Coloni aggrediscono alcuni villaggi palestinesi dopo un’uccisione in Cisgiordania

Redazione di Al Jazeera

17 dicembre 2021 – Al Jazeera

Il giorno dopo che palestinesi armati hanno ucciso un israeliano nella Cisgiordania occupata sono avvenuti attacchi da parte di coloni.

Fonti ufficiali palestinesi hanno affermato che coloni ebrei hanno fatto irruzione in alcuni villaggi della Cisgiordania occupata danneggiando case e automobili e picchiando almeno due persone.

Gli attacchi di venerdì sono avvenuti il giorno dopo che palestinesi armati hanno ucciso un israeliano in un’imboscata nei territori.

La morte del colono Yehuda Dimentman, ucciso quando giovedì uomini armati hanno aperto il fuoco contro la sua auto nei pressi di un avamposto illegale nella Cisgiordania occupata, minaccia di infiammare ulteriormente la violenza tra gli abitanti palestinesi e i coloni israeliani.

Giovedì gli altri due passeggeri dell’auto di Dimentman sono rimasti lievemente feriti.

Ghassan Daghlas, funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese che controlla le attività di colonizzazione, ha affermato che venerdì mattina gruppi di coloni sono entrati in alcuni villaggi nei pressi della città settentrionale di Nablus danneggiando macchine e case. Due palestinesi feriti sono stati portati in ospedale.

Secondo Daghlas, alcuni coloni si sono introdotti in una casa nel villaggio palestinese di Qaryout e hanno cercato di rapire un abitante, Wael Miqbel.

Foto diffuse sulle reti sociali mostrano Miqbel con lividi ed ematomi sul volto, mentre altri video e fotografie pubblicati in rete mostrano scontri tra coloni armati e abitanti palestinesi.

Parlando all’agenzia di notizie [turca] Anadolu, Jihad Salah, capo del villaggio di Burqa, nel nord-ovest della provincia di Nablus, ha affermato che i coloni hanno attaccato il villaggio con armi da fuoco.

Ha aggiunto che hanno dato fuoco a baracche del villaggio e lanciato pietre contro parecchie case palestinesi. L’agenzia di notizie palestinese Wafa ha informato che i coloni hanno attaccato la città di Sebastia, a nord di Nablus, e vandalizzato un certo numero di veicoli di proprietà di palestinesi e l’officina meccanica.

I dirigenti israeliani si sono impegnati a trovare gli aggressori responsabili della sparatoria di giovedì e l’esercito ha schierato truppe aggiuntive nella zona.

Secondo la Wafa almeno tre uomini di Burqa sono stati arrestati in incursioni notturne.

Venerdì l’esercito ha affermato che era in corso una caccia all’uomo per trovare i palestinesi armati, ma non ha dato ulteriori dettagli.

L’auto di Dimentman è stata colpita dopo che aveva lasciato un seminario ebraico nell’avamposto illegale di Homesh, una ex-colonia evacuata come parte del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005. Gli ultimi attacchi sono giunti nel contesto di un’impennata di violenze tra israeliani e palestinesi in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

All’inizio del mese un ebreo ultra-ortodosso è stato gravemente ferito dopo essere stato accoltellato da un aggressore palestinese fuori dalle mura della Città Vecchia a Gerusalemme.

Una settimana prima un membro di Hamas ha aperto il fuoco nella Città Vecchia, uccidendo un israeliano. Entrambi gli aggressori sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Questa settimana durante un’incursione nella zona di Ras al-Ain a Nablus, nella Cisgiordania occupata, truppe israeliane hanno colpito a morte un altro palestinese.

All’inizio di questo mese soldati israeliani hanno ucciso un palestinese anche nel villaggio di Beita, nella Cisgiordania occupata, durante una protesta contro le colonie illegali. Forze israeliane hanno ucciso un minorenne palestinese dopo un presunto tentativo di investimento presso un posto di controllo militare nella parte settentrionale della Cisgiordania occupata.

Israele ha conquistato Gerusalemme est e la Cisgiordania durante la guerra del 1967 in Medio Oriente. I territori sono ora abitati da più di 700.000 coloni ebrei che vivono in 164 colonie e 116 avamposti, che i palestinesi rivendicano come parte del loro futuro Stato indipendente.

In base alle leggi internazionali, tutte le colonie ebraiche nei territori occupati sono considerate illegali. I palestinesi, insieme a quasi tutta la comunità internazionale, ritengono che le colonie siano un gravissimo ostacolo alla pace.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Palestina: un femminicidio sottolinea la necessità di una legge sulla violenza domestica

Zena Al Tahhan 

29 novembre 2021 Al Jazeera

L’uccisione da parte del marito di una madre di 30 anni nella Ramallah occupata ha suscitato clamore tra i palestinesi.

Ramallah, Cisgiordania occupata – Nelle prime ore del 22 novembre Sabreen Yasser Khweira, 30 anni, madre di quattro figli, sarebbe stata pugnalata a morte dal marito in un piccolo villaggio palestinese alla periferia di Ramallah.

Suo marito, Amer Rabee, ha aggredito anche la madre, 75 anni, che è rimasta ferita ed è stata trasferita all’ospedale di Ramallah più vicino. Le sue condizioni sono ora stabili.

Quella mattina Rabee è fuggito dalla scena ma è stato arrestato più tardi, mentre il corpo di Khweira – trovato dalla polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nella sua casa nel villaggio di Kufr Ni’ma – è stato trasferito per un esame medico legale.

La famiglia Khweira chiede alle autorità di giustiziare Rabee per il raccapricciante omicidio, una richiesta sostenuta anche dalla famiglia di Rabee.

La famiglia dice che Rabee era stato violento con Khweira durante tutti i loro 12 anni di matrimonio e che lei lo aveva lasciato più volte.

Jumaa Tayeh, zio di Khweira e portavoce scelto dalla famiglia, ha detto ad Al Jazeera che Rabee ha trascorso un mese in prigione all’inizio di quest’anno, dopo che Khwiera l’aveva denunciato alla polizia per averla picchiata con dei cavi.

Era gravemente contusa – aveva segni su tutto il corpo. Ero con lei quando abbiamo presentato una denuncia alle Unità di Protezione della Famiglia della polizia. Ci sono state diverse udienze in tribunale e lui ha trascorso un mese [in prigione] prima di essere rilasciato”, ha detto Tayeh.

Al Jazeera ha contattato l’addetto stampa della pubblica accusa dell’ANP in merito ai passati casi di violenza domestica denunciati da Khweira, ma ci è stato detto che queste informazioni non potevano essere divulgate in questa fase a causa delle indagini in corso.

Tayeh ha detto che Rabee era stato rilasciato cinque giorni prima dell’omicidio, dopo aver trascorso 40 giorni in prigione per un reato legato alla droga. “Ha passato una notte con lui dopo il suo rilascio, e quando ha iniziato a minacciarla di farle del male, è tornata a casa di suo padre”, ha detto lo zio.

La notte in cui è stata uccisa, per farla tornare a casa Rabee aveva minacciato di far del male al figlio di 11 anni che era a casa della nonna lì vicino. Quando lei è tornata a casa, l’ha uccisa».

L’omicidio di Khweira è avvenuto mentre il mondo si preparava a celebrare la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne il 25 novembre ed era stata lanciata una campagna mondiale di 16 giorni per chiedere la fine della violenza di genere anche in Palestina, dove sono in corso attività di sensibilizzazione.

L’omicidio ha suscitato clamore tra i palestinesi per la persistenza nella società palestinese di violenza domestica e di norme patriarcali.

Nel 2021 sono state finora uccise più di 20 donne nei territori palestinesi occupati in episodi di violenza domestica, e nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza Khweira è la 26a donna palestinese ad essere stata uccisa nel 2021 in un caso di femminicidio, ha detto ad Al Jazeera il Centro per l’Assistenza Legale e la Consulenza alle Donne (WCLAC) di Ramallah. Almeno altre 15 donne palestinesi sono state uccise in Israele.

Richiesta l’adozione della legge per la protezione della famiglia

Le associazioni di donne della società civile condannano da tempo l’assenza di una legge palestinese per proteggere le donne dalla violenza domestica.

L’Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi con sede a Ramallah, che Israele ha recentemente designato come “organizzazione terroristica” insieme ad altre sei istituzioni della società civile, ha condannato l’uccisione.

In un momento in cui le donne palestinesi affrontano i crimini dell’occupazione sionista, inclusi omicidi, arresti, colonie, guerre e distruzione di case, e la decisione di designare le istituzioni che difendono i diritti delle donne come “organizzazioni terroristiche”, un’altra mano ha colpito una donna palestinese, in un orribile criminoso caso di accoltellamento”, ha detto l’Unione in una dichiarazione.

L’Unione ha chiesto la rapida adozione, molto in ritardo, di una legge sulla violenza domestica nota come Legge per la Protezione della Famiglia, “alla luce dell’aumento di omicidi, violenze e vari tipi di abusi contro donne e bambini”.

Una bozza della legge sulla violenza domestica è in stallo almeno dal 2016, sebbene sia stata scritta più di dieci anni fa.

La violenza si verifica perché non abbiamo leggi sulla deterrenza o sulla protezione. Devono esserci leggi per proteggere le donne dalla violenza e queste leggi devono scoraggiare coloro che commettono violenza”, ha detto ad Al Jazeera Amal Abu Srour, direttore dei programmi della WCLAC.

Il motivo è che, fino ad ora, non c’è stata la volontà politica di emanarle – in un momento poi in cui vediamo molte leggi approvate con decreto presidenziale, come la legge sui reati elettronici o le leggi relative al giornalismo e alla comunicazione che limitano la libertà di espressione. L’emanazione di leggi relative ai diritti sociali dovrebbe essere una priorità”, ha affermato Abu Srour.

Ha poi spiegato che la WCLAC, insieme ad altre organizzazioni della società civile femminile, dal 2004 lavora in collaborazione con i governi dell’ANP su una legge contro la violenza domestica.

Sotto il governo dell’ex primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah la bozza è arrivata all’ufficio del presidente Mahmoud Abbas per la firma, ha detto Srour, ma è stata inviata ancora una volta per la revisione sotto il governo dell’attuale primo ministro Mohammad Shtayyeh.

“Non abbiamo idea di dove sia ora la proposta di legge “, ha detto Abu Srour.

Al Jazeera ha contattato il ministro per gli Affari femminili, ma al momento della pubblicazione non ha ricevuto risposta.

Il ministero ha affermato in una dichiarazione che “la legge sulla protezione della famiglia contro la violenza è un’urgente necessità sociale, nazionale e umanitaria per mantenere la coesione della famiglia e della società”, aggiungendo che la sua approvazione “deve essere accelerata”.

