Violenza, oppressione e morte: in Cisgiordania l’ANP fa il lavoro sporco per Israele  

Ramzy Baroud

5 marzo 2020 – Middle East Monitor

Solo due settimane dopo che il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas aveva dichiarato che l’ANP avrebbe sospeso ogni “coordinamento per la sicurezza” con Israele, forze dell’ordine palestinesi in Cisgiordania hanno ucciso un ragazzo disarmato, Salah Zakareneh.

Zakareneh non è il primo e, purtroppo, non sarà l’ultimo palestinese ad essere ucciso dalle forze di sicurezza dell’ANP, che negli ultimi anni hanno notevolmente accentuato la loro azione repressiva contro ogni forma di dissenso politico in Palestina.

Il ragazzo diciassettenne è morto poco dopo che le forze dell’ordine dell’ANP erano state inviate nel villaggio di Qabatiya, a sud di Jenin, nella zona settentrionale della Cisgiordania, dove in teoria avrebbero dovuto affrontare una prevista “manifestazione militarizzata”.

La versione ufficiale della vicenda sostiene che, appena le forze dell’ANP sono arrivate a Qabatiya, uomini armati del villaggio hanno aperto il fuoco, mentre altri lanciavano pietre, obbligando i poliziotti dell’ANP a rispondere con proiettili veri e lacrimogeni, causando la morte di Zakareneh e il ferimento di altri. Nessun agente dell’ANP è rimasto ferito da colpi di arma da fuoco.

Non si può negare che negli ultimi mesi in tutti i territori occupati siano cresciuti in modo esponenziale sentimenti avversi all’ANP. L’Autorità di Abbas è corrotta e continua a governare i palestinesi, pur con le possibilità limitate consentite da Israele, senza alcuna legittimità democratica.

Per di più, l’ANP è formata in gran parte da fedeli del partito Fatah di Abbas, che a sua volta è diviso in vari centri di potere.

Nel 2016 l’ANP ha creato a Gerico un ente che riunisce le agenzie di intelligence palestinesi con l’unico obiettivo di reprimere i sostenitori dell’arci-nemico di Abbas, Mohammed Dahlan, attualmente in esilio.

Da quando è stato creato, il nuovo organismo di intelligence, che fa diretto riferimento al presidente, ha esteso il suo mandato e sta reprimendo attivamente ogni individuo, organizzazione o gruppo politico che osi mettere in discussione le politiche di Abbas e del suo partito.

Poco dopo che Abbas aveva affermato durante un discorso alla Lega Araba al Cairo il 1 febbraio che l’ANP interromperà ogni contatto con Israele “compresi i rapporti per la sicurezza”, un importante dirigente dell’ANP ha informato i media israeliani che la cooperazione tra ANP e Israele continua ancora.

Fino ad ora il coordinamento continua, ma i rapporti sono estremamente tesi,” ha detto il dirigente a Times of Israel [quotidiano in rete israeliano, ndtr.].

Il “coordinamento per la sicurezza” è forse l’unica ragione per cui Israele sta consentendo all’ANP di esistere, nonostante il fatto che Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, sia venuto meno a tutti gli impegni in base agli accordi di Oslo e a tutte le intese che li hanno seguiti.

È veramente surreale che la dirigenza palestinese di Ramallah, che un tempo prometteva ai palestinesi libertà e liberazione in uno Stato indipendente e sovrano, ora esista soprattutto per garantire la sicurezza dell’esercito israeliano e dei coloni ebrei illegali nella Palestina occupata.

Ora l’ANP e l’occupazione israeliana coesistono in una sorta di rapporto simbiotico. Per garantire la continuazione di questi rapporti vantaggiosi per le due parti, sono entrambi impegnati nell’eliminazione di ogni forma di resistenza, o anche semplice protesta, nella Cisgiordania occupata.

In realtà, che i manifestanti di Qabatiya fossero o meno accompagnati da uomini armati avrebbe fatto ben poca differenza. L’unica forma di protesta o di riunione che attualmente è consentita in Cisgiordania è quella dei fedeli ad Abbas, che scandiscono il suo nome e se la prendono con i suoi nemici.

Lo scorso anno l’Organizzazione Araba per i Diritti Umani [ong che intende difendere i diritti umani nei Paesi arabi, ndtr.] del Regno Unito ha accusato i servizi di sicurezza dell’ANP di utilizzare misure repressive contro attivisti palestinesi e di impiegare torture psicologiche e fisiche contro chi critica. In altre parole, copiano le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi.

Il Servizio di Sicurezza Preventiva (SSP) dell’ANP e varie altre agenzia di intelligence prendono spesso di mira studenti e prigionieri dopo che questi sono stati rilasciati.

Nel suo rapporto su Israele e Palestina, Human Rights Watch (HRW) [una delle principali ong per i diritti umani, ndtr.] ha affermato che centinaia di palestinesi sono stati arrestati e torturati dalle forze di sicurezza dell’ANP per i “reati” più insignificanti.

Secondo i dati di HRW “il 21 aprile (2019) l’ANP teneva in detenzione 1.134 persone”. I gruppi per i diritti umani hanno anche informato che “tra il gennaio 2018 e il marzo 2019 (l’ANP) ha arrestato 1.609 persone per aver ingiuriato ‘importanti autorità’ e aver provocato ‘conflitti settari’, imputazioni che di fatto criminalizzano il dissenso pacifico, e 752 per post sulle reti sociali.”

Mentre molti prigionieri palestinesi detenuti illegalmente in Israele intraprendono prolungati scioperi della fame chiedendo l’immediato rilascio o migliori condizioni di detenzione, spesso mancano notizie su prigionieri palestinesi che facciano scioperi della fame nelle prigioni dell’ANP.

Ahmad al-Awartani, 25 anni, è stato uno delle migliaia di palestinesi arrestati con l’accusa di oltraggio; il giovane è stato fermato grazie alla cosiddetta legge sui “Crimini informatici”. È stato arrestato dalla polizia dell’ANP per un solo post su Facebook in cui criticava l’Autorità Nazionale Palestinese.

Nell’aprile 2018 al-Awartani ha iniziato uno sciopero della fame quasi totalmente ignorato dai media palestinesi, arabi e internazionali.

Arresti arbitrari, torture e violenze sono episodi ricorrenti nella Palestina occupata. Mentre Israele è responsabile della maggior parte delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi, l’ANP è parte integrante della stessa strategia israeliana.

Benché sia vero che la repressione operata da Abbas è fatta su misura per garantire i suoi interessi personali, le azioni dell’ANP in ultima istanza sono funzionali agli interessi di Israele che intende tenere divisi i palestinesi e sta utilizzando le forze di sicurezza dell’ANP come ulteriore livello di protezione dei suoi soldati e coloni.

Alla luce di ciò la morte di Zakareneh non può essere vista come un fatto marginale nella lotta palestinese contro l’occupazione e l’apartheid israeliane. Infatti l’Autorità Nazionale Palestinese ha fatto capire chiaramente che la sua violenza contro i palestinesi che dissentono non è diversa da quella israeliana che prende di mira ogni forma di resistenza in tutta la Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La vita culturale e educativa dei prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane

Addameer

14 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

La sistematica violazione dei diritti umani più basilari dei prigionieri e detenuti palestinesi da parte dell’occupazione israeliana ha modellato la continua lotta che essi conducono nelle prigioni israeliane.

Durante tutti questi decenni sono stati sistematicamente e deliberatamente privati di uno specifico diritto – quello all’educazione. Per avere accesso all’educazione, e anche per poter disporre di penne e carta entro le mura del carcere, i prigionieri palestinesi hanno dovuto ricorrere, tra le altre forme di resistenza, a scioperi della fame collettivi. Nel 1992, in seguito ad uno dei più importanti e famosi scioperi della fame di quell’anno, i prigionieri hanno ottenuto il diritto di usufruire dell’insegnamento secondario e superiore.

Ciò ha comportato un cambio di paradigma nel processo educativo ed ha consentito ai prigionieri di iscriversi ad istituti di insegnamento, cosa cruciale per loro, dato il numero crescente di prigionieri che volevano intraprendere un percorso universitario. Tuttavia il servizio penitenziario israeliano – sostenuto dall’Alta Corte israeliana – ha continuato a limitare il diritto all’educazione dei prigionieri. Ecco qui di seguito una sintesi della storia della lotta dei prigionieri politici palestinesi per il loro diritto all’educazione.

