una tavola rotonda, l’ex ambasciatore di Israele in Sudafrica Ilan Baruch, a non moderare i termini. “Vi è stata una deliberata politica israeliana tesa a creare deficit”, ha detto. “La comunità internazionale deve essere coinvolta – non come donatore, ma per esercitare pressioni [su Israele].”

Il giorno prima, gli studi sono stati presentati per la prima volta negli uffici della Banca Mondiale nel quartiere Dahiyat al-Barid di Gerusalemme, all’ombra del muro di separazione. Alcuni relatori hanno detto ai funzionari presenti: sono state elargite grosse somme di denaro per determinare un cambiamento, non per perpetuare lo status quo. Ma sembra che il denaro dei contribuenti dei vostri Paesi in realtà rafforzi la situazione di deterioramento. E questo deve cambiare.

A coloro che sono arrivati a pensare al blocco di Gaza come a un dato di fatto e che sono abituati a pensare che la Valle del Giordano appartenga ad Israele, le misure di semplice ricostruzione proposte dagli economisti sembreranno surreali. Permettere il regolare movimento di persone e camion direttamente tra Gaza e la Cisgiordania? Riaprire l’aeroporto di Gaza? Fornire acqua e maggiore elettricità alla Striscia? Ricostruire la flotta di pescatori e costruire un porto? Permettere ai palestinesi di coltivare altri 40.000 dunams ( 24,7 km²) nella Valle del Giordano? Lasciare che vi creino e sviluppino il turismo?

Un approccio differente da Oslo

Sembra inconcepibile. Ma secondo Arnon le raccomandazioni degli studi sono in realtà molto vicine all’approccio prospettato da alti dirigenti militari e della sicurezza israeliani, che comprendono i rischi per la sicurezza contenuti in un’economia palestinese in difficoltà. Quindi queste raccomandazioni sono un ulteriore tentativo di trovare persone responsabili in Israele che possano fare dei passi per scongiurare le disastrose previsioni.

Il Gruppo di Aix, che prende il nome dall’università francese in cui fu fondato nel 2002 (Università Paul Cézanne Aix-Marseille III), è stato creato per delineare scenari socioeconomici per la fase di status finale dei due Stati. Questo approccio è l’opposto di quello degli Accordi di Oslo, in cui sono state indicate in modo molto dettagliato fasi intermedie come percorso per realizzare un’ipotesi che non era definita.

Perciò, per il Gruppo di Aix, i due studi sono un nuovo lavoro che propone passi concreti per salvare e rivitalizzare l’economia a breve e medio termine, indipendentemente dalla situazione dei negoziati sullo status finale e con la consapevolezza della scarsa probabilità che tali colloqui possano ricominciare presto.

Ogni studio utilizza cifre e grafici per illustrare le tendenze economiche. Per esempio, nei 20 anni trascorsi dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, il prodotto interno lordo pro capite a Gaza è stato in media di 1.200 dollari (calcolati a prezzi del 2004). Negli anni migliori, 1998 e 1999, è stato di 1.450 dollari. Il livello più basso è stato nel 2007 e 2008 con solo 900 dollari. Per fare un confronto, a quel tempo il dato è stato di 4.200 dollari in Giordania e di 20.000 dollari in Israele.

Il PIL per lavoratore illustra ulteriormente il peggioramento – da 24.000 dollari nel 2005 a 10.000 dollari oggi. Questo è anche il modo per calcolare la produttività nell’economia.

Secondo gli autori, che citano uno studio della Banca di Israele che ha rilevato che dal 2006 al 2009 l’occupazione nel settore manifatturiero è crollata del 33%, rispetto ad un aumento del 24% nel settore dei servizi, questo drastico peggioramento è dovuto soprattutto al blocco di Gaza. Intanto nel 2015 la disoccupazione giovanile a Gaza è arrivata al 57.6%; il tasso complessivo di disoccupazione è stato del 41%.

Un altro modo per osservare il deterioramento è considerare il valore delle importazioni pro capite. Nel 1997 questo dato era di 800 dollari a Gaza e 1.000 dollari in Cisgiordania. Nel 2015 era di 400 dollari a Gaza e 1.400 in Cisgiordania.

E le esportazioni pro capite? Queste sono sempre state basse. Ma anche questo valore ridotto è diminuito. Nel 2000 le esportazioni erano il 10% del PIL, con 15.255 camion che uscivano da Gaza. Questo dato è sceso al 6.8% nel 2005 (9.319 camion) e a 0 tra il 2008 e il 2010. E’ stato registrato un lieve incremento nel 2015 e 2016, con 1.400 camion in uscita da Gaza ogni anno (grazie all’Olanda, che ha fatto pressioni perché si permettesse a Gaza di esportare all’estero alcune delle sue produzioni agricole).

Scarso sostegno a Gaza da parte dell’ANP

Il blocco israeliano impedisce all’economia di Gaza di beneficiare del movimento di merci e di persone. I costi crescenti abbassano la produttività e scoraggiano gli investitori, oltre alle fatiscenti infrastrutture di Gaza. Gli investitori sono spaventati anche dai rischi militari e politici, sostengono gli autori, che non ignorano un fattore interno: i due distinti governi palestinesi e la rivalità tra Hamas e l’ANP.

Gli autori respingono la ricorrente affermazione dell’ANP che il 40% del suo budget viene investito a Gaza. In base ai loro calcoli, solo il 15% del budget non coperto da entrate doganali e da imposte sul valore aggiunto viene trasferito alla Striscia. Non è un grande aiuto, dicono gli autori, aggiungendo che generalmente le zone ricche sovvenzionano quelle più povere.

Quanto alla paura di Israele del rischio per la sicurezza che comporterebbe allentare il blocco, le argomentazioni degli autori poggiano su una logica elementare: il blocco draconiano non ha impedito ad Hamas di armarsi e non ha impedito i conflitti. La situazione socioeconomica in peggioramento non fa che aumentare il malessere e la rabbia, che alimentano gruppi e idee estremiste. Secondo gli autori un allentamento del blocco in ultima istanza ridurrà il sostegno ad Hamas.

Inoltre scrivono: “Il blocco di Gaza potrebbe non essere solo una punizione per Hamas, ma anche un modo per rafforzare il suo controllo su Gaza. E’ più facile controllare un territorio chiuso che uno aperto, dove le persone possono entrare ed uscire.”

La valle del Giordano non è separata dal resto della Cisgiordania, ma, in base al secondo studio, per 50 anni, e soprattutto negli ultimi 20 anni, Israele ha vietato ai palestinesi l’accesso, la costruzione e lo sviluppo in circa il 75% dell’area, con diversi pretesti: zone di esercitazione militare, riserve naturali, zone di sicurezza, terreni dello Stato. Circa il 90% della terra nella Valle del Giordano rientra sotto l’autorità di 24 colonie. Circa l’80% del territorio è in Area C, sotto l’esclusivo controllo israeliano.

Dei 160.000 dunams (16.000 ha., ndt.) nella Valle del Giordano, i palestinesi ne coltivano solo 42.000 (4.200, ndt). I coloni coltivano tra i 30.000 (3.000 ha, ndt) e i 50.000 dunams (5.000 ha, ndt), ed il resto è vietato ai palestinesi. Riguardo all’accesso all’acqua, questo dato da solo illustra adeguatamente la situazione: la quantità media di acqua usata da un colono è quasi 10 volte maggiore della quantità usata da un palestinese.

