Territori Occupati: Abu Mazen annuncia fine accordi con Israele ma pochi ci credono

Michele Giorgio

21 maggio 2020, Nena News da Il Manifesto

Il governo Netanyahu non risponde. Scetticismo nella popolazione palestinese. Il presidente dell’Anp più volte in passato ha dato lo stesso annuncio senza far seguire passi concreti alle sue parole.

Un annuncio del genere non molti anni fa avrebbe innescato una crisi regionale, manifestazioni popolari nelle strade dei Territori palestinesi occupati e l’invio di rinforzi di truppe e mezzi corazzati israeliani in Cisgiordania. Invece le parole con cui martedì sera, al termine di una riunione dei vertici politici palestinesi, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha decretato la fine degli accordi con Israele e Usa a causa delle intenzioni del governo Netanyahu di voler annettere allo Stato ebraico la Valle del Giordano e larghe porzioni di Cisgiordania, sono state accolte tiepidamente dai palestinesi e con palese disinteresse nello Stato ebraico. «Sapete quante volte il presidente Abbas ha annunciato o minacciato l’interruzione dei rapporti con Israele, inclusa la cooperazione di sicurezza (tra le intelligence delle due parti)? Tante. E alle sue parole non sono seguite azioni concrete. La nostra popolazione non ci crede più», ci dice l’analista Hamada Jaber di Ramallah.

I vertici di Fatah, il partito guidato da Abbas e spina dorsale dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), ieri giuravano sulla sostanza del passo mosso dal presidente. «Siamo di fronte a una decisione storica» spiegava Osama Qawasme, portavoce di Fatah, «è la risposta all’attacco di Netanyahu e Donald Trump ai diritti legittimi del popolo palestinese e alle risoluzioni internazionali». Altri dirigenti di Fatah hanno usato toni simili. Hamada Jaber invece ridimensiona la portata dell’annuncio. «Lo considero più una minaccia che una decisione vera e propria» afferma «d’altronde non è passato inosservato che il presidente Abbas sia stato poco perentorio ed incisivo leggendo il suo discorso. L’intervento che pronunciò alle Nazioni unite lo scorso autunno e la sua condanna delle demolizione di case palestinesi a Wadi Hommus (a sud di Gerusalemme) erano stati molto più accesi contro Israele e gli Usa».

Fonti dell’Anp ci riferiscono che la riunione dei vertici palestinesi è stata infuocata. Alcuni dei presenti hanno invocato, a tratti alzando la voce, di tagliare ogni rapporto con Israele e di dare all’occupazione militare israeliana l’intero peso del mantenimento dei tre milioni di palestinesi. Non si è parlato di uno scioglimento delle autorità palestinesi. Tuttavia nelle pieghe del dibattito, a mezza bocca, è emerso anche un possibile ritorno al periodo precedente agli Accordi di Oslo del 1993  (tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin) e, quindi all’esistenza dell’Anp che ha sgravato Israele dall’obbligo di fornire servizi a milioni di civili palestinesi sotto occupazione e non ha conquistato l’indipendenza. In questo clima ha avuto origine l’annuncio di Abbas. Ma il presidente non cerca lo scontro. Spera che l’Unione europea, le Nazioni unite e altre parti internazionali convincano Netanyahu a frenare l’annessione, almeno fino alle presidenziali Usa di fine anno che il presidente palestinese si augura possa vincere Joe Biden, il candidato democratico. Per questo ha ribadito che la via del negoziato resta aperta. «A patto – ha spiegato – che si svolga sotto auspici internazionali (il Quartetto per il Medio oriente) e attraverso una Conferenza di pace basata sulla legittimità internazionale».

L’opinione pubblica palestinese è divisa al suo interno. Da un lato chiede una posizione più ferma nei confronti di Israele e insiste per la fine della cooperazione di intelligence. Dall’altro pur non avendo fiducia nell’Anp teme il suo smantellamento che significherebbe la disoccupazione per circa 200 mila persone e altrettante famiglie lasciate senza reddito. Nena News




Un suicidio a Gaza

Sarah Helm

26 aprile 2020Chronique de Palestine

La morte di un giovane e talentuoso scrittore palestinese ha messo in luce un forte aumento del numero di suicidi.

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Nota redazionale : questo articolo è stato scritto nel maggio 2018, quindi quasi due anni fa. Riteniamo comunque interessante proporlo ai lettori in quanto rappresenta una intensa descrizione della situazione drammatica vissuta a Gaza, in particolare dai giovani, e dei problemi anche di carattere psichiatrico derivante dall’assedio israeliano, a cui negli ultimi tempi si è aggiunto il problema della pandemia da coronavirus, di cui naturalmente questo articolo non parla.

Una notte d’agosto 2017 Mohammed Younis, uno studente di 22 anni, quando è tornato a casa in un quartiere relativamente benestante di Gaza era agitato. Era depresso, ricorda sua madre, Asma. Ma non si è troppo preoccupata quando lui si è chiuso nella sua stanza.

Scrittore talentuoso i cui racconti, per molto tempo pubblicati sulla sua pagina Facebook, avevano conquistato un ampio pubblico, Mohammed stava per conseguire la laurea in farmacia e si era garantito un voto eccellente. Nei suoi scritti esprimeva il dolore e la disperazione della sua generazione. Solo i libri gli permettevano di evadere. Spesso si isolava per leggere e scrivere o per fare esercizio con il sacco da boxe.

La mattina seguente Mohammed non si è svegliato. Quando Asma, con l’aiuto di suo fratello Assad, ha forzato la porta della stanza, lo ha trovato morto. Si era soffocato.

La popolarità di Mohammed sulle reti sociali era tale che l’annuncio della sua morte ha suscitato un’ondata di choc, tristezza e ammirazione, a Gaza e al di fuori. “Era un combattente che aveva come armi solo le sue storie tristi”, si poteva leggere tra i numerosi commenti postati su Facebook. Ma questo cordoglio pubblico seguito alla morte di un giovane scrittore di talento segnalava che il suicidio di Mohammed non era che una tragedia in più in un territorio in cui migliaia di giovani abbreviano la propria esistenza. Era ormai impossibile negare una realtà sulla bocca di molti: la sofferenza provocata dall’assedio e la disperazione riguardo al futuro, soprattutto tra i giovani talenti gazawi, comportano una preoccupante recrudescenza dei suicidi.

I terribili eventi che si sono verificati la scorsa settimana nella zona cuscinetto di Gaza hanno attirato l’attenzione di tutto il mondo sulle sofferenze e la disperazione dei palestinesi di Gaza, quando decine di migliaia di persone hanno rischiato la vita per protestare contro il loro imprigionamento dietro le barriere e i muri di Gaza. Dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, una serie di manifestazioni che sono cominciate a fine marzo 2018, sono state uccise più di 100 persone, soprattutto per mano dei cecchini israeliani schierati dietro la barriera di recinzione.

Spesso si sarebbe detto che questi manifestanti si lanciassero letteralmente contro i proiettili israeliani. All’inizio delle proteste ho discusso della zona cuscinetto con dei ragazzi che hanno confidato che non gli importava di morire. “Noi moriamo a Gaza comunque. Possiamo ugualmente essere uccisi dai proiettili”, ha affermato un adolescente accanto alla frontiera vicino alla città di Khan Younis. Era con degli amici che la pensavano allo stesso modo; uno di loro era già stato colpito ad una gamba ed era in sedia a rotelle.

Se le cineprese di tutto il mondo si avventurassero un po’ più dentro a Gaza, nelle strade e dietro le porte delle case, vedrebbero la disperazione in quasi tutte le famiglie. Dopo dieci anni di assedio, i due milioni di abitanti di Gaza che vivono ammassati in una minuscola striscia di terra si ritrovano senza lavoro, con un’economia distrutta, privati del minimo indispensabile per vivere decentemente – elettricità o acqua corrente – e senza alcuna speranza di libertà né alcun indizio che la loro situazione possa cambiare. L’assedio spezza gli animi, spingendo i più vulnerabili al suicidio, in proporzioni mai viste prima.

Fino a poco tempo fa i suicidi erano rari, in parte a causa della resilienza dei palestinesi, acquisita nel corso di 70 anni di conflitto, e anche per via di sistemi di clan solidi, ma soprattutto perché darsi la morte è proibito nelle società musulmane tradizionali. È solo quando il suicidio diventa un atto di jihad [guerra santa, anche in senso spirituale, ndtr.] che i morti vengono considerati martiri destinati al paradiso, mentre gli altri vanno all’inferno.

In quasi 30 anni di reportage da Gaza, prima del 2016 non ho quasi mai sentito parlare di suicidi. All’inizio di quell’anno, nove anni dopo l’inizio dell’assedio, una chirurga ortopedica inglese che lavorava come volontaria all’ospedale al-Shifa di Gaza mi ha informato che lei e i suoi colleghi stavano constatando un certo numero di ferite inspiegabili, provocate secondo loro da cadute o da salti da edifici alti.

Alla fine del 2016 i suicidi erano diventati così frequenti che il fenomeno ha cominciato ad essere di dominio pubblico. I dati forniti dai giornalisti locali lasciano intendere che il numero dei suicidi nel 2016 è stato almeno tre volte superiore a quello del 2015. Ma secondo gli esperti sanitari di Gaza, se i numeri riportati dai media indicano senz’altro un sostanziale aumento, essi sottostimano ampiamente il tasso reale. I suicidi sono “mascherati” da cadute o altri incidenti e le false dichiarazioni e la censura sono moneta corrente, a causa della stigmatizzazione del suicidio.

Comunque dal 2016 Gaza ha anche conosciuto un’ondata di atti di immolazione durante i quali degli uomini si sono dati fuoco in pubblico.

Non assistevamo a questo genere di eventi catastrofici da dieci anni”, afferma il dottor Youssef Awadallah, psichiatra a Rafah, città situata al confine tra Gaza e l’Egitto. I professionisti della salute mentale e i parenti dei defunti accusano gli effetti dell’assedio che, secondo loro, è molto più dannoso per il benessere – mentale e fisico – della popolazione delle continue guerre. I medici di Gaza avvertono che il prolungato assedio del territorio ha provocato un’“epidemia” di problemi mentali di cui il crescente numero di suicidi non è che un aspetto – in particolare si riferiscono all’aumento dei casi di schizofrenia, di sindrome da stress post-traumatico, di tossicodipendenza e di depressione. Per la prima volta l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha cominciato a verificare eventuali tendenze suicidarie in tutti i pazienti sottoposti a cure sanitarie primarie, in seguito a ciò che viene descritto come “un aumento senza precedenti” di decessi.

Uomini e donne di tutte le età e di tutti gli strati sociali sono vulnerabili alle pulsioni suicide, affermano alcuni medici di Gaza. In uno stesso giorno di marzo, una ragazzina di15 anni e un ragazzo di 16 si sono impiccati. Tra le vittime ci sono uomini disperati perché non possono sopperire alle necessità della famiglia, donne e bambini vittime di maltrattamenti, spesso in situazioni di povertà estrema e di sovraffollamento ed anche donne incinte che affermano di non voler mettere al mondo figli a Gaza. In aprile una donna incinta di sette mesi si è tagliata le vene.

Tra i maggiormente vulnerabili si trovano gli studenti più brillanti di Gaza, alcuni dei quali si sono suicidati appena prima o poco dopo aver conseguito il diploma. In marzo, mentre intervistavo a casa sua un uomo d’affari fallito, ho visto la fotografia di un uomo dall’aspetto intelligente, con gli occhiali, messa ben in evidenza – al punto che ho creduto che si trattasse di un “martire” ucciso durante un conflitto. Ma il suo ritratto non presentava nessuna delle iconografie simili ai poster dei martiri che si possono vedere dovunque a Gaza. Avevo un interprete con me e lui ha riconosciuto la foto: il figlio dell’uomo d’affari era uno dei suoi amici più brillanti all’università. “Si è impiccato, ha confidato l’uomo d’affari. Non vedeva futuro a Gaza.”

Qualche mese prima delle impressionanti scene di massacri che hanno accompagnato la Grande Marcia del Ritorno, la storia di Mohmmed Younis aveva particolarmente catturato l’attenzione. Non solo perché la sua scrittura, con le sue rappresentazioni creative della vita a metà dei gazawi, suscitava ammirazione, ma anche perché dopo la sua morte alcuni hanno iniziato a descriverlo come un martire. “È più che un martire”, ha affermato sua madre.

Secondo alcuni suoi amici ha combattuto il nemico con la penna ed è morto in quanto vittima dell’assedio. Alla sua morte, Mohammed è stato anche affettuosamente onorato per il suo coraggio ed i suoi scritti da parte di molti suoi fan sulle reti sociali e anche dal Ministro della Cultura palestinese Ehab Bseiso in un elogio funebre. Membro dell’Autorità Nazionale Palestinese laica al potere in Cisgiordania, Bseiso è parso lasciar intendere di considerare Mohammed come un martire, affermando che non aveva “bisogno di scusarsi per la sua precoce dipartita”. Le sue storie non saranno mai dimenticate, ha aggiunto: “Tu resterai uno dei giganti del nostro tempo, Mohammed.”

Ma questa discussione sul “martirio” di Mohammed ha diffuso la paura a Gaza, soprattutto tra i genitori che temono che i loro figli facciano lo stesso, se pensano di poter evitare l’inferno. “Vediamo i nostri figli a scuola e all’università impegnarsi duramente ed essere impazienti di entrare nel mondo, trovare un lavoro ed essere normali – poi più niente”, mi ha confidato il padre di due laureati. “Se il suicidio deve essere considerato una morte “nobile”, altri potrebbero intraprendere questa strada. È molto pericoloso.”

Forse lo stesso Mohammed si è chiesto se potesse essere considerato un martire. In “Il martire sconosciuto”, un racconto pubblicato postumo in una raccolta intitolata “Foglie d’Autunno”, parla di un corpo non identificato portato all’ospedale al-Shifa, dove delle famiglie cercano di identificarlo. “Mi riconosceranno?” si chiede il narratore.

Uno dei luoghi di lettura preferiti da Mohammed era il caffè del giardino dell’hotel Mama House, in un angolo tranquillo del quartiere alberato di Remal a Gaza. Mama House è da tempo uno degli hotel preferiti dai visitatori stranieri che spesso regalano dei libri alla sua biblioteca – un’altra attrattiva per Mohammed che, con l’assedio di Gaza, faticava a trovare libri per soddisfare la sua sete di lettura.

Quando studiava all’università al-Azhar che si trova nei pressi, si poteva scorgere Mohammed con il suo fisico alto e magro tra la folla di studenti che si riversavano nelle strade di Gaza dopo i corsi. Evitando le automobili, i cavalli e i carri, si allontanava dalla folla – a volte per andare nella farmacia dove lavorava a tempo parziale, o in un bar, spesso quello del Mama House. Ordinando un caffè, si sedeva in un angolo tranquillo, si accendeva una sigaretta, ricaricava il suo cellulare e cominciava a scrivere delle storie.

Con due ore di elettricità al giorno, collegare un apparecchio [alla rete elettrica] è un lusso a Gaza. Però Mama House dispone di un generatore, come la maggior parte dei luoghi che hanno una clientela di professionisti. Medici, giornalisti e insegnanti ci vanno per socializzare, fare un tiro di narghilè o guardare il Barcellona sul grande schermo.

Pochi studenti avevano i mezzi per poter andare al Mama House; figlio unico, Mohammed era “viziato” da sua madre, gli dicevano gli amici per prenderlo in giro. Ma i suoi amici, i suoi professori e i clienti della farmacia avevano tutti di lui l’immagine di “un bravo ragazzo, un ragazzo gentile” e di “un ragazzo triste”.

Alcuni hanno anche visto le cicatrici sui suoi polsi, segni di precedenti tentativi di suicidio. Le sue storie indicavano che era come tutti gli altri ragazzi di Gaza, in quanto descriveva i loro sentimenti con tanta eloquenza. In una di queste ha scritto: “Quando si vive in una casa che si ama e che non si lascia, non ci sono problemi, ma se si è rinchiusi in casa contro la propria volontà, ci si sente paralizzati e disperati.”

Ha scritto della propria tristezza. I suoi genitori hanno divorziato quando era un bambino e Mohammed si è sentito rifiutato dal padre. I suoi lettori potevano ben comprendere questo dolore, perché tutte le famiglie di Gaza sono spezzate: per la maggior parte hanno avuto dei membri uccisi nel conflitto e molte sono state separate da anni di esilio o smembrate dal carcere. Migliaia di palestinesi sono oggi rinchiusi nelle prigioni israeliane.

Gran parte dei lettori era femminile: le donne erano attratte dalla sua malinconia particolare. “Poteva scrivere dell’assurdità della vita di tutti noi – l’umiliazione come la tragedia. Sapeva che questo posto era sbagliato”, ha detto una ragazza che conosco, che è fuggita in Egitto attraverso i tunnel per ottenere una borsa di studio americana. “È normale”, ha detto ridendo.

È così”, lamenta Mustafa alAssar, un gazawi di 17 anni che vuole studiare diritto internazionale, cosa impossibile perché non ci sono corsi di questo tipo a Gaza e lui non può andarsene. “Ci si rende improvvisamente conto che non si può essere la persona che si vorrebbe, a Gaza. E non si può far vedere chi si è a nessuno fuori, perché non si può uscire. Dunque non si può essere la persona che si vuole essere.”