Al momento degli accordi di Oslo nel 1993, le le continue lotte e iniziative dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane avevano consentito loro di conquistare il diritto ad avere dei libri e delle biblioteche in carcere. I prigionieri organizzavano dibattiti educativi e culturali su diverse questioni legate ai diritti dei prigionieri e alla resistenza palestinese.

Nel quadro degli accordi di Oslo vennero liberati migliaia di prigionieri politici palestinesi arrestati durante l’Intifada. Benché un esorbitante numero di prigionieri sia tuttora in carcere, questo cambiamento indebolì la lotta dei prigionieri, cosa che a sua volta influenzò la situazione culturale creata all’epoca dai prigionieri. Le animate discussioni culturali divennero meno frequenti e il loro scopo si modificò, come anche la capacità dei prigionieri di organizzare scioperi della fame ed altre forme di azione collettiva per ottenere il rispetto dei loro diritti.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), che aveva precedentemente svolto un ruolo essenziale fornendo libri, materiale educativo e test sul quoziente di intelligenza nelle carceri, soprattutto per i bambini detenuti, a metà anni ’90 iniziò a farsi da parte, fino a scomparire del tutto da alcune carceri.

A metà degli anni ’90, in seguito all’evoluzione del movimento dei prigionieri e all’abbandono da parte della CICR, i prigionieri si riorganizzarono per dare priorità all’accesso all’educazione come richiesta collettiva. Lo sciopero della fame del 1992, a cui parteciparono migliaia di prigionieri e che durò 19 giorni, ottenne parecchie vittorie. Anzitutto per la prima volta i prigionieri furono autorizzati a presentarsi all’esame di maturità, noto con il nome di “tawjihi”, per ottenere il diploma di studi secondari.

Questa vittoria, molto importante per quei prigionieri i cui studi erano stati interrotti per decenni, era tuttavia incompleta perché si limitava alle discipline umanistiche, in quanto l’occupazione israeliana continuava a rifiutare l’accesso ai diplomi di scienze o di matematica.

Inoltre i prigionieri avevano accesso solo ad un numero limitato di programmi accademici all’università aperta israeliana, come teologia, sociologia, finanza e amministrazione, psicologia e scienze politiche. Ancora, i prigionieri dovettero condurre una difficile battaglia per costringere il servizio penitenziario israeliano (SPI), incaricato di agevolare il percorso, a rispettare l’accordo invece di ostacolare deliberatamente la sua applicazione in tutti i modi. Per esempio lo SPI, che doveva approvare l’iscrizione ad un programma di studi, spesso rifiutava di farlo con il pretesto della sicurezza, del fatto che si era raggiunto il numero masssimo di iscritti al programma o di altri motivi tanto fittizi quanto arbitrari.

Inoltre non forniva per tempo il materiale didattico ai prigionieri, cosa che impediva loro di seguire i corsi, oppure li trasferiva continuamente da un carcere all’altro durante il trimestre universitario o nei periodi degli esami, costringendo molti di loro a ripeterli.

Le restrizioni relative all’educazione dei prigionieri si sono aggravate nel tempo, soprattutto nel 2006, quando Israele ha applicato una punizione collettiva che comprendeva la soppressione del diritto all’educazione di parecchi prigionieri perché il soldato israeliano Gilad Shalit era stato catturato durante un’incursione militare israeliana a Gaza. Le restrizioni sono ulteriormente peggiorate nel 2011, dopo che il Primo Ministro israeliano dell’epoca, Benjamin Netanyahu, ha annunciato che nessun prigioniero palestinese sarebbe più stato autorizzato ad ottenere il diploma di laurea o di dottorato in carcere, affermando che per i prigionieri politici “la festa è finita”.

Il discorso di Netanyahu ha comportato il divieto totale di studio dei prigionieri nelle carceri ed ha posto fine all’esame di tawjihi e ai programmi di studio dell’Università aperta israeliana, per i quali i prigionieri si erano duramente battuti. Alcuni prigionieri che stavano per ottenere il diploma hanno invano presentato denunce all’Alta Corte israeliana, perché l’Alta Corte ha giudicato il divieto legale ed ammissibile. Nella sua decisione, la Corte ha sottolineato che l’educazione dei prigionieri è un privilegio che può essere revocato se lo SPI lo decide.

Tuttavia va notato che, se il discorso di Netanyahu è stato un annuncio pubblico della soppressione dei diritti dei prigionieri, lo SPI nel 2008 aveva già annullato i programmi educativi nella maggior parte delle carceri. Netanyahu non ha fatto che ratificare quanto era già in atto.

I prigionieri palestinesi ai quali sono state vietate le vie ufficiali di accesso all’educazione hanno continuato a battersi con ogni mezzo per il diritto all’educazione. Hanno cercato di colmare le lacune organizzando dibattiti culturali, corsi di alfabetizzazione e seminari educativi, creando delle biblioteche all’interno delle carceri e procurandosi giornali e riviste per i prigionieri. Molte di queste strade alternative non erano nuove, ma hanno acquisito importanza quando per i prigionieri è diventato impossibile iscriversi all’Università aperta israeliana.

Inoltre gli stessi detenuti hanno svolto un ruolo chiave nel processo educativo insegnandosi reciprocamente le lingue ed altre conoscenze.

Nel 2013 i prigionieri hanno lavorato con i ministeri competenti palestinesi per poter sostenere l’esame di tawjihi in prigione. Inoltre hanno instaurato dei legami con alcune università palestinesi ed hanno sviluppato dei programmi di laurea e di dottorato che hanno permesso a decine di prigionieri di conseguire il diploma nel corso degli anni.

Le autorità israeliane trovano continuamente nuovi modi per impedire ai prigionieri di studiare, senza contare che da anni ormai vietano i testi didattici in carcere e confiscano regolarmente i libri ed altro materiale educativo che i prigionieri riescono a fare entrare in carcere. Nel 2018 lo SPI ha confiscato circa 2.000 libri nella prigione di Hadarim, distruggendo la biblioteca che ci erano voluti anni a creare. Inoltre lo SPI punisce i prigionieri che cercano di proseguire i propri studi al di fuori delle mura carcerarie, trasferendoli in altre carceri o in altre celle.

Le donne e i minori detenuti subiscono le stesse restrizioni. Anche se nel 1997 i tribunali israeliani hanno stabilito che i minori prigionieri potevano proseguire la loro educazione secondo il programma palestinese, questo è molto lontano dalla realtà. Lo SPI autorizza gli insegnanti del ministero dell’Educazione israeliano ad insegnare solo due materie (arabo e matematica), cosa che ostacola gravemente lo sviluppo del minore. Il limitato numero di materie e l’irregolarità dei corsi compromettono enormemente i loro studi.

Le restrizioni continue e sistematiche imposte da Israele sono una violazione del diritto all’istruzione garantito da molte convenzioni internazionali, in particolare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Patto Internazionale sui diritti civili e politici, il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia.

Il diritto all’educazione è garantito anche dal diritto internazionale umanitario. L’articolo 94 della Quarta Convenzione di Ginevra stabilisce che “la potenza occupante deve incoraggiare le attività intellettuali, educative e ricreative, sportive e ludiche tra i reclusi, pur lasciandoli liberi di parteciparvi o meno. Deve prendere tutte le misure possibili per garantire il loro esercizio, in particolare mettendo a disposizione dei prigionieri locali adeguati. Devono essere messi a disposizione dei prigionieri tutti gli strumenti necessari a permettere loro di seguire i propri studi o di iscriversi a nuove discipline. L’educazione dei bambini e dei ragazzi deve essere garantita; essi devono essere autorizzati a frequentare la scuola in carcere o all’esterno. I prigionieri devono avere la possibilità di fare ginnastica, praticare sport e giochi all’aria aperta. A questo scopo, in tutti i luoghi di detenzione devono esserci sufficienti spazi all’aria aperta. Ai bambini e agli adolescenti devono essere riservate aree speciali per il gioco.”