Ecco il risultato, secondo lo studio: “Questo sottosviluppo si manifesta in sviluppo rurale limitato e scarsa crescita economica, che produce un aumento della povertà, inadeguate condizioni sanitarie ed igieniche, deterioramento materiale ed ambientale. E’ la conseguenza di tante difficoltà ed ostacoli, compresa l’iniqua distribuzione delle risorse idriche, la distruzione di vitali infrastrutture idriche, mancanza di fognature e notevoli perdite di acqua.”

C’è un altro dato molto eloquente: l’aspettativa media di vita per i palestinesi nella Valle del Giordano è di 65 anni, a fronte di 71.8 nell’intera Cisgiordania.

Gli autori affrontano la questione della sicurezza e le restrizioni di movimento ad essa dovute. Affermano che la sicurezza si ottiene non solo con strumenti militari, ma riducendo la motivazione della parte avversa a lottare contro di te. La situazione di povertà crescente e di qualità della vita in continuo peggioramento crea un focolaio di rabbia e disperazione che potrebbe portare, prima o poi, ad ulteriori cicli di violenza.

Gli autori non trattano della mancanza di sicurezza per i palestinesi, che sono spesso attaccati da esercito e polizia, o dai coloni.

Infatti, proprio in questi giorni, gli abitanti di nuovi avamposti non autorizzati eppure prosperi nel nord della Valle del Giordano stanno facendo uso di intimidazioni e violenze per scacciare pastori e contadini palestinesi da un’ampia zona di territorio. Perciò gli autori farebbero bene ad aggiungere una raccomandazione: adottare metodi per sventare attacchi dei coloni, che probabilmente aumenteranno se le persone responsabili consentiranno ai palestinesi maggiore accesso alle loro terre.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come Israele utilizza il gas per rafforzare la dipendenza palestinese e promuovere la normalizzazione

Di Tareq Baconi – 12 marzo 2017, Al-Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana dei territori palestinesi non esiste solo sul territorio. Dal 1967 Israele ha sistematicamente colonizzato le risorse naturali dei palestinesi e, nel campo degli idrocarburi, ha impedito ai palestinesi l’accesso alle loro riserve di petrolio e di gas.

Queste restrizioni hanno garantito la continua dipendenza dei palestinesi da Israele per le loro esigenze energetiche. I tentativi degli stessi palestinesi di sviluppare un proprio settore energetico non riescono a far fronte alla complessiva egemonia di Israele sulle risorse palestinesi. Al contrario, perseguono la crescita e la costruzione dello Stato all’interno della situazione dell’occupazione, rafforzando ulteriormente – anche se in modo involontario – l’equilibrio asimmetrico tra occupato ed occupante.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Tareq Baconi inizia prendendo in considerazione il contesto dei recenti accordi sul gas. Continua discutendo come i tentativi di sviluppare il settore dell’energia palestinese non riesca a far fronte a questa situazione e si basi principalmente su pratiche che cercano di eludere l’occupazione e che intendono migliorare la qualità della vita nel contesto dell’occupazione. Come sostiene Baconi, in ultima istanza questi tentativi rafforzano il ruolo dei territori palestinesi come mercato vincolato a favore delle esportazioni di energia israeliane e getta le basi per una normalizzazione a livello regionale sotto la definizione di “pace economica”. Egli sottolinea che una pace durevole e la stabilità si otterranno solo se i fattori fondamentali che tengono i palestinesi soggetti al dominio di Israele vengono affrontati e propone una serie di raccomandazioni politiche su come farlo.

L’impatto politico dell’abbondanza di gas israeliana

Fino a pochi anni fa sia Israele che la Giordania facevano notevole affidamento sulle importazioni di gas egiziano. Nel 2011-2012 e soprattutto dopo la caduta del regime del presidente Hosni Mubarak, le esportazioni di gas dall’Egitto sono diventate intermittenti. Ciò era dovuto sia a problemi interni nel settore energetico egiziano che alla crescente instabilità nella penisola del Sinai, che ospita il principale percorso del gasdotto che rifornisce Israele e Giordania. Con la caduta delle importazioni dall’Egitto, Israele e Giordania hanno iniziato a cercare fonti alternative di rifornimento. Nel 2009 un consorzio israelo-americano di imprese dell’energia ha scoperto “Tamar”, un giacimento a circa 80 km al largo della costa di Haifa, che contiene circa 300 miliardi di m3 di gas. Con la sicurezza energetica israeliana a rischio, il consorzio si è mosso rapidamente verso la produzione ed il gas ha iniziato a scorrere nel 2013. Un anno dopo la scoperta di “Tamar” lo stesso consorzio ha identificato il giacimento di gas “Leviatano”, molto più grande, stimato per circa 450 miliardi di m3 di gas.

Nel giro di qualche anno Israele è passato dall’essere un importatore di gas dalla regione ad aver acquisito le potenzialità per diventare un esportatore. Ha guardato sia ai mercati locali che a Paesi confinanti e ad altri più lontani per identificare potenziali destinatari delle esportazioni. Nelle sue immediate vicinanze le implicazioni per procedere verso la normalizzazione economica sono state evidenti: come ha recentemente dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu, produrre gas da “Leviatano” “fornirà gas a Israele e promuoverà la cooperazione con Paesi della regione.”

La Giordania è diventato il primo Paese che si è impegnato a comprare gas israeliano. Poco dopo la scoperta di “Leviatano” sono iniziati negoziati tra Giordania e Israele, e nel 2014 è stato firmato un Memorandum l’Intesa (MdI). Quello stesso anno accordi per la vendita di gas sono stati conclusi anche tra i gestori di “Tamar” e due operatori industriali giordani, la “Jordan Bromine” e le compagnie “Arab Potash”. Il MdI firmato con il governo giordano ha comportato l’impegno per la Giordania a comprare gas israeliano per un periodo di 15 anni. Questo è stato accolto con violente proteste in Giordania: molti militanti hanno rifiutato l’accordo con Israele, sopratutto a causa del massacro a Gaza di quell’anno, ed i parlamentari giordani hanno votato contro l’accordo. All’inizio del 2017 il gas ha iniziato a scorrere da Israele alla “Jordan Bromine” e alle “Arab Potash”, benché gli operatori abbiano mantenuto un basso profilo per evitare di riaccendere proteste.

La rabbia perché la Giordania stava finanziando il settore del gas israeliano è stata aggravata dal fatto che aveva altre prospettive per procurarsi il gas. In seguito alla riduzione del gas egiziano, la Giordania ha costruito un terminal per l’importazione di gas liquido ad Aqaba, sulle coste del Mar Rosso, che ha iniziato a funzionare nel 2015. Oltretutto la scoperta da parte dell’Egitto dell’enorme giacimento di gas “Zohr” nel 2016 ha ridato vita alla prospettiva del ritorno dell’Egitto al ruolo di fornitore regionale di gas. Ciononostante, ed indubbiamente in seguito a influenze esterne, la Giordania ha formalizzato il suo MdI con Israele nel settembre 2016, ignorando le obiezioni del parlamento e le proteste popolari.

Da quando Israele è diventato ricco di gas, la penosa situazione della Striscia di Gaza è divenuta più che mai dura. La Striscia di Gaza è stata sottoposta a blocco dal 2007. La “Gaza Power Generation Company” (GPGC), l’unica compagnia del suo genere in territorio palestinese, attualmente funziona con combustibile liquido comprato e trasportato nella Striscia di Gaza dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), in Cisgiordania. Per integrare l’energia fornita dalla GPGC, Gaza acquista elettricità dalla compagnia elettrica israeliana, così come dalla rete elettrica egiziana (1). Anche così il combustibile acquistato per generatori di energia a Gaza è insufficiente per soddisfare la domanda locale e, da quando Israele ha imposto il blocco, la Striscia ha sofferto di una cronica carenza di elettricità.