Mohammed non era arrabbiato: piuttosto, era caduto nel comune stato di disperazione. Non avrebbe mai lanciato pietre, non più della maggior parte dei suoi coetanei. “Perché farlo? Per farsi sparare addosso? A chi importerebbe?”, si chiederebbero.

L’eroe di Mohammed era Bassel al-Araj, un leader del movimento della gioventù in Cisgiordania, che promuoveva la protesta pacifica, portava in visita i suoi compagni in luoghi simbolici della resistenza palestinese e parlava loro della storia della resistenza. Come Mohammed, al-Araj era scrittore e farmacista. “Andava pazzo per al-Araj”, mi ha detto un amico di Mohammed.

Prima di tornare a casa, Mohammed andava a vedere i nuovi doni fatti alla biblioteca di Mama House, sfogliando ‘Una lunga strada verso la libertà’ di Nelson Mandela, o un volume usurato di Agatha Christie.

In mezzo ai titoli di romanzi polizieschi c’erano alcune opere meno letterarie: copie polverose di rapporti dell’ONU su Gaza. Se Mohammed ne avesse preso uno, avrebbe trovato un’analisi del 2002 su un’ondata di attentati suicidi con le bombe avvenuti nei mesi più sanguinosi della seconda Intifada. Secondo Eyd Sarraj, un carismatico psichiatra di Gaza che nel 1990 ha fondato il programma comunitario di salute mentale di Gaza, gli attentati suicidi proliferavano per via della sensazione che la disperazione non smetteva di peggiorare, il che produceva “una situazione di sofferenza in cui la vita non è diversa dalla morte.”

Da bambino adorava ascoltare delle storie”, racconta Asma, la madre di Mohammed, seduta nel salotto della casa di famiglia. Tra le case in fondo alla strada si poteva scorgere appena un lembo di mare a forma di triangolo. I suoi nonni gli raccontavano le storie più belle su Jura, un vecchio e prospero villaggio di pescatori dove la famiglia aveva vissuto per secoli.

Durante la guerra arabo-israeliana del 1948 che ha portato alla creazione dello Stato di Israele, la famiglia di Mohammed, come più di 750.000 altri palestinesi, è stata cacciata dalla sua casa e non è mai stata autorizzata a tornare. Il villaggio di Jura, da tempo distrutto da Israele, si trova oggi sotto l’enorme porto di Ashkelon, che si può vedere dalla spiaggia sottostante la casa di Mohammed.

Io gli parlavo dei nostri aranceti, della nostra festa, di quando io correvo e nuotavo tra le onde”, racconta Modalala, la nonna di 88 anni, che indossa un foulard giallo vivo. Asma è seduta accanto a lei, vestita di nero. Il nonno di Mohammed gli parlava del proprio padre, che è cresciuto quando la Palestina faceva ancora parte dell’impero ottomano – gli ha raccontato che era molto colto, lavorava alla corte del sultano e viaggiava all’estero. “Ha detto a Mohammed che voleva tornare al suo villaggio prima di morire, ma è morto a Gaza e questo ha molto rattristato Mohammed.” In seguito Mohammed ha scritto di Jura e di “un ragazzo dai capelli d’oro che faceva dei salti per arrivare alla finestra e vedere il mare.”

Penso che il fatto di ascoltare delle storie e più tardi scriverle fosse il suo modo di sopportare la tristezza”, afferma sua madre. Suo zio Assad, che ha contribuito alla sua educazione, aggiunge che era altrettanto bravo in matematica: “Gli piaceva risolvere i problemi. Ha sempre voluto fare le cose da sé, sperimentare.”

Nei primi anni della vita di Mohammed la Palestina viveva una grande esperienza. È nato nel 1994, quando si sono visti i primi frutti degli accordi di pace di Oslo. Questi, firmati in pompa magna nel 1993, intendevano porre fine progressivamente all’occupazione da parte di Israele delle terre conquistate nel 1967 – Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est –, sulle quali i palestinesi avrebbero dovuto costruire una specie di Stato.

Ma Oslo non pose rimedio alle ingiustizie del 1948. È uno dei motivi per cui l’accordo non ricevette un’accoglienza unanimemente positiva, soprattutto a Gaza, dove si trova la maggior concentrazione di rifugiati del 1948. Quasi tutti erano agricoltori le cui terre e case furono confiscate da Israele durante la guerra o appena dopo, mentre i loro raccolti e altre proprietà furono depredati. I villaggi arabi furono ripopolati da immigrati ebrei o distrutti. Su due milioni di palestinesi che vivono oggi a Gaza, 1,3 milioni sono rifugiati o discendenti di coloro che fuggirono qui nel 1948, il cui diritto al ritorno è sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

Nonostante le sue lacune, Oslo offriva qualche speranza di pace. In gran parte per il bene della generazione successiva, l’accordo venne recepito anche a Gaza, dove sui muri apparvero delle colombe al posto dei ritratti dei martiri. Nel 1998 a Rafah, nel sud, dove viveva allora la famiglia di Mohammed, venne aperto un aeroporto con la cupola dorata, una meraviglia agli occhi di un bambino. Ma nel giro di tre anni le cupole vennero sepolte sotto le macerie, distrutte dalle bombe israeliane. Quando Mohammed aveva 5 anni l’esperienza di Oslo si stava sgretolando, perché si era concretizzata una parte minima dei cambiamenti promessi. Questo tradimento alimentò il sostegno all’organizzazione militante islamica di Hamas, rivale del movimento laico di Fatah, che aveva appoggiato Oslo.

Recandosi a piedi a scuola, Mohammed passava davanti ai manifesti di una nuova generazione di “martiri”. Si trattava di kamikaze, molti dei quali erano stati reclutati a Rafah, su ordine del fondatore e ideologo di Hamas Ahmed Yassin, nato a Jura come i nonni di Mohammed. Yassin sosteneva che i kamikaze sarebbero andati in paradiso. Ma quando Israele si vendicò, una gran parte di Rafah venne rasa al suolo.

Quando chiedo alla madre di Mohammed come spiega Gaza ad un bambino, lei risponde che non c’è niente da spiegare: “I bambini lo vedono da soli. I posti di controllo, i bombardamenti, le incursioni nelle case – imparano che è così per tutti noi.”

Nel 2004, quando aveva 10 anni, molti membri della generazione post-Oslo tiravano nuovamente le pietre, come avevano fatto i loro padri. Ma Mohammed preferiva i suoi studi alla strada. Nel 2005, con l’intensificarsi dell’attività militante di Hamas, Israele ritirò il suo esercito e i suoi coloni da Gaza e ridispiegò le sue forze ai confini, dove era in costruzione un muro di separazione perché il nemico fosse più difficile da vedere. C’erano droni in cielo e cannoniere al largo del mare.

Nel 2006, quando le speranze di pace continuavano a indebolirsi, Hamas vinse le elezioni legislative per un autogoverno limitato in Cisgiordania e a Gaza. I suoi avversari di Fatah rifiutarono di riconoscere la vittoria di Hamas, dando luogo ad una guerra civile tra Hamas e Fatah durante la quale vennero uccisi centinaia di palestinesi. Quando Hamas infine prese il potere nel 2007 – mentre Fatah restava al governo in Cisgiordania – Israele definì Gaza “un’ entità terrorista”. Nei mesi seguenti impose un assedio che devastò la già debole economia di Gaza. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea appoggiarono Israele con un boicottaggio politico di Hamas.

Gaza è ormai isolata dal mondo esterno mentre Israele blocca la circolazione delle persone, del carburante e dei viveri – tutto, tranne un minimo aiuto umanitario – attraverso le frontiere. Anche il valico a sud verso l’Egitto a Rafah venne chiuso quando il presidente egiziano Hosni Mubarak, anch’egli desideroso di arginare i radicali islamici, si alleò con Israele. E’ dentro questo soffocamento che Mohammed Younis, ancora adolescente, ha trovato la voce per raccontare al mondo che cosa sia la vita dietro muri di prigione sempre più alti.

Mohammed aveva 13 anni quando iniziò l’assedio. La sua famiglia lasciò Rafah, alla frontiera sud di Gaza, per sistemarsi a Gaza City, che sua madre riteneva più sicura e con maggiori alternative in termini di scelta della scuola per Mohammed, che leggeva e scriveva sempre di più. Il suo talento venne scoperto per la prima volta al Centro Qattan, un’organizzazione benefica per i ragazzi di Gaza, dove vinse il primo premio in un concorso di scrittura.

Molti dei suoi primi racconti evocano un luogo strano e sinistro, che lui nomina raramente, ma che riconosciamo come Gaza. In un racconto intitolato “Geografia” il narratore si descrive come un animale in gabbia, che “perlustra ogni centimetro delle frontiere di Gaza.” A volte compaiono dei fantasmi e lui si chiede se la morte li abbia liberati o se “anche la morte li abbia incatenati.”

Le voci narranti di Mohammed sono consapevoli di essere imprigionate non soltanto dai muri, ma anche dalla sorveglianza. In un racconto, delle spie israeliane con nomi di copertura come ‘Abu Saleh’ convincono adolescenti a tradire persone che verranno poi uccise. “Volete che io denunci mio fratello?”, chiede un ragazzo ad un agente israeliano che lo ha chiamato al telefonino. “Il telefono suona di nuovo, lo schermo non smette di lampeggiare. Viene voglia di gettarlo a terra perché si rompa in mille pezzi, ma non ci si può impedire di raccoglierlo.”

Un’altra voce narrante arriva ad un posto di controllo dove “cadono dal cielo ghigliottine”, un’immagine che evoca le bombe israeliane lanciate durante l’attacco militare del 2008-2009, che uccise 1.400 palestinesi. Fu probabilmente dopo questo attacco che i dirigenti di Hamas nella locale moschea chiesero a Mohammed di partecipare ad un seminario. Hamas ha sempre ottenuto un appoggio popolare grazie alla sua azione di assistenza, venendo in aiuto alle necessità e attraverso programmi sociali, come anche istituendo scuole e seminari.  

Da adolescente Mohammed non era particolarmente religioso, spiega sua madre. Ma credeva in dio e voleva saperne sempre di più su che cosa ciò significhi, sulla vita dopo la morte.” Un ragazzo con uno spirito così vivace e curioso doveva rappresentare una recluta ideale e la sua famiglia era nota ai dirigenti di Hamas. Oltre al suo fondatore, lo sceicco Yassin, anche la famiglia del dirigente politico di Hamas Ismail Haniyeh è originaria di Jura. Secondo un amico, il motivo principale per cui questi militanti volevano che Mohammed si unisse a loro era che lui era “intelligente e curioso”. “Volevano che diventasse uno di loro – uno dei loro eroi, costruttore di armi come Yahia Ayache.” Soprannominato ‘l’ingegnere’, Ayache fabbricava bombe per Hamas e venne assassinato da Israele nel 1996.

Mohammed un giorno tornava con la barba e diceva : ‘Sono di Hamas’, racconta suo zio Assad. Ma un altro giorno diceva: ‘Sono della Jihad islamica’. Stava solo sperimentando. Si faceva le sue idee per conto suo, poi le abbandonava.”

Parecchi abitanti di Gaza che avevano votato Hamas nel 2006 cominciarono presto ad avere dei dubbi. I lanci di razzi degli islamisti contro Israele erano sempre ampiamente approvati a Gaza, come anche la rete di tunnel che avevano costruito sotto il confine sud con l’Egitto e che ha consentito al commercio clandestino di attenuare i peggiori effetti del blocco.

Ciononostante, qualche anno dopo, per molti risultò evidente che gli odiosi attentati suicidi perpetrati durante la seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005, avevano pregiudicato la causa palestinese. E sotto Hamas la vita a Gaza tornò rapidamente all’ oscurantismo culturale. Vennero imposti rigidi codici islamici, in particolare la chiusura di teatri e cinema, la privazione delle libertà per le donne conquistate a caro prezzo – l’uso del velo venne reso quasi obbligatorio – ed altre restrizioni sociali repressive. Per alcuni il governo di Hamas iniziò ad apparire come un assedio all’interno di un assedio.

Quando Mohammed si preparava all’università trovò la sua libertà nella lettura e nella scrittura. Imparò l’inglese da solo nella speranza di studiare letteratura inglese, e benché sua madre lo avesse convinto a studiare invece farmacia – essendo migliori le prospettive di lavoro – la letteratura rimase il suo primo amore.

Trovare dei libri era difficile; spesso il modo migliore era farli entrare clandestinamente attraverso i tunnel. “Era molto riservato riguardo ai suoi libri e li conservava nella sua stanza”, racconta Asma, che ci propone di farci vedere la stanza dove Mohammed passava il tempo e che lo ha visto morire.

Non è cambiato nulla dopo la sua morte”, dice Asma aprendo la porta di una cameretta con un letto e una scrivania sulla quale troneggiano trofei di scrittura che aveva vinto. Ci sono dei peluche su una sedia, un guantone da boxe. Asma prende dall’armadio una toga: ha presenziato alla cerimonia di consegna della laurea a Mohammed in vece sua, due mesi dopo la sua morte.

Quando apriamo un armadio a muro ne esce una cascata di libri. Ci sono dei romanzi – Dostoevskij, Dickens – e libri di filosofia – un’introduzione a Wittgenstein, Hegel, ‘La magia della realtà’ di Richard Dawkins. Tra i drammaturghi troviamo Euripide, Eugène Ionesco, Terence Rattigan e Arthur Miller. Si scorge la ‘Storia del sionismo’, posata sopra libri di Che Guevara e Charles Darwin. Per la maggior parte sono delle traduzioni in arabo, altre in inglese. Può darsi che Mohammed abbia letto ogni pagina di questa ampia raccolta, o forse gli piaceva semplicemente possederla, difficile saperlo. Resta comunque il fatto che, seduto tra queste quattro mura in compagnia di George Bernard Shaw, Sofocle e Mahmoud Darwish [il più importante poeta della letteratura palestinese, ndtr.], riusciva ad uscire dai muri di Gaza e a mettersi in contatto con un mondo più vasto.

Quando entra nella stanza sua nonna Modalala cominciamo a guardare i libri sull’altro scaffale, in particolare ‘Umiliati e offesi’ di Dostojevsky. Modalala prende una foto di suo nipote.

Torniamo nel salone illuminato dal sole, di fronte al mare, quando Asma inizia a pregare. Chiedo a Modalala perché secondo lei Mohammed si sia suicidato. “Non ci sono spiegazioni,  risponde. “Gli avevo detto: ‘Presto morirò’. E lui mi aveva risposto: ‘No, non farlo.’ Mi aveva confidato che voleva sposare una ragazza e io sapevo che era innamorato di lei. Quel giorno era gentile e bello. Gli avevo fatto da mangiare io, perché sua mamma stava digiunando. Gli avevo fatto un caffè, uno per me e uno per lui, avevo messo del miele nel suo e glielo avevo portato in camera. Lì si sentiva al sicuro.”

Vista da qui, anche la spiaggia di Gaza sembra un luogo sicuro per fare un picnic o organizzare una festa di matrimonio in un capanno dipinto e adornato con colori vivaci. Ma le cannoniere israeliane incrociano al largo delle coste e la sabbia di Gaza è imbevuta del sangue della famiglia Younis.

Mia nonna è stata uccisa proprio là, in groppa ad un asino”, racconta Modalala mostrando col dito la spiaggia dove da bambina lei e la sua famiglia vennero bersagliate dalle bombe israeliane mentre nel 1948 fuggivano da Jura verso il sud. Durante la guerra del 2014 quattro bambini di Gaza furono uccisi mentre giocavano sulla sabbia, non lontano di là.

La guerra del 2014 è stata la più devastante delle tre offensive israeliane che Mohammed ha conosciuto. Vennero uccisi più di 2.200 palestinesi ,di cui almeno 500 minori. Ormai lui scriveva sempre più di morti, riconoscendo a volte una certa sicurezza nella morte, e scriveva a proposito di “senso di perdita e di sicurezza, della fuga e della ricerca di un rifugio e della sopravvivenza nell’ annegamento, di semplici idee di suicidio”. Ma come molti altri, nello choc seguito al bombardamento, vide dei motivi di speranza.

La vastità delle distruzioni nel 2014 fu tale che il mondo iniziò a prestarvi attenzione. Gli avvocati palestinesi dei diritti umani speravano di poter perseguire Israele per crimini di guerra. Il Segretario Generale dell’ONU dell’epoca, Ban Ki-moon, dichiarò che l’assedio doveva cessare e che il mondo doveva pagare per la ricostruzione delle case, dei serbatoi e delle fabbriche di Gaza. Il popolo aveva già cominciato: vidi dei ragazzi arrampicarsi su muri di calcestruzzo pericolanti e riempire di pietre un carretto trainato da un asino. Dissodavano i loro frutteti per ripiantare alberi di clementine e ricostruivano la loro fabbrica di succhi bombardata.

Alla luce di questa attenzione mediatica mondiale, migliaia di apprendisti giornalisti di Gaza colsero l’occasione per diffondere al mondo esterno il loro racconto in diretta dalle macerie. Studenti che avevano ottenuto borse di studio in università straniere stavano agli angoli delle strade nella speranza di sapere se erano stati aperti i valichi per potersi affrettare a scappare e prendere il posto che spettava loro. Mohammed si iscrisse al centro culturale francese sperando di poter studiare letteratura a Parigi.