Inoltre l’articolo 77 delle Norme standard minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite stabilisce che: “Devono essere prese misure per garantire la formazione continua di tutti i detenuti in grado di trarne profitto, compresa l’istruzione religiosa nei Paesi dove questo sia possibile. L’educazione degli analfabeti e dei giovani detenuti è obbligatoria e le deve essere dedicata particolare attenzione da parte dell’amministrazione. Per quanto possibile, l’educazione dei detenuti deve essere integrata al sistema d’insegnamento del Paese, in modo che essi, dopo la scarcerazione, possano proseguire gli studi senza difficoltà. In tutte le strutture penitenziarie devono essere offerte attività ricreative e culturali per mantenere la salute mentale e fisica dei detenuti.”

Non solo la potenza occupante vieta ai prigionieri palestinesi di usufruire del diritto all’educazione, ma continua a prendere di mira e ad arrestare deliberatamente gli studenti palestinesi. Solo nel 2019 il numero di studenti palestinesi incarcerati è salito a circa 250-300. Nel 2019 circa 75 studenti della sola università di Birzeit sono stati arrestati perché erano membri attivi di associazioni di studenti.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




“Il Donald Trump che conosco”: il discorso di Abbas alle Nazioni Unite e la crisi della politica palestinese

Ramzy Baroud

21 febbraio 2020  – palestinechronicle.

Ha sprecato un momento prezioso, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, l’11 febbraio scorso quando avrebbe avuto la possibilità di correggere un errore storico e ribadire le priorità nazionali palestinesi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con un discorso politico che fosse del tutto indipendente da Washington e dai suoi alleati.

Per molto tempo Abbas è stato ostaggio dello stesso discorso che definiva lui e la sua autorità come “moderati” agli occhi di Israele e dell’Occidente. Nonostante l’esplicito rifiuto da parte del leader palestinese dell’ “accordo del secolo” statunitense – che praticamente dichiara nulle le aspirazioni nazionali palestinesi – Abbas è ansioso di mantenere le su credenziali “moderate” il più a lungo possibile.

Certamente Abbas in passato ha tenuto molti discorsi alle Nazioni Unite e non è mai riuscito a impressionare i palestinesi. Questa volta, tuttavia, le cose avrebbero dovuto essere diverse. Washington non ha solo totalmente disconosciuto Abbas e l’ANP, ha anche rottamato il suo discorso politico sulla pace e sulla soluzione di due Stati. Inoltre, l’amministrazione Trump dà ufficialmente la sua benedizione a Israele perché annetta quasi un terzo della Cisgiordania, escluda Gerusalemme dalla trattativa ed elimini il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Invece di parlare subito con i leader dei vari partiti politici palestinesi e fare passi concreti per riattivare istituzioni politiche centrali ma inattive come il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Abbas ha preferito incontrare a New York l‘ex primo ministro della destra israeliana Ehud Olmert, e continuare a ripetere a pappagallo la sua dedizione nei confronti di un’epoca ormai passata.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Abbas non ha detto nulla di nuovo – il che, in questo caso, è peggio che non dire nulla.

“Questo è l’esito del progetto che ci è stato presentato”, ha detto Abbas tenendo in mano la mappa di come sarebbe lo Stato palestinese secondo l’“accordo del secolo” di Donald Trump. “E questo è lo Stato che ci stanno dando”, ha aggiunto Abbas, definendo il futuro Stato “gruviera”, ovvero uno Stato frammentato da insediamenti ebraici, tangenziali e zone militari israeliane.

Perfino l’espressione “gruviera”, riportata da alcuni media come fosse una nuova frase in quel discorso assolutamente ridondante, è una vecchia definizione ripetutamente utilizzata dalla stessa leadership palestinese a partire dall’inizio del cosiddetto processo di pace, un quarto di secolo fa.

Abbas si è sforzato di apparire eccezionalmente risoluto, sottolineando alcune parole, come quando ha equiparato l’occupazione israeliana ad un sistema di apartheid. Il suo discorso, tuttavia, appariva poco convincente, carente e, a volte, senza senso.

Abbas ha parlato della sua grande “sorpresa” quando Washington dichiarò Gerusalemme capitale indivisa di Israele, trasferendo successivamente l’ambasciata nella città occupata, come se non ce ne fossero stati chiari segnali e in realtà la mossa dell’ambasciata non fosse uno dei principali impegni di Trump con Israele anche prima della sua inaugurazione nel gennaio 2017.

“E poi hanno tagliato gli aiuti finanziari che ci davano”, ha detto Abbas con voce lamentosa, riferendosi alla decisione nell’agosto 2018 degli Stati Uniti di tagliare i suoi aiuti all’ANP. “Ci sono stati tagliati 840 milioni di dollari”, ha detto. “Non so chi stia dando a Trump un consiglio così orribile. Trump non è così. Il Trump che conosco non è così,” ha detto con una singolare esclamazione Abbas, come per inviare un messaggio all’amministrazione Trump che l’Autorità Nazionale Palestinese ha ancora fiducia nell’opinione del Presidente degli Stati Uniti.

“Vorrei ricordare a tutti che abbiamo partecipato alla conferenza di pace di Madrid, ai negoziati di Washington e all’accordo di Oslo e al vertice di Annapolis sulla base del diritto internazionale”, ha raccontato Abbas, manifestando un rinnovato impegno in quella stessa agenda politica che non ha raccolto alcun risultato per il popolo palestinese.

Abbas ha poi continuato dipingendo una realtà immaginaria, dove la sua Autorità starebbe costruendo le “istituzioni nazionali di uno Stato rispettoso della legge, moderno e democratico, fondato sui valori internazionali, basato su trasparenza, responsabilità e lotta alla corruzione “.

“Sì”, ha sottolineato Abbas guardando il suo pubblico con serietà teatrale, “Siamo uno dei più importanti Paesi (al mondo) che sta combattendo la corruzione”. Il leader dell’ANP, quindi, ha invitato il Consiglio di Sicurezza a inviare una commissione per indagare sulle accuse di corruzione all’interno dell’ANP, un invito sconcertante e inutile, considerando che è la leadership palestinese che dovrebbe far appello alla comunità internazionale perché collabori a far rispettare le leggi internazionali e a por fine all’occupazione israeliana.

Si è proseguito così, con Abbas indeciso tra la lettura di note pre-scritte che non propongono nuove idee o strategie, e invettive inutili che riflettono il fallimento politico dell’ANP e la mancanza di immaginazione di Abbas.

Il presidente dell’ANP, ovviamente, si è premurato di offrire la sua abituale condanna del “terrorismo” palestinese promettendo che i palestinesi non faranno “ricorso alla violenza e al terrorismo indipendentemente dall’atto di aggressione contro di noi”. Ha assicurato al suo pubblico che la sua Autorità crede nella “pace e nella lotta alla violenza”. Senza pensarci, Abbas ha dichiarato la sua intenzione di proseguire sulla strada di una “resistenza popolare e pacifica” che, di fatto, non esiste da nessuna parte.

Questa volta il discorso di Abbas alle Nazioni Unite è stato particolarmente inappropriato. In effetti, è stato un fallimento sotto ogni aspetto. Il minimo che il leader palestinese avrebbe potuto fare sarebbe stato articolare un discorso politico palestinese potente e collettivo. Invece, le sue affermazioni sono state semplicemente un triste omaggio alla sua stessa eredità, piena di delusioni e inettitudine.

Presumibilmente, Abbas è tornato a Ramallah per salutare ancora una volta i suoi fan, sempre pronti e impazienti di sollevare manifesti del leader che invecchia, come se il suo discorso alle Nazioni Unite fosse riuscito a spostare fondamentalmente la dinamica politica internazionale a favore dei palestinesi.

Bisogna dire che il vero pericolo dell’ “accordo del secolo” non sono le effettive clausole di quel piano sinistro, ma il fatto che la leadership palestinese probabilmente troverà modo di coesistere con esso, a spese del popolo palestinese oppresso, finché i soldi dei donatori continueranno a fluire e finché Abbas continuerà a chiamarsi presidente.

– Ramzy Baroud è giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Queste catene saranno rotte: storie palestinesi di lotta e ribellione nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Il dr. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il piano di pace in Medio Oriente di Trump rivela la dura verità.

Nathan Thrall

29 gennaio 2020 – New York Times

Questa non è una rottura dello status quo. È il culmine naturale di decenni di politica americana.