Qualunque protezione potesse offrire questa legge, è ora troppo tardi per salvare Khweira.

Circolo vizioso

Tayeh ha detto che Khweira aveva avviato le pratiche di divorzio diversi mesi fa, ma stava attraversando un periodo difficile, in particolare per la perdita quest’anno del fratello 33enne, Saif, a causa di un cancro.

Lo stesso zio è stato rilasciato dalle carceri israeliane dopo 25 anni solo un anno e mezzo fa, e il padre vive in Giordania perché Israele ha proibito il suo ritorno.

Sarebbe fuggita dalla prepotenza del marito e sarebbe rimasta a casa del padre, e la famiglia l’avrebbe comunque sostenuta e le diceva di divorziare, ma lei aveva paura per il futuro dei figli e continuava a tornare da lui nella speranza che cambiasse e diventasse responsabile”, ha detto Tayeh.

Ha detto che Khweira aveva anche menzionato a motivo della sua esitazione la paura dello stigma sociale che circonda le donne divorziate e i loro figli. “Lei diceva: ‘Voglio portare questo fardello per i miei figli. Domani cresceranno e mi proteggeranno e mi difenderanno contro il loro papà.’ ”

“Ritengo che Sabreen abbia sacrificato la sua vita per i figli”, ha aggiunto Tayeh.

Khweira era madre di tre maschi, il maggiore dei quali ha 11 anni e di una bambina di meno di due anni. I bambini ora sono dalla nonna materna.

“Sabreen amava la vita, aveva un cuore bello come il suo viso e amava i suoi figli”, ha detto lo zio.

La trentenne era laureata in economia aziendale e aveva in passato lavorato quattro anni presso il consiglio locale di Kufr Ni’ma nell’unità di insediamento territoriale. Al momento del suo omicidio lavorava in un negozio di abbigliamento del villaggio.

Viviamo in una società che opprime le donne, una cultura sbagliata che umilia lo status delle donne – anche se sono onorate negli insegnamenti islamici, le nostre leggi non garantiscono giustizia alle donne in alcuni dei diritti basilari”, ha detto Tayeh.

Peggioramento delle condizioni con il Covid-19

Abu Srour ha affermato che la persistenza della violenza domestica contro le donne in Palestina potrebbe essere attribuita sostanzialmente a tre fattori: una cultura tradizionalmente patriarcale, leggi discriminatorie contro le donne e mancanza di protezioni, e l’occupazione israeliana.

Secondo la WCLAC, durante la pandemia di COVID la violenza domestica è aumentata. Nel 2020, WCLAC ha registrato l’uccisione di almeno 37 donne palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il Centro ha gestito, attraverso una linea di assistenza gratuita contro la violenza di genere, più di 700 casi di donne bisognose di assistenza, un aumento del 160 % rispetto al 2019.

Diversi altri gruppi per i diritti delle donne hanno segnalato un aumento delle richieste di assistenza.

Ad oggi, nel 2021, WCLAC ha ricevuto chiamate per oltre 300 nuovi casi.

“Le donne sono state costrette a trascorrere lunghi periodi di tempo a casa fianco a fianco con i loro aggressori”, ha detto Abu Srour, spiegando che con tutti a casa a causa della quarantena e delle chiusure, le donne hanno sopportato l’onere aggiuntivo di prendersi cura di tutta la famiglia.

Ogni volta che ci sono situazioni di crisi o di emergenza, c’è un aumento della violenza diretta ai segmenti più deboli della famiglia, le donne e i bambini”, ha aggiunto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Gerusalemme: palestinesi rischiano lo sgombero a seguito di una demolizione

Settanta abitanti affermano che se le autorità israeliane autorizzeranno la demolizione del loro edificio nella Gerusalemme est occupata rimarranno senza casa.

Zena Al Tahhan

9 novembre 2021 – Al Jazeera

 

Al-Tur, Gerusalemme Est occupata – A Gerusalemme, nel quartiere di al-Tur, circa 70 palestinesi, di cui più o meno la metà minori, sono a rischio di sgombero forzato in attesa di una decisione del tribunale israeliano sul destino dell’edificio di cinque piani in cui vivono.

Il 4 novembre le autorità di occupazione israeliane hanno informato i residenti che avrebbero potuto restare nelle loro case ancora una settimana prima che l’edificio venisse demolito per l’assenza di una licenza edilizia.

Gli abitanti hanno dichiarato ad Al Jazeera che domenica gli è stato proposto un altro ultimatum: pagare 200.000 shekel (55.572 euro) rimborsabili e avere tempo fino alla fine del mese per effettuare da sé la demolizione, o [lasciare che] lo Stato lo faccia per loro – al costo di due milioni di shekel (558.000 euro).

Hussein Ghanayem, l’avvocato dei condomini, ha affermato di aver presentato ricorso lunedì e che giovedì è prevista un’udienza in tribunale per stabilire quali misure potranno essere intraprese dalle autorità.

Il condominio di cinque piani si trova nell’abitato di Khallet al-Ain, all’interno del quartiere di Al-Tur (pronuncia At-Tur), noto anche come Jabal al-Zaytun (Monte degli Ulivi). Secondo l’avvocato, come nel caso di molte altre case della zona, fin dalla sua costruzione nel 2012, senza il rilascio da parte israeliana di una licenza edilizia, il palazzo ospita i 70 abitanti appartenenti a 10 famiglie.

Le organizzazioni per i diritti umani e i palestinesi hanno da tempo documentato il rifiuto delle autorità israeliane di rilasciare licenze edilizie nella Gerusalemme Est occupata, il che secondo le Nazioni Unite fa parte di un “regime di pianificazione restrittivo” che “rende virtualmente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione, impedendo lo sviluppo di alloggi, infrastrutture e mezzi di sussistenza adeguati”.

Gli abitanti hanno scelto di rimanere nell’edificio fino all’arrivo dei bulldozer. Hanno ripetutamente chiesto di ottenere un permesso e hanno trascorso quasi nove anni nei tribunali combattendo contro l’ordine di demolizione, ma riferiscono che ogni volta si sono dovuti scontrare col rifiuto da parte delle autorità di occupazione con vari pretesti.

“Restiamo qui fino a quando non verranno e ci obbligheranno ad andarcene”, ha detto lunedì mattina la 47enne Rania al-Ghouj, mentre stava facendo colazione con i familiari nel suo appartamento al piano terra.

Lei e altri inquilini affermano di non avere i 200.000 shekel da versare allo Stato, né di voler demolire da sé l’edificio a causa dei rischi per la sicurezza.

“È uno sgombero forzato collettivo. Non c’è niente che possiamo fare a questo punto”, fa eco Iyad, il figlio 25enne di Rania.

“Pensano che se demoliranno le nostre case si libereranno di noi – non sanno che questo aumenterà solo la nostra resilienza”, aggiunge Iyad, mentre infila il falafel in un pezzo di ka’ak, una qualità di pane palestinese con sesamo tipico di Gerusalemme.

Da quando si sono trasferite nell’edificio le famiglie hanno pagato mensilmente alla municipalità di Gerusalemme controllata da Israele sanzioni per un totale di 75.000 shekel (20.917 euro) all’anno per famiglia per aver vissuto in un “edificio senza licenza”. Pagano anche un’elevata tassa di proprietà nota come Arnona in ebraico, così come gli onorari degli avvocati. Molti di loro dicono di essere indebitati, mentre altri affermano di non potersi permettere di prendere una casa in affitto in un’altra zona.

Secondo l’avvocato Ghanayem il terreno è proprietà privata di un membro della famiglia Abu Sbeitan, che possiede degli appartamenti nell’edificio. Ma egli afferma che le autorità di occupazione hanno rifiutato di concedere una licenza edilizia, sostenendo che il terreno “è destinato ad uso pubblico”. L’avvocato riferisce ad Al Jazeera che le autorità hanno dichiarato di voler invece costruire una scuola da destinare a quel territorio.

Secondo le Nazioni Unite solo il 13% della Gerusalemme Est occupata, che Israele ha annesso dopo la guerra del 1967, gran parte della quale è già stata edificata, è attualmente destinata ad opere di sviluppo e di tipo residenziale dei palestinesi.

“Una pianificazione inadeguata e inappropriata dei quartieri palestinesi ha portato al diffuso fenomeno delle costruzioni ‘abusive’ e della demolizione di strutture da parte delle autorità israeliane”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).

Circa il 57% di tutta la terra nella Gerusalemme est occupata è stato espropriato, anche a proprietari palestinesi privati, sia per la costruzione di colonie illegali che per la destinazione di zone territoriali ad “aree verdi e infrastrutture pubbliche”. Il restante 30%, osserva l’OCHA, comprende “aree escluse dal piano regolatore” in cui è vietata la costruzione.

‘Prosciugare i nostri nervi’

Myassar Abu Halaweh, una giovane madre di tre figlie, si è trasferita nell’edificio con suo marito nel 2013 dopo aver venduto parte del suo oro per permettersi un acconto per l’acquisto dell’appartamento, all’epoca del valore di 86.600 euro.

La 31enne ha detto ad Al Jazeera che la decisione del 4 novembre è stata uno shock per i residenti, che speravano di ricevere prima o poi una licenza edilizia.

“Nel corso degli ultimi nove anni ci siamo sempre trovati di fronte alla stessa situazione – abbiamo già ricevuto diversi ordini di demolizione, ma non ci siamo arresi – abbiamo continuato a fare ricorso contro le decisioni”, dice Abu Halaweh. “L’anno scorso abbiamo avuto delle indicazioni in base alle quali avremmo ottenuto la licenza, quindi io e mio marito abbiamo iniziato a investire di più nella nostra casa”.

“Questa doveva essere la casa in cui sistemarci. È come se ti rimandassero al punto di partenza quando finalmente cominci a vedere la tua vita procedere come dovrebbe.”

Mi sono laureata mentre vivevo in questa casa, in essa ho partorito, vi ho cresciuto le mie figlie. Essa è testimone dell’amore che abbiamo coltivato nella nostra famiglia. Il tempo che ci abbiamo trascorso durante il coronavirus!” prosegue con le lacrime che le rigano il viso, finché la figlia più piccola, Mariam di cinque anni, l’abbraccia e le dà un bacio.

“Ci stanno stressando, prosciugandoci finanziariamente ed emotivamente”, dice, aggiungendo che lei e suo marito stanno ancora pagando il costo dell’appartamento.

“Resteremo qui, in una tenda. Perché dovremmo partire con tanta facilità? Questo non è diverso da Sheikh Jarrah. Settanta persone senza casa sono un’altra Nakba [castrofe in arabo, in riferimento all’espulsione dei palestinesi nel 1947-49, ndtr.]”.