All’inizio del 2017 sono scoppiate proteste a Gaza, in quanto i suoi abitanti sulla costa si sono lamentati di avere elettricità solo per tre o quattro ore al giorno. Oltre alle terribili restrizioni che queste carenze comportano per aspetti della vita quotidiana, le interruzioni di elettricità hanno un impatto devastante sulle attività economiche del settore privato, dei servizi sanitari, dell’educazione e su servizi vitali come gli impianti di depurazione delle acque. Attività intermittenti in questi settori hanno conseguenze che sono sia immediate che durature, colpendo le nuove generazioni.

Le lamentele per la crisi energetica a Gaza sono dirette in ogni direzione. I manifestanti che si sono riversati nelle strade quest’inverno hanno incolpato il governo di Hamas, l’ANP e Israele. La rabbia era rivolta contro il governo di Hamas perché si sostiene che sposta fondi dall’acquisto del combustibile necessario per far funzionare l’unico impianto di energia di Gaza verso altre attività, compresa la costruzione di tunnel. I manifestanti esasperati hanno accusato l’ANP di appoggiare il blocco, controllando le forniture di combustibile e i trasferimenti a Gaza. La stessa compagnia dell’energia, un operatore di proprietà di un privato, è ripetutamente criticata perché trarrebbe profitti a spese dei normali cittadini di Gaza che soffrono per queste carenze. Per mitigare i mesi invernali particolarmente duri di fine 2016 e inizio 2017, interventi nel settore dell’energia di Gaza sono arrivati dalla Turchia e dal Qatar nella forma di forniture di combustibile che hanno consentito la ripresa della produzione di energia da parte della GPGC. Queste misure rappresentano al massimo un palliativo a breve termine, che porterà i gazawi verso un altro capitolo di una crisi cronica.

In quest’ondata di rabbia e di recriminazioni della popolazione, l’impatto del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza e della più complessiva colonizzazione e del controllo delle risorse palestinesi da parte di Israele è poco presente, se non spinto in secondo piano.

Eppure i palestinesi hanno scoperto le riserve di gas circa un decennio prima dell’abbondanza di gas di Israele. Nel 1999 al largo delle coste di Gaza fu scoperto il giacimento “Gaza Marine” e la licenza di sfruttamento e produzione venne concessa al “BG Group”, la maggiore impresa britannica di petrolio e gas, finché non è stata acquisita dalla Shell. Nei primi giorni dalla scoperta questa ricchezza nazionale è stata salutata come un passo avanti che avrebbe potuto offrire ai palestinesi una ricchezza inaspettata. Quando gli accordi di Oslo, firmati nel 1993, sembravano ancora credibili, la scoperta di questa risorsa fu vista come qualcosa che avrebbe potuto fornire ai palestinesi una fondamentale risorsa verso l’autodeterminazione.

Con una stima di 30 miliardi di m3 di gas, il “Gaza Marine” non è sufficientemente grande per permettere l’esportazione. Ma i volumi di gas che contiene sono sufficienti per rendere il settore palestinese dell’energia interamente autosufficiente. Non solo i palestinesi non avrebbero dovuto importare il gas o l’elettricità israeliani o egiziani, ma la Striscia di Gaza non avrebbe sofferto di nessuna carenza di elettricità. Oltretutto l’economia palestinese avrebbe goduto di una significativa fonte di entrate.

Questo passo verso la piena sovranità non doveva avvenire. Nonostante continui tentativi dei possessori del giacimento e degli investitori di sviluppare il “Gaza Marine”, Israele pose rigide restrizioni che impedirono la messa in pratica di qualunque intervento. Ciò nonostante il fatto che l’esplorazione e la produzione dal “Gaza Marine” sarebbero state relativamente semplici grazie alla scarsa profondità del giacimento e alla sua collocazione nei pressi delle coste palestinesi (2). Secondo documenti scoperti da Al-Shabaka, Israele all’inizio impedì lo sviluppo di questo giacimento in quanto cercava di ottenere condizioni commercialmente favorevoli per il gas prodotto. Dopo che Israele scoprì risorse energetiche proprie iniziò a far riferimento a “questioni di sicurezza” che furono accentuate quando Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza. Benché Netanyahu abbia preso in considerazione la concessione ai palestinesi per lo sviluppo del “Gaza Marine” nel 2012 come parte di una più complessiva strategia per stabilizzare la Striscia di Gaza, questi tentativi devono ancora concretizzarsi. In seguito alla recente acquisizione del BG Group da parte di Shell e al programma di cessione di investimenti globale di quest’ultima, è probabile che il “Gaza Marine” sarà svenduto.

Finché Israele non porrà fine al proprio dominio sull’economia palestinese, questa risorsa palestinese probabilmente rimarrà bloccata. In effetti, il modo in cui le scoperte di gas israeliano e palestinese hanno plasmato lo sviluppo economico in Israele e nei territori palestinesi illustra la disparità di potere tra le due parti. A differenza di Israele, che rapidamente si è garantito l’indipendenza energetica dopo la scoperta dei suoi giacimenti di gas, i palestinesi sono stati incapaci di accedere ad una risorsa che hanno scoperto quasi due decenni prima. Invece di affrontare le cause profonde del blocco e del regime di occupazione che ha impedito il loro controllo su risorse come il “Gaza Marine”, i palestinesi sono obbligati a cercare soluzioni immediate per ridurre la pressante penuria che devono affrontare. Benché ciò sia comprensibile nel contesto di una brutale occupazione, i tentativi di migliorare la qualità della vita sotto occupazione trascurano l’obiettivo strategico a lungo termine di garantire l’indipendenza energetica all’interno del più complessivo obiettivo di liberazione dall’occupazione e del raggiungimento dei diritti dei palestinesi.

Pace economica e normalizzazione

Le scoperte di gas di Israele sono spesso sbandierate come potenziali catalizzatori di una trasformazione regionale. Il posizionamento dello Stato di Israele come fornitore di energia ai vicini con scarse risorse è considerato un mezzo sicuro per facilitare l’integrazione economica tra Paesi come Giordania ed Egitto, così come con i palestinesi. I benefici economici che gasdotti a buon mercato possono offrire a questi Paesi sono visti come soluzione per ogni preoccupazione sociale e politica tra i loro cittadini riguardo alle relazioni con Israele. Questo modo di pensare parte dal presupposto che attraverso l’integrazione economica la stabilità che ne deriva diminuirebbe le prospettive di instabilità in una regione esplosiva, in quanto Israele ed i suoi vicini incominciano ad integrarsi in una interdipendenza.

La nozione di “pace economica” ha una lunga storia nella regione e si è manifestata in varie forme, comprese le recenti proposte di sviluppo economico del segretario di Stato John Kerry. Questa visione sembra favorita anche dall’ambasciatore dell’amministrazione Trump in Israele, David Friedman. Invece di affrontare direttamente l’impasse politico provocato dalla prolungata occupazione e da altre violazioni israeliane, queste proposte affrontano questioni relative alla qualità della vita, al commercio o alla crescita economica, presumibilmente come un passo avanti verso la pace. Con un punto di vista di questo genere, dopo le scoperte di gas israeliane, l’amministrazione Obama ha iniziato a verificare modi per posizionare Israele come fulcro energetico regionale.