Martedì scorso il presidente Trump ha reso pubblico dopo una lunga gestazione il suo piano per la pace in Medio Oriente, il cosiddetto “accordo del secolo”. Questo prevede che vi sia uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza; che Gerusalemme, compresa la Città Vecchia, sia la capitale indivisa di Israele; che Israele annetta tutte le colonie, nonché la Valle del Giordano, che costituisce quasi un quarto della Cisgiordania, compreso il confine orientale con la Giordania, con la creazione di uno Stato-arcipelago palestinese a macchia di leopardo, circondato come da un mare dal territorio israeliano. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconosceranno la sovranità israeliana su tutto il territorio che il piano assegna a Israele, e poco dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere tutte le colonie e la Valle del Giordano a partire da domenica.

I membri della destra israeliana e altri oppositori della soluzione dei due Stati hanno celebrato l’accordo come la fine definitiva della possibilità di uno Stato palestinese indipendente. La sinistra israeliana, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e altri sostenitori della soluzione dei due Stati hanno condannato il piano per le stesse ragioni, definendolo il colpo di grazia per la soluzione dei due Stati.

Quindi c’è stato accordo tra sostenitori e detrattori sul fatto che la proposta abbia segnato una svolta importante dopo decenni nella politica americana e internazionale. Ma il piano è davvero l’antitesi del tradizionale approccio al conflitto da parte della comunità internazionale? O è in realtà la logica realizzazione finale di questo approccio?

Per oltre un secolo, l’Occidente ha sostenuto gli obiettivi sionisti in Palestina a spese della popolazione palestinese originaria. Nel 1917 il governo britannico promise di stabilire una casa nazionale per il popolo ebraico in Palestina, dove gli ebrei costituivano meno dell’8% della popolazione [la dichiarazione Balfour del 2 novembre1917, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild, referente del movimento sionista, affermava di guardare con favore alla creazione di una “dimora nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, allora parte dell’Impero Ottomano, ndtr.]. Trenta anni dopo, le Nazioni Unite proposero un piano per dividere la Palestina: gli ebrei, che costituivano meno di un terzo della popolazione e possedevano meno del 7% della terra, ricevettero la maggior parte del territorio. Durante la guerra che seguì, Israele conquistò più di metà del territorio assegnato allo stato arabo; ai quattro quinti dei palestinesi , che avevano vissuto in quelli che divennero i nuovi confini di Israele, fu impedito di tornare nelle loro case. La comunità internazionale non costrinse Israele a restituire i territori che aveva sottratto, né a consentire il ritorno dei rifugiati.

Dopo la guerra del 1967, quando sottrasse il restante 22% della Palestina, oltre alla penisola del Sinai all’Egitto e alle alture del Golan alla Siria, Israele insediò illegalmente delle colonie nei territori occupati e creò un regime con leggi separate per i diversi gruppi di persone , israeliani e palestinesi, che vivevano nello stesso territorio. Nel 1980 Israele annesse formalmente Gerusalemme est. Come per il processo di colonizzazione da parte di Israele, vi furono delle ammonizioni e condanne internazionali, ma il sostegno finanziario e militare americano rafforzò ulteriormente Israele.

Nel 1993, gli Accordi di Oslo concessero un’autonomia limitata ai palestinesi, [sparsi] in una manciata di isolotti senza collegamenti. Gli accordi non richiedevano lo smantellamento delle colonie israeliane né la sospensione della loro crescita. Il primo piano americano per lo Stato palestinese fu presentato dal presidente Bill Clinton nel 2000. Dichiarava che le estese colonie israeliane sarebbero stati annesse ad Israele, così come tutti gli insediamenti coloniali ebraici nella Gerusalemme est occupata. Lo Stato palestinese sarebbe stato smilitarizzato e avrebbe ospitato installazioni militari israeliane e forze internazionali nella Valle del Giordano che avrebbero potuto essere ritirate solo con il consenso di Israele. Come nel “patto del secolo”, questo piano, che costituiva la base di tutti i successivi, dava ai palestinesi una maggiore autonomia e definiva la Palestina uno Stato.

Ora secondo l’esercito israeliano ci sono più palestinesi che ebrei che abitano nei territori sotto il controllo di Israele. Sia nella visione di Trump che di Clinton, i piani americani hanno confinato la maggior parte del gruppo etnico predominante in meno di un quarto del territorio, con restrizioni alla sovranità palestinese di così vasta portata che il risultato dovrebbe essere più propriamente chiamato soluzione a favore di uno Stato e mezzo.

Il piano di Trump ha molti gravi difetti: dà la priorità agli interessi ebraici rispetto a quelli palestinesi. Premia e persino incoraggia le colonizzazioni e l’ulteriore espropriazione dei palestinesi. Ma nessuno di questi aspetti rappresenta una rottura fondamentale col passato. Il piano Trump si limita a dare gli ultimi ritocchi a una casa che i parlamentari americani, repubblicani e democratici, nel corso di decine di anni hanno aiutato a costruire. Negli ultimi decenni, quando Israele ha lentamente annesso la Cisgiordania, insediando più di 600.000 coloni nei territori occupati, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele sostegno diplomatico, veti nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, pressioni su tribunali internazionali e organi investigativi per non perseguire Israele e miliardi di dollari in aiuti annuali.

Alcuni dei democratici che ora si candidano alla presidenza [USA] hanno parlato della loro disapprovazione per le annessioni da parte di Israele, anche se non propongono nulla per fermarle. Così una democratica popolare come la senatrice Amy Klobuchar può dichiarare la sua opposizione all’annessione e firmare una lettera che critica il piano Trump per il suo “disprezzo [del] diritto internazionale”, dopo aver sponsorizzato una risoluzione del Senato che “esprime profonda contrarietà” verso una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2016 che ha richiesto a Israele di interrompere gli interventi di colonizzazione illegale. Altri democratici, come la senatrice Elizabeth Warren e Pete Buttigieg, affermano che non sarebbero disposti a fornire il sostegno finanziario dell’America al processo di annessione da parte israeliana. Ma questo è poco più di una formula elegante che permette loro di apparire duri senza minacciare nulla, dal momento che l’assistenza americana a Israele non riguarderebbe, in ogni caso, direttamente i compiti burocratici, come il trasferimento del registro fondiario della Cisgiordania dai militari al governo israeliano.

A parte vaghi riferimenti all’utilizzo di aiuti come incentivo, nessun candidato presidenziale, tranne il senatore Bernie Sanders, ha avanzato proposte riguardo l’inizio di una riduzione della complicità americana nella violazione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele. Le dichiarazioni di opposizione all’annessione suonano vuote quando non sono accompagnate da piani per prevenirla o annullarla: vietare i prodotti delle colonie; ridurre l’assistenza finanziaria a Israele dell’importo che spende nei territori occupati; disinvestimento di fondi pensione statali e federali in società operanti negli insediamenti illegali; e la sospensione degli aiuti militari fino a quando Israele non ponga fine alla punizione collettiva di due milioni di persone confinate a Gaza e non fornisca ai palestinesi in Cisgiordania gli stessi diritti civili concessi agli ebrei che vivono al loro fianco.

Il piano Trump, proprio come il processo di pace decennale che porta a compimento, offre a Israele la copertura per perpetuare quello che è noto come lo status quo: Israele come unico sovrano che controlla il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, privando milioni di persone senza Stato dei diritti civili di base, limitando il loro movimento, criminalizzandone i discorsi che potrebbero danneggiare l ‘ “ordine pubblico”, incarcerandoli sulla base dell’indefinita e illimitata “detenzione amministrativa”, senza processo o accusa, e spodestandoli della loro terra, il tutto mentre i leader del Congresso, l’Unione Europea e una buona parte del resto del mondo applaudono e incoraggiano questa farsa, esprimendo solennemente il loro impegno per la ripresa di “trattative significative”.

Ai difensori di Israele piace dire che Israele viene preso di mira e hanno ragione. Israele è l’unico stato che perpetua un’occupazione militare permanente, con leggi discriminatorie per gruppi separati che vivono nello stesso territorio, che in tutto il mondo [persone] autoproclamatesi democratiche fanno di tutto per giustificare, difendere e persino finanziare. In assenza di politiche di impegno che contrastino l’attuale oppressione, i critici democratici del piano Trump non sono molto meglio del presidente. Sono, non a parole ma nei fatti, anch‘essi sostenitori dell’annessione e della sottomissione.