Nessun luogo dove espandersi

At-Tur è uno dei quartieri palestinesi più sovraffollati di Gerusalemme. Sui terreni del quartiere sono state costruite due colonie israeliane illegali, mentre l’espansione è bloccata dai vicini villaggi palestinesi, dalle strade dei coloni e dal muro di separazione.

Secondo Bimkom – un’organizzazione israeliana per i diritti composta da urbanisti e architetti – il “nucleo storico” di At-Tur “presenta una notevole densità abitativa e non ha quasi nessuno spazio per l’edilizia residenziale”.

L’organizzazione per i diritti legati alla progettazione urbana ha osservato che “l’unica speranza di espansione è a nord-est, dove si trova l’abitato non riconosciuto di Khallet al-Ain”, ma che lì è stata proposta la progettazione di un parco nazionale, per cui “ulteriori complessi abitativi sono considerati illegali in quanto costruiti su aree non destinate all’edilizia abitativa”.

Nel 2014 Bimkom scriveva: “Gli abitanti di At-Tur, principalmente quelli che si trovano nelle aree non riconosciute e non pianificate, vivono sotto la costante minaccia di demolizioni di case e ordini di evacuazione”.

Ghanayem riferisce ad Al Jazeera di difendere nella zona di Khallet al-Ain gli abitanti di altri 155 edifici e abitazioni prive di licenza.

“Dal 1967 ad oggi non hanno creato un piano regolatore che soddisfi le esigenze degli abitanti di At-Tur”, afferma Ghanayem. “L’edificio di At-Tur è privo di licenza non perché le persone non la vogliono ottenere, ma a causa della situazione in cui le persone vivono”,  aggiunge, rilevando il drammatico aumento della popolazione del quartiere rispetto alla mancanza di licenze rilasciate dal Comune di Gerusalemme.

Secondo gli organi di informazione israeliani domenica il comune ha presentato una mappa strutturale per At-Tur e la vicina città di al-Issawiya che dovrà essere discussa e approvata dalle autorità. Non è chiaro se il piano consentirà agli abitanti di ottenere le licenze, processo lungo e costoso sia per fabbricati esistenti che nuovi.

Secondo l’OCHA almeno un terzo di tutte le case palestinesi nella Gerusalemme est occupata è privo di licenza edilizia, il che mette potenzialmente a rischio di sgombero più di 100.000 abitanti.

Le ONG locali e le organizzazioni per i diritti hanno a lungo indicato una serie di pratiche e politiche israeliane a Gerusalemme volte ad alterare il rapporto demografico a favore degli ebrei, un obiettivo definito nel piano generale del comune del 2000 nei termini di “mantenere una solida maggioranza ebraica nella città”.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani l’espansione illegale delle colonie, la demolizione di case palestinesi e le restrizioni allo sviluppo urbanistico sono alcune delle modalità principali utilizzate per realizzare questo obiettivo.

‘Nessuna scusa

Tornando a casa della famiglia al-Ghouj, Iyad, che vive con i suoi genitori, insieme ai suoi due figli, moglie e fratelli nel loro appartamento con tre camere da letto, dice ad Al Jazeera che spera che i suoi figli “avranno un futuro migliore” del suo.

“Non c’è nessuna alternativa per noi, nessun posto dove andare. Ci sono spazi enormi qui, non ci sono scuse per proibirci di ottenere una licenza”, sostiene Iyad, indicando il grande spazio aperto adiacente all’edificio.

“Il mondo dovrebbe venire a vedere l’ingiustizia in cui vive il popolo palestinese, l’umiliazione. Non siamo né i primi né gli ultimi ad affrontare tutto questo.

Assistiamo al proliferare di costruzioni in colonie come Modi’in, o a come in Cisgiordania un gruppo di coloni piazza case mobili e pochi anni dopo diventa una colonia”, dice Iyad.

Fayez Khalafawi, 60 anni, la cui famiglia possiede due appartamenti nell’edificio, è d’accordo.

“Se facciamo venire a vivere qui i coloni, otterranno un permesso in 24 ore e lo Stato farà di tutto per loro”, dice ad Al Jazeera.

“Il Comune di Gerusalemme non vuole palestinesi in città”.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Decine di feriti durante violente incursioni israeliane a Gerusalemme est.

Redazione di Al Jazeera

19 ottobre 2021 – Al Jazeera

Decine di feriti e arrestati nei raid israeliani contro palestinesi presso la Porta di Damasco e nelle zone circostanti.

Gerusalemme est occupata – Per il secondo giorno di seguito forze israeliane hanno fatto violentemente irruzione alla Porta di Damasco e nelle vie adiacenti a Gerusalemme est occupata durante una festa nazionale palestinese che ricorda la nascita del profeta Maometto.

Secondo media locali martedì almeno 22 palestinesi sono rimasti feriti e 25, in maggioranza minorenni, sono stati arrestati.

Immagini e video ampiamente diffusi mostrano le forze israeliane che lunedì hanno arrestato e aggredito con violenza giovani, maschi e femmine, picchiato passanti con manganelli, inseguito bambini e famiglie, fatto irruzione nella principale strada commerciale e lanciato indiscriminatamente lacrimogeni e granate assordanti contro la folla. Hanno aggredito anche personale sanitario.

Sia lunedì che martedì presso la Porta di Damasco, uno dei pochi spazi pubblici in cui i palestinesi della città si riuniscono, si svolgevano attività rivolte a famiglie e bambini per celebrare la nascita del profeta.

Secondo i media locali la situazione è palesemente peggiorata nella zona lunedì pomeriggio, quando le forze di occupazione israeliane hanno ferito almeno 49 palestinesi e ne hanno arrestati 10.

Le fonti di informazione locali hanno detto che lunedì il personale sanitario ha dovuto trattare ferite da proiettili di metallo ricoperti di gomma e 19 ferite da schegge di bombe stordenti, così come decine di vittime di aggressioni fisiche.

Almeno due giornalisti del posto sono stati violentemente arrestati mentre informavano sugli eventi.

Ci sono stati arresti giorno e notte presso la Porta di Damasco e nelle zone limitrofe, mentre la rabbia dei palestinesi montava a causa della profanazione di tombe nello storico cimitero musulmano presso la Città Vecchia, su parte del quale è stato costruito un parco nazionale. Il 10 ottobre il Comune di Gerusalemme, controllato da Israele, ha iniziato l’ultima serie di scavi nel cimitero.

Tuttavia negli ultimi giorni la situazione è peggiorata, in quanto le forze israeliane hanno fatto violentemente irruzione e cacciato i palestinesi dai pochi luoghi pubblici a loro accessibili nella Gerusalemme est occupata, compresa la Porta di Damasco e via Salah al-Din.

“La Porta di Damasco, nei pressi della Città Vecchia di Gerusalemme, è un luogo in cui i giovani palestinesi amano riunirsi alla sera e socializzare con gli amici, ma negli ultimi mesi la polizia israeliana e le forze speciali li hanno obbligati con la violenza a disperdersi per fare posto ai coloni israeliani che entrano nella Città Vecchia,” dice ad Al Jazeera Jawad Siam del Centro Wadi Helweh nella Gerusalemme est occupata, che monitora le violenze contro i palestinesi.

Siam afferma che nelle ultime due settimane il centro ha registrato l’arresto di più di 82 minori, un numero significativo dei quali con meno di 13 anni.

Durante l’espulsione forzata sono stati impiegati anche cani poliziotto e idranti di “skunk water”, che spruzzano acqua puzzolente molto persistente.

I palestinesi sono andati alla Porta di Damasco non solo per socializzare, si sono riuniti lì anche per decidere azioni di sfida contro l’occupazione israeliana e le sue leggi e pratiche discriminatorie che favoriscono i coloni ebrei rispetto ai palestinesi.

Siam ha affermato che un certo numero di palestinesi è stato anche arrestato, aggredito e cacciato dal complesso della moschea di Al-Aqsa nella Città Vecchia per aver gridato “Allahu Akbar” [Allah è grande] mentre coloni israeliani entravano e iniziavano a pregare sul terreno del terzo luogo più sacro per l’islam. L’iniziativa dei coloni ha violato l’“accordo sullo status quo” tra l’occupazione israeliana e l’autorità religiosa giordana del Waqf, che amministra il complesso della moschea.

Due poliziotti israeliani sono indagati dal Nucleo Investigativo della Polizia Israeliana per uso eccessivo della forza contro i palestinesi.

Non potete sedervi qui”

La scorsa settimana Hussein al-Zeer, 20 anni, del quartiere di Silwan a Gerusalemme, era seduto con i suoi amici nei pressi della Porta di Damasco a godersi una serata all’aperto.

Racconta ad Al Jazeera che una decina circa di poliziotti di frontiera israeliani armati di bastoni, bombe assordanti e candelotti lacrimogeni li ha aggrediti ed ha ordinato loro di disperdersi.

Quelli che si sono rifiutati di andarsene o hanno filmato l’aggressione sono stati picchiati, alcuni arrestati. “Fin dall’inizio sono stati aggressivi e non ci hanno neppure lasciato il tempo di andarcene. Mi hanno picchiato su tutto il corpo con il calcio dei fucili e a pugni,” ha ricordato al-Zeer.

“Hanno detto che non avevamo il permesso di stare seduti lì e se fossimo rimasti ci avrebbero arrestati. Quando un mio amico si è messo a discutere sul perché non potessimo stare seduti lì hanno iniziato a picchiarlo. Ce ne siamo andati ma poi siamo tornati. Perché è consentito solo ai coloni ebrei di sedersi e andare dove vogliono nella Gerusalemme est occupata?” chiede al-Zeer.

“Ti puoi immaginare le proteste a livello internazionale se un antico cimitero ebraico in Europa venisse profanato per costruirci un parco,” dice Siam.

Grandi disparità”

Secondo un rapporto del Programma di Sviluppo dell’ONU (UNDP) reso noto nel 2016 insieme all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), le autorità israeliane a Gerusalemme destinano solo il 10% del loro bilancio alla Gerusalemme est occupata, mentre il resto va a Gerusalemme ovest.

“Ci sono grandi disparità socio-economiche tra le due zone, fino al punto che potrebbero essere classificate in due categorie di sviluppo umano molto diverse,” afferma il rapporto.

In base alle leggi internazionali le colonie israeliane e il trasferimento di coloni in un territorio occupato sono illegali e l’annessione informale di Gerusalemme est è stata dichiarata nulla e non valida dalla risoluzione 478 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

“Le politiche che discriminano la popolazione palestinese sono prevalenti,” afferma il rapporto dell’UNDP. “Queste leggi sono state architettate specificamente per impedire ai palestinesi gerosolimitani di sviluppare una comunità unita, sicura e florida, con identità, cultura ed economia forti, basate sulla coesione sociale comunitaria.