Ma un anno dopo le clementine erano morte e il proprietario della fabbrica di succhi sedeva accanto ad una scatola di cibo dell’ONU. Più dell’80% della popolazione dipende ormai dagli aiuti alimentari.

Dietro le porte chiuse, soprattutto laddove i bombardamenti del 2014 erano stati pesanti, vidi vite distrutte. Una giovane madre aprì un armadio di giochi colpito da una granata. Mi guardava mentre si rovesciavano dei pezzi rotti. Un giovane uomo stava seduto davanti ad uno schermo spento durante le lunghe ore senza elettricità. Ed il mondo aveva nuovamente voltato le spalle a Gaza.

Per la prima volta, dopo tutti questi anni di reportage da Gaza, incontrai ragazzini che chiedevano l’elemosina, sentii parlare di prostituzione e vidi tracce di tossicodipendenza e di violenze domestiche generalizzate, spesso in case dove in una stessa stanza vivevano fino a dieci persone. Dai bombardamenti del 2014 non sono state risistemate in altri alloggi. In mezzo a questa devastazione, ci sono prove che lo Stato islamico ottenga sempre maggior sostegno. Un gruppo di militanti islamici ha lanciò un ordigno esplosivo sul centro culturale francese dove studiava Mohammed.

I media internazionali si sono disinteressati della questione, a parte occasionali previsioni di una nuova Intifada. Quando ho chiesto a dei ragazzi del campo profughi di Jabaliya – dove è iniziata la prima Intifada – se questo fosse possibile, hanno fatto una gran risata, dicendo che il muro era più alto ed era stato prolungato fin sottoterra per bloccare i tunnel. Nessuno poteva più resistere. Ho chiesto se potesse apparire in Palestina un nuovo Mandela. “Se ci fosse, gli israeliani lo ucciderebbero”, ha risposto uno di loro.

Nel marzo 2017 l’eroe di Mohammed, Bassel al-Araj, scrittore e vecchio difensore della resistenza nonviolenta, è stato ucciso dalle truppe israeliane. È stato riconosciuto come “martire istruito”.

Sono tanti quelli che sono stati disgustati dall’incapacità dei dirigenti di Hamas e di Fatah di promuovere la causa palestinese, o almeno migliorare la vita dei comuni palestinesi – erano troppo occupati a litigare tra loro mentre l’assedio di Gaza si inaspriva. A proposito degli israeliani Mohammed ha scritto: “Almeno loro rispettano il proprio popolo, mentre noi, noi facciamo a pezzi il nostro. Ma loro ci hanno cacciati dalle nostre terre!” In uno dei suoi racconti, un ragazzo “lancia orgogliosamente una pietra contro un posto di controllo”, ma lascia perdere e torna a casa “per proseguire qui la sua eterna maledizione.”

Come i giovani tedeschi che sono morti scavalcando il muro di Berlino, i giovani palestinesi che sono morti cercando di fuggire in barca “tentavano di raggiungere delle città in cui la libertà è una scelta, non un regalo.”

Nella primavera ed estate del 2017 alcuni medici mi hanno riferito di altri suicidi camuffati da incidenti. I medici vedevano non soltanto persone che si buttavano giù dagli edifici, ma anche vittime di quelli che sembravano incidenti automobilistici deliberati e annegamenti che forse non erano accidentali. Pazienti che presentavano ferite da coltello dicevano di essere stati feriti nel corso di una “rissa”. Ho sentito testimoni parlare di individui disperati che erano entrati nella zona cuscinetto nella speranza di essere uccisi. Una ragazza che conosco mi spiega che si è fatta un’overdose perché non voleva sposarsi o crescere dei figli a Gaza.

Gli spiriti più resistenti vanno in pezzi. “Gli abitanti di Gaza vogliono vivere, ma non possono”, afferma il dottor Ghada al-Jadba, direttore dei servizi sanitari dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi.

Youssef Awadallah, direttore del centro di salute mentale di Rafah, getta la testa all’indietro, fingendo di affogare. “Si soffoca. In realtà siamo in trappola, non in stato d’assedio”, butta lì, prima di battere le mani. “Come in Tom e Jerry”.

Ritiene che l’aumento del numero di suicidi si inserisca nel quadro di una crisi molto più vasta della salute mentale a Gaza. Secondo l’UNICEF circa 400.000 minori sono traumatizzati e necessitano di un sostegno psicosociale. La dipendenza dai farmaci, soprattutto da analgesici potenti, è diffusa. “Gli israeliani lo sanno”, dice Awadallah. “La guerra attuale mira a spezzare così la nostra resilienza, non la nostra resistenza.”

I servizi di salute mentale di Gaza, ancora precari, sono stati paralizzati dall’assedio. “L’altro giorno un uomo ha ucciso sua madre perché pensava che lo spiasse,” racconta Awadallah. “Un altro ha detto che gli israeliani gli avevano messo un dispositivo di sorveglianza nella testa. Ma noi che cosa possiamo fare? Non abbiamo né farmaci, né letti, né psichiatri.” Ricorda un altro caso in cui un uomo ha pugnalato i suoi figli prima di darsi fuoco: “Quando un uomo non può sopperire alle necessità della sua famiglia, soffre. Se arriva al punto di darsi fuoco, soffre talmente tanto che per lui non ha più importanza andare all’inferno.”

Allargando le mani, Awadallah spiega perché i giovani e i più intelligenti fanno parte degli individui più propensi a suicidarsi. “La distanza tra le loro aspirazioni e le reali possibilità è maggiore che per la maggior parte delle persone comuni e le aspettative nel futuro per cui si sono preparati ma che non potranno raggiungere diventano impossibili da sopportare.”

Durante l’estate del 2017 tutti a Gaza sembravano in attesa di qualcosa. I pazienti malati di cancro aspettavano di sapere se potessero partire per sottoporsi ad un intervento chirurgico d’urgenza “all’estero”. I luoghi per i matrimoni in riva al mare, dipinti con colori vivaci, aspettavano che le coppie avessero il denaro per sposarsi. Tutti aspettavano la corrente elettrica.

Raji Sourani, direttore del Centro palestinese per i diritti umani, aspettava di sapere se le accuse di crimini di guerra sarebbero state ascoltate, ma perdeva la speranza. “Nessuno parla dell’occupazione. Nessuno parla delle vittime che vivono sotto occupazione – è Israele che viene considerato la vittima e che bisogna proteggere contro di noi. È una situazione kafkiana”, ha affermato all’epoca.

Nella sua stanza, Mohammed aspettava dei nuovi libri. Nell’elenco c’erano ‘Il processo’ di Kafka e Amleto.

Mohammed parlava di suicidio. Tuttavia era chiaro che aveva ancora speranze, perché parlava anche di fidanzarsi. I fidanzamenti e i suicidi sembravano a volte andare in parallelo: il produttore tessile in fallimento il cui figlio si era impiccato mi ha confidato che quest’ultimo doveva sposarsi la settimana successiva. E Mohammed era sicuramente innamorato, afferma sua madre: “Si vedeva bene che lo era”. Ha scritto riguardo ad un matrimonio a Jura, una prosa impregnata di un senso di perdita sia per il suo vecchio villaggio che per il suo futuro matrimonio, forse perché non poteva più sopportare il dolore della “moltitudine di contraddizioni che esplodono nella testa.”

Nei suoi ultimi scritti Mohammed è attratto dal dolore degli altri, riscontrandolo laddove è più acuto o più nascosto. Parla di un padre la cui figlia sta morendo in un luogo lontano e il quale confida: “Il senso di impotenza adesso mi uccide ogni giorno”.

Si sofferma anche sull’umiliazione dei posti di controllo, dove un viaggiatore viene portato in “un posto segreto simile ad una cella di prigione, senza alcuna forma di vita (…) dove essi sono rinchiusi semplicemente perché sono palestinesi. Perché le capitali e gli aeroporti sono preclusi ai palestinesi?”

Uno degli ultimi scritti di Mohammed era una pièce teatrale intitolata ‘Fuga’. Poco prima della sua morte aveva fatto un ultimo tentativo di scappare. Sua madre spiega che era stato accettato per studiare letteratura alla prestigiosa università ebraica di Gerusalemme, ma aveva scoperto che a causa della politica israeliana poteva aspettarsi di vedersi rifiutare il permesso di uscire da Gaza.

Perciò Mohammed lottava contro la disperazione e “cercava la bellezza”, anche se aveva comunicato ai suoi lettori che ascoltava ‘Komm, suber Tod, komm selge Ruh’ (‘Vieni dolce morte, vieni felice riposo’) di Bach. Anche quando è entrato nella sua stanza l’ultima sera ed ha chiuso la porta a chiave, forse Mohammed non era sicuro di compiere quel gesto. La posizione del suo corpo ha indotto suo zio Assad a credere che Mohammed avesse cambiato idea all’ultimo istante, ma era troppo tardi.

Nelle settimane e nei mesi precedenti la morte di Mohammed la sua disperazione è stata probabilmente aggravata dalla presa di coscienza che i suoi scritti non avrebbero mai potuto cambiare niente: ai suoi occhi il discorso palestinese era gestito da stranieri. Il suo suicidio è avvenuto poco tempo prima che Donald Trump riconoscesse Gerusalemme come capitale di Israele e rimettesse in discussione il diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alle loro case.

Uno degli ultimi racconti di Mohammed si intitolava ‘La balena che ha bloccato la mia porta con la coda’. La voce narrante fa un sogno ricorrente nel quale delle balenottere lo vanno a trovare e tentano di suicidarsi. Si sveglia e si chiede perché le balene decidano di morire. Si risponde: “Sembra che le balene si suicidino quando perdono il senso dell’orientamento, quando non sanno più dove andare.”

Quando chiedo a Awadallah se considera Mohammed un martire, lui riflette un momento e sorride, spiegando che la disperazione di Mohammed gli ha provocato una grave malattia mentale e che è a causa di questa malattia che si è suicidato. A questo proposito, Awadallah spera che Allah si mostri benevolo verso Mohammed e gli permetta di andare in paradiso e non all’inferno.

Gli chiedo che cosa si sarebbe potuto fare per evitare il suicidio di Mohammed.

Niente,” risponde. “A parte nascere in un luogo diverso da Gaza.”

Questo articolo è stato modificato l’11 giugno 2018 per chiarire il riferimento all’impossibilità per Mohammed Younis di uscire da Gaza per studiare.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La battaglia persa di Israele: il sostegno per la Palestina nelle università

Hatem Baziam

21 Aprile 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Palestine Legal [organizzazione indipendente impegnata nella difesa dei diritti dei palestinesi negli Stati Uniti, ndtr.] ha recentemente pubblicato un rapporto in cui rileva che la maggior parte delle azioni repressive nei confronti delle attività di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti è rivolta contro studenti e docenti. Nel dettaglio, tali episodi si sono verificati nei campus universitari per l’89% nel 2014 e per il 74% nel 2019. Mentre queste statistiche mettono in luce l’attuale battaglia che i sostenitori dei diritti dei palestinesi stanno affrontando nelle università, è anche fondamentale delineare lo sviluppo del sostegno per la Palestina nei campus universitari statunitensi. Tracciare quest’arco di 20-30 anni di storia consente una migliore comprensione non solo di come siamo arrivati a questo punto, ma anche dell’attuale crescente fenomeno delle campagne contro studenti e facoltà – e di come contrastarlo.

Questa testimonianza prevede innanzitutto un esame storico sul movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti e su come da esso si sia sviluppato il sostegno nei confronti dei palestinesi nei campus universitari, citando come esempio particolare Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina, ndtr.]. Analizzerà quindi la risposta di Israele e dei suoi sostenitori a questo fenomeno. L’ articolo, in definitiva, offre delle indicazioni su come il contesto universitario, nonostante gli attacchi, possa continuare a costituire e persino amplificare un clima che promuova la ricerca critica e il pensiero sulla Palestina, che a sua volta favorisca la lotta per i diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nascita del movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti

Il movimento per i diritti dei palestinesi negli Stati Uniti è cresciuto contemporaneamente ad altre battaglie globali, in particolare quelle contro il regime di apartheid sudafricano, contro l’intervento americano in America Centrale e contro l’attacco americano all’Iraq nella prima guerra del Golfo. Negli anni ’80 furono simultaneamente avviate campagne politiche interne, in particolare contro i tagli dell’amministrazione Reagan all’educazione, alla sanità e all’ambiente, così come contro la sua discutibile guerra alla droga, con il supporto del Comprehensive Crime Control Act del 1984 [la prima revisione complessiva del Codice Penale negli Stati Uniti dai primi anni del xx secolo, ndtr.], che ampliò il complesso industriale carcerario e promosse la criminalizzazione di massa di neri e ispanici. L’attivismo interno ha anche combattuto la riorganizzazione economica che, col pretesto di una riforma del welfare, ha rimosso la rete di protezione sociale e ha gettato nella povertà milioni di persone.

I movimenti progressisti sono nati da queste campagne che hanno collocato la Palestina in un ruolo più centrale rispetto a prima. L’attivismo palestinese e gli attivisti palestinesi hanno affrontato i cambiamenti nelle priorità nazionali e hanno sostenuto la lotta anti-apartheid, la campagna che ha combattuto l’espansionismo americano in America Centrale e il movimento contro la guerra in Iraq.

All’estremo opposto le organizzazioni filo-israeliane si sono collocate dalla parte sbagliata della storia: si sono opposte alle sanzioni contro il Sudafrica e hanno cercato di sostenere le vendite di armi israeliane al regime dell’apartheid. Allo stesso modo, hanno sostenuto Israele nel momento in cui offriva consigli e aiuti agli squadroni della morte centroamericani sponsorizzati dallo Stato. E in occasione dell’intervento americano in Medio Oriente, anche Israele e i suoi alleati hanno sostenuto gli sforzi bellici degli Stati Uniti, ritenendoli utili alla sicurezza di Israele.

Le mobilitazioni politiche progressiste e le lotte interne hanno reso la Palestina un tema centrale su cui organizzarsi. Solo 30 anni fa la sinistra politica degli Stati Uniti, nelle sue mobilitazioni per la pace, la giustizia e l’occupazione, dibatteva regolarmente sul consentire o meno la presenza di una bandiera palestinese, per non parlare di un oratore, su un palco. Oggi non si può tenere una mobilitazione politica su qualsiasi argomento, locale o globale, senza che la Palestina ne faccia parte, se non come principale soggetto, almeno come uno dei temi. Coloro che vorrebbero sostenere o parlare a favore di Israele, al contrario, hanno difficoltà ad ottenere spazio in queste tribune perché si sono completamente schierati dalla parte del complesso industriale militare di destra e dei suoi interventi perniciosi.

L’attacco israeliano del 2012 contro la Striscia di Gaza ha determinato un cambiamento decisivo nelle opinioni su Israele, sia dal basso che tra gli analisti politici. Entrambi i gruppi sono consapevoli che Israele infrange il diritto internazionale e che non dimostra nessun limite nel suo abuso dei diritti umani palestinesi. Inoltre, mentre un punto di vista filo-israeliano dominava inizialmente i media popolari, con il costante ritornello degli opinionisti secondo cui Israele ha “il diritto di difendersi”, gli spazi meno controllati dei social media e di Internet hanno ospitato una diversa narrazione che favorisce un settore più critico dello schieramento politico, tanto che i media popolari hanno effettivamente iniziato a cambiare.

Il sostegno per la Palestina nelle università

Insieme, e in parte grazie, al lavoro instancabile degli attivisti progressisti, gli sviluppi descritti sopra hanno consentito il rafforzamento del sostegno per la Palestina nei campus universitari. In effetti, una visione di solidarietà con la lotta dei palestinesi è diventata, nelle università, la posizione dominante. Un esempio di questo cambiamento è la fondazione e la proliferazione del gruppo Students for Justice in Palestine (SJP).

SJP venne fondata presso l’Università di Berkeley in California nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo. Prima della guerra negli Stati Uniti arrivava un numero considerevole di palestinesi per studiare, ma tale numero si ridusse quando lo scontro militare lasciò il passo agli anni del regime di sanzioni. Dato che Yasser Arafat aveva sostenuto Saddam Hussein durante la guerra, i palestinesi del Kuwait e del resto dei Paesi del Golfo vennero licenziati o costretti ad andarsene, con il risultato che molti di quei palestinesi che erano stati in grado di permettersi un’istruzione americana per i loro figli non ne ebbero più la possibilità. Senza studenti palestinesi nelle università statunitensi, scemarono i tentativi di organizzarsi a favore dei diritti dei palestinesi.

Allo stesso modo, questo fenomeno si verificò subito dopo gli Accordi di Oslo, che ridussero l’attivismo palestinese collegato al più ampio movimento transnazionale palestinese, poiché attraverso Oslo l’OLP accettò di limitare il proprio impegno internazionale contro Israele. Di conseguenza, gli attivisti palestinesi nei campus universitari non avevano più una base di supporto con un fondamento storico. Nel contesto dell’attivismo nelle università, l’OLP ebbe, sin dal suo esordio, un braccio universitario e giovanile forte, che si concretizzò nell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi (GUPS), con sezioni in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. In seguito alla trasformazione dell’OLP in Autorità Nazionale Palestinese, il ruolo, le capacità istituzionali e l’importanza del GUPS si ridussero.