Nathan Thrall (@nathanthrall) è autore di The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine (L’unico linguaggio che conoscono: imporre un accordo in Israele e Palestina, Metropolitan Books 2017) e direttore del Progetto arabo-israeliano dell’International Crisis Group.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’accordo ‘di pace’ di Trump calpesta palesemente i diritti e le libertà dei palestinesi

Yara Hawari

30 gennaio 2020 The Guardian

Questo piano è semplicemente una continuazione della politica USA-Israele. I palestinesi lo hanno già sentito e non lo accetteranno

Martedì alla Casa Bianca Donald Trump ha rivelato il suo “accordo del secolo”: un piano per la totale capitolazione palestinese. Esso invita i palestinesi a riconoscere Israele come Stato ebraico con l’intera Gerusalemme come capitale, a rinunciare al diritto al ritorno che consentirebbe ai rifugiati palestinesi di vivere in Israele, ad accettare l’annessione della Valle del Giordano e le relative colonie illegali israeliane e a vivere in una serie di bantustan collegati da strade e tunnel che sarebbero tutti sostanzialmente controllati da Israele.

Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprendere. Non solo il piano è una continuazione della politica dell’amministrazione Trump verso Israele e Palestina fin dal giorno in cui egli è entrato in carica, ma giunge dopo decenni di disprezzo per le aspirazioni palestinesi di libertà e sovranità.

Quando nel 1993 furono firmati gli Accordi di Oslo, vennero acclamati come la base per una pace negoziata tra Israele e Palestina – una posizione che la maggior parte degli attori e delle istituzioni internazionali hanno continuato a mantenere nei decenni successivi. All’epoca tuttavia lo studioso palestinese Edward Said definì il tanto celebrato accordo “una Versailles palestinese”, uno spettacolo umiliante che minava la lotta di liberazione e ogni speranza di una futura sovranità palestinese. Purtroppo aveva ragione. La divisione della Cisgiordania in aree A, B e C in base agli accordi ha consentito a Israele di dominare le ultime due mentre la prima è diventata una sacca di limitata autonomia palestinese. In altre parole, ha facilitato la completa bantustanizzazione della Cisgiordania e l’isolamento di Gaza.

Nel frattempo gli accordi non sono riusciti ad affrontare correttamente le questioni fondamentali di Gerusalemme, dei rifugiati, delle colonie, dei confini e della sicurezza; esse sono state invece considerate “questioni inerenti allo status finale”, da risolvere come parte di qualche futuro accordo di pace. Inavvedutamente allora l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata da Yasser Arafat, ha permesso che esse diventassero questioni in discussione, piuttosto che centrali per la lotta palestinese e chiaramente definite dalle leggi internazionali. Questo è risultato chiaro ieri alla Casa Bianca quando, accanto a Trump, Benjamin Netanyahu ha detto che parlare dell’occupazione come “illegale” è oltraggioso.

Non c’erano palestinesi alla Casa Bianca; certamente Jared Kushner, genero di Trump e architetto di questo piano, difficilmente si è dato la pena di parlare ai palestinesi. E nel piano di Trump non vi è menzione dei diritti dei palestinesi. Invece vengono loro promessi incentivi economici, per la precisione 50 miliardi di dollari di investimenti nei prossimi 10 anni, in cambio dei loro diritti sanciti a livello internazionale – un’altra fin troppo conosciuta componente dei precedenti piani di “pace”. Come se dare denaro ai palestinesi potesse far loro dimenticare i diritti a Gerusalemme, al ritorno ai propri villaggi e città di origine o alla possibilità di vivere come esseri umani uguali e con pieni diritti.

È chiaro quindi che il piano di Trump non solo è un attacco ai diritti e alla libertà dei palestinesi, ma anche un tentativo di promuovere un nuovo ordine mondiale che compromette del tutto il diritto internazionale. Qualunque cosa possa dire la Casa Bianca, non si è mai aspettata che la leadership palestinese avrebbe accettato questo piano né avrebbe nemmeno preso in considerazione qualche suo articolo e condizione. E ciò significa che può continuare ad investire sulla pluridecennale narrazione totalmente razzista secondo cui il popolo palestinese rifiuta e non intende negoziare. Questo è stato evidente nei commenti di Kushner: se i palestinesi non accettano questo accordo, ha sostenuto, “stanno gettando via un’altra opportunità come hanno fatto con tutte le altre che hanno avuto nella loro esistenza”.

Per quanto il piano di Trump possa essere scoraggiante, esso suggerisce una possibile opportunità. Stabilisce che, mentre hanno luogo i negoziati, l’OLP non partecipi ad alcuna iniziativa contro Israele presso la Corte Penale Internazionale – con riferimento alla recente inchiesta su crimini di guerra avviata dalla capo procuratrice della Corte. Questo rivela che Israele è veramente spaventato da una simile mossa, se qualche soggetto internazionale fosse così coraggioso da tentarla.

Comunque nulla di tutto ciò modifica la realtà sul campo: c’è effettivamente un’unica entità che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, dove due popoli vivono vite ampiamente ineguali e separate. Israele e gli USA stanno lavorando sodo per consolidare e portare a termine questa situazione – e, con l’aiuto di una comunità internazionale paralizzata e codarda, ci riusciranno. Ma l’altra faccia della realtà è che i palestinesi non andranno da nessuna parte. Continueranno a vivere a milioni a Haifa, Giaffa, Gerusalemme, Ramallah, Hebron e altrove. Dovranno cambiare drasticamente la loro situazione attuale, mobilitandosi e chiedendo di più alla loro dirigenza e immaginando un futuro radicalmente diverso anche quando questo sembra impossibile.

Yara Hawari è un’autorevole collaboratrice su questioni politiche di Al Shabaka, la rete di politica palestinese.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Avanti, annettiamo la Cisgiordania

Meron Rapoport 

23 gennaio 2020 – + 972

L’annessione della Valle del Giordano renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid dal fiume al mare. Ma potrebbe essere meno terribile di come pensiamo.

Si è saputo che anche Benny Gantz, rivale di centro del Primo Ministro Netanyahu, persegue l’obiettivo che Israele annetta la Valle del Giordano. Martedì, durante una visita in quella zona della Cisgiordania occupata, Gantz ha affermato che la Valle del Giordano è “lo scudo difensivo di Israele verso est in qualsiasi futuro conflitto. Consideriamo questa terra come parte inseparabile dello Stato di Israele.” Dopo le elezioni, ha continuato Gantz, avrebbe esteso la sovranità sulla valle con una “mossa concordata a livello nazionale” e coordinata con la comunità internazionale.

Non è una posizione nuova tra i falchi del centro israeliano. Un piano strategico pubblicato nell’ottobre 2018 dal National Security Research Institute, il luogo di formazione ideologica di ex generali dell’IDF come Gantz, afferma che Israele avrebbe già dovuto dichiarare la Valle del Giordano area strategica, da mantenere sotto controllo israeliano fino a quando Israele non arriverà ad un sufficiente accordo per la sicurezza.

È peraltro vero che le recenti condizioni poste da Gantz – che l’annessione della Valle del Giordano abbia il consenso nazionale e sia coordinato a livello internazionale – potrebbero far sì che la dichiarazione resti priva di fondamento. A parte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (e anche questo non è del tutto certo), è improbabile che la “comunità internazionale” accetti la mossa.

Eppure, anche se non ha alcuna reale intenzione di annettere la Valle, Gantz ha deliberatamente scelto di schierarsi con la retorica della destra israeliana, per la quale l'”annessione” è diventata una questione di buone maniere, cartina di tornasole per qualsiasi personaggio politico.

Le affermazioni di Gantz ricordano in qualche modo lo slogan della campagna elettorale di Netanyahu del 1996: “Fare una pace sicura”. Netanyahu all’epoca non aveva intenzione di fare la pace, così come oggi sembra che Gantz non abbia alcuna intenzione di procedere all’annessione. Tuttavia, tre anni dopo gli Accordi di Oslo, Netanyahu fu costretto ad includere il centro-sinistra israeliano dell’epoca, per cui la parola “pace” era una categoria a parte. Questo vale per gli ultimi 25 anni della politica israeliana: la pace è out, l’annessione è in.

Potrebbe non essere terribile come si pensa. Per alcuni aspetti, è veramente deplorevole che la coalizione di destra, secondo recenti sondaggi, non sarà in grado di assicurarsi 61 seggi della Knesset nelle prossime elezioni di marzo. Se dovesse vincere Netanyahu, è difficile immaginare come se la caverà con le sue chiare promesse di annettere immediatamente la Valle del Giordano. Nell’attuale situazione politica, l’annessione è il miglior regalo che possano sperare gli avversari dell’occupazione.