“Al contrario un sistema discriminatorio di permessi e divisione in zone, una legge della cittadinanza ineguale, una limitata autonomia municipale, la costruzione della barriera di separazione e piani urbanistici escludenti hanno contribuito a creare una zona di Gerusalemme sempre più inabitabile.”

Una gioventù sicura di sé

L’attivista sociale e storico Ehab Jallad di Gerusalemme afferma che l’incontro di giovani nella Città Vecchia non riguarda solo la socializzazione e l’esercizio dei loro diritti, ma anche una presa di posizione politica. “Riguarda questa generazione di palestinesi che prende il controllo del proprio destino e resiste a livello di base,” dice Jallad ad Al Jazeera.

“Stanno adottando azioni non violente e di disobbedienza civile, dimostrando non solo agli israeliani, ma anche ad altri palestinesi, come perseguire la libertà lottando contro l’occupazione. Sono consapevoli della continua ebraizzazione di Gerusalemme est a spese della popolazione palestinese.”

Siam, del Centro Wadi Helweh, sostiene che dall’attacco israeliano di maggio contro Gaza i palestinesi sono diventati più sicuri di sé.

“Gli israeliani hanno perso il controllo della situazione e questa generazione, mentre è disposta al compromesso, non tornerà a farsi intimidire. La prossima generazione non sarà così disposta al compromesso,” afferma Siam. “A maggio abbiamo visto che siamo in grado di imporci e di lavorare per un futuro di libertà.”

Siam spiega che i palestinesi hanno resistito in modi diversi: alcuni hanno documentato gli scontri; altri hanno partecipato alle proteste; altri ancora hanno invece lanciato pietre contro i soldati israeliani. “Non aspettiamo che l’Europa e gli americani ci dicano cosa fare o ci ordinino come dobbiamo agire, mentre siamo stanchi di comportamenti di parte e di un trattamento di favore per Israele. Non ci aspettiamo neppure che il mondo arabo e i nostri correligionari musulmani ci sostengano. Al contrario, stiamo forgiando il nostro percorso a modo nostro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli attacchi dei coloni devastano i terreni dei palestinesi durante la raccolta delle olive

Zena Al Tahhan

17 ottobre 2021 – Al Jazeera

I coloni israeliani attaccano quotidianamente con violenza i palestinesi impegnati nella raccolta stagionale delle loro olive.

Ramallah, Cisgiordania occupata – La scorsa settimana i coloni israeliani hanno perpetrato ogni giorno violenti attacchi contro i villaggi palestinesi e gli abitanti che raccolgono le loro olive.

Gli attacchi, pestaggi di agricoltori e distruzione di alberi inclusi, hanno preceduto l’inizio ufficiale della stagione della raccolta delle olive il 12 ottobre nella Cisgiordania occupata, ma si sono intensificati di numero nell’ultima settimana.

Secondo gli osservatori locali, le aree più colpite sono state nella Cisgiordania occupata settentrionale, intorno ai villaggi a sud della città di Nablus e Salfit.

Ghassan Daghlas, che monitora la violenza dei coloni nel nord della Cisgiordania, riporta ad Al Jazeera di aver registrato 58 attacchi dall’inizio della stagione, di cui nove nel solo villaggio di Burin a sud di Nablus.

Daghlas afferma: “Evidentemente c’è un aumento degli attacchi. Siamo al 30% nella stagione della raccolta delle olive e abbiamo già avuto 58 attacchi nel nord [della Cisgiordania]”, inoltre ha qualificato gli attacchi come “pianificati e non spontanei”.

La raccolta degli ulivi è un’attività economica, fondamentale per molti palestinesi, sia a livello familiare che dell’intera società. I palestinesi prendono giorni di ferie per curare le loro terre, quelle dei loro parenti, vicini o amici. Tra 80.000 e 100.000 famiglie si affidano alle olive e all’olio d’oliva come fonti di reddito primarie o secondarie.

Sebbene gli attacchi dei coloni siano una realtà frequente e quasi quotidiana per i villaggi palestinesi, il numero e l’intensità degli attacchi aumentano durante la stagione della raccolta delle olive che dura fino a novembre, quando i coloni prendono di mira le famiglie che lavorano nelle terre di loro proprietà.

Il 12 ottobre, nel villaggio di Sebastia, a nord di Nablus, i coloni hanno sradicato 900 alberelli di ulivi e albicocche e hanno rubato il raccolto delle olive. Altri 70 ulivi sono stati distrutti a Masafer Yatta, a sud di Hebron.

Ad Awarta, a est di Nablus, il 13 ottobre i coloni hanno abbattuto dozzine di ulivi e li hanno spruzzati con prodotti chimici. Hanno anche distrutto circa 70 alberi di ulivo, frutta e verdura ad al-Tuwani, a sud di Hebron, e hanno tagliato pneumatici e vandalizzati auto e muri nel villaggio di Marda vicino a Salfit.

“Gli attacchi sono iniziati presto”

Il 14 ottobre i coloni hanno abbattuto più di 80 ulivi nel villaggio di al-Mughayyer, a nord di Ramallah. Il giorno dopo, hanno attaccato con pietre la famiglia Hammoudeh nel villaggio di Yasuf vicino a Salfit, ferendone quattro. La famiglia e altri residenti sono stati attaccati di nuovo il 16 ottobre. Lo stesso giorno i coloni hanno anche picchiato a bastonate i residenti di Burin vicino a Nablus e dato alle fiamme uliveti, ferendo almeno 12 palestinesi.

Daghlas afferma che, mentre negli scorsi anni “gli attacchi sono iniziati una settimana dopo l’inizio della raccolta delle olive”, quest’anno “gli attacchi sono iniziati prima”, il che ha costretto i palestinesi a occuparsi dei loro alberi più in fretta del previsto”. Dalle fine di agosto 2021 i coloni hanno ferito almeno 22 palestinesi e distrutto più di 1800 alberi di proprietà dei palestinesi, compresi 900 alberi a Sebastia (Nablus) e 650 a Jamma’in (Nablus) e al-Taybe (Hebron).

Daghlas afferma che, oltre all’incendio e all’abbattimento degli alberi, gli attacchi hanno comportato il furto di olive, minacce e caccia agli agricoltori per allontanarli dalle loro terre e l’allagamento di parte dei terreni con liquami di fogna.

“I coloni e l’esercito ci stanno dando la caccia per privarci dei nostri mezzi di sussistenza, del nostro reddito, del nostro pane, del nostro sostentamento”, sostiene Daghlas.

I palestinesi affermano che i coloni israeliani molto spesso arrivano con la protezione dell’esercito e frequentemente sono armati, come documentato dalle organizzazioni per i diritti. A volte, i coloni e l’esercito lavorano insieme.

La costruzione strategica di insediamenti sulle cime delle colline in Cisgiordania rende facile per i coloni scendere nei villaggi palestinesi e nelle loro terre sottostanti. Inoltre i coloni godono di quella che le Nazioni Unite hanno definito “impunità istituzionale e sistematica” che consente loro di continuare perpetrare gli attacchi.

Le Nazioni Unite hanno descritto gli attacchi come “motivati ​​ideologicamente e principalmente progettati per impadronirsi della terra, ma anche per intimidire e terrorizzare i palestinesi”.

Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (UN OCHA), i coloni hanno effettuato 20 attacchi tra il 21 settembre e il 4 ottobre, un notevole aumento con l’inizio della raccolta delle olive.

Tra il 7 e il 20 settembre ci sono stati 11 attacchi, mentre sei sono stati registrati tra il 24 agosto e il 6 settembre. Il più grande attacco degli ultimi tempi è avvenuto il 28 settembre. Un folto gruppo di coloni mascherati è sceso nel villaggio di al-Mufagara a sud di Hebron e ha attaccato i residenti con pietre, ferendo 29 palestinesi tra cui un bambino di tre anni che ha subito fratture al cranio e è stato ricoverato in ospedale. Secondo l’OCHA i coloni hanno anche danneggiato 10 case, 14 veicoli, diversi pannelli solari e serbatoi d’acqua e ucciso cinque pecore.

In una dichiarazione del 12 ottobre, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) afferma che i dati in suo possesso mostrano che nell’arco di un anno, tra agosto 2020 e 2021, più di 9.300 alberi sono stati distrutti in Cisgiordania. L’ICRC chiede la protezione degli agricoltori palestinesi.

L’IRC sostiene inoltre di aver “osservato un picco stagionale di violenza da parte dei coloni israeliani stanziati in alcuni insediamenti e avamposti in Cisgiordania nei confronti degli agricoltori palestinesi e delle loro proprietà nel periodo che precede la stagione della raccolta delle olive, nonché durante la stagione del raccolto”.

Els Debuf, capo della missione dell’ICRC a Gerusalemme, afferma che “gli agricoltori subiscono anche atti di molestie e violenza per impedire loro un raccolto economicamente conveniente, per non parlare della distruzione delle attrezzature agricole o dello sradicamento e dell’incendio degli ulivi”.

“Non siamo un esercito”

Mohammad al-Khatib è un attivista e fondatore di Faz’a, una coalizione di volontari formata lo scorso anno per proteggere e aiutare gli agricoltori palestinesi che ora riunisce più di 500 volontari.

La coalizione porta avanti diverse campagne, compreso il tentativo di proteggere i palestinesi che lavorano nei loro campi portando gruppi di volontari per dare una mano ed essere presenti sui terreni [come testimoni, ndt] sperando di scoraggiare i coloni.

Khatib è stato aggredito e arrestato nei giorni scorsi durante la sua presenza nei villaggi intorno a Nablus e Salfit [vedi  Zeitun del 17 ottobre 2021 n. 241, ndt]

Khatib dichiara ad Al Jazeera: “non siamo un esercito o gruppi preparati per la difesa. Lavoriamo in condizioni di sicurezza difficili in cui non è possibile utilizzare alcun mezzo di protezione”.

Ad esempio, non ci è permesso usare spray al peperoncino, né alcun tipo di strumento per l’autodifesa, mentre i coloni ci attaccano con le armi, sotto la protezione dell’esercito, con coltelli, bastoni, spray al peperoncino e ci scagliano addosso sassi” continua Khatib. Descrive i coloni come “terroristi sostenuti dallo stato e dall’esercito” con “l’obiettivo di impedire ai palestinesi di rimanere nelle loro terre e infine espellerli”. Khatib ritiene che gli attacchi dei coloni “aumentano sistematicamente ogni anno”.

L’espansione della colonizzazione

Nafez Hammoudeh e la sua famiglia, del villaggio di Yasuf vicino a Salfit, sono stati attaccati per due giorni di seguito e è stato impedito loro di raccogliere le olive. Hammoudeh afferma: “Venerdì sono stati i coloni e sabato l’esercito”. Dichiara ad Al Jazeera che i coloni il venerdì hanno picchiato una sua parente con pietre sulla testa e l’hanno spruzzata in faccia con spray al peperoncino. Hanno aggredito anche suo figlio e suo marito, e hanno rubato sacchi pieni di olive, oltre alla scala e ai telefoni cellulari.