Sostenitori di questo approccio, che separa i diritti nazionali e politici dagli incentivi economici, affermeranno che c’è un ovvio vantaggio economico perché il gas israeliano sia usato all’interno del territorio palestinese e in Giordania. Ora Israele ha un’eccedenza di gas e queste regioni sono ancora dipendenti dalle importazioni di energia. Nel caso dei territori palestinesi, esiste già una dipendenza da Israele, e non solo a Gaza: quasi l’80% del consumo dei palestinesi è fornito da Israele, con la Cisgiordania che importa quasi tutta la sua energia elettrica da Israele. Chi propugna la pace economica crede che le prospettive di instabilità si riducano quando si rafforza questa dipendenza reciproca.

Il dipartimento di Stato USA, guidato da una tale convinzione, ha facilitato molti negoziati per il gas tra Israele, Giordania e i palestinesi. L’inviato e coordinatore speciale per le Questioni Energetiche Internazionali, recentemente nominato, un incarico attraverso il quale gli USA hanno rafforzato il proprio settore della diplomazia energetica in tutto il mondo sotto l’amministrazione Obama, ha incoraggiato discussioni per permettere l’esportazione di gas israeliano alla Giordania ed ai palestinesi, con evidente successo.

In prospettiva la Giordania non è l’unico destinatario del gas israeliano. Nel 2010, l’ANP ha approvato piani per la creazione della “Compagnia Palestinese per la Generazione di Energia” (PPGC), la prima impresa di questo genere in Cisgiordania e la seconda nei territori palestinesi dopo la GPGC a Gaza. Situato a Jenin, questo impianto della potenza di 200 megawatt è gestito da investitori privati (compresi PADICO e CCC [società palestinesi. Ndtr.]), che stanno lavorando per rafforzare il settore palestinese dell’energia, garantendo la produzione di energia elettrica in Cisgiordania e riducendo l’alto costo delle importazioni di elettricità da Israele. PPGC ha iniziato negoziati con Israele per comprare gas dal giacimento “Leviatano” per produrre elettricità. I palestinesi hanno protestato contro questa decisione, invocando sforzi per sviluppare il “Gaza Marine” invece di basarsi sul gas israeliano. I colloqui sono falliti nel 2015, ma non è chiaro se si sia trattato di una sospensione solo temporanea.

I pericoli di una sovranità monca

C’è una serie di pericoli nazionali e regionali derivanti dalla spinta a una più stretta integrazione attraverso accordi sul gas in mancanza di azioni concomitanti sul piano politico.

Il primo pericolo è che la sicurezza energetica palestinese sia legata alla buona volontà di Israele. Israele può, ed in passato l’ha fatto, utilizzare il proprio potere per interrompere di fatto le forniture ai consumatori palestinesi. La più evidente (e violenta) manifestazione della volontà israeliana di negare l’energia ai palestinesi è stata la sua decisione di distruggere senza esitazione l’unica impresa di produzione di energia nella Striscia di Gaza durante i bombardamenti dell’enclave costiera nel 2006 e di nuovo nel 2014.

In secondo luogo questo approccio legittima l’occupazione israeliana, che presto entrerà nel suo cinquantesimo anno. Non solo non ci sono costi per il fatto che Israele impedisce la costruzione di uno Stato palestinese, ma c’è piuttosto un profitto diretto sotto forma di ricavi dalla vendita di gas a territori mantenuti per un tempo indefinito sotto il controllo territoriale israeliano.

Terzo punto, e forse il più importante, questo scambio e commercio di energia nel perseguimento della pace economica in assenza di ogni prospettiva politica rafforza semplicemente lo squilibrio di potere tra le due parti – l’occupante e l’occupato. Una simile integrazione trasmette una finzione di relazioni giuridiche sovrane tra una potenza occupante e un’economia imprigionata in Cisgiordania e a Gaza.

Si deve ripensare a simili iniziative per il miglioramento delle condizioni di vita che sono state attuate negli anni ’80, con il diretto incoraggiamento della Casa Bianca di Reagan, come a un’alternativa mancata all’impegno politico con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Gli sforzi costanti per eludere le richieste politiche dei palestinesi attraverso queste misure hanno consentito ad Israele di gestire, piuttosto che risolvere, il conflitto.

Il caso del gas dimostra nel modo più evidente come i tentativi di costruire lo Stato palestinese attraverso lo sviluppo di risorse nazionali siano stati tolti di mezzo in favore della riduzione delle crisi energetiche all’interno del quadro di una sovranità monca. Invece di affrontare l’incapacità palestinese di sfruttare le proprie risorse naturali, i diplomatici americani stanno attivamente lavorando con Israele per facilitare negoziati che migliorino la “qualità della vita” dei palestinesi, che alla fine li lasciano per sempre nelle mani di Israele.

Questo approccio porta con sé anche pericoli su scala regionale. La Giordania è attualmente dipendente da Israele per circa il 40% delle sue importazioni di energia. La volontà della Giordania di entrare in questo tipo di dipendenza, nonostante notevoli svantaggi geo-strategici, fa progredire la normalizzazione dei rapporti di Israele nella regione anche se mantiene la sua occupazione dei territori palestinesi. Questa disponibilità preannuncia parecchie minacce in un momento in cui l’amministrazione Trump sta proponendo il perseguimento di misure diplomatiche “dall’esterno all’interno” che potrebbero ignorare completamente i palestinesi.

Strategie di rifiuto

In condizioni normali la dipendenza mutua e lo sviluppo economico sono effettivamente garanzie contro l’instabilità e portano il vantaggio di migliorare la qualità della vita degli abitanti della regione. Tuttavia non devono essere visti come un fine in sé, e sicuramente non come un sostituto della realizzazione dei diritti dei palestinesi. Una simile de-politicizzazione può solo arrivare fino a un certo punto. Concentrarsi esclusivamente sulla pace economica ha conseguenze disastrose proprio perché ciò ignora il contesto storico più complessivo che ha portato alla dipendenza dei palestinesi, e forse della regione.

La crescita economica non eliminerà mai le richieste dei palestinesi per la sovranità e i diritti o la domanda di autodeterminazione. Questa è una lezione che è stata pienamente articolata con lo scoppio della prima Intifada quasi 30 anni fa, dopo decenni di relazioni economiche normalizzate tra Israele ed i territori sottoposti alla sua occupazione militare. Mentre la “pace economica” può fornire un diversivo a breve termine, ciò preparerà il terreno verso una maggiore stabilità solo se costruito sulle fondamenta dell’uguaglianza e della giustizia.

Il diritto dei palestinesi alle loro risorse è soggetto ai negoziati per lo status finale con gli israeliani. Gli attuali accordi condotti sul gas creeranno una infrastruttura di dipendenza che sarà difficile da districare nel caso di un accordo negoziato. Cosa più importante, dato che sono svanite le speranze di una soluzione negoziata per due Stati, questi accordi concretizzano semplicemente lo status quo.

Perciò, mentre le relazioni economiche devono essere perseguite per alleviare le sofferenze umane, come nel caso dell’incremento di forniture di combustibile e di elettricità a Gaza, l’OLP e l’ANP, come anche la società civile palestinese ed il movimento di solidarietà con la Palestina, devono continuare ad utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per operare a favore della giustizia e dei diritti per i palestinesi.

Nell’immediato futuro, se gli accordi per il gas continuano nonostante l’opposizione popolare, i negoziatori palestinesi coinvolti in una prospettiva di accordi per il gas con Israele devono quanto meno insistere su clausole che non escludano le prospettive di un futuro gas proveniente dal “Gaza Marine”. Ciò può essere fatto creando meccanismi legali che permettano l’introduzione dell’accesso di parti terze negli accordi di fornitura. Benché sia difficile negoziare simili condizioni, ciò è di vitale importanza, in quanto lascia spazio alla flessibilità riguardo a future forniture dal “Gaza Marine” e a una limitata dipendenza da Israele. I contratti per la fornitura di gas dovrebbero anche includere norme per la revisione dei termini dell’accordo nel caso di importanti sviluppi sul piano politico.