Questo non significa che le cose debbano peggiorare prima di migliorare. L’annessione scuoterà lo status quo di espansione infinita fatta di occupazione e insediamento, diventata molto comoda per Israele. Costringerà la società israeliana e parti della comunità internazionale a tornare a discutere una soluzione politica del conflitto, un obiettivo quasi scomparso. E costringerà i sostenitori della soluzione a due Stati, e persino i sostenitori di un singolo Stato, a uscire dalla loro zona protetta e ricalibrare i loro desideri con la realtà concreta.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’impatto dell’annessione sui confini definitivi di Israele o la fattibilità dell’idea dei due Stati non creerebbero necessariamente un discrimine. Israele ha annesso Gerusalemme Est più di 52 anni fa, pochi giorni dopo la fine della guerra del 1967; ciò non ha impedito a rappresentanti israeliani, ufficiali e non, di discutere dell’annessione in vari negoziati con i palestinesi e concordare che il futuro Stato palestinese avrebbe controllato i quartieri palestinesi della città.

Ciò vale anche per l’ex primo ministro Ehud Olmert, che ha fatto carriera politica nel partito Likud promettendo di tenere Gerusalemme “per l’eternità” (Olmert è stato anche protagonista della campagna elettorale del 1996 di Netanyahu, accusando i laburisti di Shimon Peres di “dividere Gerusalemme”). Un decennio dopo, durante i colloqui di pace con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, fu Olmert a proporre di dividere la città. E l’annessione delle Alture del Golan nel 1981 non ha impedito a Ehud Barak – e secondo i documenti, allo stesso Netanyahu – di discutere della possibilità di restituire il Golan alla Siria di Hafez al-Assad.

L’annessione non migliorerà particolarmente la situazione dei pochi coloni israeliani che vivono nella Valle del Giordano. Oggi, e specialmente dopo un decennio di governo di Netanyahu, la Linea Verde [confine tra Israele e Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza prima dell’occupazione del 1967, ndtr.] è quasi del tutto irrilevante e i coloni che vivono in Cisgiordania godono di diritti quasi identici ai cittadini israeliani all’interno dei confini del 1948.

L’annessione può rimuovere alcune delle barriere attualmente imposte ai coloni, ma può anche rendere loro la vita difficile. Nel momento in cui la Valle del Giordano diventasse soggetta ufficialmente alla legge israeliana – piuttosto che agli ordini militari – potrebbe essere molto più difficile confiscare terre, sfrattare palestinesi e stabilire colonie di soli ebrei.

Anche se Israele decidesse di concedere ai palestinesi che annette lo status di residenti invece della piena cittadinanza (come a Gerusalemme est), tale status consentirebbe loro di muoversi liberamente e lavorare all’interno di Israele, il che sicuramente migliorerebbe la loro attuale situazione. Eppure ci sono poche ragioni per credere che i palestinesi annessi rinuncerebbero alle loro aspirazioni nazionali: non è accaduto a Gerusalemme est dopo 52 anni di occupazione, non è accaduto con i palestinesi cittadini di Israele.

Ma c’è la possibilità che l’annessione possa dare impulso non solo ai palestinesi che si trovano sotto la sovranità israeliana, ma alla lotta palestinese in generale. L’annessione costringerebbe l’Autorità Nazionale Palestinese a emergere dal suo coma; renderebbe più facile smantellarla, costringerebbe Israele a riprendere il diretto controllo sulla Cisgiordania, e il ritorno a una lotta per i diritti civili in uno Stato democratico tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo], simile al programma politico originario dell’OLP.

Se Israele, in effetti, rifiutasse di concedere pieni diritti civili ai palestinesi, sarà ancora più facile dimostrare che il regime in Cisgiordania non è un problema temporaneo di “territorio conteso”, come ama sostenere Israele. L’apartheid diventerebbe la politica ufficiale dello Stato.

Inoltre, l’annessione porterebbe la questione palestinese al centro dell’attenzione del mondo arabo. Il governo giordano sta già affrontando una forte opposizione al suo accordo di pace con Israele. Recenti manifestazioni nel Regno hascemita contro l’accordo con Israele per il gas sono ulteriori prove di dissenso. Se l’annessione dovesse avvenire, è difficile pensare che re Abdullah si atterrebbe all’accordo con Israele, volendo mantenere il potere.

La Giordania potrebbe trasformarsi in Palestina, come sperava Netanyahu nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations [Un posto fra le Nazioni, ndtr.] – ma questa “Palestina” avrebbe un esercito che potrebbe puntare le sue armi su Israele per solidarietà con i fratelli dall’altra parte del fiume Giordano.

Netanyahu, che conosce la scena internazionale meglio di qualsiasi altro leader a destra – e forse in Israele – è ben consapevole di tutto ciò. Questo è il motivo per cui, durante il suo decennio al potere, ha evitato di compiere passi drastici, perfezionando allo stesso tempo lo status quo. Le sue politiche hanno assicurato l’annessione strisciante di sempre più colonie, la cancellazione della Linea Verde dalla coscienza israeliana e la completa normalizzazione dell’occupazione.

Netanyahu sperava che l’opinione pubblica israeliana, la comunità internazionale, i regimi arabi filo-occidentali e forse gli stessi palestinesi avrebbero alla fine accettato il dominio israeliano sull’intera terra e avrebbero tolto l’opzione di uno Stato palestinese dal tavolo. Ha funzionato brillantemente; persino Gantz, il maggior rivale di Netanyahu, non parla di due Stati.

Ma per il primo ministro potrebbe aver funzionato troppo bene. Proprio perché uno Stato palestinese non sembra più essere preso in considerazione, la destra nazionalista-religiosa ha trasformato l’annessione in richiesta politica – qualcosa che non ha fatto in 40 anni di permanenza al governo, da quando la destra ha preso il potere nel 1977. Se gli insediamenti sono riusciti a impedire l’istituzione di uno Stato palestinese, dicono, perché non passare alla fase successiva e realizzare l’ideale del Grande Israele?

Finché Netanyahu è stato politicamente forte, poteva evitare di parlare di annessione a gente come Naftali Bennett [politico israeliano dell’estrema destra dei coloni ed attuale ministro della Difesa, ndtr.] Ma non appena i problemi legali hanno cominciato a premergli addosso, lo spazio di manovra di Netanyahu è diminuito. Non ha altra scelta che abbracciare il linguaggio del sovranismo, che solo pochi anni fa giaceva in qualche posto nelle plaghe dormienti della destra.

Non che Netanyahu non creda nell’esclusiva sovranità ebraica tra il fiume e il mare: semplicemente non credeva che dovesse realizzarsi attraverso l’annessione formale. Oggi non si tratta più di buttare sul tavolo l’annessione in cambio dell’immunità politica. È annessione o prigione.

Non vi è dubbio che l’annessione sia una violazione del diritto internazionale, che sarebbe imposta ai palestinesi con la forza e trasformerebbe ufficialmente Israele in uno Stato di apartheid. Bisogna opporsi. Ma dopo tanti anni sotto il dominio della fazione del Grande Israele, potrebbe essere il momento di mettere alla prova la proposta della destra. L’annessione chiarirà il vero dibattito Israele-Palestina: uguaglianza e autodeterminazione per ogni Nazione che vive tra la Giordania e il mare o supremazia ebraica.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele comincia ad estendere la sua “annessione silenziosa” della Cisgiordania, col beneplacito dell’amministrazione Trump

Yumna Patel 

15 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il ministro della Difesa di Israele ha annunciato mercoledì di aver approvato la creazione di sette nuove riserve naturali israeliane nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Secondo il Jerusalem Post la mossa, che include anche l’espansione di 12 riserve naturali già esistenti, rappresenterebbe la prima approvazione di questo tipo ad essere rilasciata dalla firma degli Accordi di Oslo.

La notizia segue a ruota quella di un controverso forum di accademici e attivisti di destra la settimana scorsa a Gerusalemme dove Naftali Bennet, l’attuale ministro della Difesa, ha dichiarato alla folla che l’intera Area C della Cisgiordania occupata “appartiene a Israele”.