Sabato l’esercito è arrivato con i coloni e li ha aggrediti mentre cercava di mandarli via dalle loro terre. “Siamo stati lì a malapena per un’ora in entrambi i giorni prima di essere cacciati”, ha detto Hammoudeh. “Non ci hanno fornito alcuna ragione – abbiamo detto loro che siamo i proprietari della terra, ma senza successo. È solo una dimostrazione di forza”.

Fino al 4 ottobre l’OCHA ha registrato un totale di 365 attacchi quest’anno, inclusi 101 attacchi che hanno provocato feriti palestinesi e 264 che hanno provocato danni alla proprietà. I numeri hanno già superato quelli dello scorso anno, che si era concluso con un totale di 358 attacchi, di cui 274 a proprietà, e 84 feriti.

Daghlas attribuisce l’aumento degli attacchi dei coloni alla continua espansione degli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania con conseguente violazione dei territori dei villaggi palestinesi. Ad esempio riporta come in passato l’insediamento di Yitzhar a sud di Nablus si trovasse di fronte al villaggio di Burin. Ora l’insediamento si è esteso ai vicini villaggi di Madama, Urif, Einabus e Huwara.

Allo stesso modo, prosegue, l’insediamento di Itamar un tempo si trovava di fronte al villaggio di Awarta a sud di Nablus, mentre ora si è esteso a Beit Furik e Aqraba. “In passato, avremmo concentrato la nostra attenzione sui villaggi vicino agli insediamenti, ma ora l’intera Cisgiordania è vicina agli insediamenti”, dice Daghlas, spiegando che “più gli insediamenti crescono, più la terra è minacciata”.

Ha detto che mentre vede una “resistenza” da parte del popolo palestinese “per affrontare [l’esercito e i coloni] e rimanere nelle loro terre”, gli attacchi dei coloni sono “una forma di pressione”.

Daghlas sostiene che “il numero dei coloni cresce continuamente, assieme a queste forme di terrorismo. La gente un giorno insorgerà e il mondo ne porterà la responsabilità”.

Imposta immagine in evidenza3″Se il popolo palestinese perde la speranza, si ribellerà e non c’è una sola potenza al mondo che sarà in grado di dissuaderlo”.

(Traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Prigioniero palestinese riarrestato inizia lo sciopero della fame

Zena Al Tahhan

5 ottobre 2021 – Al Jazeera

Mohammad al-Ardah, uno dei sei prigionieri evasi da un carcere israeliano il mese scorso, sta protestando contro le misure punitive in carcere.

Ramallah, Cisgiordania occupata – Il prigioniero palestinese riarrestato Mohammad al-Ardah, uno dei sei prigionieri evasi il mese scorso da una prigione israeliana, ha iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato contro quelle che i suoi avvocati hanno descritto come “durissime condizioni di isolamento”.

L’avvocato di Al-Ardah gli ha fatto visita lunedì nella prigione meridionale di Asqalan (Ashkelon), dove egli è tenuto in isolamento da mercoledì.

“Ha annunciato uno sciopero della fame per chiedere condizioni di vita e di detenzione migliori e perché le autorità carcerarie ritirino le misure punitive adottate nei suoi confronti”, ha detto ad Al Jazeera l’avvocato Kareem Ajwa, della Commissione per gli Aaffari dei Ddetenuti dell’Autorità Nnazionale Ppalestinese.

Secondo Ajwa si è tenuta un’udienza all’interno della prigione, in seguito alla quale le autorità hanno imposto ad al-Adrah due settimane di isolamento e un divieto per due mesi delle visite dei familiari e dell’accesso alla mensa, oltre a sanzioni pecuniarie.

Aiwa ha affermato che, mentre i 14 giorni di isolamento costituiscono una punizione carceraria interna, è probabile che i tribunali israeliani emettano nei confronti di al-Ardah e di molti degli altri prigionieri ricatturati un ordine formale di isolamento, che può essere rinnovato ogni sei mesi. “Potrebbero affrontare anni di isolamento”, ha aggiunto.

La Commissione ha dichiarato che al-Ardah, di 39 anni, è detenuto in condizioni di durissimo isolamento”, in una cella non ventilata priva dei servizi elementari”, senza effetti personali o vestiti di ricambio, un cuscino o una coperta.

Ajwa ha affermato che la Commissione presenterà presto un’istanza per un miglioramento delle condizioni di detenzione di al-Ardah, che ha detto di sperare includa il trasferimento in una cella migliore e il permesso di avere con sé dei vestiti.

Al-Ardah è uno dei sei prigionieri palestinesi evasi dalla prigione di Gilboa, nel nord di Israele, all’alba del 6 settembre. Le autorità israeliane hanno annunciato di averlo ripreso insieme a Zakaria Zubeidi, 46 anni, la mattina dell’11 settembre, mentre Mahmoud Abdullah al-Ardah, 46 anni, e Yaqoub Mahmoud Qadri, 49 anni, erano stati riarrestati il giorno prima. Sono stati catturati dopo essere stati trovati vicino a Nazareth.

Gli ultimi due fuggitivi, Ayham al-Kamamji e Munadel Infaat, sono stati riarrestati il ​​19 settembre a Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata, dopo una caccia all’uomo di due settimane.

Domenica la Commissione ha affermato che le autorità carcerarie israeliane hanno tenuto per Qadri un’udienza interna e hanno deciso di imporgli delle misure punitive, tra cui due settimane di isolamento e il divieto per sei mesi delle visite familiari e dell’accesso alla mensa, oltre a sanzioni pecuniarie.

Qadri è recluso in isolamento nella sezione dei detenuti per reati criminali della prigione di Rimonim, nel nord. Nel frattempo Mahmoud al-Ardah e Infaat sono tenuti in isolamento nella prigione di Ayalon a Ramla, Zubaidi nella prigione di Eshel e Kamamji nella prigione di Ohalei Kedar.

Prima di essere posti in isolamento i sei prigionieri sono stati sottoposti da parte della polizia e delle forze di intelligence israeliane a quelli che gli avvocati hanno descritto come durissimi interrogatori e molti di loro hanno denunciato abusi fisici e mentali.

Mohammad al-Ardah ha riferito di aver subito durante il suo interrogatorio delle torture, compresa la privazione del cibo, del sonno e delle cure mediche.

Quattro dei sei prigionieri prima dell’evasione stavano scontando l’ergastolo, mentre due erano detenuti in attesa di processo militare. I condannati sono stati arrestati tra il 1996 e il 2006 e condannati per aver compiuto attacchi contro obiettivi militari e civili israeliani. Cinque di loro sono affiliati al gruppo della Jihad islamica palestinese, mentre uno è un membro anziano del braccio armato di Fatah, organizzazione a capo dell’Autorità nazionale palestinese.

La maggior parte dei palestinesi, che vedono tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane come prigionieri politici nella lotta per la liberazione, hanno ovunque celebrato l’evasione.

Scioperi della fame contro la detenzione amministrativa

Inoltre lunedì il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha dichiarato di essere “seriamente preoccupato” per la salute di altri due prigionieri palestinesi che stanno affrontando uno sciopero della fame a tempo indeterminato contro la reclusione nelle carceri israeliane in regime di detenzione amministrativa – senza processo né accuse.

“Il medico del CICR ha visitato entrambi i detenuti, Kayed Nammoura (Fasfous) che è in sciopero della fame da 82 giorni e Miqdad Qawasmeh che lo conduce da 75 giorni, e ha monitorato attentamente le loro condizioni”, ha affermato Robert Paterson, responsabile sanitario del CICR.

“Siamo preoccupati per le conseguenze potenzialmente irreversibili per la loro salute e la loro vita di uno sciopero della fame così prolungato”.

Fasfous e Qawasmi sono detenuti all’ospedale di Kaplan e sono fra i sei prigionieri palestinesi in sciopero della fame contro la loro reclusione di mesi in regime di detenzione amministrativa.

Secondo la Commissione Alaa al-Araj ha raggiunto i 59 giorni; Shadi Abu Akar i 43 giorni;, Rayeq Bsharat i 44 giorni; e Hisham Hawwash i 49 giorni. I quattro sono detenuti presso il reparto medico della prigione di Ramle.

Attualmente Israele trattiene in detenzione amministrativa 520 prigionieri palestinesi – una politica che consente alla polizia e ai militari israeliani di tenere prigionieri i palestinesi a tempo indeterminato sulla base di “informazioni segrete” – senza sporgere denuncia formale o processarli, una pratica che risale ai tempi dell’occupazione britannica della Palestina.

Secondo Amany Sarahneh, portavoce della Associazione dei Pprigionieri Ppalestinesi (PPS), oltre ai due prigionieri citati dal CICR, anche Hawwash e al-Araj stanno affrontando gravi complicazioni per la loro salute.

Generalmente in questo stadio tutti gli organi vitali del corpo entrano in una condizione di rischio“, ha detto Sarahneh ad Al Jazeera, aggiungendo che i sei prigionieri sono “tutti in pericolo”.

Avvertono un’estrema debolezza fisica, alcuni di loro hanno disturbi oculari, altri della sfera cognitiva”, prosegue, aggiungendo che tutti loro si trovano su sedia a rotelle, ma che mancano ancora dei particolari sui problemi di salute che i prigionieri stanno affrontando.

Tutti i quattro detenuti nella clinica del carcere di Ramle, afferma Sarahneh, si trovano in condizioni di “isolamento molto duro”, in celle isolate, come misura punitiva per aver iniziato lo sciopero della fame. Riferisce che i prigionieri sono tenuti in stanze piccole e prive di igiene, alcune delle quali infestate da scarafaggi.

Secondo Sarahneh mercoledì alle 11 ci sarà un’udienza del tribunale militare israeliano per Qawasmi e al-Araj per sentenziare su una petizione presentata dal PPS che chiede il loro rilascio.

Altri prigionieri in detenzione amministrativa hanno scelto di interrompere l’assunzione dei loro farmaci, anche per malattie croniche, per fare pressione sulle autorità per il loro rilascio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ottobre 2000 vs maggio 2021: come i palestinesi hanno sfidato la frammentazione

Zena Al Tahhan

4 ottobre 2021 – Al Jazeera

Analisti e attivisti affermano che le proteste del maggio 2021 hanno segnato un punto di svolta nella mobilitazione e nell’unità dei palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Durante i primi otto giorni dell’ottobre 2000 le forze israeliane uccisero a colpi di arma da fuoco 13 giovani palestinesi disarmati nelle proteste di massa all’interno di Israele (denominati dai palestinesi territori occupati nel 1948).