I negoziatori palestinesi dovrebbero anche guardare alla resistenza della società civile per rafforzare i suoi tentativi piuttosto che tentare di rifiutarli o schiacciarli. Ci sono modelli che possono essere emulati secondo cui negoziatori sono in grado di sfruttare il potere dei movimenti popolari contro alcuni di questi accordi. Quando si tratta di diritti all’acqua, per esempio, c’è un’unità operativa dedicata (EWASH [l’impresa palestinese delle acque. Ndtr.]) che coordina il lavoro di gruppi locali ed internazionali. EWASH ha portato avanti una campagna che ha messo in luce il furto di acqua da parte dei coloni israeliani a danno dei palestinesi ed ha sollevato la questione al Parlamento Europeo. Forse una coalizione simile potrebbe essere formata per mobilitarsi a favore della sovranità energetica.

Al contempo l’OLP/ANP deve usare questi negoziati economici come un mezzo per garantire che Israele sia chiamato a risponderne piuttosto che come un modo di accettare una dipendenza ancora maggiore. In particolare, lo status di Stato osservatore non membro che la Palestina si è garantito all’ONU deve essere utilizzato per fare pressione nelle sedi legali internazionali, come la Corte Penale Internazionale, per spingere Israele a rispettare le sue responsabilità come potenza occupante in base alle leggi internazionali. Ciò significa che gli compete la responsabilità di garantire il livello di vita degli abitanti sotto il suo controllo, compresa la fornitura di elettricità e combustibile, e che deve rendere conto delle decisioni di “chiudere i rubinetti”che potrebbe prendere.

Alcuni elementi di pace economica posso essere utili ai palestinesi nel breve termine a sostegno della crescita e dello sviluppo economico. Ma questi non possono arrivare al prezzo di uno stato di dipendenza indefinito e di sovranità monca. I palestinesi devono lavorare su due fronti: spingere per rendere l’occupazione israeliana responsabile nei consessi internazionali; devono assicurarsi che le prospettive di integrazione economica obbligata ed ogni tentativo da parte di Israele di imporre una realtà di Stato unico dell’apartheid siano accompagnati da un appello ai diritti ed all’uguaglianza. Qualunque sia la visione politica perseguita per Israele e per i palestinesi, la dirigenza palestinese deve formulare una strategia riguardo a questi accordi per il gas e contestualizzare la nozione di sviluppo economico all’interno della più complessiva lotta per la liberazione della Palestina.

Note

(1) Queste misure per la fornitura ed il trasporto di combustibile sono in linea con il Protocollo delle Relazioni Economiche, noto anche come “Protocollo di Parigi”, sancito tra Israele e l’OLP come parte degli accordi di Oslo.

(2) “Gaza Marine” non è l’unico giacimento che i palestinesi non sono stati in grado di sfruttare. Anche i campi di petrolio in Cisgiordania hanno affrontato problemi di accesso a causa di restrizioni da parte di Israele.

Tareq G. Baconi è esperto di politica di Al-Shabaka con sede negli USA. Il suo ultimo libro “Hamas: le politiche della resistenza, consolidamento a Gaza” è stato pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato di ricerca in Relazioni Internazionali presso il King College di Londra, che ha completato durante una carriera come consulente per l’energia. Ha anche titoli di studio dell’università di Cambridge (Relazioni Internazionali) e dell’Imperial College di Londra (ingegneria chimica). Tareq è un ricercatore associato presso il Progetto USA per il Medio Oriente. Suoi scritti sono stati pubblicati su “Foreing Affairs”, “Sada: Carnegie Endowment for International Peace”, sul “Guardian”, l’”Huffington Post”, il “Daily Star”, Al Ghad e “Open Democracy”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nonostante le dichiarazioni di Trump durante l’incontro con Netanyahu, Abbas e i palestinesi tirano un sospiro di sollievo.

Amira Hass, 16 febbraio 2017 Haaretz

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dalla dominazione israeliana, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid.

La dirigenza palestinese non ha nascosto la sua preoccupazione circa le notizie che gli americani hanno rinunciato ad appoggiare la creazione di uno Stato palestinese. Di fatto questo non è stato il messaggio inequivocabile che le dichiarazioni di Donald Trump hanno trasmesso nella conferenza stampa di mercoledì. Ognuna delle parti potrebbe rintracciarvi elementi per rafforzare la propria posizione.

Anche se gli Stati Uniti rinunciassero effettivamente a sostenere uno Stato palestinese, che cosa cambierebbe in realtà? Le amministrazioni USA precedenti a Trump hanno parlato di qualche soluzione dei due Stati e non hanno fatto niente per portarla avanti. Cioè, non hanno fatto niente per impedire ad Israele di bloccarla. Però le loro dichiarazioni e le loro promesse hanno indotto la dirigenza palestinese di Ramallah a mentire a sé stessa ed al suo popolo facendo credere che questa fosse la soluzione che la grande potenza appoggiava.

Questa costante menzogna – accompagnata da una massiccia assistenza finanziaria americana – è stata uno degli strumenti con cui la dirigenza dell’OLP, Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno continuato a dar ragione della propria esistenza. Quella menzogna ha aiutato a giustificare il mantenimento degli accordi con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza. Non stupisce che gli USA eroghino considerevoli contributi finanziari alle forze di sicurezza palestinesi.

La nuova musica che adesso arriva dalla Casa Bianca pone la domanda se i cambiamenti negli Stati Uniti possano indebolire ancor più lo status della leadership palestinese agli occhi dei palestinesi stessi e se quindi la sua esistenza sia in pericolo.

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dal giogo israeliano, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid. Per il popolo palestinese che vive qui [nei Territori Occupati] e per quello della diaspora questi non sono slogan, ma la realtà quotidiana.

Ventiquattro anni fa questa Nazione ha avuto una leadership popolare che ha fatto un generoso regalo ad Israele e agli ebrei – la soluzione dei due Stati. E’ così che i palestinesi hanno interpretato gli accordi di Oslo. Ma Israele ha rifiutato il dono.

La dirigenza palestinese poteva capire anche prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin che Israele stava bluffando. Che mentre diceva “due Stati” creava enclaves. L’OLP si è intrappolata nella politica dei negoziati nella speranza che l’Occidente avrebbe fatto pressioni su Israele, che ci sarebbero stati cambiamenti politici positivi in Israele e che gli Stati arabi sarebbero intervenuti. Ma c’è anche un’altra ragione. La dirigenza palestinese ha trasformato la burocrazia di un’organizzazione per la liberazione nazionale in una burocrazia che governa, completa di autoconservazione e aggrappata alla propria posizione.

Il timore del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dei suoi colleghi di una deriva militare che danneggerebbe il loro popolo (come la Seconda Intifada) è reale e giustificato. Ma si confonde con gli interessi personali suoi e del gruppo di potere.

Al tempo stesso, ha preso forma l’illusione di una sovranità limitata all’interno delle enclaves palestinesi. L’ANP in Cisgiordania e Hamas a Gaza forniscono i servizi di base alla popolazione e rendono possibile l’attività pubblica, cosa che non era concessa sotto l’occupazione israeliana diretta.

Pur con tutte le critiche all’ANP per la corruzione, i metodi dittatoriali, l’inefficienza, le carenze nei servizi sociali, ecc., essa continua comunque a provvedere alle necessità fondamentali immediate della popolazione.