“Stiamo cominciando una battaglia vera, imminente per il futuro della Terra di Israele ed il futuro dell’Area C”, ha detto Bennet al Kohelet Policy Forum, facendo riferimento al 60% e più della Cisgiordania designato come sotto controllo israeliano dagli Accordi di Oslo.

Come leader del partito della “Nuova Destra”, Bennet è da lungo tempo un sostenitore del movimento dei coloni e promotore dell’annessione dei territori palestinesi occupati ad Israele. L’espressione delle sue opinioni riguardo dell’Area C non può quindi sorprendere, ma dato il sostegno dell’attuale amministrazione statunitense, sono particolarmente allarmanti.

Sostegno dagli Stati Uniti

Il Kohelet Policy Forum è stato inaugurato da un videomessaggio del Segretario di Stato [USA] Mike Pompeo che ha dichiarato che “Stiamo riconoscendo che queste colonie non sono una violazione intrinseca delle leggi internazionali. Questo è importante. Stiamo sconfessando il memorandum di Hansell del 1978 [parere giuridico di Hebert J. Hansell, consigliere del presidente Carter, che considerava illegale l’occupazione israeliana, ndtr.] che era profondamente sbagliato, e stiamo ritornando ad un più equilibrato e serio approccio alla questione come durante la presidenza Reagan.”

La posizione dell’amministrazione Trump sulla questione delle colonie ha generato un diffuso criticismo da parte della leadership e degli attivisti palestinesi, così come da parte della comunità internazionale, che a larga maggioranza considera le colonie essere il principale ostacolo per la pace nella regione.

Anche l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, si è rivolto al forum, sottolineando la nuova posizione americana, secondo la quale le circa 200 colonie presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non rappresentano una violazione delle leggi internazionali.

“Gli israeliani hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria,” ha detto Friedman, elogiando la precedente decisione del presidente degli Stati Uniti Trump di riconoscere la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle alture del Golan.

Pare che siano già in corso degli sforzi coordinati da parte dei governi di Netanyahyu e Trump per estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania.

Nel suo discorso Bennett ha anche dichiarato come da circa un mese abbia iniziato a sviluppare piani per imporre la sovranità israeliana sul terreno, e ha lasciato intendere come abbia discusso con l’amministrazione Trump per “[spiegare] il modo in cui lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire che queste aree siano parte dello Stato di Israele”.

Fatti sul terreno

La spaventosa realtà delle parole di Bennett è che la “guerra” di Israele a proposito dell’Area C rappresenta più delle semplici promesse di un politico.

All’incirca nello stesso momento in cui Bennett faceva la sua dichiarazione, il presidente dell’Autorità Palestinese della Commissione Contro il Muro e le Colonie, Walid Assaf, ha annunciato che nel 2019 sono state demolite dalle autorità israeliane circa 700 costruzioni palestinesi, di cui 300 demolizioni nella sola Gerusalemme.

Solo il giorno prima, l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva dato torto a un gruppo di cittadini palestinesi che chiedevano l’annullamento del piano regolatore per le colonie di Ofra, visto che tale piano include circa 5 ettari di terreni privati palestinesi.

E il giorno prima ancora, un’organizzazione di monitoraggio delle colonie, Peace Now, ha riportato che l’amministrazione civile israeliana ha annunciato piani per costruire 1936 abitazioni nelle colonie. Il gruppo ha fatto notare come “l’89% delle unità immobiliari proposte sono in colonie che gli israeliani potrebbero dover evacuare in caso di un futuro accordo di pace coi palestinesi.”.

Hanan Ashrawi, importante dirigente palestinese, ha dichiarato giovedì che Israele ha accelerato i suoi progetti per creare uno stato di “annessione de facto” della Cisgiordania: “Israele sta perseguendo una annessione silenziosa della terra palestinese per impedire in maniera definitiva il diritto fondamentale del popolo palestinese alla libertà e alla giustizia”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Ortona)




I laureati si arrabattano per avere uno stipendio migliore

Jaclynn Ashly e Alaa Daraghmeh

9 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Neppure avere una laurea ha aiutato Fathi Taradi.

Taradi, 34 anni, ha cercato per un decennio di trovare lavoro come giornalista nella Cisgiordania occupata. Alla fine ha dovuto accontentarsi di un lavoro nell’edilizia a Gerusalemme. “I primi giorni di lavoro in Israele avevo il cuore a pezzi perché avevo rinunciato a tutti i miei sogni di diventare giornalista,” dice Taradi a The Electronic Intifada nella sua casa di Taffuh, a ovest di Hebron.

Taradi è uno dei molti laureati palestinesi obbligati a cercare un lavoro umile in Israele o nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est dopo aver perso la speranza di trovare un lavoro nel proprio campo [di studi].

Ha passato molti anni nel tentativo di lavorare sottopagato in stazioni radio locali della Cisgiordania, finché, cinque anni fa, ha ricevuto un permesso di lavoro israeliano.

Non avrei mai pensato di lavorare in Israele,” dice. “Ho molte competenze. Pensavo che a questo punto sarei diventato un cameraman di successo.”

All’inizio Taradi ha dovuto alzarsi ogni giorno alle 3 del mattino per viaggiare fino al checkpoint 300, a nord di Betlemme, rimanendo a volte in piedi per ore con centinaia di altri palestinesi imprigionato tra pareti di cemento e sbarre di ferro in attesa che i soldati israeliani aprissero i tornelli e controllassero i permessi rilasciati da Israele che consentono loro di entrare a Gerusalemme. Vedeva raramente i suoi quattro figli.

All’inizio di quest’anno Israele ha “migliorato” il checkpoint 300, insieme a quello di Qalandiya, nei pressi di Ramallah, creando più corsie e installando porte automatiche a cui i palestinesi avvicinano i permessi di ingresso biometrici per passare.

Questo miglioramento ha consentito di attraversare il posto di controllo militare più rapidamente e con maggiore efficienza, riducendo a qualche minuto quello che portava via ore. Ma non ha fatto niente per modificare i fondamenti di un’occupazione militare che obbliga palestinesi con titoli di studio come Taradi a lottare per trovare delle opportunità di lavoro.

Non ho mai perso la mia passione per i media,” dice Taradi. “Se avessi una possibilità di tornare nei media lo farei. Amavo il mio lavoro di giornalista.”

É stato inutile”

Per Sabri Saidam, ministro dell’Istruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’economia palestinese non è in grado di assorbire i laureati perché Israele non consente “un serio sviluppo ed investimenti in Palestina.” La pluridecennale occupazione ha soffocato l’economia locale, dice al telefono Saidam a The Electronic Intifada.

Lo fa in molti modi, e l’annientamento dell’economia palestinese in conseguenza dell’occupazione israeliana è ben documentato.

Ovviamente l’occupazione israeliana e la sua colonizzazione della Cisgiordania hanno confiscato vaste aree di terreno, compreso più del 60% della Cisgiordania, nota come Area C, in cui lo sviluppo palestinese è in larga parte vietato ma le colonie israeliane si espandono in modo quasi incontrollato.

I circa 600.000 coloni israeliani in Cisgiordania usano sei volte più acqua dei 2,86 milioni di palestinesi che vi vivono. Secondo il gruppo di ricerca palestinese Al-Shabaka, i costi indiretti delle restrizioni israeliane all’accesso dei palestinesi all’acqua nella Valle del Giordano, che impediscono ai palestinesi di coltivare in modo corretto la propria terra, sono stati di 663 milioni di dollari, l’equivalente dell’8,2% del PIL palestinese nel 2010.

Nel contempo per molti gli stipendi in Cisgiordania sono troppo bassi per poter sopravvivere. Secondo il ministero dell’Istruzione, in Cisgiordania il salario minimo è di 420 dollari al mese. Ma nel settore privato molti ricevono ancora meno.

Anche se Taradi potesse ottenere un lavoro a tempo pieno in una stazione televisiva locale in Cisgiordania, spesso questa potrebbe offrirgli solo circa 650 dollari al mese, mentre il suo lavoro nell’edilizia a Gerusalemme gliene frutta circa 2.000.

Essere diventato un lavoratore nell’edilizia ha consentito a Taradi di sposarsi e di costruire una casa con tre camere da letto per la sua famiglia – una cosa che sarebbe stata difficile fare con uno stipendio in Cisgiordania. “Mi sento come se avessi perso tempo a studiare. Tutto è stato inutile,” afferma.