Definite “ottobre habbet” in arabo – che significa l’esplosione popolare di ottobre – le proteste e gli scontri avvennero all’inizio della seconda Intifada, o insurrezione, dopo l’uccisione e il ferimento di palestinesi da parte dell’esercito israeliano nei territori occupati nel 1967.

Interrompendo decenni di sistematica frammentazione fisica, politica e sociale del popolo palestinese da parte di Israele, le proteste di ottobre e l’Intifada segnarono un momento di unità popolare tra i palestinesi nei territori occupati del 1948 e del 1967

In particolare dopo gli accordi di Oslo del 1993 – che miravano, senza successo, a creare uno stato palestinese nei territori del 1967 – i palestinesi all’interno di Israele

erano stati lasciati fuori dall’equazione del progetto politico palestinese e subirono tentativi da parte del governo israeliano di pacificarli attraverso finanziamenti e stringenti controlli di polizieschi, mantenendo la loro emarginazione politica, sociale ed economica.

Sebbene dal 2000 siano scoppiate diverse grandi rivolte popolari palestinesi – anche tra i palestinesi all’interno di Israele – secondo analisti e attivisti le proteste e gli scontri che hanno spazzato il paese da nord a sud nel maggio 2021, definiti “habbet Ayyar” (esplosione di maggio), hanno segnato un evidente punto di svolta nel rapporto tra palestinesi e Stato, e nella mobilitazione popolare palestinese.

Ameer Makhoul, analista politico e scrittore con sede ad Haifa, dice ad Al Jazeera che, mentre le proteste del 2000 avvennero “per inviare un messaggio che [anche noi in Israele ndt.] siamo parte del popolo palestinese” e furono caratterizzate come “sostegno alla lotta del nostro popolo” nei territori occupati nel 1967, le proteste del maggio 2021 “hanno inviato il messaggio che siamo un’unica causa – che siamo parti interessate direttamente” e aggiunge che “non sono state proteste di solidarietà”, ma che i palestinesi in Israele ” sono stati in prima linea”.

Molteplici fronti

A fronte della serie di eventi rapidamente succedutisi tra fine aprile e maggio – principalmente le proteste contro i piani israeliani di pulizia etnica del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, i giorni dei violenti raid israeliani con centinaia di feriti nel complesso della moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan e alla campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza – la quarta in 13 anni – i palestinesi all’interno di Israele si sono mobilitati, obbligando lo Stato ad affrontare molteplici fronti aperti.

Il 10 maggio in almeno 20 località, compresi i villaggi più piccoli e meno conosciuti, palestinesi nelle aree del 1948 migliaia di persone sono scese in piazza con proteste e scontri descritti come “senza precedenti”.

Gli abitanti hanno bloccato strade, lanciato bottiglie molotov e pietre contro le forze israeliane, dato fuoco alle auto della polizia, rotto le telecamere di sorveglianza israeliane e rimosso le bandiere israeliane dai lampioni per sostituirle con quelle palestinesi.

Nelle grandi città come Haifa, Lydd e Ramle – città che sono state sottoposte a pulizia etnica nel 1948 e che oggi ospitano una minoranza palestinese – la questione è cresciuta di intensità quando israeliani armati, molti dei quali provenienti dalla Cisgiordania occupata, si sono trasformati in bande di strada che hanno attaccato case palestinesi e perpetrato linciaggi, che Makhoul descrive come “una minaccia esistenziale per il popolo”

Il 12 maggio per la prima volta dal 1966 [anno in cui finì l’amministrazione militare nei territori abitati da palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] Israele ha dichiarato lo stato di emergenza a Lydd e ha imposto il coprifuoco alla città mentre iniziava la guerra a Gaza. Ha anche fatto affluire rinforzi della guardia di confine, un corpo dell’esercito che di solito opera nella Cisgiordania occupata.

Secondo Mossawa, un’organizzazione per i diritti dei palestinesi, al 10 giugno la polizia aveva arrestato più di 2.150 palestinesi, oltre il 90% dei quali erano palestinesi residenti in Israele o a Gerusalemme. Le organizzazioni per i diritti umani hanno anche documentato l’uso eccessivo della forza, inclusi proiettili veri, proiettili di metallo ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti. Si è anche rilevato che la polizia ha torturato i detenuti palestinesi in custodia e ha chiuso un occhio sugli attacchi di bande ebraiche contro abitanti palestinesi, collaborando in alcuni casi con loro.

Durante gli eventi Moussa Hassouna, un abitante palestinese di Lydd di 32 anni, è stato ucciso da un colono e il 17enne Mohammad Kiwan è stato ucciso in seguito dalla polizia a Umm al-Fahm. In migliaia si sono recati ai loro funerali.

Nel 2000 Israele ha trattato i “palestinesi in Israele” – come ci chiama – come se le questioni che si verificano in Cisgiordania– o in altre parole, alle questioni del popolo palestinese -non li riguardassero”, ha detto Makhoul. “Soprattutto dopo Oslo, ha tentato di separare e frammentare il popolo palestinese come se i palestinesi nei territori del ’48 fossero estranei alla causa Palestinese.

“Quello che è successo quest’anno è che Israele, per come ci ha aggrediti, ci ha trattati come se facessimo parte del popolo palestinese [nei territori occupati nel 1967, ndt.]. Continua “Nel 2000 ha cercato più di contenerci. Ora ha cercato di dissuaderci con la repressione… ha considerato gli ultimi scontri un fronte di guerra”.

Mohamad Kadan, uno scrittore palestinese che vive ad Haifa, è d’accordo. “Israele è rimasto scioccato dagli shabab (giovani) che sono scesi in strada, il che è dimostrato dal modo in cui la polizia ha interagito con loro”,dice ad Al Jazeera.

Loro (la polizia) erano stremati – era evidente. In alcuni casi, hanno finito le manette di metallo, quindi hanno portato quelle di plastica”, afferma Kadan, aggiungendo che “l’atteggiamento di Israele nei loro confronti è terrorizzare e incutere paura”.

Guidate dal basso

Ciò che distingue le proteste di maggio da quelle dell’ottobre 2000 è anche che sono state guidate dal basso, sia durante le proteste iniziali che nell’organizzazione dei movimenti giovanili che è seguita.

La decisione popolare di agire nel 2000 venne dai leader politici – dall’Higher Follow Up Committee [un’organizzazione che opera come coordinamento e rappresentanza nazionale dei palestinesi cittadini di Israele, ntd.] – e non dal basso”, afferma Makhoul.

Ora, le decisioni sono state prese dalla gente in tutti i sensi. Dai movimenti giovanili, dai movimenti popolari, dai comitati popolari di ogni città”, sostiene.

Kadan descrive coloro che inizialmente sono scesi in strada come provenienti da “situazioni di estrema marginalità”. Hanno gridato “dalle periferie più povere – le persone che qui non vedono un futuro”, dice. “Il potere e l’impatto di questi shabab sono stati molto chiari: è la voce che si è sentita e sempre lo dovrebbe essere”.

Mohammad Taher Jabareen, un 29enne abitante di Umm al-Fahm e uno dei fondatori del movimento (Hirak) di Umm al-Fahm, dice ad Al Jazeera che i giovani scesi in strada “non avevano nulla da perdere”.

Avevano bisogno di queste proteste, che hanno permesso loro di rompere la barriera della paura e prendere posizione per dire ‘quando è troppo è troppo’, per uscire dall’atmosfera di problemi familiari, politiche sistematiche contro di loro – tra cui criminalità organizzata, demolizioni di case, confisca di terre, restrizioni finanziarie, multe – tra le altre questioni”, afferma Jabareen.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno da tempo documentato la lotta dei palestinesi in Israele, che sono 1,8 milioni. A parte gli sforzi di Israele nel corso degli anni per sopprimere la loro identità palestinese, la maggioranza vive in città densamente popolate e con scarso accesso alla terra e alle risorse – la maggior parte delle quali sono state espropriate durante e dopo il 1948 a beneficio dei coloni ebrei.

Dalla Seconda Intifada un nuovo fenomeno di criminalità organizzata – di cui gli abitanti affermano essere responsabile Israele– è diventato il problema numero uno per i palestinesi all’interno di Israele, ha causato centinaia di vittime e ha portato a grandi proteste.

Tuttavia gli abitanti sostengono che gli episodi che hanno spinto la gente a scendere in piazza sono stati gli attacchi israeliani a Sheikh Jarrah e al complesso della moschea di Al-Aqsa.

“La criminalità organizzata è uno dei mezzi attraverso i quali Israele allontana i palestinesi nelle aree del ’48 dalla scena politica”, sostiene Jabareen. “È come dire: ‘Tenetevi occupati tra voi con i vostri problemi e saremo liberi di agire come vogliamo con la moschea di Al-Aqsa e di imporre divisioni spaziali e temprali’”.

Il 7 maggio, la notte più santa del Ramadan, su un’autostrada la polizia israeliana ha tentato di impedire ad alcuni grandi autobus che trasportavano palestinesi dalle aree del 1948 di raggiungere la moschea di Al-Aqsa. Quando i passeggeri sono scesi e hanno iniziato a farsi strada a piedi, i palestinesi di Gerusalemme sono andati ad accompagnarli con le loro auto in città, in quella che è stata salutata come una vittoria e un momento di coesione.

Kadan descrive la Città Vecchia e il complesso della moschea di Al-Aqsa come “l’ultima fortezza del movimento nazionale palestinese”.

Sheikh Jarrah rappresenta il passato – lo sradicamento e la Nakba –, mentre Al-Aqsa e la Città Vecchia rappresentano ciò che è ancora possibile – che c’è ancora speranza per la liberazione della Palestina”, dice Kadan.

Makhoul afferma che il modo in cui “Al-Aqsa e Sheikh Jarrah hanno mobilitato Gaza, che poi ha mobilitato Gerusalemme” ha mostrato che si tratta di questioni sulle quali esiste un “pieno consenso popolare”.

“Ogni palestinese sentiva di avere una responsabilità individuale e personale nei confronti di Sheikh Jarrah e Al-Aqsa”, un sentimento che secondo Makhoul deriva anche dalla “debolezza della leadership politica palestinese”.

Mobilitazione e movimenti giovanili

Secondo Kadan, molti movimenti giovanili, che in seguito hanno consentito un’unità sostanziale tra i palestinesi nelle aree del ’48 e del ’67, sono emersi dopo i primi scontri con la polizia

A seguito dell’uso eccessivo della forza da parte della sicurezza israeliana e “una volta che la gioventù (shabab) si è stancata degli scontri, sono nate forme di lotta diverse”, afferma Kadan, spiegando che “in ogni città sono cresciute cellule per organizzare movimenti” composte da giovani che sono attivi nelle università, nei partiti politici e in altri contesti.