Un modo alternativo di impegnarsi era quello di organizzarsi a favore della liberazione dei palestinesi come principio, accogliendo tutti gli studenti che desideravano lavorare per la giustizia in Palestina. Questa è stata la genesi di SJP, che ora ha più di 200 sezioni negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Molti di quegli studenti che si sono impegnati nel sostegno delle lotte di liberazione e dell’antirazzismo in Sud Africa, America Centrale e negli Stati Uniti hanno aderito a SJP perché hanno visto le connessioni tra le battaglie.

Allo stesso tempo, il numero di ebrei americani che non considerano più Israele la parte centrale della propria identità e che si identificano come antisionisti è in aumento. Un numero significativo è ora membro di SJP. Questi giovani non possono impegnarsi nella ribellione al complesso industriale carcerario, al militarismo, al razzismo e al discorso anti-immigrazione senza vedere nella Palestina una rappresentazione paradigmatica di ciò che sanno istintivamente che è sbagliato: l’apartheid israeliano.

In gran parte a causa del lavoro di SJP e di altri gruppi nelle università degli Stati Uniti e del mondo, Israele non ha più una causa da difendere dal punto di vista intellettuale e accademico. Questa evoluzione politica venti – trentennale deve essere presa in considerazione quando si ricerca il motivo per cui Israele stia ora agendo in modo disordinato nel cercare di ricostruire un sostegno, quando la diga delle menzogne e dell’opacità è già crollata.

La risposta disperata di Israele 

La perdita della posizione di Israele nel campo dell’istruzione superiore e tra l’intellighenzia americana ha spinto il Ministero degli Affari Strategici israeliano (IMSA) e i sostenitori di Israele a tentare freneticamente di invertire questa situazione. Vi è quindi una percentuale enorme di attacchi ai campus universitari. Tuttavia, l’unico strumento che i sostenitori di Israele e l’IMSA hanno per cercare di recuperare posizioni all’interno delle università è il rozzo potere della diffamazione. Pertanto progetti come Canary Mission [sito web che raccoglie dossier su attivisti, professori e organizzazioni studentesche che considera anti-israeliane e ne minaccia l’invio ai potenziali datori di lavoro, ndtr.] e il Lawfare Project [ong americana che professa un impegno contro l’antisemitismo attraverso il finanziamento di azioni legali, ndtr.] si rivolgono a studenti e docenti affermando che il sostegno per la Palestina e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) sono antisemiti.

Queste forze stanno contemporaneamente cercando di mobilitare gli organi legislativi statali e il Congresso perché vengano approvate delle leggi che proteggano Israele dal diritto alla libertà di parola quando si tratti della Palestina. Questo è un errore strategico, perché l’attenzione su un bavaglio preventivo sposta il dibattito su uno dei principali emendamenti [della costituzione USA, ndtr.] e diritti costituzionali, che finora rimane un diritto generalmente ben protetto nel contesto americano.

L’ uso della forza bruta da parte del governo israeliano dimostra la sua paura. In effetti, una dimostrazione di effettivo potere consiste nella possibilità di esercitare moderazione e di astenersi dall’uso della forza grazie alla paura del suo esercizio da parte delle persone. In questo senso Israele tenta disperatamente di ricostituire una barriera contro il calo della sua reputazione anche nella società statunitense nel suo complesso.

La base del Partito Democratico, nonché i suoi militanti, ad esempio, hanno abbandonato Israele come componente centrale del loro programma politico. Si può rintracciare questo fenomeno negli attacchi al presidente Obama da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ndtr.] a partire dal discorso di Obama al Cairo nel 2009 e fino agli attacchi contro il suo accordo con l’Iran, incluso il discorso di Netanyahu del marzo 2015 in una sessione congiunta del Congresso, che ha espresso l’esplicita opposizione del leader del governo israeliano al presidente degli Stati Uniti in carica. Questi attacchi hanno portato molti componenti del Partito Democratico a capire il collegamento degli attacchi mirati contro Obama all’ascesa del Tea Party [fazione di estrema destra del partito Repubblicano, ndtr.] e, in definitiva, di Trump, contribuendo a modificare nettamente la linea tradizionale del partito su Israele.

Anche i tentativi di Israele di usare il potere puro e semplice per mettere a tacere le critiche non sono piaciuti a molti democratici. Non sorprende quindi che Bernie Sanders stia cominciando a riconoscere che opporsi a Israele e mettere da parte l’AIPAC – sottolineando anche come l’AIPAC sia una “tribuna per il fanatismo” – non abbia più le stesse conseguenze negative in gran parte dell’elettorato del partito.

Anche se il decreto di Trump del dicembre 2019 per combattere l’antisemitismo nei campus universitari può apparire disastroso – l’ordine consente di de-finanziare le istituzioni sulla base della definizione di antisemitismo da parte dell’Alleanza Internazionale della Memoria dell’Olocausto [L’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] che include le critiche allo Stato israeliano, facendo sì che il sostegno alla Palestina sia “antisemita” – esso è importante per capire che lo status quo su Israele sia crollato fin dagli Accordi di Oslo. Questo decreto è uno sconsiderato tentativo di arginare quella spirale discendente. Inoltre, quando Trump mette il suo nome su qualcosa, una grande quantità di persone si oppone se non altro perché lo ha fatto lui. 

Naturalmente a breve termine ci saranno degli effetti negativi su studenti e docenti, come tentativi di chiusura degli studi sulla Palestina, molestie online e condanne contro dipartimenti e gruppi di studenti. Recenti attacchi contro il Center for Contemporary Arab Studies [Centro per gli studi Arabi Contemporanei, ndtr.] presso la Georgetown University e il SJP e la Columbia University Apartheid Divest [Columbia University Libera dall’Apartheid, ndtr.] alla Columbia University illustrano queste difficoltà.

Tuttavia, sebbene tali azioni possano avvantaggiare il governo israeliano e Trump nel breve termine, a lungo termine i cambiamenti nella posizione di Israele saranno irreversibili. Non è più possibile ridefinire la posizione di Israele nel contesto universitario e nella società civile in generale come uno Stato non ritenuto un trasgressore dei diritti umani e del diritto internazionale. Chi milita nel campo dell’istruzione superiore può impegnarsi per sostenere questa tendenza attraverso una serie di sforzi.

Promuovere la Palestina all’università

Gli studenti, i docenti e coloro che lavorano nelle istituzioni accademiche devono chiedere che la Palestina sia inclusa e coinvolta alle proprie condizioni. Pertanto, devono insistere su studi che esaminino e contestualizzino la Palestina senza interrogarsi se siano “buoni per Israele” o riguardo la loro relazione con il sionismo.

In questo senso è fondamentale un approccio alla Palestina nel contesto delle lotte internazionaliste per l’emancipazione, rendendola una parte della storia moderna condivisa dell’umanità, piuttosto che un’eccezione. Un corso potrebbe, ad esempio, mettere a confronto i movimenti di liberazione nell’Africa sub-sahariana e in Palestina. Tali studi prenderebbero in considerazione non solo il Sudafrica, ma esaminerebbero anche il collegamento del movimento palestinese con le campagne per l’unità africana e il loro impegno collettivo nei movimenti anti-coloniali e de-coloniali negli anni ’60 e ’70. Un altro corso potrebbe esaminare il rapporto tra Palestina e America Latina, dove esistono solide comunità palestinesi.

Docenti e studenti dovrebbero anche insistere sullo sviluppo delle capacità istituzionali all’interno di diverse università e contesti. Finora, Studi sulla Palestina è disponibile come programma di studio a sé stante solo alla Brown University e alla Columbia University. Gli studenti possono mobilitarsi nelle università per insistere sulla realizzazione di programmi allo stesso modo dei programmi di studi etnici sviluppati istituzionalmente negli anni ’60 e ’70. E’ anche fondamentale la creazione di programmi di studio all’estero in Palestina.

Anche gli accademici che lavorano in Palestina dovrebbero mobilitare risorse finanziarie per sostenere questi programmi. I palestinesi negli Stati Uniti e altrove non hanno prodotto uno sviluppo strategico di importanti finanziatori. Devono mobilitare questi donatori per investire in iniziative che avranno conseguenze positive a lungo termine per la lotta palestinese.

Infine, devono essere rafforzati studi legali che forniscono protezione in ambito accademico. Palestine Legal, fondata nel 2012, offre già un irrinunciabile supporto, ma tale impegno deve essere rafforzato e intensificato.

In breve, gli attacchi agli accademici, agli attivisti del SJP e alla Palestina devono essere compresi in un ambito storico di lunga durata e con una profonda consapevolezza del cammino verso la giustizia in atto nei campus universitari, a livello nazionale e internazionale. Le argomentazioni morali, etiche e intellettuali che si oppongono con successo agli sforzi israeliani ben finanziati e istituzionalmente connessi per la demonizzazione, dovrebbero aiutare a continuare la lotta per la liberazione palestinese e la fine dell’apartheid. Al cospetto di circostanze avverse, il futuro della Palestina si sta realizzando in primo luogo all’interno della Palestina storica, così come nei movimenti di solidarietà e del BDS in tutto il mondo e nei campus universitari. Proprio come l’apartheid in Sudafrica è stato messo nella pattumiera della storia, ci stiamo avvicinando a una libera Palestina.

Hatem Bazian

Consulente politico di Al-Shabaka, Hatem Bazian è professore associato presso i Dipartimenti di Studi Etnici e del Medio Oriente dell’Università di Berkely in California. Ha insegnato alla Boalt Hall School of Law di Berkeley ed è anche professore ospite in Studi Religiosi al Saint Mary’s College of California e tutor presso il Centro di religione, politica e globalizzazione di Berkeley, nonché presidente della Academic Affairs presso lo Zaytuna College of California [università musulmana di Berkeley]. Ha anche fondato il Centro per lo studio e la documentazione sull’islamofobia di Berkeley, un’unità di ricerca dedicata allo studio sistematico dell’ostilità preconcetta contro l’Islam e musulmani. È anche Presidente del Board of American Muslims for Palestine.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Il cinema israeliano prova, senza riuscirci, a fare i conti con il terrorismo ebraico

Natasha Roth-Rowland

10 aprile 2020 – +972 Magazine

Quattro film recenti esaminano l’ascesa dell’estrema destra in Israele. Ma, nel dare un’immagine di eccezionalità ai loro personaggi, non riescono ad arrivare alle radici della loro ideologia.

Data l’accelerazione in corso negli ultimi anni in Israele del processo di normalizzazione dell’ideologia religiosa di estrema destra, non sorprende che i cineasti guardino alla storia del fanatismo di destra per cercare di capire come la politica israeliana abbia acquisito le sue attuali tendenze. Quattro film sull’argomento sono usciti in altrettanti anni: “Incitement” [Istigazione,ndtr.], che intraprende un viaggio nel mondo interiore di Yigal Amir, l’uomo che ha assassinato il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin; “The Prophet” [il profeta, ndtr.], che descrive la carriera del rabbino Meir Kahane (rabbino e politico ultranazionalista, ndtr.) mentre reca il suo messaggio di violenza della destra ebraica dalle strade di New York alle aule della Knesset (il parlamento ebraico, ndtr.); “The Settlers” [i coloni, ndtr.], che racconta la storia del movimento dei coloni; e “The Jewish Underground”, sull’omonimo gruppo terroristico.

“Incitement”, diretto da Yaron Zilberman, è una scrupolosa riproposizione dell’atmosfera dell’era di Oslo. Si concentra soprattutto sugli ebrei israeliani che si stavano mobilitando in opposizione ai colloqui e, più minacciosamente, a Rabin. La cinepresa si sofferma sulle immagini anti-Rabin nel campus dell’Università Bar-Ilan, nelle piazze e nelle strade: graffiti che istigano contro il primo ministro; manifesti stile “ricercato”, con un bersaglio sulla sua testa, che lo qualificano “L’Assassino”; e cartelli che nel corso di feroci manifestazioni lo mostrano con indosso una kefiah o un’uniforme delle SS.

Vediamo anche Amir partecipare al funerale di Baruch Goldstein, che uccise 29 palestinesi nella Moschea Ibrahimi di Hebron nel febbraio 1994. Lì sente un rabbino discutere della liceità di un mandato di morte religioso contro Rabin, sulla base del fatto che il primo ministro, con la negoziazione di un compromesso territoriale, ha messo in pericolo gli ebrei. Amir già nelle prime sequenze del film ha assistito ad altre argomentazioni simili. Da ciò siamo portati ad assumere che il passo perché proprio lui esegua quella condanna a morte possa essere breve.

Ci sono altri momenti premonitori. All’inizio, la madre di Amir racconta a una donna che egli ha invitato a casa e a cui è sentimentalmente interessato che il suo nome, Yigal, significa “Egli redimerà” e che lei è convinta che riscatterà “la sua gente”. Suo figlio, dice, è destinato alla grandezza, un messaggio che ripete ad Amir quando la sua possibile fidanzata lo rifiuta. In un’altra scena di famiglia, una delle più intense del film, il padre di Amir, avendo scoperto i piani di suo figlio, gli urla: “Ci vorranno generazioni – generazioni! – per guarire una tale ferita.”

“Incitement” affronta anche il contesto originario di Amir in quanto figlio di immigrati yemeniti in Israele. Una serie di tensioni aggrovigliate tra loro è presente nella sua famiglia: il disprezzo di sua madre per l’elitarismo razzista degli israeliani ashkenaziti [i discendenti delle comunità ebraiche di lingua e cultura yiddish stanziatisi nel medioevo nella valle del Reno, ndtr.]; le discussioni tra lei, un’estremista, e suo padre, che è più fiducioso sugli Accordi di Oslo; l’evidente disagio dell’amica ashkenazita di Amir quando arriva e assiste allo svolgersi di una riunione di famiglia, allusione all’emarginazione di Amir nella società israeliana in quanto ebreo Mizrahi [ebrei orientali, provenienti dai paesi del mondo arabo, ndtr.].

Eppure il film si occupa ben poco di queste dinamiche all’interno del mondo religioso-sionista. Qui, i rabbini istigatori contro Rabin sono invariabilmente Ashkenazi. Nel mondo reale, in seguito all’assassinio, alcuni componenti della classe religioso-sionista cercarono di assolversi dalla responsabilità dell’omicidio indicando la discendenza Mizrahi di Amir come prova del suo status di estraneo.

Il fatto che conosciamo la fine della storia non contribuisce minimamente ad alleviare la tensione nel film. Al contrario, il film prelude all’incombente disastro fin dal primo fotogramma. Il montaggio sulle riprese di un cinegiornale d’archivio nel corso della successione degli eventi accresce il senso di premonizione, anche durante gli ultimi momenti del film, quando vediamo i fotogrammi sgranati del vero Amir, riconoscibile con la sua maglietta blu, in attesa dell’auto di Rabin, intervallati da immagini in primo piano di lui che parla amichevolmente con la scorta di sicurezza di Rabin. Loro credono che sia uno di loro.

Come molti altri film israeliani recenti, “Incitement” allude chiaramente al fatto che l’estremismo abbia messo radici ai vertici della politica israeliana, incarnato nella figura di Benjamin Netanyahu e in quella del gruppo di rabbini religioso-sionisti che hanno posto una taglia religiosa sulla testa di Rabin. Zilberman termina con le riprese della presenza di Netanyahu alle rabbiose proteste anti-Rabin prima dell’assassinio, inclusa la sua famigerata comparsa su un balcone che si affaccia sulla Piazza Sion di Gerusalemme, mentre gli israeliani di destra chiedono urlando la morte di Rabin.

Zilberman ha ragione a stabilire questa connessione, ma dato che si tratta di un film sul nazionalismo religioso estremista e considerando il momento politico in cui il suo lavoro viene presentato, esso appare come un’occasione mancata. Il film evita di interrogarsi sui legami più profondi tra le élite religioso sioniste e quelle politiche in Israele. In maniera ancora più lacunosa, il film si ritrae dall’esame del perché Netanyahu abbia avuto tanto successo e perché, pochi mesi dopo aver contribuito ad istigare all’omicidio di Rabin, sia stato eletto a capo del successivo governo israeliano.

Questa omissione si coniuga in parte coll’assenza quasi totale di palestinesi nel film. È vero che “Incitement” è una storia sul mondo etnicamente isolato della destra religiosa israeliana e sulla follia inesplorata in cui è piombato in occasione degli Accordi di Oslo. Ma il film è inteso come una immersione profonda nell’ideologia di quello stesso gruppo, e quanto può essere efficace un simile intento se non riesce a interagire con l’oggetto della paura e dell’odio di quell’ideologia? Rabin è davvero il principale bersaglio dei protagonisti del film, ma solo nella misura in cui Amir e i suoi coetanei credevano che fosse un fantoccio dei palestinesi, e quindi una minaccia mortale per lo stato ebraico.

Con questa lacuna, il film ha forse detto più di quanto intendesse sul momento attuale: “Incitement” è arrivato nei cinema statunitensi a pochi giorni dall’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha rivelato il suo “Accordo del Secolo”, una tabella di marcia verso l’annessione che ha stabilito piani dettagliati per il futuro della Palestina senza consultare nessuno di coloro che dovrebbero viverci. Nel film, come nel piano di Trump, i palestinesi sono presenti assenti.