L’esperienza di Taradi è condivisa da molti palestinesi che pensano di aver ricavato poco dagli titoli universitari. Alcuni hanno ottenuto lauree all’estero solo per tornare in Cisgiordania e non riuscire a trovare un lavoro.

Suhair, la moglie di Taradi, è rimasta disoccupata per otto anni. La trentunenne ha ottenuto la sua laurea in chimica all’università di Hebron nel 2010 ed ha tentato di trovare un lavoro presso il ministero dell’Istruzione dell’ANP.

Non attribuisce il fatto di essere disoccupata solo alla mancanza di opportunità in Cisgiordania, ma anche alla mancanza di wasta – una parola araba che fa riferimento al nepotismo o ai rapporti clientelari che agevolano il cammino alle persone per garantirsi un lavoro o altre possibilità.

Amir, un abitante di Betlemme che parla a patto di rimanere anonimo, ha ottenuto la sua laurea in educazione sportiva all’università Al-Quds nel 2008. Dopo anni di difficoltà con uno stipendio basso in Cisgiordania, questo padre di quattro figli ha riconosciuto la sua sconfitta ed ha cercato lavoro nell’edilizia in Israele.

Anche Amir, 32 anni, ogni giorno attraversa il checkpoint 300.

É veramente penoso immaginare di passare anni della propria vita (per avere una formazione), solo per rimanere fermo a un checkpoint ogni mattina per andare al lavoro,” dice a The Electronic Intifada. “Ma queste sono le condizioni della nostra vita qui,” afferma. “Dobbiamo lavorare per dar da mangiare ai nostri figli.” Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese, nel 2018 127.000 palestinesi hanno lavorato in Israele e nelle colonie – 5.000 in più rispetto al 2017.

Più di metà –il 58% – dei palestinesi tra i 18 e i 29 anni che hanno ottenuto un “diploma di scuola secondaria e oltre” nel 2018 era disoccupato, rispetto al 41% di un decennio prima.

Secondo il ministero dell’Istruzione dell’ANP questi numeri sono ancora maggiori tra le donne laureate, il 73% delle quali era disoccupata, nonostante l’aumento del numero di donne laureate nell’ultimo decennio,

In seguito alla firma degli accordi di Oslo nel 1993 il numero di laureati palestinesi è costantemente aumentato. Le statistiche del ministero dell’Istruzione mostrano che nel 2017-18 circa il 94% dei maschi e il 71% delle femmine tra i 20 e i 24 anni si è iscritto [all’università] o ha ottenuto almeno un diploma. Un diploma significa una qualifica ottenuta dopo una scuola superiore ma non a livello universitario.

Nonostante questo incremento nel numero di laureati palestinesi, l’economia palestinese continua ad essere ostacolata dall’occupazione israeliana, lasciando i laureati senza opportunità di lavoro nel proprio campo. La mancanza di possibilità, insieme ai bassi salari in Cisgiordania, incentiva molti laureati palestinesi a cercare lavoro all’estero o in Israele e nelle sue colonie, una fuga di cervelli che secondo il ministro Saidam priva l’economia palestinese dei suoi cittadini più qualificati.

Vogliono che odiamo noi stessi”

Bahaa Salah, 30 anni, ha ottenuto la propria laurea in Giordania ed ha continuato gli studi in Malaysia, conseguendo un master in comunicazioni e pubbliche relazioni. Quando nel 2013 è tornato nella città natale di al-Eizariya, fuori da Gerusalemme, non ha trovato lavoro nel suo campo. Invece ha lavorato come commesso da Sbitany – un negozio di elettronica in Cisgiordania – e poi in una fabbrica di alluminio.

Poi Salah ha passato senza successo oltre un mese a Dubai alla ricerca di un lavoro, prima di trovare una possibilità di impiego come contabile in una fabbrica di spezie in Cisgiordania. Tuttavia lo stipendio, che afferma essere stato di 555 dollari al mese, era troppo basso per avere una vita decente.

Salah ha deciso di cercare lavoro nella zona industriale di Mishor Adumim, che fa parte di Maaleh Adumim, una grande colonia israeliana, dove lavorava già suo cugino. Nel 2014 ha trovato un impiego come addetto alle pulizie in un supermercato.

Quando Salah confronta la sua vita in Malaysia a quella in Cisgiordania, la sua reazione è viscerale: “Immagina di sperimentare la libertà per anni, e poi torni in patria e improvvisamente sei chiuso in gabbia,” afferma.

Le cose per Salah sono ulteriormente peggiorate a partire dall’ondata di violenze del 2015, nota anche come l’Intifada dei lupi solitari o dei coltelli. Prima, dice Salah, nella colonia le guardie di sicurezza israeliane “non erano così violente o cattive.”

Eravamo soliti attraversare il posto di controllo fuori da Mishor Adumim in macchina. Nessuno ci avrebbe fermati. Se hai un permesso di lavoro israeliano devi solo mostrarlo ed entrare in auto,” dice. Ora invece i palestinesi devono ottenere un permesso speciale per far entrare i loro veicoli nella colonia, sostiene.

Tutti devono scendere dall’auto, mettersi in fila e le guardie di sicurezza perquisiscono ogni persona, una alla volta,” dice Salah.

Penso che scelgano le persone più razziste per lavorare in (questo) posto di controllo,” sostiene. “Ti trattano in modo molto violento. Quindi immagina se qualcuno è di malumore ed è già razzista. Ovviamente non ti tratterà bene.”

Salah è diventato sempre più insicuro sul posto di lavoro quando ha notato un numero crescente di clienti israeliani con fucili a tracolla. Parecchi palestinesi sono stati uccisi da israeliani armati dopo veri o presunti attacchi in cui sarebbero rimasti coinvolti. Raramente questi israeliani hanno dovuto subire conseguenze legali.

Ero solito portarmi un cacciavite sul lavoro, ma ho iniziato a temere persino di prenderlo in mano perché loro (gli israeliani) erano spaventati. Quando ti guardavano, era come se stessero vedendo un fantasma o qualcosa del genere,” dice Salah.

Benché il suo permesso gli consenta di entrare sia nelle aree industriali che nella zona residenziale di Maaleh Adumim, le poche volte che il padrone lo manda alla colonia a prendere prodotti per il supermercato Salah si sente confuso e spaventato, perché le due zone hanno norme diverse per i palestinesi.

Secondo Salah ai palestinesi è consentito camminare nelle strade di Mishor Adumim, ma non a Maaleh Adumim. Possono solo entrare come passeggeri di un’auto israeliana.

Ciò significa che se la polizia mi trova a camminare, possono togliermi il permesso e mettermi in carcere – o almeno sulla lista nera e non potrò più ottenere un permesso,” afferma. “Vogliono che tu odi te stesso per il fatto di essere palestinese,” continua Salaha. “Devi attraversare questa linea, non quella. Devi camminare su questa strada, non su quell’altra. Ti fa sentire come uno straniero. Ti fa pensare: ‘Cosa c’è di sbagliato in me?’ Mi fa star male.”

Quindi perché lo sopporta? “Per i soldi.”

Salah dice che nella colonia a volte guadagna più del doppio di quello che potrebbe ottenere nell’economia palestinese. “Lavoro meno ore, meno giorni e sono pagato meglio,” afferma. Nonostante la mancanza di opportunità, tuttavia, Salah rifiuta di credere che i suoi studi siano stati una perdita di tempo.

Per me l’istruzione non riguarda solo avere un lavoro. È lo sviluppo di me stesso e il fatto di imparare di più,” dice. “Sono pur sempre un essere umano, per cui non posso fare a meno di confrontare la mia situazione con quella degli altri.” Per esempio, afferma, è più qualificato a gestire il negozio in cui lavora del suo padrone israeliano, ma sa che, in quanto palestinese con un documento d’identità della Cisgiordania, non potrà mai avere quella posizione.

Persino alcuni israeliani con cui lavoro che sentono la mia storia e sanno del mio livello di studi mi dicono: ‘Se solo tu avessi una carta d’identità diversa la tua vita qui sarebbe veramente buona.’ Ma questo è il mio destino,” sostiene Salah. “Non posso fare niente per cambiarlo.”

Jaclynn Ashly è una giornalista freelance che si occupa di problemi politici e di diritti umani nei territori palestinesi occupati e in Israele.

Alaa Daraghmeh è un giornalista che risiede in Cisgiordania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)