“Tutti hanno iniziato a organizzare discussioni su ciò che è accaduto nei giorni precedenti di intensi scontri e su cosa possiamo fare per andare avanti”, continua Kadan, osservando che oltre a movimenti già organizzati come Hirak [cioè movimento ntd.] Haifa e Hirak Umm al-Fahm, hanno iniziato a organizzarsi nuovi movimenti giovanili anche nelle città di Shefa ‘Amr, Kabul, Baqa al-Gharbiya, Kufr Kanna.

Dalle mobilitazioni di maggio sono nati anche i comitati di volontari per rispondere alla crisi locale, che comprendono un comitato di avvocati e un comitato di supporto psicologico per aiutare i detenuti nelle aree di Gerusalemme e del ’48.

Questa generazione non ha solo elaborato progetti, ma ha iniziato a costruire alternative. Hanno visto che i partiti politici e le istituzioni – quelli tradizionali come The Higher Follow Up Committee – non avevano più un ruolo. Non sapevano cosa fare”, dice Kadan.

Il 17 maggio è stato proclamato uno storico sciopero generale organizzato dai giovani nelle aree del ’48 e del ’67 con lo slogan “dal fiume al mare”, che Kadan descrive come un “punto di svolta” per la mobilitazione dei giovani.

C’era un’atmosfera in cui ogni città e villaggio si impegnava a prepararsi per lo sciopero – i giovani hanno iniziato a incontrarsi, a parlare e ad organizzare attività per il giorno dello sciopero – girando per le strade per verificare che lo sciopero fosse in atto, distribuire volantini alle persone, organizzare conferenze, interventi, seminari”, ha affermato Kadan.

Tra le altre iniziative, tra cui una maratona a Gerusalemme, i movimenti giovanili nelle aree del ’48 e del ’67 hanno organizzato contemporaneamente una “Settimana dell’economia palestinese” per appoggiare l’economia palestinese e boicottare i prodotti israeliani.

Makhoul afferma che “la forza di questa sfida sta aumentando di giorno in giorno”, guidata dal ruolo dei giovani e dei social media nell’esplosione popolare del maggio 2021.

“I social media sono la nuova geografia”, dice Makhoul. “Oggi il popolo palestinese può agire e considerarsi come un unico popolo, anche se non è tutto in patria o se non può incontrarsi in patria.

Ciò che ci distingue oggi è che ci siamo resi conto che il nostro campo di gioco è prima di tutto e principalmente il mondo e che Israele non detta le regole del gioco su come protestiamo, lottiamo per la nostra causa e la nostra gente e lavoriamo per raggiungere gli obiettivi del nostro popolo”, continua.

Makhoul afferma di ritenere che, anche se Israele “cerca di distruggere la cultura della resistenza nelle aree del ’48”, “avrà un problema maggiore con le nuove generazioni, che non prestano attenzione a ciò che dice Israele e non ne sono intimidite”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La parlamentare palestinese Khalida Jarrar è stata rilasciata dal carcere israeliano

Redazione di Al Jazeera

26 settembre 2021, Al Jazeera

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La leader politica e della società civile Khalida Jarrar, 58 anni, è stata rilasciata dopo quasi due anni trascorsi nelle carceri israeliane.

Nel pomeriggio di domenica le autorità israeliane hanno rilasciato Jarrar, figura della sinistra e membro dell’ormai estinto Consiglio Legislativo Palestinese (PLC), al posto di blocco di Salem ad ovest della città di Jenin.

L’esercito israeliano ha arrestato Jarrar nella sua casa a Ramallah il 31 ottobre 2019, otto mesi dopo che era stata rilasciata dopo 20 mesi di detenzione amministrativa senza processo né accuse.

A luglio una delle due figlie di Jarrar, la 31enne Suha, è morta a Ramallah in seguito a complicazioni di salute, cosa che ha provocato appelli di massa ad Israele per il rilascio della donna politica in tempo per assistere al funerale di sua figlia, appelli respinti da Israele.

Domenica dopo il suo rilascio Jarrar si è recata al cimitero di Ramallah, dove è sepolta Suha.

Quando Jarrar è arrivata, erano presenti al cimitero decine di membri di spicco, sostenitori e leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), il capo dell’Associazione per i Prigionieri Politici, Qadura Faris, la governatrice delle città di Ramallah e al-Bireh, Leila Ghannam, e decine di giornalisti palestinesi.

Mi hanno vietato di partecipare al funerale della mia amatissima figlia e di darle un bacio sulla fronte”, ha detto Jarrar al cimitero.

Mi hanno impedito di dirle addio”, ha aggiunto prima di scoppiare in lacrime. “L’ultima volta che l’ho abbracciata è stata nella notte del mio arresto nel 2019.”

Un alto dirigente del PFLP ha detto che mentre “è veramente un momento doloroso e le parole non possono esprimere il sentimento di profonda tristezza, noi siamo felici che Jarrar sia libera dalla prigione dell’occupazione.”

Jarrar è stata trattenuta in detenzione amministrativa ancora fino a marzo di quest’anno, quando un tribunale militare israeliano la ha incriminata di “appartenenza ad un’organizzazione illegale”, a causa della sua affiliazione al PFLP, un’accusa in base alla quale era stata precedentemente incarcerata.

L’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, con sede a Ramallah, ha dichiarato all’epoca che “tutte queste sue incarcerazioni ed arresti costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale e contraddicono il principio giuridico sancito a livello internazionale e il divieto di processare una persona due volte per la stessa azione.”

Israele dichiara illegali oltre 400 organizzazioni, compresi tutti i partiti politici palestinesi – inclusi il partito Fatah al governo e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) – in quanto “gruppi terroristi”.

Condanna regolarmente molti palestinesi col pretesto di “partecipazione ad un’organizzazione illegale” o di “fornire servizi ad una di esse” per via della loro affiliazione politica o di ogni tipo di attività pacifica.”

Jarrar è stata a lungo nel mirino dell’occupazione israeliana a causa del suo carattere schietto e del suo attivismo politico.

Ha trascorso molta parte degli ultimi sei anni entrando ed uscendo dalle carceri israeliane, compresi i periodi tra luglio 2017 e febbraio 2019 in detenzione amministrativa, una politica israeliana che consente l’incarcerazione dei palestinesi a tempo indeterminato, sulla base di “informazioni segrete”, senza presentare accuse formali contro di loro o consentire che siano sottoposti ad un processo.

Nel 2015 è stata condannata a 15 mesi con la stessa accusa – “appartenenza ad un’organizzazione illegale”.

Le autorità israeliane le hanno vietato di viaggiare dal 1988, tranne per un viaggio di tre settimane ad Amman in Giordania, per cure mediche.

Jarrar è stata eletta membro del PLC nella lista del PFLP nel 2006. E’ anche stata nominata nella Commissione Nazionale Palestinese per il monitoraggio rispetto alla Corte Penale Internazionale.

Relazione supplementare di Mohammed Najib a Ramallah

Fonte: Al Jazeera

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

 

 

È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

Un recente sondaggio rivela che persino gli esperti occidentali e israeliani sanno che due Stati in Palestina sono impossibili.

Haidar Eid*

19 settembre 2021 – Al Jazeera

 

Lo scorso agosto l’autorevole rivista USA Foreign Affairs ha condotto un sondaggio sulla soluzione dei due Stati in Palestina fra “autorità con conoscenze specialistiche e i maggiori generalisti del campo”. I 64 esperti dovevano rispondere alla domanda “la soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile?” e spiegare la propria posizione con un breve commento.

La metà ha risposto che la soluzione dei due Stati non è morta, sette non si sono espressi e 25 hanno risposto di sì – quella soluzione è morta.

Tra chi ha risposto di no, qualcuno ha tuttora oppure ha avuto in precedenza a che fare con istituti di ricerca sionisti, quali il Washington Institute for Near East Policy. Uno di loro è Martin Indyk, ex ambasciatore USA allo Stato segregazionista di Israele, che prima di iniziare la carriera diplomatica ha prestato servizio come vicedirettore per la ricerca dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, considerata la più potente lobby negli USA, che sostiene lo Stato di Israele, ndtr].

L’elenco comprende anche Dennis Ross e altri fortemente impegnati nel cosiddetto “processo di pace”, una storia infinita il cui obiettivo è salvaguardare lo Stato segregazionista di Israele e liquidare del tutto i diritti basilari dei palestinesi.

Ovviamente chi ha avuto parte nel “processo di pace” continua a restare attaccato all’illusione che sia possibile instaurare un bantustan [territori del Sudafrica riservati alle popolazioni native dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid, ndtr.] palestinese.

Chi ha difeso la soluzione dei due Stati ha ammesso che alcune “barriere” ne ostacolano la realizzazione; fra queste la più citata è stata “la mancanza di volontà politica” da “entrambe le parti”. Qualcuno ha persino suggerito che la responsabilità sia esclusivamente della dirigenza palestinese, in quanto Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese non hanno il sostegno del popolo palestinese necessario per fare i sacrifici richiesti ed accettare l’apartheid e le politiche di insediamento coloniale di Israele.

È curioso che alcuni di quelli che non si sono espressi abbiano preferito adottare una posizione relativista post-moderna su un tema di libertà, uguaglianza e giustizia – perché ciò altro non è. Altri ancora hanno adottato un approccio alla questione palestinese incentrato sui diritti umani, rifiutandosi di assumere una posizione politica.

Sta a ciascuno giudicare che cosa significhi restare “neutrali” su un’evidente questione di giustizia. Solo pochi decenni fa chi avrebbe osato essere “neutrale” sulla fine dell’apartheid in Sudafrica?

In generale gran parte dei sostenitori della soluzione dei due Stati nel mondo accademico, nei circoli di politica estera e così via sono israeliani, americani o europei che non trovano nulla da ridire su un progetto di insediamento coloniale. I pochi palestinesi che sono a favore di questo approccio razzista alla questione palestinese non riconoscono i fatti compiuti: il sistema fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è in realtà quello di un unico Stato, uno Stato di apartheid dove una comunità gode di tutti i privilegi di cittadinanza, mentre l’altra è privata dei suoi diritti umani fondamentali.

È piuttosto difficile non notare il razzismo e l’ingiustizia connaturati alla realtà segregazionista in Palestina, dove a soffrire non sono soltanto i palestinesi che vivono nei territori occupati dal 1967, come lascia intendere la domanda di Foreign Affairs.