L’ estrema destra israeliana è ugualmente sotto il microscopio in “The Prophet”, del regista Ilan Rubin Fields. Il documentario del 2019 esplora la carriera del rabbino estremista nato a Brooklyn Meir Kahane, che ha fondato a New York negli anni ’60 la Jewish Defense League [Lega di Difesa Ebraica, ritenuta dal FBI un’organizzazione terrorista per i suoi atti di violenza, ndtr.] e, negli anni ’80, è stato presente nel parlamento israeliano come unico rappresentante del suo partito, Kach. Ripercorre alcuni degli atti più noti di Kahane e della JDL, dall’attentato dinamitardo del 1970 negli uffici dell’Aeroflot a New York, alla proposta di Kach di aprire un “ufficio di emigrazione” nella città palestinese settentrionale di Umm al-Fahm, al fine di tentare di incoraggiare i cittadini palestinesi a lasciare il paese.

Nel corso del film Fields intervista i membri di Otmza Yehudit, il partito kahanista che ha partecipato lo scorso anno al triplo round delle elezioni israeliane, i cui leader sono tutti ex accoliti di Kahane. Baruch Marzel, commentando le proposte di Kahane di espellere i palestinesi dalla totalità della biblica “Terra di Israele”, osserva che il suo mentore “ha sottolineato una contraddizione intrinseca tra lo stato ebraico e la democrazia”. Qualsiasi altra opzione è frutto di fantasia, afferma Marzel: “O è democratico o è ebraico. Non può essere entrambi.” Un simile concetto, ribadisce l’esperto di diritto Moshe Negbi, viene affermato nella dichiarazione delle Nazioni Unite del 1975 secondo la quale il sionismo è razzismo.

Questa discussione, condotta attraverso interviste dirette, piuttosto che attraverso dialoghi, rappresenta uno dei due difetti del film. Sembra guardare direttamente negli occhi le contraddizioni tra avere uno Stato etnico particolaristico e una democrazia, per poi distogliere nuovamente lo sguardo, respingendola come semplicemente un’idea inconcepibile espressa da estremisti.

Questo è un peccato, perché il film di Fields va oltre “Incitement” nel sottolineare come nella società e nella politica israeliane si trovino il razzismo sistemico e lo sciovinismo. Verso la conclusione del film rievoca una serie di attacchi terroristici ebraici – il massacro di Goldstein [nel 1994, nella Moschea di Ibrahimi a Hebron, ndtr.], l’omicidio di Muhammad Abu Khdeir [16 enne palestinese sequestrato e ucciso da cittadini israeliani il 2 luglio 2014, ndtr.], il bombardamento della casa dei Dawabshe a Douma [nel Luglio del 2016, in cui morirono 3 membri della famiglia, tra cui un bambino di 18 mesi, ndtr.] – e poi abilmente passa alla Knesset, mostrando i politici del Likud mentre diffamano i palestinesi, prima di terminare con l’approvazione della legge ebraica sullo Stato – Nazione. I fotogrammi finali del film mostrano scene del Giorno dell’Indipendenza di Israele, una festa di bandiere e fuochi d’artificio.

Il messaggio implicito qui è chiaro: una malattia strutturale ha messo radici nello Stato di Israele. E nel 2020, quando il partito Likud, che ha governato il paese per più di 30 anni, ha ripetutamente offerto supporto a Otzma Yehudit [partito politico israeliano di estrema destra, ndtr.] e si è impegnato a conquistarne gli elettori, l’impostazione di Fields appare realisticamente efficace. Ma il documentario, nel suo sviluppo e nel trascurare la storia pre-Kahane, lascia l’impressione che sia un singolo demagogo a produrre il marciume, piuttosto che esporre e discutere la profonda xenofobia e la paranoia razzista che hanno fatto parte delle caratteristiche dello Stato dal primo giorno.

L’altro grande difetto del documentario è l’incapacità di intervistare neppure una donna o un singolo palestinese. (viene mostrata una donna nella veste di intervistata nel filmato di archivio che Rubin include nel film.) Data la centralità delle questioni della purezza etnica e di genere (e le connessioni tra loro) nell’ideologia kahanista – e nell’ideologia israeliana di estrema destra in generale – questo rappresenta un paio di sorprendenti omissioni. Lascia essenzialmente che la storia sia raccontata solo da quelli che si trovano nel suo pieno centro, che sono quasi esclusivamente uomini ashkenaziti, e cancella le voci di chi si trova ai margini dell’estrema destra e delle sue vittime.

Dei quattro film, “The Jewish Underground” è forse quello che riesce meglio a dimostrare che l’acquiescenza nei confronti dei violenti radicali di destra è una caratteristica, e non un errore, del sistema politico israeliano. Anche questo, tuttavia, inciampa a proposito della parità di genere dei suoi intervistati: nella prima ora non riesce a includere nessuna donna tra i personaggi. È significativo che l’unica comparsa di una donna in questa parte risulta sullo sfondo di un’intervista con uno dei leader del gruppo; è una figura sfocata, con le spalle rivolte verso gli spettatori, in piedi in cucina.

Tuttavia, ciascuno di questi quattro film riesce, in qualche modo, a rendere l’eccezionalità dei suoi personaggi. Si concentrano tutti su gruppi o individui che sono in qualche modo ritenuti al di fuori dell’opinione corrente israeliana, e quindi li presentano come aberrazioni, piuttosto che prodotti della società israeliana. Nonostante, con pregi e difetti, venga riportata la visione violenta e sciovinista del mondo da parte di quegli uomini, questo approccio aderisce al modo in cui questi personaggi vengono rappresentati nell’ambito dell’opinione pubblica israeliana: come mostri che aspettano dietro le quinte per poi irrompere sulla scena per tentare di rovinare del tutto Israele.

Attraverso la scelta di esempi del calibro di Kahane, Amir e Jewish Underground, senza affrontare

seriamente le radici ideologiche e storiche della loro politica – ponendo l’origine di tutto nel 1967 e non nel 1948 – questi film smettono di essere quella trasparente resa dei conti che si sforzano di rappresentare. In questo senso, riflettono la specifica odierna focalizzazione su Netanyahu come fonte delle tendenze antidemocratiche nella società israeliana, con un collegamento pressoché nullo riguardo ciò che significava la “democrazia” israeliana prima della sua salita al potere.

Va bene osservare Kahane e i suoi seguaci che urlano “fuori gli Arabi;” osservare Miri Regev sul seggio della Knesset dire alla parlamentare Haneen Zoabi del partito Balad : “Torna a Gaza, traditrice;” osservare le proteste dei parlamentari del partito Lista Unita guidata da palestinesi, i quali vengono espulsi dall’aula plenaria della Knesset, mentre i loro colleghi approvano la legge ebraica sullo Stato Nazione. Ma senza riconoscere che lo Stato sta dicendo, in un modo o nell’altro, “fuori gli Arabi!” dal 1948, i cineasti e gli osservatori in generale non riusciranno mai a capire chi siano questi “mostri”, né respingeranno il caos che essi provocano.

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in Storia presso l’Università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli Stati Uniti. Precedentemente ha trascorso diversi anni come scrittrice, editrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è apparso su The Daily Beast, sul London Review of Books Blog, su Haaretz, su The Forward e su Protocols. Scrive sotto il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che fu costretto a cambiare il suo cognome in “Rowland” quando richiese asilo nel Regno Unito durante la seconda guerra mondiale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La battaglia dell’acqua in Palestina ( II Parte)

Francesca Merz

25 marzo 2020 Nena News

(per la leggere la prima parte clicca qui)

Fin dal 1936 era stata proposta una «Jordan Valley Authority » posta sotto controllo internazionale. In gran parte, questa idea fu ripresa per la valle del Giordano dal Piano Johnston, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, con l’intento di creare tra il 1954-1955 un’autorità regionale, fondata su una cooperazione fra gli Stati bagnati dal Giordano, allo scopo di attribuire e gestire al meglio le risorse d’acqua. Anche in questo caso Israele non fu d’accordo, e nel 1959, per tutta risposta, approvò una legge secondo la quale rendeva le risorse idriche «una proprietà pubblica (…) sottoposta all’autorità dello Stato». Con questa legge vede di fatto la nascita un sistema che impedisce ai Palestinesi di disporre liberamente delle loro risorse idriche.

E’ il 1967, e subito dopo le invasioni di Gaza e Cisgiordania, le prime due disposizioni introdotte, riguardano proprio l’argomento acqua: la prima è la proibizione alla costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura idrica, di perforazione e di nuovi pozzi, senza autorizzazione; la seconda è la confisca delle risorse idriche, che vengono dichiarate proprietà dello Stato, in conformità alla legislazione israeliana sull’acqua. La quantità d’acqua a disposizione degli agricoltori della Cisgiordania è congelata proprio a quel 1967: il plafond è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno, per 400 villaggi, assai diversa la quantità d’acqua messa a disposizione delle colonie ebraiche, che è aumentata del 100% nel corso degli anni Ottanta. A questo si aggiunga la perquisizione degli antichi pozzi palestinesi in ottemperanza alla famosa «legge sulla proprietà degli assenti ». Non è questa la sede poi per approfondire la quantità di limitazioni imposte da Israele in Cisgiordania, regioni sottoposte a razionamento, distretti di drenaggio, aree di sicurezza militare, come nel caso di una striscia di terra lungo il Giordano, dichiarata «zona militare », che i Palestinesi utilizzavano a scopo di irrigazione. Nella Striscia di Gaza, prima del 1967, non esisteva alcun sistema di permessi e l’utilizzazione dell’acqua dipendeva dal diritto consuetudinario. In seguito, attraverso le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere licenze di utilizzazione dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, veniva trasferito alle autorità israeliane. Secondo diverse fonti, dopo il 1967, sono stati concessi dai 5 ai 10 permessi. Allo stesso modo, come in ogni colonizzazione che si rispetti, anche il rifacimento e la manutenzione dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, mai accordate.

La finalità, anche questa tipica del colonialismo, come ci ricorda già il sempre illuminante Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, era quella di porre i Territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica, amministrativa ed economica. A partire dal 1967, la Mekorot, l’azienda israeliana che controlla i rifornimenti d’acqua sul territorio, ha sviluppato reti di distribuzione in favore di un profitto quasi esclusivo per le colonie, mentre nei settori palestinesi serviti dalla Mekorot, lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. A Gaza, la situazione è ancora più drammatica, dato che la falda acquifera costiera super sfruttata viene infiltrata attualmente dall’acqua del mare. Le distruzioni delle reti idriche e delle riserve obbligano a far arrivare l’acqua tramite camion-cisterna, facendone rincarare il prezzo, che può arrivare fino a 40 NIS/metro cubo (più di 8 euro), vale a dire un prezzo quasi 10 volte più alto di quello inizialmente richiesto dalle municipalità. Se gli Israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i Palestinesi sono vittime di interruzioni arbitrarie, in particolar modo durante l’estate. Per quel che riguarda il prezzo pagato da un consumatore palestinese, l’acqua è fortemente sovvenzionata per le colonie ebraiche, mentre un Palestinese deve pagarla 4 volte più cara di un colono per accedervi. D’altra parte l’acqua e la sua riduzione fa ridurre drasticamente anche la già scarsissima possibilità che aveva l’agricoltura palestinese di poter competere in un mercato fatto di mille restrizioni alla circolazione dei beni. In aggiunta, il 75 % delle acque del Giordano sono deviate da Israele prima che queste bagnino i Territori.

A Gaza, proprio ai margini della Striscia, il governo israeliano ha costruito delle pompe che seccano in buona parte i pozzi palestinesi, la cui acqua disponibile risulta salmastra e oramai inquinata. Non esistono corsi d’acqua nella striscia di Gaza, ma un Wadi che raccoglie le acque di molti wadi della regione. Gli Israeliani hanno disposto piccoli sbarramenti su questi wadi e la sola acqua che scorre ormai nel Wadi Gaza è quella già usata e non ritrattata della città di Gaza.

Dulcis in fundo, come se ci fosse qualcosa di non amaro in tutto questo, come già detto, i Palestinesi non hanno il diritto di perforare pozzi, mentre i coloni lo possono fare e sempre più a grandi profondità (dai 300 ai 500 metri) non solo infatti viene proibito ai Palestinesi di perforare dei nuovi pozzi senza l’autorizzazione militare israeliana, ma soprattutto i loro pozzi non possono arrivare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni hanno la potenzialità di arrivare oltre gli 800 metri. Un rapporto dell’ONU indica che fra la firma degli accordi di Oslo del 1993 e del 1999, sono stati distrutti 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e per l’irrigazione. Nel marzo 2003, ed in seguito all’inizio della Seconda Intifada, i danni procurati nei Territori occupati potevano enumerarsi come segue : 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tankers), 9.128 serbatoi da abitazione, 14 bacini di riserva, 150 km di condutture e canalizzazioni che collegavano più di 78.000 abitazioni. Come ho già avuto modo di spiegare in un precedente articolo, dal titolo “i fiori del deserto”, la nascita di questa leggenda che pone Israele, come unico Stato capace di far fiorire il deserto, ha purtroppo un’origine macabra, quei fiori fondano la loro crescita su un sistema che non solo, come abbiamo brevemente analizzato, non rispetta la scarsità delle risorse, oggettiva a tutto il territorio, ma distrugge al contempo un fragilissimo ecosistema, schiacciando giornalmente i più basilari diritti umani.

Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando. Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazioni del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele aveva deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzarla. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, abbiamo visto, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione: la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, hanno comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

La gestione di questo modello economico, e i progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il solo risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque modificando il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibile: il ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Buona giornata dell’acqua, a chi può considerarla un bene non in discussione, ma soprattutto, a chi non ha questa fortuna.




Le spese per fronteggiare il COVID-19 bloccano l’approvazione della finanziaria dell’ANP

Ahmad Melhem

3 aprile 2020 – Al-Monitor

Ramallah, Cisgiordania —Si prevede che lo stato di emergenza dichiarato il 5 marzo da Mahmoud Abbas, presidente della Palestina, e le rigide misure annunciate dal governo il 18 marzo per arrestare l’espandersi del COVID-19 nei territori palestinesi limiteranno ancora di più la capacità finanziaria dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il governo avrebbe dovuto pagare per intero gli stipendi dei dipendenti statali, ma, se lo stato di emergenza continuerà, si prospetta una crisi finanziaria.

Due fattori contribuiranno al peggioramento della crisi finanziaria dell’ANP: una diminuzione delle entrate fiscali (cioè tasse e dazi doganali) derivanti da una diminuzione dei commerci e un aumento delle spese, in risposta allo stato di emergenza, come il vasto impiego di servizi di sicurezza nelle città, i provvedimenti presi per fronteggiare gli effetti della disoccupazione, le spese mediche crescenti e l’apertura di centri per la quarantena. Dal 2 aprile, in Cisgiordania e Gaza sono stati registrati 160 casi di COVID-19, un decesso e diciotto ricoveri ospedalieri.

L’incertezza sui costi associati alla crisi da COVID-19 ha, in parte, frenato gli sforzi del governo per annunciare il bilancio dello Stato per l’anno finanziario 2020, che segue l’anno solare. La finanziaria di solito viene presentata entro il primo quadrimestre. Il Governo ha proceduto alla seconda lettura il 15 marzo, ma il primo aprile non c’era ancora stata la terza lettura necessaria prima di presentare il bilancio ad Abbas per l’approvazione.

Il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh alla conferenza stampa del 29 marzo ha detto che, secondo il budget presentato al Gabinetto, le entrate statali caleranno di oltre il 50% e che diminuiranno anche gli aiuti internazionali. A causa di questa situazione finanziaria unita allo scoppio della pandemia, il governo si baserà su un bilancio di emergenza e austerità. Shtayyeh stima che il governo avrà bisogno di circa 120 milioni di dollari per fronteggiare il virus. “Nei prossimi giorni la situazione finanziaria sarà difficile” ha detto chiedendo ai palestinesi di prepararsi.

Amjad Ghanem, il segretario-generale di gabinetto dell’ANP ha detto ad Al-Monitor che “lo stato di emergenza impone oneri finanziari al governo che però non nasconderà la testa sotto la sabbia e farà fronte alla diminuzione degli introiti statali e delle spese mediche.” 

Si prevede che la finanziaria 2020 sarà simile a quella stilata in emergenza dal governo nel marzo 2019 quando Israele iniziò a trattenere fondi dalle entrate dell’ANP in misura equivalente ai soldi spesi per aiutare i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e le loro famiglie. In seguito agli accordi Oslo Israele riscuote per conto dell’ANP i dazi doganali sulle importazioni e le tasse.

I fondi decurtati da Israele potrebbero porre termine alla crisi finanziaria che affligge l’ANP, aiutare il governo con la crisi da COVID-19 e a onorare i suoi obblighi finanziari” asserisce Ghanem. 

Afferma anche che il 22 marzo Israele ha trasferito all’ANP 120 milioni di shekel (30,4 milioni di euro) di imposte. Il giorno dopo, il Ministero delle Finanze ha detto che Israele continuava a trattenere 1.047 miliardi di shekel (circa 255 milioni di euro), di cui circa 650 milioni (161 milioni di euro) derivanti dalle tasse che ha riscosso. La cifra rimanente si riferiva a dati contabili di pagamenti precedenti.