La presidenza Trump non è una ragione sufficiente per sciogliere l’ANP e gettare la società palestinese nel caos e nello scompiglio. La leadership palestinese ha ottenuto un’altra pausa.

Mercoledì un ufficiale della sicurezza palestinese ha rivelato ai media palestinesi l’incontro del capo della CIA con Abbas. Il messaggio che sta dietro alla fuga di notizie è chiaro. “Non preoccupatevi, l’esistenza dell’Autorità Palestinese sta a cuore agli Stati Uniti. Le istituzioni di Washington comprendono che il mantenimento del regime di enclaves garantisce una sorta di stabilità della sicurezza.”

Probabilmente stanno dicendo la stessa cosa al nuovo presidente. L’elemento più importante che può compromettere questa precaria stabilità non è Trump, ma un’escalation dell’oppressione israeliana e della sua politica di colonizzazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La Palestina nell’era di Trump

19 gennaio 2017,The New Yorker

 Rashid Khalidi

Con l’avvento a Washington di un’amministrazione con nuove e radicali priorità riguardo ad Israele e disprezzo nei confronti dei diritti dei palestinesi, la Palestina sta affrontando una situazione scoraggiante. Negli scorsi anni avevano già iniziato ad evidenziarsi predominanti indirizzi politici in America e in Israele. Ora abbiamo raggiunto il punto in cui i rappresentanti di un Paese nellaltro potrebbero praticamente essere scambiati: l’ambasciatore di Israele a Washington, Ron Dermer, che è cresciuto in Florida, potrebbe facilmente essere l’ambasciatore USA in Israele, mentre l’ambasciatore designato da Trump in Israele, David Friedman, che ha stretti legami con il movimento dei coloni israeliani, potrebbe benissimo fare l’ambasciatore a Washington per il governo favorevole ai coloni di Benjamin Netanyahu.

Mentre il sollecito interesse dell’America per Israele e il suo disinteresse per i palestinesi erano in precedenza celati dietro all’imparzialità, con Trump stiamo per assistere a una più totale convergenza tra la dirigenza politica americana e il governo più sciovinista, religioso e di destra nella storia di Israele. Saranno questo governo israeliano e le sue nuove anime gemelle americane che prenderanno le decisioni in Palestina almeno per i prossimi anni.

L’intera struttura politica ed economica palestinese costituita dagli accordi di Oslo del 1993 era fondata sull’idea che si sarebbe trasformata in uno Stato palestinese reale, sostenibile e con continuità territoriale. Quella illusione, sostenuta da molti palestinesi, è stata ormai dissolta. Quella struttura imperfetta era anche basata sulla premessa, quanto meno ingenua, che gli Stati Uniti avessero un interesse nazionale nel moderare il comportamento di Israele e nel raggiungere un minimo di giustizia in Medio Oriente. Anche questa premessa è stata distrutta.

Per i palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese, stabilita dagli accordi di Oslo in apparenza come parte di un accordo temporaneo per l’autogoverno palestinese, continuerà a fare più danno che bene. Poche persone capiscono che la colonizzazione della terra palestinese e l’occupazione militare israeliana durata quasi cinquant’anni, – tra le più lunghe della storia contemporanea – oggi non sarebbero sostenibili senza l’appoggio americano ed israeliano all’ANP ed alle sue forze di sicurezza addestrate dagli USA. La criminalizzazione da parte dell’ANP di ogni forma di resistenza alla spoliazione, alla discriminazione ed al permanente controllo militare da parte di Israele ne hanno fatto, in effetti, uno strumento di collaborazione con l’occupazione. Persino bloggers e manifestanti pacifici sono soggetti ad arresti e a soprusi da parte delle forze dell’ANP. Il modo in cui questa istituzione opera contro il proprio stesso popolo fornisce un’anticipazione del futuro che ora i dirigenti sia americani che israeliani prevedono per i palestinesi nei territori occupati: un futuro che è oppresso, controllato e privo di sovranità ed autodeterminazione.

E’ assolutamente chiaro che gli Stati Uniti, nell’era Trump, e Israele, in quella di Netanyahu, non faranno niente per cambiare questo quadro. In un simile contesto, i palestinesi hanno di fronte scelte nette. Possono sottomettersi ai voleri degli USA e di Israele oppure possono ridefinire profondamente e urgentemente il loro movimento nazionale, i loro obiettivi e le modalità della loro resistenza all’oppressione. E’ ora per i palestinesi di abbandonare l’esperimento fallito dell’ANP e forme di violenza che rafforzano solo il dominio della destra sulle politiche israeliane. E’ ora di mobilitare le ampie energie della diaspora palestinese e di smettere di pensare alla Palestina come solo a quei frammenti sotto occupazione israeliana. Ed è tempo di iniziare ad immaginare modi in cui palestinesi ed israeliani saranno finalmente capaci di coesistere in totale uguaglianza nel piccolo Paese che alla fine dovranno condividere, una volta che si sia liberato dalla dominazione di un gruppo sull’altro. Sarà un compito eccezionalmente difficile per i palestinesi, che vengono dall’aver sofferto decenni di guerra, spoliazione ed occupazione.

Ciononostante ci sono segni di speranza, almeno negli Stati Uniti. A dispetto delle posizioni dei dirigenti sia del partito Democratico che Repubblicano, l’opinione pubblica americana si sta allontanando rapidamente da un appoggio acritico ad Israele. Gli americani stanno diventando sempre più solidali con la causa della libertà dei palestinesi. Secondo un sondaggio realizzato dalla Brookings Institution [gruppo di ricerca in scienze sociali di tendenza progressista con sede a Washington. Ndtr.] in dicembre, il 60% dei democratici e il 46% di tutti gli americani appoggia sanzioni o misure più forti contro Israele per la costruzione di colonie ebraiche illegali sulla terra palestinese occupata. Un recente sondaggio del Pew [centro di ricerca statunitense indipendente. Ndtr.] mostra che, per la prima volta, la percentuale di democratici che sono solidali con i palestinesi è praticamente pari a quelli che simpatizzano con Israele, mentre i democratici progressisti sono molto più solidali con i palestinesi (58%) che con Israele (26%).

Con il tempo, questi cambiamenti arriveranno fino ai politici ed ai decisori a Washington. Nel frattempo, ci si aspetta da persone con una coscienza, comprese quelle che stanno resistendo all’ondata di razzismo e di estremismo di estrema destra che si prospetta nellera Trump, che esercitino pressioni sui loro rappresentanti eletti perché siano all’altezza degli ideali di libertà ed uguaglianza che professano e che rendano Israele responsabile delle sue violazioni delle leggi internazionali e del rifiuto dei diritti nazionali ed umani dei palestinesi.

Rashid Khalidi è professore Edward Said di Studi Arabi alla Columbia University e autore, più recentemente, di “Mediatori di menzogna: come gli USA hanno minato la pace in Medio Oriente.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Foucault in Palestina

di Amedeo Rossi

Neve Gordon .L’occupazione israeliana, Diabasi, Parma, 2016.

Si tratta di un libro pubblicato originariamente in inglese nel 2008. Come ricorda l’autore nella prefazione all’edizione italiana, dati i numerosi cambiamenti della situazione nell’area compresa tra il Nord Africa e il Medio oriente, si potrebbe pensare ad un saggio pubblicato in italiano fuori tempo. Invece sia l’impostazione dell’analisi che la sostanziale continuità dell’espansione israeliana a danno dei palestinesi rendono questo libro estremamente attuale: “Ciò che trovo preoccupante ” scrive l’autore “è il fatto di poter ancora assumere, a dispetto dei drastici cambiamenti in Medio Oriente, la dichiarazioni pessimistiche esposte alla fine dell’edizione del 2008.”