Da parte mia, ho partecipato al sondaggio credendo che fosse importante far sentire la mia voce di palestinese. Ecco ciò che ho scritto nel limitato spazio a disposizione:

“Oltre al fatto che Israele ha intrapreso passi irreversibili che hanno reso impossibile questa soluzione – ossia l’espansione delle colonie ebraiche; l’annessione di altra terra in Cisgiordania oltre che a Gerusalemme; la costruzione del muro dell’apartheid che separa i palestinesi da altri palestinesi; il blocco della Striscia di Gaza; l’approvazione da parte della Knesset della razzista Nation-State Law [Legge sullo Stato-Nazione: questa legge, approvata dal parlamento israeliano nel 2018, restringe ai cittadini ebrei il diritto di autodeterminazione, legittimando così la discriminazione dei cittadini non ebrei, ndtr] – in linea di principio la soluzione dei due Stati non garantisce al popolo palestinese i diritti fondamentali previsti dal diritto internazionale (l’uguaglianza e il diritto al ritorno). Una soluzione di tipo bantustan è una soluzione razzista per antonomasia.”

Che una pubblicazione USA così autorevole sollevi questa domanda sulla realtà dei due Stati in Palestina e si assicuri che ci siano voci palestinesi fra gli intervistati è sicuro indizio della capacità dei palestinesi di fare sentire la propria voce nel cuore dell’impero. È anche rivelatrice del fatto che lentamente ma inesorabilmente il dibattito internazionale sulla Palestina si sta allontanando dagli argomenti del “processo di pace” o della “intransigenza” della dirigenza palestinese.

Se un intervistato ha espresso totale sconcerto per la semplice decisione da parte di Foreign Affairs di fare una simile domanda, ciò dà evidentemente fastidio ai sionisti USA e israeliani. Il tono difensivo adottato in molte delle risposte negative alla domanda indica che persino i più accaniti sostenitori di Israele sono consapevoli che la soluzione dei due Stati non può risolvere la questione palestinese e che essa è già morta a causa delle politiche israeliane di apartheid in Palestina.

L’alternativa è evidente: uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica, senza distinzione di razza, etnia e religione; uno Stato simile al Sudafrica post-apartheid, che non sia basato sulla oppressione di una comunità da parte di un’altra. Non si può arrivare ad una vera soluzione della questione palestinese se si parte da idee razziste sulla separazione dei popoli. Soltanto il recupero dell’identità multiculturale della Palestina, che sia davvero inclusiva, laica e democratica, può portare ad una pace duratura non solo fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ma anche oltre.

*Haidar Eid è professore associato all’Università Al-Aqsa di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




L’avvocato: “Un prigioniero palestinese riarrestato è stato torturato”

 Zena Al Tahhan

15 settembre 2021 – Al Jazeera

L’avvocato di Mohammad al-Ardah afferma che è stato privato di cibo, sonno, cure mediche ed ha subito “una durissima sessione di torture”.

Cisgiordania occupata – Durante il primo incontro con il suo avvocato da quando è stato fermato la scorsa settimana, almeno uno dei quattro prigionieri politici palestinesi riarrestati ha detto di essere stato sottoposto a violenze e torture fisiche e psicologiche dagli investigatori israeliani.

Dopo che l’intelligence israeliana ha tolto il divieto di colloquio degli avvocati con i prigionieri a cinque giorni da quando sono stati riarrestati, mercoledì l’avvocato Khaled Mahajneh, del collegio di difesa della Commissione per la Questione dei Detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha incontrato il suo cliente Mohammed al-Ardah.

Dopo essere uscito dal centro di detenzione e aver visto il suo cliente, che a quanto ha detto è stato privato di cibo, sonno e cure mediche mentre subiva una serie di interrogatori intensivi, Khaled Mahajneh ha rilasciato una commovente intervista a Palestine TV [televisione ufficiale dell’ANP, ndtr.]

“Mohammed è stato sottoposto, e lo è ancora, a una pesante serie di torture,” ha detto Khaled. “Dopo il suo arresto Mohammed è stato portato nel centro di interrogatori di Nazareth, dove è stato interrogato in modo molto violento.

In una stanza piccolissima c’erano circa 20 investigatori dell’intelligence che gli hanno strappato tutti i vestiti, comprese le mutande, e lo hanno obbligato a rimanere nudo per molte ore. Poi gli hanno dato uno scialle per coprirsi i genitali e in seguito lo hanno trasferito nel centro per gli interrogatori di Jalama.”

Tagli ed escoriazioni”

L’avvocato ha detto che durante l’arresto le forze israeliane hanno picchiato Mohammed: “La sua testa è stata sbattuta per terra ed ora è ferito sopra l’occhio destro. Finora non ha ricevuto le cure mediche di cui ha bisogno. A seguito del tentativo di fuga e della caccia all’uomo da parte delle forze israeliane contro di lui e Zakaria Zubaidi, presenta tagli ed escoriazioni su tutto il corpo.”

Venerdì notte le autorità israeliane hanno annunciato il riarresto di Mahmoud Abdullah al-Ardah e Yaqoub Mahmoud Qadri, rispettivamente di 46 e 49 anni, nella periferia meridionale di Nazareth. Zakaria Zubeidi, 46 anni, e Mohammed al-Ardah, 39, sono stati arrestati sabato mattina nel villaggio palestinese di Shibli-Umm al-Ghanam. I quattro sono stati portati a Jalama per essere interrogati.

Erano tra i sei uomini, insieme a Ayham Nayef Kamanji, 35, e Munadel Infaat, 26, dei quali non si sa ancora dove si trovino, che sono scappati dalla prigione israeliana di Gilboa all’alba del 6 settembre.

Interrogatori giorno e notte”

Khaled Mahajneh ha detto che durante il loro incontro sei investigatori sono rimasti dietro Mohammed al-Ardah, incatenato mani e piedi. L’avvocato ha affermato di aver ripetutamente chiesto che venissero tolte le catene almeno dalle braccia di Mohammed, ma gli agenti hanno rifiutato di farlo.

Secondo Khaled, da quando è stato riarrestato a Mohammed per quattro giorni non è stato dato cibo e non ha dormito più di 10 ore a causa delle continue sessioni di interrogatorio.

“Da sabato è stato sottoposto a interrogatori giorno e notte… È stato interrogato a tarda notte e alle prime ore del mattino,” ha affermato Khaled. “Non vede il sole, o la luce, o il vento. Quando l’ho incontrato mi ha chiesto se fosse pomeriggio, non sapeva che era mezzanotte.”

L’avvocato ha detto che Mohammed è tenuto in una cella “non più grande di 2 metri per 1,” vive “sotto sorveglianza 24 ore su 24,” e “ogni giorno è stato interrogato da dieci poliziotti”.

In un’altra intervista postata su Facebook l’avvocato Ruslan Mahajneh, che la stessa notte ha incontrato Mahmoud al-Ardah, ha detto che il detenuto gli ha raccontato di essere stato interrogato varie volte dopo l’arresto.

“Sono stati arrestati venerdì notte. Gli interrogatori sono durati dal venerdì – sono arrivati a Jalama tra mezzanotte e l’una, e l’interrogatorio è continuato fino alle 8 del mattino,” ha detto.

“Dopodiché sono andati a dormire. L’interrogatorio varia, viene interrogato ogni giorno tra le 7 e le 8 ore. Ma di notte dorme. Dice che non sono stati torturati,” ha affermato Mahajneh.

Secondo un comunicato della commissione dell’ANP, l’avvocato Avigdor Feldman ha incontrato Zakaria Zubaidi a mezzanotte di mercoledì.

“È risultato che, durante il suo arresto con il prigioniero Mohammed al-Ardah, il detenuto Zubaidi è stato picchiato e maltrattato, provocando la rottura della mandibola e di due costole,” ha affermato la commissione.

Zubaidi, continua il comunicato, “è stato trasferito in un ospedale israeliano e dopo il suo arresto gli sono stati somministrati antidolorifici” e “in seguito alle percosse e ai maltrattamenti tutto il suo corpo è coperto di lividi ed escoriazioni.”

Benché nel 1999 la Corte Suprema israeliana abbia vietato l’uso della tortura, gli investigatori, in particolare dei servizi di intelligence, hanno continuato ad usare violenza contro i detenuti palestinesi, che i tribunali hanno retroattivamente approvato. I quattro prigionieri sono sottoposti, da parte dei servizi di intelligence in collaborazione con l’unità 443 Lahav della polizia, a interrogatori che secondo gli avvocati possono durare fino a 45 giorni.

Sabato i prigionieri sono comparsi separatamente davanti al tribunale di Nazareth, che ha deciso di estendere la loro detenzione fino al 19 settembre per “completare l’indagine”.

Processi giudiziari

Secondo la commissione dell’ANP, durante l’udienza di sabato contro i quattro sono state presentate molte accuse indiziarie: “Evasione, favoreggiamento in una evasione, complotto per commettere un’aggressione, partecipazione a un’organizzazione ostile e fornitura di servizi ad essa.”

Dopo l’udienza Khaled Mahajneh ha detto ad Al Jazeera che le autorità si sono rifiutate di fornire informazioni riguardo al “complotto per commettere un’aggressione”, sostenendo che la documentazione è segreta.

Nella sua intervista con Palestine TV Khaled ha affermato che Mohammed al-Ardah “respinge totalmente le accuse che la sicurezza sta cercando di imputargli.” Mohammed avrebbe detto a Khaled che “avrebbe potuto fare qualunque cosa nei cinque giorni” di libertà, ma “voleva essere libero e camminare per le strade della Palestina occupata nel 1948.”

In base alle leggi internazionali un prigioniero di guerra che scappa dalla prigione “è passibile solo di una punizione disciplinare,” cioè non possono essere comminati altri anni di carcere in aggiunta alla sentenza iniziale, anche se si tratta di una fuga recidiva.

Secondo gli avvocati in precedenti episodi in cui carcerati palestinesi sono scappati da prigioni israeliane e sono stati riarrestati molti hanno dovuto affrontare misure punitive, come lunghi periodi in isolamento, ma non hanno subito un allungamento della pena.

La maggioranza dei palestinesi vede i detenuti nelle carceri israeliane, che sono 4.650 palestinesi, compresi 200 minorenni e 520 sottoposti a detenzione amministrativa, cioè senza processo o accuse specifiche, come prigionieri politici che sono incarcerati a causa dell’occupazione militare israeliana o per la loro resistenza ad essa.

Prima di evadere dalla prigione quattro dei sei detenuti sono stati condannati all’ergastolo, mentre due erano detenuti in attesa di un processo militare.

I condannati sono stati arrestati tra il 1996 e il 2006 e sono stati incarcerati per aver compiuto attacchi contro militari o civili israeliani. Cinque di loro sono affiliati all’organizzazione palestinese Jihad Islamica, mentre uno è un importante membro dell’ala militare di Fatah, il gruppo palestinese che controlla l’ANP.

Dopo che i detenuti sono scappati attraverso un tunnel che sbucava a pochi metri dal muro della prigione, le forze israeliane hanno lanciato un’enorme caccia all’uomo per cercarli ed hanno arrestato membri delle rispettive famiglie.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)