Per resistere alla tempesta economica, l’ANP dovrà dipendere dagli aiuti internazionali, inclusi quelli provenienti dagli Stati arabi, e dalle donazioni locali. Il 24 marzo, il Ministero delle Finanze ha annunciato l’apertura di un conto bancario dove individui, aziende e altre imprese possono depositare donazioni per aiutare il governo a combattere il coronavirus.

Anche prima che si aprisse il conto, la Arab Bank e l’imprenditore Munib al-Masri avevano già donato 1 milione di dollari ognuno, rispettivamente il 19 e il 24 marzo. Il 9 marzo, la Paltel, l’azienda privata palestinese di telecomunicazioni, ha donato mezzo milione di dollari.

Il Qatar ha annunciato il 9 marzo che avrebbe fornito 10 milioni di dollari all’ANP per aiutare a contenere il diffondersi del coronavirus e il 18 marzo ha preannunciato una cifra ulteriore non specificata di assistenza finanziaria urgente. I qatarini progettano di donare 150 milioni di dollari nei prossimi 6 mesi per combattere il coronavirus a Gaza e il 16 marzo il Kuwait ha contribuito con 5,5 milioni di dollari. Le Nazioni Unite il 18 marzo hanno offerto 1 milione di dollari di aiuti sanitari urgenti.

May Kila, il ministro della Salute dell’ANP ha detto ad Al-Monitor: “Noi dobbiamo affrontare una sfida speciale perché non abbiamo il controllo delle nostre risorse finanziarie.” Kila ha detto che, oltre al problema dei fondi, le difficoltà maggiori sono quelle di ottenere i tamponi per i test e i respiratori. Data la loro scarsità, ci si deve concentrare sulla prevenzione.

Nasr Abdel Karim, un docente di economia e finanza dell’Arab American University in Cisgiordania, ha detto ad Al-Monitor che “se la crisi non si allenta entro uno o due mesi, l’ANP non riuscirà a rispettare i suoi impegni finanziari causati da un’economia paralizzata e dai minori introiti fiscali.”

Abdel Karim crede che tali introiti potrebbero diminuire del 50% e che l’ANP potrebbe coprire in parte il disavanzo tramite un sostegno internazionale o prestiti limitati delle banche e del settore privato. Per sostenere il funzionamento del settore sanitario, ha detto, l’ANP potrebbe pagare solo metà degli stipendi dei dipendenti statali come ha fatto nel 2019 durante la crisi di liquidità.

L’ANP si trova davanti a una crisi finanziaria ancora più grave perché è una crisi di cui non si intravede la fine” dice Abdel Karim, facendo anche notare l’ulteriore aggravio delle spese sanitarie abbinato alla diminuzione delle entrate fiscali.

La crisi, afferma, non si limiterà all’ANP, ma colpirà imprenditori, lavoratori, contadini e le istituzioni civili.

Ahmad Melhem è un giornalista e fotografo palestinese di Ramallah e collabora con Al-Watan News e vari altri media arabi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




«I palestinesi non hanno mai perso l’occasione di perdere un’occasione»?

Alain Gresh

16 marzo 2020 ORIENT XXI

La citazione è vecchia, ma è stata modificata per favorire una propaganda che addossa ai palestinesi la colpa del fallimento della pace durante questi ultimi decenni. Si era appena dopo la guerra dell’ottobre 1973 e per la prima volta si tenne una conferenza a Ginevra che coinvolse Israele, la Giordania e l’Egitto. Il Cairo, che aveva proposto di invitare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che stava per essere ammessa alle Nazioni Unite come osservatore, si vide opporre un veto israeliano.

Fu in seguito al fallimento di questa conferenza che Abba Eban, allora rappresentante di Israele alle Nazioni Unite, pronunciò questa frase destinata ad essere infinite volte ripetuta e rivolta contro i palestinesi: “Gli arabi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione”, accusa ripresa in occasione del rifiuto dei palestinesi del piano di Trump, che avalla l’annessione da parte di Israele di un terzo della Cisgiordania e di Gerusalemme e la creazione di uno “Stato” palestinese senza alcuna sovranità.

Questa narrazione corrisponde alla realtà? Nel 1982 la Lega Araba riunì i suoi vertici a Fèz: per la prima volta il mondo arabo adottò collettivamente un progetto di pace globale che avrebbe visto riconosciuto il diritto di “tutti gli Stati della regione a vivere in pace”, in cambio della creazione di uno Stato palestinese. Iniziativa storica accettata dall’OLP, respinta da Israele al momento stesso in cui l’insieme del mondo arabo si dichiarava pronto a riconoscerlo.

In seguito alla guerra condotta contro l’Iraq (dopo l’invasione del Kuwait da parte di questo Paese), il 30 ottobre 1991 il presidente George H. Bush presentò un piano di pace e convocò, insieme all’agonizzante URSS, una conferenza a Madrid. Il Primo Ministro israeliano non volle parteciparvi: per una volta Washington torse il braccio a Israele e lo costrinse, sotto minaccia di sanzioni economiche, ad andarci. Ma il veto israeliano contro la presenza dell’OLP fu mantenuto.

Negoziare finalmente con l’OLP

Alla fine Israele negoziò segretamente con l’OLP e nel settembre 1993 firmò insieme ad essa gli Accordi di Oslo. Il loro carattere iniquo saltava agli occhi: l’OLP riconosceva ufficialmente Israele, il quale in cambio si limitava a riconoscere….l’OLP. Tuttavia i palestinesi fecero la scommessa della pace. Speravano che l’autonomia che veniva loro concessa avrebbe portato alla creazione di uno Stato.

Ma l’applicazione degli accordi si procrastinava, mentre la costruzione delle colonie accelerava. Nel settembre 1995, intervenendo al parlamento israeliano, il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin precisò le rivendicazioni del suo Paese:

  • annessione di Gerusalemme e di molte colonie, cioè circa il 15% del territorio della Cisgiordania;
  • creazione del confine di sicurezza di Israele sul fiume Giordano

Un’altra volta, Israele perdeva un’occasione di pace!

Come noto, l’impasse degli accordi di Oslo portò alla seconda Intifada nel contesto di una rinnovata violenza. Per uscirne, il 27 e 28 marzo 2002 si tenne a Beirut un vertice della Lega Araba. Esso propose, con l’avallo dell’OLP, di considerare che il conflitto con Israele fosse terminato e di stabilire delle “normali relazioni con Israele” a tre condizioni:

  • il ritiro totale di Israele dai territori occupati nel 1967;
  • la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale;
  • una soluzione giusta” del problema dei rifugiati.

Nuovo rifiuto israeliano.

La situazione nei territori [palestinesi] occupati si deteriorò, con una repressione israeliana senza precedenti e sanguinosi attentati palestinesi. Fu in questo contesto che il 30 aprile 2003 il Quartetto – composto da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – adottò una “road map”. Non era un nuovo piano di pace, bensì un quadro che fissava dei parametri e un calendario per favorire i negoziati e la loro applicazione. L’OLP accettò, Israele anche, ma con così tante condizioni da svuotare la proposta di ogni senso.

Dal mese seguente il Primo Ministro Ariel Sharon pretese come requisito per i negoziati la rinuncia da parte dei palestinesi al loro “diritto al ritorno”. Il 2 febbraio 2004 annunciò la sua decisione di smantellare le colonie a Gaza e ritirarsi da quel territorio. Progresso della pace? Egli rifiutò di discutere del ritiro con l’Autorità Nazionale Palestinese – che viveva sotto blocco militare a Ramallah. I suoi consiglieri spiegarono che l’obbiettivo era di allentare la pressione internazionale per colonizzare meglio la Cisgiordania.

Chi è, alla fine, che non ha perso occasione di perdere un’occasione?

Alain Gresh

Esperto di Medio Oriente, è autore di diversi libri, tra cui ‘De quoi la Palestine est-elle le nom?” (Che cosa è ciò che si chiama Palestina?)

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Il diritto condizionato alla salute in Palestina

Yara Asi

30 giugno 2019 – Al Shabaka

Nota redazionale: nonostante l’articolo che segue risalga al giugno 2019, riteniamo utile ed interessante proporlo ai lettori in quanto di evidente attualità riguardo all’emergenza sanitaria che si profila a causa dell’epidemia di coronavirus che rischia di espandersi anche nei territori palestinesi e di mettere in crisi un sistema sanitario, ma anche economico, sociale e politico già gravemente segnato all’occupazione e dall’assedio israeliani.

Salute e cure sanitarie nei TPO

L’attuale sistema sanitario dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), creato nel 1994 come parte degli accordi di Oslo, è un settore frammentato, formato dal Ministero della Salute palestinese (MdS), da Ong, dall’UNRWA [commissione ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.] e da strutture private. La qualità delle cure sanitarie varia in base alle possibilità della struttura di acquisire risorse ed avere accesso a servizi come elettricità ed acqua. Le differenze nell’accessibilità, esacerbate da ostacoli economici e di altro tipo alle cure come l’ineguale copertura sanitaria e la segregazione geografica, ha segnato per decenni il sistema palestinese delle cure mediche.

Nonostante un carente sistema sanitario, i palestinesi registrano uno dei migliori risultati rispetto ad altri Paesi arabi quanto agli indici di aspettativa di vita e mortalità materna, infantile e minorile. Gli alti livelli di scolarità nei TPO e gli sforzi del MdS, per quanto limitati, per garantire cure fondamentali come le vaccinazioni, sono i probabili fattori che, combinati con la diffusa corruzione del settore sociale e gli scarsi servizi sanitari offerti in tutto il Medio Oriente, spiegano questi risultati. Al contempo i palestinesi vivono in media 10 anni in meno rispetto agli israeliani, compresa la popolazione di coloni che vive nello stesso territorio. I palestinesi registrano una mortalità materna e infantile da quattro a cinque volte superiore a quella degli israeliani, che inoltre ricevono vaccinazioni, ad esempio contro la varicella e la polmonite, a cui i palestinesi generalmente non hanno accesso. Persino i palestinesi cittadini di Israele in genere stanno peggio rispetto alla popolazione ebraica, con un tasso più alto di malattie croniche.

Il blocco di Gaza ha portato a dati sanitari peggiori rispetto alla Cisgiordania, così come a un numero percentualmente minore di letti in ospedale, di infermieri e di medici. A Gaza buona parte delle carenze mediche hanno poco a che fare con la mancanza di risorse a disposizione e sono invece il risultato diretto di fattori politici. Per esempio, a parte una limitata quantità di cibo o di altre necessità umanitarie, Israele in genere non consente l’importazione di cemento o altri materiali necessari per la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate e degli edifici sanitari distrutti dagli attacchi israeliani. Persino l’importazione delle attrezzature necessarie è difficile, soprattutto per prodotti considerati da Israele potenzialmente pericolosi nelle mani di Hamas, come le attrezzature radiologiche o le batterie utilizzate per supportare i generatori degli ospedali durante le interruzioni di elettricità.

La carenza di batterie, insieme alla scarsità di combustibile e alle limitazioni imposte alla sua importazione, comporta anche il fatto che il personale ospedaliero debba fare molta attenzione nell’uso dell’energia. Nel settembre 2018 il direttore generale del complesso ospedaliero Al-Shifa a Gaza City ha segnalato che la mancanza di elettricità stava esaurendo le riserve di combustibile che l’ospedale usava per i generatori di energia per i pazienti in dialisi, con necessità di interventi chirurgici o che avevano bisogno di trattamenti intensivi. È frequente vedere presso l’unità di terapia intensiva neonatale (UTIN) di Al-Shifa diversi neonati raggruppati in incubatrici che dovrebbero ospitarne uno solo. I medici di Gaza raccontano che a volte non sono neanche in grado di lavarsi le mani per la mancanza di acqua o di elettricità.

Nel 2018 l’ospedale Durrah di Gaza City è stato obbligato a chiudere il servizio di rianimazione e i reparti ad esso collegati per massimizzare l’accesso all’elettricità, che a un certo punto era di sole quattro ore al giorno. Altre 19 strutture sanitarie a Gaza hanno dovuto chiudere a causa della mancanza di elettricità e della scarsità di combustibile per i generatori.

A Gaza le scorte e le medicine fondamentali necessarie a qualunque normale struttura sanitaria sono carenti, soprattutto con l’incremento di pazienti con traumi dovuti alla Grande Marcia del Ritorno. In tutti i TPO i medici avvertono che a causa della carenza di medicine sono possibili conseguenze catastrofiche, tra cui lo scoppio di “supervirus” resistenti agli antibiotici, in particolare quando siano accompagnati dalla mancanza di guanti, camici e pastiglie disinfettanti al cloro. A Gaza nei soli primi due mesi del 2018, a causa della mancanza di farmaci per le vie respiratorie, sono morti sei neonati.

Persino quando ci sono i fondi per una struttura di alto livello, gli ostacoli politici restano. Recentemente i donatori hanno raccolto milioni di dollari per l’ospedale universitario nazionale An-Najah a Nablus, il primo e unico ospedale universitario nei TPO, che dispone di una delle dotazioni di apparecchiature mediche più avanzate. Tuttavia Israele ha bloccato l’importazione di uno degli impianti per la TAC utilizzato per diagnosticare i tumori, per il quale erano già stati raccolti i fondi, sostenendo che ci fosse il rischio di un “uso improprio” da parte dei palestinesi. Inoltre l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che avrebbe dovuto pagare i costi operativi dell’ospedale, a causa della mancanza di fondi è in debito dei soldi del progetto. Con l’appoggio della Turchia, avrebbe dovuto essere costruito l’ospedale Al-Sadaqa come parte dell’università islamica di Gaza, ma è stato rimandato per anni a causa del blocco israeliano.

Mentre le strutture private specializzate spesso riescono ad importare apparecchiature avanzate per le diagnosi, molti palestinesi non possono permettersi di pagare quei servizi, oppure i macchinari non funzionano a causa della manutenzione carente e della difficoltà di ottenere permessi per i pezzi di ricambio. Gli ospedali governativi possono offrire servizi a più cittadini, ma mancano comunque delle risorse per conservare o rinnovare la tecnologia che importano. Uno studio del 2018 degli ospedali pubblici di Gaza ha rilevato che dei sette apparecchi per la Tac a disposizione nel territorio assediato molti erano regolarmente fuori servizio e solo due ospedali avevano ricevuto il permesso da Israele di ricevere le apparecchiature. Un rapporto del 2018 di Medici per i Diritti Umani sostiene che questa mancanza di manutenzione trasforma gli ospedali in semplici “stazioni di transito per il trasferimento in altri ospedali”.

La mancanza di personale addestrato, soprattutto di specialisti, contribuisce significativamente alla scarsità di cure mediche e di risultati nei TPO, dove ci sono solo quattro scuole di medicina. Con una popolazione di tre milioni di abitanti, sei oncologi, più altri sette a Gerusalemme est, hanno in carico tutta la Cisgiordania. A Gaza ce ne sono tre. Lo scarso numero di oncologi nei TPO si traduce in una media di 250 nuovi casi di tumore per oncologo. Con meno del doppio della popolazione dei TPO, Israele conta 250 oncologi, con 116 nuovi casi di tumore per oncologo. Stati con una popolazione di dimensioni simili a quella dei TPO, come l’Irlanda, con 113 casi per oncologo, registrano tassi comparabili a quelli di Israele. 1

Le politiche dell’occupazione rendono difficile ai palestinesi esercitare la professione di medico. Per esempio, la divisione dell’università di Al Quds tra i campus di Abu Dis e Gerusalemme est ha portato ad una annosa battaglia amministrativa tra l’università e gli organismi israeliani di certificazione riguardo al riconoscimento delle lauree in medicina. Benché la questione sia alla fine stata risolta in tribunale, nel solo 2016 30 laureati in scienze infermieristiche hanno presentato un ricorso alla procura generale dello Stato in quanto il ministero dell’Educazione israeliano aveva rifiutato di riconoscere la loro laurea.

Anche la separazione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ha ridotto le possibilità di formazione medica. Nel 1999 l’università di Al-Azhar a Gaza ha creato un dipartimento di studi medici come sede staccata dell’università di Al-Quds a Gerusalemme est. Quando durante la Seconda Intifada il passaggio sicuro tra i due territori è stato bloccato, è finita anche la collaborazione tra le università.

Queste difficoltà portano ad una fuga di cervelli, in quanto i medici palestinesi emigrano per avere una formazione migliore o migliori opportunità di carriera. I dottori giovani a Gaza devono lavorare 70 ore alla settimana per guadagnare solo 280 dollari al mese, e il personale medico e gli addetti alla manutenzione non possono andare a fare corsi di aggiornamento per le nuove tecnologie sanitarie o per altre opportunità professionali. Dottori affermati ricevono meno di metà del loro salario a causa delle sanzioni dell’ANP. Quando, dopo due anni senza percepire lo stipendio, il famoso cardiochirurgo Marwan Sadeq è emigrato per lavorare in una clinica universitaria austriaca, ha affermato: “Se volessi stare a Gaza, mi trasformerei … da cardiochirurgo a uno che si preoccupa solo di come dar da mangiare ai propri figli.” Nel 2018 fonti locali a Gaza hanno stimato che se ne siano andati tra 100 e 160 medici e docenti di medicina; molti di questi non torneranno. Una ricerca del 2008 in tutti i TPO sui professionisti dell’educazione superiore e della salute ha rilevato che circa il 30% desiderava emigrare, principalmente a causa della situazione politica e della sicurezza.