Gordon analizza l’evoluzione dell’occupazione israeliana in base alle tre modalità di esercizio del potere individuate da Foucault: disciplinare, biopotere e sovrano. Il primo riguarda il controllo ed il condizionamento delle pratiche sociali anche a livello della vita quotidiana degli individui, omologandoli e allo stesso tempo differenziandoli, in quanto assegna ad ognuno una funzione specifica. Il secondo opera in modo simile, ma cercando di condizionare il comportamento della popolazione soggetta nel suo complesso. Infine, il potere sovrano riguarda il potere affidato alle istituzioni giuridiche e repressive, che impongono norme e sospendono diritti in modo assolutamente arbitrario.

Tutte queste modalità di dominazione sono state messe in atto da Israele fin dal ’67. Tuttavia secondo Gordon nel corso dei decenni si è assistito ad un progressivo spostamento dall’enfasi posta sulle prime due modalità alla prevalenza del potere sovrano, pur rimanendo costanti gli apparati giuridico – amministrativi e repressivi: “La tesi centrale del volume è che certi elementi della struttura dell’occupazione, e non delle decisioni prese da un determinato politico o funzionario dell’esercito, abbiano modificato le forme di controllo…l’occupazione operò per molti anni secondo il principio di colonizzazione, con il quale intendo il tentativo di amministrare la vita della popolazione e normalizzare la colonizzazione sfruttando nel contempo le risorse del territorio (in questo caso la terra, l’acqua e la manodopera”. Ma, sostiene l’autore, con il tempo le contraddizioni strutturali hanno portato, negli anni ’90, al principio di separazione, cioè alla rinuncia ad amministrare la popolazione, continuando però a sfruttare le risorse.

Gordon individua cinque fasi: il governo militare (1967-1980), l’amministrazione civile (1981-1987), la prima Intifada (1988-1993), gli anni di Oslo (1994-2000) e la seconda Intifada (2001-2008). Fin dai primi giorni dell’occupazione normative e decisioni politiche cercarono di separare la gestione della popolazione palestinese da quella sulla terra in cui essa vive. Tuttavia fino alla scoppio della prima Intifada prevalsero il potere disciplinare ed il biopotere: Israele esercitò una metodica repressione di qualsiasi forma di organizzazione politica e nazionale dei palestinesi, intervenendo nel contempo per inserire i Territori occupati e la loro economia nel contesto israeliano in funzione complementare e subordinata. L’autore definisce questa fase come “colonialismo ‘civilizzatore'” ed identifica il tentativo di rendere l’occupazione poco visibile, separando la repressione politica dalla gestione della quotidianità della popolazione palestinese. Addirittura, nei primi 10 anni di occupazione il livello di vita della popolazione palestinese è migliorato, grazie alla promozione della produzione agricola e all’inserimento della manodopera palestinese nell’economia israeliana, con un aumento annuo del PIL dal 1973 al 1980 del 9% in Cisgiordania e del 60% a Gaza. Contemporaneamente la repressione colpiva ogni forma di rivendicazione politica ed identitaria dei palestinesi. Ma progressivamente, anche a causa del permanere di forme di resistenza palestinese, Israele ha abbandonato le modalità dell’ occupazione “consensuale”, accentuando sempre di più le forme di repressione più aperte e violente ed il processo di colonizzazione, fino a dispiegare le forme più violente di repressione durante la Prima Intifada.

Gli accordi di Oslo non hanno rappresentato un cambiamento positivo della situazione: “…l’obiettivo principale di Israele in quel processo fu di trovare un modo diverso per gestire la popolazione palestinese, e continuare nel contempo a controllare la terra.” Questo progetto ha consentito ad Israele di “esternalizzare ad un subappaltatore” il controllo sulla popolazione, affidandolo almeno in parte all’Autorità Palestinese, senza peraltro rinunciare ad interventi diretti e conservando il controllo effettivo sul territorio.

La drammatica situazione del 2008 viene così descritta dall’autore: “Israele oggi agisce principalmente distruggendo le garanzie sociali più vitali e riducendo i membri della società palestinese a quello che Giorgio Agamben ha chiamato “homo sacer”, persone a cui può esser tolta impunemente la vita.” Nel frattempo la situazione non ha fatto che peggiorare, come Gordon aveva a suo tempo previsto nelle conclusioni: “Qualsiasi tentativo di raggiungere o d’imporre una soluzione al conflitto senza riunire il popolo palestinese con la sua terra, offrendo loro piena sovranità sul territorio, tra cui il monopolio della violenza legittima ed i mezzi di movimento, porterà alla fine a più contraddizioni, e il ciclo della violenza sicuramente riprenderà.” Quanto sta avvenendo negli ultimi due anni, caratterizzati dall’espansione della colonizzazione, da attacchi individuali dei palestinesi e da una violenza israeliana sempre più indiscriminata, sembra dargli ragione.

Amedeo Rossi è laureato in Lettere moderne ed ha frequentato il master in Storia e Scienze Sociali presso FLACSO (Facultades Latinoamericanas de Ciencias Sociales) di Buenos Aires. Ha lavorato come insegnante, con una ong torinese e dal 2000 al 2010 ha collaborato con alcuni centri di ricerca in progetti sull’immigrazione. Da qualche anno si occupa del conflitto israelo-palestinese, partecipa alle attività del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) ed è uno dei traduttori di Zeitun.info.




La Banca Mondiale avverte: la crisi idrica di Gaza ha causato danni irreversibili

di Amira Hass, 18 dicembre 2016, Haaretz

In un’intervista ad Haaretz l’esperto locale della banca avverte che, senza un maggior flusso di acqua da Israele, Gaza diventerà invivibile entro il 2020.

 

Secondo un importante esperto di risanamento idrico della Banca Mondiale un danno irreversibile è già stato arrecato a parti dell’acquifero costiero della Striscia di Gaza, in seguito all’eccessivo pompaggio e all’infiltrazione di acqua marina.

L’istituto finanziario è una tra le tante organizzazioni locali ed internazionali che negli ultimi 20 anni hanno dato l’allarme e tentato di impedire che questo accadesse.

In termini ecologici il danno all’acquifero sta peggiorando e studi hanno dimostrato un costante aumento della salinità dell’acqua”, ha detto Adnan Ghosheh. Questo avvicina la Striscia di Gaza alla situazione che le Nazioni Unite avevano previsto nel 2014: sarà inabitabile entro il 2020.

Per esprimere ancora una volta l’urgenza di rimediare alla situazione, la Banca Mondiale all’inizio del mese ha emesso un comunicato stampa in seguito al quale Haaretz ha intervistato Ghosheh.

Gran parte delle informazioni contenute nel comunicato stampa non sono nuove. Si segnala che, mentre il 90% degli abitanti della Cisgiordania e l’85% di quelli del Medio Oriente e del Nord Africa hanno accesso all’acqua potabile, solo il 10% dei circa 2 milioni di abitanti di Gaza possono bere in sicurezza l’acqua corrente nelle loro case. Il restante 90% non mette nemmeno in relazione il bere acqua con il semplice atto del girare un rubinetto: la loro acqua è troppo salata a causa dell’infiltrazione di acqua marina e troppo pericolosa a causa dei liquami o delle acque nere che penetrano nelle falde acquifere.

Nel comunicato stampa Ghosheh ha detto: “La popolazione di Gaza non può utilizzare l’acqua che arriva nelle case per bere; la usano per uso domestico, ma per bere devono contare su autobotti. Ci sono circa 150 operatori che forniscono una sorta di acqua desalinizzata, che è stata filtrata per renderla potabile e adatta a cuocere cibi. E’ più cara dell’acqua del rubinetto”, ha aggiunto, e dal punto di vista igienico non è sicura e non soddisfa gli standard relativi all’acqua potabile.