In Cisgiordania le ambulanze devono fare i conti con i posti di blocco militari israeliani e altre interruzioni delle strade e con le limitazioni agli spostamenti. Uno studio del 2011 ha scoperto che ogni anno dal 2000 al 2007 il 10% delle donne incinta è stato bloccato al checkpoint, provocando nei posti di blocco 69 nascite, 35 bambini morti e cinque decessi in conseguenza del parto. I media e le ong hanno reso pubblici i dati di pazienti morti in seguito a ritardi o blocchi nell’attraversamento dei checkpoint. I pazienti della Cisgiordania che abbiano bisogno di cure a Gerusalemme est devono prendere un’ambulanza palestinese a uno dei posti di controllo e poi essere trasferiti su un’ambulanza israeliana per continuare il viaggio, e anche i pazienti palestinesi che muoiono negli ospedali israeliani devono essere spostati da un’ambulanza all’altra durante il viaggio per tornare ed essere sepolti in Cisgiordania. Questo procedimento è noto come trasferimento “consecutivo”, e al 90% delle ambulanze [palestinesi] che sono entrate a Gerusalemme est nel 2017 veniva richiesto di seguire questa procedura.

La procedura richiesta per ottenere un permesso per ragioni di salute e ricevere cure specializzate in Israele o in uno Stato limitrofo è complessa ed arbitraria. A Gaza un medico manda ogni paziente che necessiti di queste cure all’Unità per l’Ottenimento di un Servizio, dove inizia il procedimento di presentazione delle domande per un permesso di ingresso in Israele. Esso può essere negato in qualunque momento senza spiegazione, e, anche se viene approvato, i membri della famiglia del paziente, in alcuni casi i genitori di minorenni malati, potrebbero non ricevere il permesso per accompagnarli. I pazienti devono rifare tutta la procedura per le visite di controllo. Nel 2017 l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha scoperto che solo il 54% delle richieste dei pazienti da Gaza è stato approvato, il livello più basso da quando nel 2011 l’organizzazione ha iniziato a raccogliere i dati. Quell’anno cinquantaquattro pazienti, principalmente bisognosi di cure per tumori, sono morti in attesa di un permesso di sicurezza.

I pazienti della Cisgiordania che hanno necessità di cure in Israele devono superare un procedimento simile, che richiede il rinvio allo specialista da parte del MdS insieme a un permesso di viaggio. I pazienti devono anche attraversare vari checkpoint e cambiare veicolo per completare il viaggio. Questi permessi sono concessi molto più spesso che a Gaza, ma non sono garantiti. Nel 2016 il 20% dei palestinesi della Cisgiordania che hanno fatto richiesta di un permesso per accedere agli ospedali a Gerusalemme est o in Israele è stato respinto. L’ANP ha anche rilasciato un numero inferiore rispetto agli anni precedenti di voucher per il rimborso delle cure a quei pazienti, una condizione indispensabile per fare richiesta di rilascio di un visto di viaggio da parte di Israele. Tredici pazienti, sei dei quali minorenni, sono morti nel 2017 in attesa dell’approvazione dei loro voucher.

Recentemente l’ANP ha detto che non invierà più pazienti palestinesi negli ospedali israeliani, accusando Israele di far pagare cifre maggiorate per le cure mediche e di dedurre quei fondi dalle tasse che raccoglie per conto dell’ANP. L’ANP ha sottolineato che continuerà ad inviare i pazienti della Cisgiordania agli ospedali di Gerusalemme est e lavorerà anche per mandarne altri agli ospedali negli Stati vicini, come Giordania ed Egitto.

Benché la legge umanitaria internazionale preveda notevoli garanzie per le cure sanitarie in zone di conflitto, nei TPO le forze israeliane continuano ad attaccare ospedali, ambulanze ed equipe mediche. La comunità internazionale non è riuscita ad impedire tali aggressioni.

Poche azioni concrete hanno fatto seguito alle ripetute risoluzioni ONU e agli appelli per l’assistenza da parte dei presidenti di organizzazioni come Medici senza Frontiere o della Commissione Internazionale della Croce Rossa. Nel 2017 i TPO hanno subito 93 attacchi al sistema sanitario, secondi solo alla Siria. In quasi tutti gli esempi la risposta dell’esercito israeliano è stata che l’episodio è stato accidentale o giustificato da attività terroristiche.

Casi particolarmente gravi come quello di Razan Al-Najjar [giovane paramedica palestinese uccisa da un cecchino israeliano nel giugno 2018 a Gaza, ndtr.] e di Tarek Loubani, medico canadese-palestinese che le forze israeliane hanno colpito a una gamba nel maggio 2018 sul confine di Gaza, hanno riportato questi problemi all’attenzione dell’opinione pubblica. Recentemente anche alcuni gruppi per i diritti umani hanno documentato molteplici casi di violenze contro ambulanze e personale medico, così come irruzioni in strutture sanitarie.

Durante i periodi di particolare violenza, come nella guerra del 2014 a Gaza, gli ospedali sono stati direttamente colpiti. Dopo il bombardamento dell’ospedale Shuhada al-Aqsa di Gaza, in cui cinque persone, fra cui tre minorenni, sono rimasti uccisi, le autorità israeliane hanno giustificato l’attacco sostenendo che c’erano munizioni sospette “immagazzinate nelle immediate vicinanze dell’ospedale”. Nella stessa guerra l’ospedale El-Wafa, dove si trovava l’unico centro di riabilitazione di Gaza, è stato totalmente raso al suolo. A causa delle restrizioni all’importazione di materiale da costruzione, l’ospedale rimane distrutto e il personale dell’ospedale ha fornito le cure condividendo lo spazio con un ospedale geriatrico.

Il ruolo del governo locale

La principale ragione delle disastrose condizioni delle cure mediche per i palestinesi nei TPO è l’occupazione israeliana. Tuttavia anche il governo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza svolge un ruolo [nella situazione].

Nel 2017 le difficoltà finanziarie hanno portato il governo palestinese a tagli ad un programma che dal 2000 forniva l’assicurazione sanitaria ai cittadini disoccupati. Con un tasso di disoccupazione intorno al 30% nei TPO, una cifra stimata di 250.000 persone beneficiava del programma. A Gaza anche famiglie che solitamente erano in grado di pagare per essere curate in strutture private o per l’assicurazione sanitaria pubblica hanno fatto ricorso alla richiesta di esenzione dal pagamento dell’assicurazione sanitaria, che a una famiglia di 4 persone costa meno di 300 dollari all’anno. A partire dal febbraio 2018 sono state esaminate circa 70.000 richieste del genere. I dati di quell’anno mostrano che circa il 40% dei finanziamenti per la salute nei TPO è pagato di tasca propria. Con l’aumento della povertà e della disoccupazione, soprattutto a Gaza, e con l’ANP che deve fare i conti con la continua riduzione degli aiuti e con lo strangolamento dello sviluppo, la crisi del sistema dell’assicurazione sanitaria aumenterà.

Il taglio degli aiuti USA ha esacerbato la situazione. Soggetti coinvolti come OMS e Medical Aid for Palestinians hanno affermato che si faranno carico di alcune delle carenze determinate dai tagli USA, ma, se i benefici degli aiuti devono arrivare al suo popolo, l’ANP deve cambiare il proprio modo di pensare riguardo alle priorità.

Dei 5 miliardi del bilancio dell’ANP approvato nel 2018 il 30-35% è andato al settore della sicurezza, mentre soltanto il 9% è stato destinato alla salute. Del bilancio totale, 775 milioni di dollari (il 15,5%) era previsto arrivassero da aiuti dall’estero, in genere divisi tra il sostegno alla sicurezza, finanziamenti per l’UNRWA e denaro per progetti di USAID [agenzia governativa USA per aiuti all’estero, ndtr.]. Benché gli USA abbiano fatto drastici tagli agli aiuti, che colpiscono le possibilità per milioni di palestinesi di avere accesso a cure mediche, educazione e cibo, politici israeliani ed USA si sono affannati a garantire una parte del pacchetto di aiuti: quella per la sicurezza. Ciò che era iniziato come un accordo “prima di tutto la sicurezza” si è trasformato in una strategia “solo la sicurezza”.

L’ANP sta anche affrontando una crescente crisi di legittimità, con l’80% dei palestinesi nei TPO recentemente interpellati convinto che le istituzioni dell’ANP siano corrotte e più di metà (il 53%) secondo cui l’ANP è diventata un peso per il popolo palestinese. Scarsi controlli, tangenti, malversazioni, nepotismo e altre forme di corruzione sono in crescita nei servizi sociali, come nel servizio sanitario. Questa corruzione non si limita al livello statale. Per esempio, è ben noto che le bustarelle agevolano autorizzazioni per permessi sanitari, soprattutto nella Striscia di Gaza.

Anche la lotta interna tra Hamas e l’ANP ha portato a ridurre le risorse per la salute. Mentre l’ANP accusa Israele di fare leva sui servizi sociali palestinesi per imporre negoziati, a Gaza è l’ANP che utilizza la sua posizione contro Hamas. Nel gennaio 2018 a Gaza era esaurito il 40% dei farmaci essenziali, un approvvigionamento della cui gestione è responsabile l’ANP. Nello stesso anno il ministero della Salute a Gaza, insieme alle associazioni palestinesi per i diritti umani, ha avvertito che la carenza di medicine aveva raggiunto un livello pericoloso ed ha sollecitato il MdS dell’ANP a “garantire l’afflusso libero e sicuro” a Gaza dei beni sanitari necessari. In risposta, l’ANP ha mandato 38 camion con 4 milioni di prodotti. Tuttavia l’assistenza sporadica non può sopperire a un sistema sanitario che da molto tempo è stato indebolito dalla mancanza di personale e di prodotti.

Mentre Israele controlla il valico di Erez sul confine settentrionale di Gaza, l’Egitto controlla quello di Rafah a sud. Da quando è iniziato il blocco anche l’Egitto ha ridotto in modo significativo a persone o cose l’autorizzazione a entrare. Mentre per casi umanitari è possibile chiedere un permesso per attraversarlo, in pratica per molti anni il valico è stato chiuso praticamente ogni giorno, persino per ragioni di salute. Per esempio, nel 2017 in totale Rafah è stato aperto per 36 giorni, permettendo solo a 1.400 pazienti di attraversarlo. Nonostante dal 2018 l’apertura del confine sia più frequente, rimane una lista d’attesa di decine di migliaia di persone che sperano di uscire. Benché non controlli alcun valico, anche Hamas ha sfruttato il proprio potere, vietando pure l’ingresso di beni inviati dall’esercito israeliano, come flebo, disinfettanti e carburante, con l’accusa che Israele stesse “cercando di migliorare la sua immagine negativa”.

Strategie per migliorare il sistema sanitario

Con un margine ridotto come non mai nei decenni per un processo di pace realistico e giusto, i palestinesi non possono attendere un accordo politico per avere l’accesso garantito a cure mediche sicure, di alta qualità e affidabili. Ci sono una serie di settori in cui si può agire nell’immediato per sostenere questo accesso.

1. L’ANP deve rifiutare di concentrarsi sul finanziamento della sicurezza per dare fondi alla salute, destinando più risorse al sistema sanitario. Il suo dialogo con i donatori deve essere strategico e dovrebbe includere: 1) particolare attenzione per le principali priorità condivise dalle parti interessate; 2) una particolare attenzione alla costruzione e conservazione di risorse interne; 3) un approccio che riduca le inefficienze e le diseguaglianze del sistema. In questo modo la necessità più urgente – garantire la solidità delle strutture mediche esistenti e incoraggiarne l’ampliamento – diventerà una priorità. Queste strategie possono anche contribuire a far sì che il sistema vada oltre la sua attuale capacità di rispondere solo alle emergenze, cosa che gli impedisce di essere in grado di migliorare la salute della popolazione al di là di ferimenti e rischi di morte legati a traumi.

2. L’ONU e altre organizzazioni umanitarie devono chiedere l’accesso totale e concreto ai beni umanitari per i palestinesi. L’ANP deve anche far prevalere la vita dei palestinesi rispetto alle manovre politiche e garantire che ai cittadini, soprattutto a Gaza, vengano forniti medicinali ed altri prodotti necessari a garantirne la salute. Per esempio l’ANP può lavorare per esentare i beni sanitari dal protocollo di Parigi, che rallenta per mesi l’importazione di forniture mediche, dato che l’importazione dipende da permessi e altre forme di autorizzazione.

3. Dovrebbe essere formata un’agenzia autonoma che controlli le attività dell’ANP e chiami a rispondere i singoli, compreso il MdS, delle pratiche corruttive. Anche la società civile, i media e i gruppi di sostegno locali ed internazionali dovrebbero fare pressione sulle istituzioni dell’ANP perché forniscano risultati tangibili, come conservare scorte di farmaci essenziali e intervenire per ridurre l’uso di trasferimenti “consecutivi” in ambulanza per i pazienti che devono entrare a Gerusalemme est o in Israele.

4. Sono fondamentali strategie per ridurre al minimo la necessità per i pazienti di uscire dal Paese per aver accesso alle cure. La formazione sanitaria all’interno dei TPO può ridurre la carenza di medici ed infermieri, con una particolare attenzione a programmi per palestinesi che intendano rimanere a lavorare all’interno dei territori. Il MdS, insieme ad organizzazioni come l’International Medical Education Trust [Ong inglese che si occupa della formazione di personale sanitario nelle zone di crisi, ndtr.], ha sviluppato opportunità di formazione a distanza, telemedicina e addestramento di specialisti per superare le limitazioni agli spostamenti. In alcune facoltà di medicina i piani di studio hanno incluso innovazioni tecnologiche, come simulazioni cliniche, consulenze via computer e video conferenze per mettere in contatto tra loro e con colleghi di altre parti del mondo gli studenti palestinesi di corsi di carattere sanitario. Queste iniziative dovrebbero essere ulteriormente sviluppate. Anche i palestinesi della diaspora potrebbero essere incoraggiati a fornire formazione o a fare tirocinio nei TPO per contribuire a ricostituire una comunità funzionante di personale medico palestinese.

5. Gli attori internazionali dovrebbero intraprendere una campagna di pressione perché Israele riveda il suo sistema poco trasparente di permessi per ragioni di salute. Le autorità israeliane dovrebbero motivare il rifiuto del permesso, e dare anche ai pazienti la possibilità di presentare ricorso. Anche i permessi dovrebbero essere controllati in modo efficiente. All’inizio del 2019 le organizzazioni israeliane per i diritti umani Gisha, Physicians for Human Rights e HaMoked hanno chiesto che Israele approvi più rapidamente le richieste di permessi per ragioni di salute, ma l’Alta Corte di Giustizia [israeliana, ndtr.] ha bocciato la richiesta. Questo tipo di tentativi dovrebbe continuare in linea con la posizione dell’OMS, secondo cui Israele è obbligato a “consentire l’accesso immediato per 24 ore al giorno e sette giorni su sette ai pazienti palestinesi che richiedono cure specialistiche.” Anche l’Egitto dovrebbe consentire più ingressi umanitari dal confine di Rafah con Gaza.

6. Le autorità israeliane devono giustificare ogni caso di pazienti palestinesi o ambulanze a cui venga negato il passaggio a un checkpoint con un sistema trasparente monitorato da un controllore esterno. Un ritardo o un rifiuto a un posto di blocco che abbia come conseguenza la morte o danni permanenti dovrebbe essere investigato e considerato una possibile violazione delle leggi umanitarie e dei diritti umani internazionali, non un problema logistico.

7. Tutte le parti, dalle organizzazioni umanitarie agli Stati che hanno relazioni con Israele, devono chiedere indagini approfondite ed indipendenti sugli attacchi contro l’assistenza sanitaria non gestita dalle autorità israeliane. Mentre attacchi contro strutture sanitarie non sono una caratteristica esclusiva dei TPO, è significativo che la frequenza sia così alta in una situazione che non è caratterizzata da violenza attiva, come in Siria, e il cui principale responsabile è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Ciò potrebbe permettere di esercitare una forte pressione su Israele per evitare simili episodi. Oltretutto dovrebbero essere imposte sanzioni a quanti violino la protezione garantita alle strutture e al personale sanitario.

Anche se queste misure indubbiamente aiuterebbero a sostenere il sistema sanitario palestinese e i suoi risultati, l’ANP deve fondamentalmente impegnarsi ad affrontare le cause politiche sottostanti che limitano l’accesso dei palestinesi a un adeguato sistema sanitario. Un sistema sanitario non dovrebbe essere in balia di un occupante militare o dipendere dall’aiuto estero e dalle mutevoli motivazioni e priorità dei donatori. Finché esisterà il modello palestinese di “quasi Stato”, continuerà anche la dipendenza dei servizi sociali dagli aiuti. Questo è un modello insostenibile e ingiusto per un sistema sanitario. Solo affrontando le ingiustizie fondamentali e la violenza quotidiana dell’occupazione israeliana il sistema sanitario palestinese e l’accesso ad esso possono veramente migliorare.