I problemi collegati all’inquinamento ed alla carenza d’acqua comprendono disturbi intestinali, gastroenterite, alti tassi di malattia tra i bambini, malattie della pelle ed altri disturbi. Pochi abitanti di Gaza hanno la possibilità di avere in casa un impianto di trattamento delle acque, mentre altri comprano acqua purificata almeno per lavare i bambini – ma non sono molti a poter sostenere questa spesa nell’impoverita Striscia di Gaza.

La Banca Mondiale afferma che la ragione della caduta del livello dell’acqua dell’acquifero è dovuta all’eccessivo pompaggio a causa della crescita della popolazione. Il comunicato stampa non cita il fatto fondamentale che Israele ha il controllo dell’acqua sia sul proprio territorio sia nei territori occupati e non riconosce il principio dell’equa distribuzione dell’acqua tra i due popoli.

Le disposizioni sull’acqua imposte ai palestinesi dagli Accordi di Oslo trattano Gaza in termini di economia idrica autarchica. Il che significa che i 2 milioni di abitanti di Gaza si devono accontentare di quella parte dell’acquifero costiero che aveva la stessa portata idrica per circa 270.000 persone nel 1949 (200.000 rifugiati e gli altri abitanti autoctoni).

La quantità di acqua annuale fornita dalla parte di acquifero della Striscia di Gaza è di circa 57 milioni di metri cubi. Gli accordi di Oslo non hanno considerato la possibilità che grandi quantità di acqua venissero fornite a Gaza da altre parti, così come vengono fornite nelle zone più aride all’interno di Israele. Invece vi è stato un pompaggio eccessivo per molti anni, per una quantità di 100 milioni di metri cubi all’anno.

Secondo un rapporto annuale dell’Autorità per l’Acqua palestinese relativo alla situazione di Gaza, nel 2015 il livello delle falde acquifere andava dai 12 metri sopra il livello del mare nella parte sud est della Striscia ai 19 metri sotto il livello del mare nella zona di Rafah – che è considerato il livello più basso.

Ghosheh ha detto ad Haaretz che secondo lui la soluzione provvisoria più veloce e sicura è portare più acqua a Gaza da Israele – anche se ha aggiunto che si tratterebbe solo di una soluzione temporanea.

Non capisco perché le due parti non procedano verso questa soluzione. Oggi Israele fornisce” – cioè vende – “circa 7.5 milioni di metri cubi d’acqua all’anno a Gaza. Stanno parlando di aumentare questa quantità fino a 20 milioni di metri cubi, ma non si vedono ancora passi concreti in questa direzione – e neanche 20 milioni di metri cubi sono sufficienti. Si deve discutere di quantità molto più grandi” che Israele venderà a Gaza, ha detto.

Ma la Banca Mondiale – insieme alla Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo e alla Banca Islamica di Sviluppo – sta lavorando soprattutto ad una soluzione che l’Autorità Nazionale Palestinese ha adottato come parte della propria strategia: un grande impianto di desalinizzazione che, secondo il piano, fornirà circa 55 milioni di metri cubi all’anno; il costo di costruzione previsto si aggira intorno ai 500 milioni di dollari. Tre impianti di desalinizzazione più piccoli sono già operativi e forniscono circa 4 milioni di metri cubi all’anno – oltre a dozzine di piccole aziende di purificazione (dell’acqua).

Ci sono opinioni differenti tra gli esperti idrici palestinesi circa la soluzione della desalinizzazione. I favorevoli sono convinti che diminuirebbe la dipendenza di Gaza da Israele. I contrari sono preoccupati dei danni ambientali; sostengono che la dipendenza ci sarà sempre per quanto riguarda l’ingresso di materiali da costruzione e parti di ricambio; e avvertono che, da un punto di vista pratico, gli abitanti di Gaza non saranno in grado di sostenere i costi da soli (l’acqua desalinizzata costa di più). Inoltre il fatto è che un impianto di questo genere richiede un impiego costante di circa 25 megawatts di elettricità – che non è chiaro da dove possano arrivare.

C’è anche chi sostiene che i palestinesi non devono rinunciare alla richiesta di un’equa allocazione delle risorse idriche del paese e quindi a richiedere ad Israele di compensare la quantità d’acqua che estrae dalla Cisgiordania per il consumo dei cittadini israeliani e per i coloni – fornendo grandi quantità d’acqua alla Striscia di Gaza.

Nel 2009 la Banca Mondiale ha pubblicato un rapporto dal titolo “Valutazione delle restrizioni allo sviluppo del settore idrico palestinese”, che descriveva in dettaglio l’iniqua distribuzione delle risorse idriche in Cisgiordania. Rispondendo alla domanda se l’ultimo comunicato stampa sia la prova che il rapporto del 2009 non è riuscito ad esercitare pressioni su Israele perché cambiasse la sua politica, Ghosheh ha sorriso. “ Lei fa domande difficili”, ha detto, aggiungendo: “Quando uno va a Gaza e vede la situazione, parla con la gente e vede quanto soffre e poi va ad un incontro nell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei Territori Occupati. Ndtr.], o dei paesi donatori o dell’Autorità Nazionale Palestinese e cerca di spiegare, capisce che non c’è relazione tra quello che vi si dice e la gravità della situazione.”

Adesso, dice Ghosheh, la Banca Mondiale sta preparando un nuovo rapporto che sarà incentrato sulla possibilità di opzioni di manutenzione e di maggiore efficienza nella gestione idrica palestinese. Secondo lui “ci sono cose che l’ANP può fare – come, ad esempio, l’efficienza. Prima che Israele iniziasse a desalinizzare l’acqua, ha cercato di ridurre la perdita d’acqua nelle tubature. Circa il 38% dell’acqua a Gaza viene perduto.”

Si è detto d’accordo sul fatto che Gaza deve negoziare per lunghi mesi con l’apparato di sicurezza israeliano per ogni grammo di materie prime o pezzi di ricambio introdotti nella Striscia, ma ha spiegato: “Lo studio viene fatto per fornire raccomandazioni non solo ai paesi donatori, ma anche agli utilizzatori,” riferendosi all’Autorità per l’Acqua palestinese ed agli enti locali. “Se vogliamo parlare di sicurezza dell’acqua dobbiamo parlare anche del contesto palestinese”, ha aggiunto.

Alla domanda se mettere l’accento sull’Autorità Nazionale Palestinese può essere visto come prendere di mira un facile bersaglio dopo che la pressione su Israele non ha ottenuto risultati, Ghosheh ha risposto: “Certo, i palestinesi sono il fattore debole dell’equazione ed è più facile ottenere un cambiamento con loro. Noi siamo un’istituzione per lo sviluppo, non un’istituzione politica. Loro possono fare dei miglioramenti al loro interno. Lo capiscono e stanno già facendo dei cambiamenti.”

La Banca Mondiale ha rinunciato a fare pressione su Israele perché modifichi la sua politica discriminatoria?

Il nostro scopo non è mai stato fare da mediatori, ma piuttosto supportare il popolo palestinese. Il nostro cliente è l’Autorità Nazionale Palestinese e noi le diamo consigli su che cosa è possibile e che cosa è impossibile.”

In altri termini, la sua conclusione è che è impossibile cambiare la politica israeliana relativamente all’ingiusta ed ineguale distribuzione dell’acqua?

Lei sta parlando di politica e questo non è il mio campo.”

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)