Nota

1. Il cancro è la seconda causa principale di morte nei TPO e molti più casi probabilmente non sono diagnosticati a causa della mancanza di laboratori specializzati in oncologia, così come del limitato numero di strutture diagnostiche e radiologiche, soprattutto per i palestinesi che non possono ricevere un permesso medico per essere curati altrove. Solo sei ospedali pubblici, sparsi tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sono attrezzati per trattare i pazienti oncologici.

Yara Asi

Componente della direzione di Al-Shabaka, Yara Asi ha conseguito un dottorato in Politiche Pubbliche all’università della Florida centrale, con particolare attenzione a ricerche e gestione del sistema sanitario. La sua tesi di dottorato ha esaminato le misure per la qualità della vita in Cisgiordania e in Giordania. Il lavoro di Yara prende in considerazione principalmente la salute, l’educazione e lo sviluppo in popolazioni colpite dalla guerra, anche se ha tenuto conferenze e scritto articoli anche su altri argomenti, come sicurezza e sovranità alimentare nei territori palestinesi, ruolo delle donne nelle crisi umanitarie e politiche di aiuto dall’estero in Stati vulnerabili. Ha anche lavorato su ricerca e divulgazione con Amnesty International USA e con il Palestinian American Research Center [Centro Palestinese Americano di Ricerca].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Adolescente palestinese ucciso durante un tentativo del suo villaggio di difendere una montagna dai coloni israeliani

Yumna Patel 

11 marzo 2020 – Mondoweiss

Per i palestinesi della zona nord della Cisgiordania occupata mettere a rischio la vita per difendere la propria terra fa semplicemente parte dell’esistenza.

Innumerevoli palestinesi hanno pagato il prezzo più alto per aver tentato di respingere i coloni e i soldati dalle loro città, cittadine e villaggi. Mercoledì un altro palestinese si è aggiunto a questa lista.

Mercoledì il quindicenne Mohammed Abdel Karim Hamayel, ore dopo essere stato colpito dalle forze israeliane insieme a decine di altri giovani della sua cittadina di Beita, a sud di Nablus, è deceduto in seguito alle ferite.

Hamayel è stato colpito quando decine di soldati israeliani armati hanno invaso Jabal al-Arma, o la montagna di Al-Arma, nei dintorni di Beita, ed hanno iniziato a scontrarsi violentemente contro una folla di palestinesi che stavano facendo un sit-in sulla montagna.

A quanto pare i militari avrebbero usato proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni per reprimere i manifestanti, che per settimane hanno inscenato dei sit in su al-Arma nel tentativo collettivo di scacciare i coloni che hanno cercato di prendere il controllo della montagna.

Informazioni ufficiali del ministero della Salute indicano che durante l’attacco oltre 100 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui due in modo grave da proiettili veri.

Altre decine, compreso il ministro dell’ANP Walid Assaf, che si occupa della resistenza popolare contro il muro e le colonie in Cisgiordania, sono stati asfissiati e curati per aver inalato gas lacrimogeno.

Settimane di scontri

L’uccisione di Hamayel e la violenta repressione dei manifestanti di mercoledì mattina sono state il culmine di settimane di proteste sulla montagna e di scontri tra persone del luogo, soldati e coloni israeliani.

Circa due settimane fa coloni del notoriamente violento insediamento di Itamar hanno pubblicato un appello sulle reti sociali per occupare la montagna, che pensano sia un antico luogo religioso ebraico, e prenderne il controllo.

Dopo essere venuti a conoscenza dei progetti dei coloni, decine di uomini e giovani di Beita sono andati sulla montagna ed hanno eretto tende di protesta per rimarcare la loro presenza come deterrente contro i coloni.

Benché il gruppo di coloni non abbia ricevuto il permesso dell’esercito israeliano di andare sulla montagna, un piccolo numero di giovani coloni ha deciso di comunque proseguire.

C’erano circa 10 coloni e un reparto di soldati che sono venuti a proteggerli e a scortarli su per la montagna,” ha detto a Mondoweiss Minwer Abu al-Abed, un attivista del posto di 56 anni.

Secondo al-Abed, i soldati hanno inutilmente cercato di scortare i coloni sulla montagna, sparando lungo il percorso proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni.

I coloni hanno tentato una conquista violenta della nostra terra, ma ovviamente loro (i soldati) erano là solo per sparare ai palestinesi,” dice al-Abed.

Video degli scontri, diventati virali sulle reti sociali palestinesi, mostrano gruppi di giovani palestinesi lanciare pietre contro i coloni e i soldati finché questi ultimi sono stati obbligati a lasciare la zona.

Nonostante quel giorno si siano registrati più di 90 feriti, il villaggio l’ha festeggiata come una vittoria. “Abbiamo fatto sapere che ci siamo e abbiamo difeso la nostra terra contro i coloni,” afferma al-Abed, aggiungendo orgogliosamente che “neppure una colonia è stata costruita sulla terra di Beita, cosa che attribuisce alla fermezza degli abitanti.

Tuttavia i coloni hanno fatto altri due tentativi di impossessarsi della montagna, ogni volta con maggior potenza di fuoco e l’appoggio dell’esercito israeliano.

Il 2 marzo un altro fallito tentativo ha portato al ferimento di decine di palestinesi, di cui due feriti da proiettili veri.

Il terzo tentativo, mortale, è avvenuto mercoledì [11 marzo] mattina, poche ore dopo che Israele ha compiuto una massiccia retata nel villaggio, e, benché i coloni non siano riusciti ad impossessarsi della montagna, è finito con la morte di un ragazzino.

Non lasceremo mai questa terra”

Scontri tra coloni e palestinesi, come l’ultimo tentativo di impossessarsi della terra di questi ultimi, non sono rari in Cisgiordania, soprattutto a Nablus.

Colonie come Yitzhar, Itamar e Brakha sono diventati nomi familiari nei vicini villaggi palestinesi, che affrontano continui attacchi dei coloni contro la loro terra, le loro attività agricole, il loro bestiame, le loro case e le persone.

Quindi, quando i coloni hanno messo gli occhi su al-Arma, gli abitanti di Beita non sono rimasti sorpresi. “La lotta per difendere al-Arma non è nuova,” dice al-Abed a Mondoweiss, aggiungendo che i coloni hanno tentato per decenni di occupare la cima della collina, addirittura fin dagli anni ’80. “Pensano che ci sia un sito ebraico sulla montagna e che ciò dia loro diritti su di essa,” sostiene. “Ma lì ci sono rovine cananee, che dimostrano il nostro legame con questa terra.”

Secondo al-Abed nel corso degli anni centinaia di abitanti di Beita sono stati arrestati, molti per le proteste a Jabal al-Arma. Altri due, dice, sono stati resi martiri mentre cercavano di difendere la cima della montagna.

Questa montagna non ha solo un significato storico per noi, ma è importante per la vita quotidiana della gente di Beita,” afferma al-Abed, aggiungendo che gli abitanti della cittadina non solo ne coltivano la cima, ma la usano anche per attività ricreative, picnic e grigliate in famiglia. “In quanto palestinesi non lasceremo mai questa montagna. La gente di Beita non cederà mai,” sostiene.

Sono da condannare Trump e Netanyahu

Mentre le cime che circondano Nablus sono costellate da decine di colonie e avamposti israeliani, buona parte della terra rubata ai palestinesi utilizzata per costruirli si trova nell’Area C – più del 60% della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano – rendendo più facile ai coloni occuparla. Tuttavia, in base agli accordi di Oslo, Jabal al-Arma è designata come Area B, il che pone sotto l’autorità dell’ANP questioni come edilizia e accesso alle terre da coltivare.

Per anni gli abitanti del villaggio hanno creduto che il fatto che la montagna si trovi nell’Area B l’avrebbe difesa dall’occupazione da parte dei coloni.

Ma quando il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha attizzato i tentativi di estendere il controllo israeliano sull’Area B, la sensazione di sicurezza provata dagli abitanti è svanita.

Questi recenti tentativi dei coloni di impossessarsi di Jabal al-Arma sono chiaramente legati alle politiche del governo di destra israeliano,” dice al-Abed.

E a peggiorare le cose, nota al-Abed, la pubblicazione del piano di pace USA in gennaio ha solo ulteriormente imbaldanzito il movimento dei coloni in Cisgiordania.

Chi pensi abbia dato ai coloni e a Netanyahu il permesso di andare avanti con l’annessione e con tutti i loro piani?” chiede. “Lo ha fatto Trump. Quando ha reso pubblico il piano di pace ha detto ad Israele ‘prendi quello che vuoi’. Ed ora i palestinesi ne stanno pagando il prezzo.”

Yumna Patel è corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La destra israeliana non ha idea di come fare di fronte all’impennata della Lista Unita

 Meron Rapoport,

4 marzo 2020 – 972mag.com

Lo straordinario risultato elettorale della Lista Unita ha mostrato il crescente potere dei cittadini palestinesi. Potrebbe produrre nuovi orizzonti politici – ma anche rischi

Mercoledì sera è venuta chiaramente alla luce l’incapacità della destra israeliana di affrontare il crescente potere politico della Lista Unita. Se il primo ministro Benjamin Netanyahu si è lasciato andare a un calcolo razzista delegittimando l’oltre mezzo milione di persone che hanno votato lunedì per la Lista Unita – affermando di aver vinto tra gli elettori sionisti perché “gli arabi non fanno parte dell’equazione” – il parlamentare del Likud Miki Zohar è apparso in televisione e ha ipotizzato che il suo partito raggiunga la maggioranza di 61 seggi avvicinandosi agli elettori palestinesi, salvando così la destra.

Si può facilmente ironizzare su questa affermazione; i membri del Likud non hanno la più pallida idea di come avvicinare il pubblico palestinese, tanto meno su come mettere a punto una strategia e un’infrastruttura organizzativa per farlo. Ma è comunque interessante: se Netanyahu non conta i voti palestinesi – mercoledì, in una riunione dei leader dei partiti di destra, ha contato i voti della “destra sionista” e della “sinistra sionista”, ignorando il risultato della Lista Unita alle elezioni – Zohar sì. E addirittura conta su di loro per aprire la strada a un governo di destra.

La stessa ambiguità caratterizza l’attuale perseguimento di una legge che impedisca a chi sia stato incriminato di formare un governo. Il processo è guidato dai parlamentari Ofer Shelah di Blu e Bianco e Ahmed Tibi della Lista Unita – nonostante Blu e Bianco abbia appena promesso ai suoi elettori che avrebbe partecipato solo ad un governo di “maggioranza ebraica”, tentando di escludere la Lista da qualsiasi coalizione.

Non è la prima volta che partiti o politici palestinesi sono coinvolti nella promozione dell’attività legislativa del parlamento, ma ora si tratta di qualcosa di più di una semplice legge. Piuttosto, il prossimo governo potrebbe cambiare le regole della politica in Israele-Palestina, e porre fine alla carriera politica di Netanyahu.

Che la Lista Unita, avendo ricevuto un enorme voto di fiducia da parte del pubblico palestinese, possa essere un architetto centrale in questa legislazione è un fatto senza precedenti. Sì, i loro rappresentanti sono entrati alla Knesset come esito degli Accordi di Oslo, ma non erano stati coinvolti nell’elaborazione dell’accordo, hanno potuto solo accettarlo. Ora, invece, sono tra i decisori.

Questo sviluppo, ovviamente, è dovuto all’aritmetica politica. Questa volta la Lista Unita ha ottenuto due seggi in più rispetto alle elezioni di settembre 2019, decisivi per dare in parlamento la maggioranza al “campo anti-Bibi”. Senza di loro, a Netanyahu sarebbe assicurata la guida del governo mentre Blu e Bianco rimarrebbe bloccato all’opposizione.

La reazione di Blu e Bianco al risultato elettorale è stata di inviare un emissario, Ofer Shelah, per cercare di concludere un accordo con la Lista Unita. Nel frattempo, Avigdor Liberman, capo di Yisrael Beitenu [partito di destra ultranazionalista, ndtr.], ha annunciato giovedì il suo sostegno alla proposta di legge e, secondo fonti di partito, starebbe per annunciare il suo sostegno a Benny Gantz, capo di Blu e Bianco, nella formazione di un governo. Netanyahu, da parte sua, sta tentando di cancellare del tutto i voti della Lista Unita, mentre Miki Zohar accarezza la fantasia di impadronirsene a favore del Likud.

Gli eventi degli ultimi giorni non riguardano solo la politica. Rivelano un problema di fondo della società israeliana e dello Stato di Israele sin dalla sua fondazione: i cittadini palestinesi fanno parte della comunità politica israeliana – del suo “demos” – o il sistema politico israeliano è composto solo da un gruppo nazionale, gli ebrei? Israele è davvero un’etnocrazia, un regime etnicamente ebreo, dove i palestinesi sono semplicemente un bagaglio in eccesso che non ha posto nella politica del paese?

Molto è stato scritto su queste questioni, ma un aspetto è difficile da contestare: ad eccezione del governo Yitzhak Rabin nel 1992, i partiti palestinesi non hanno mai fatto parte della coalizione di governo. La forza del rifiuto a una presenza palestinese nel governo è illustrata da come Blu e Bianco si sia sentito in dovere di dichiarare che non si sarebbe mai appoggiato alla Lista Unita, in risposta al conciso e preciso slogan di Netanyahu che Gantz non sarebbe stato in grado di formare un governo senza Ahmad Tibi.

Anche la reazione agli exit poll di lunedì [i risultati definitivi si sono avuti giovedì dopo il voto dell’esercito, ndtr.] ha evocato questo sentimento. I portavoce di destra hanno immediatamente dichiarato che “il popolo aveva parlato”. Intendevano ovviamente gli elettori ebrei; i cittadini palestinesi non fanno parte del “popolo”.

Quando è stato chiaro ai partiti di destra che non avevano la maggioranza e che né Blu e Bianco né Lieberman avevano alcuna intenzione di garantirgliene una, quella rivendicazione si è solo rafforzata. Nella riunione di mercoledì Aryeh Deri, capo di Shas [partito degli ebrei orientali ultraortodossi, ndtr.], ha dichiarato che “il popolo ha chiaramente deciso” a favore della destra; Naftali Bennett, capo di Yamina [alleanza politica di partiti israeliani di destra e di estrema destra, ndtr.], ha aggiunto che “Blu e Bianco sta cercando di soffiare al popolo israeliano la vittoria del campo nazionale”. Il confronto che hanno in mente è chiaro: da un lato, il popolo di Israele; dall’altro, tutti gli altri, compresi Blu e Bianco e i palestinesi.

Ma il notevole risultato della Lista Unita in queste elezioni crea dei problemi a Blu e Bianco, sia che li si consideri un Likud 2.0, o un miscuglio di posizioni diverse nei confronti della popolazione palestinese. Il numero di palestinesi che si sono espressi renderà difficile per Blu e Bianco non considerarli parte del “popolo”. Ed è probabile che gli attacchi della destra costringeranno Blu e Bianco a guardare le cose in modo diverso: Ofer Shelah ha comunicato giovedì che la sua apertura a Tibi dimostra come ci sia “una maggioranza nella nuova Knesset a favore dello Stato di Israele, e contro lo Stato di Netanyahu. ” La Lista Unita, in questa visione, fa parte dello “Stato di Israele” – e quindi del “popolo”.

È troppo presto per dire se sia un modo per i cittadini palestinesi di entrare a far parte del “demos”. Ma accanto a Shelah, che a settembre ha rifiutato di avere un governo di minoranza supportato dalla Lista Unita, ci sono numerosi membri di Blu e Bianco, come Yoaz Hendel e Zvi Hauser, che rifuggono solo all’idea che il “popolo” includa i palestinesi. Non se ne parla proprio, per quel che riguarda Lieberman. E quanto alla Lista Unita, non vi è poi alcun accordo sul fatto che i palestinesi debbano far parte del “demos” israeliano e a quali condizioni. Anche a destra non è stata presa alcuna decisione sul come affrontare la sfida.

Tale elaborazione potrebbe essere un processo pericoloso. Tibi sa che il suo grande progetto politico, una volta aiutati Blu e Bianco e Lieberman a sbarazzarsi di Netanyahu, potrebbe benissimo finire con loro che formano un governo con il Likud lasciando di nuovo i palestinesi fuori al freddo. Questo sarebbe un risultato meno negativo – potrebbero addirittura presentare la Lista Unita come presenza illegittima e sovversiva contro “la maggioranza ebraica”. Se la destra prosegue nella sua linea secondo cui “gli arabi e la sinistra hanno rubato la vittoria al popolo di Israele”, questo capitolo potrebbe anche finire in modo violento. Rabin, tanto per non dimenticare, è stato assassinato, più che a causa degli accordi di Oslo, soprattutto perché ha portato al governo parlamentari palestinesi.

Tuttavia, adesso la situazione è diversa. La nuova influenza politica della popolazione palestinese, espressa con il successo della Lista Unita, sta iniziando a cambiare le regole del gioco, forse più velocemente di quanto possiamo immaginare. Se la legge che dovrebbe abbattere un governo di Netanyahu passerà con i voti di Blu e Bianco e Lieberman da un lato, e l’alleanza laburista-Gesher-Meretz [partiti israeliani di centro-sinistra, ndtr.] con la Lista Unita dall’altro, questo potrebbe essere il primo passo verso un nuovo orizzonte politico.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)