La parlamentare palestinese Khalida Jarrar è stata rilasciata dal carcere israeliano

Redazione di Al Jazeera

26 settembre 2021, Al Jazeera

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La leader politica e della società civile Khalida Jarrar, 58 anni, è stata rilasciata dopo quasi due anni trascorsi nelle carceri israeliane.

Nel pomeriggio di domenica le autorità israeliane hanno rilasciato Jarrar, figura della sinistra e membro dell’ormai estinto Consiglio Legislativo Palestinese (PLC), al posto di blocco di Salem ad ovest della città di Jenin.

L’esercito israeliano ha arrestato Jarrar nella sua casa a Ramallah il 31 ottobre 2019, otto mesi dopo che era stata rilasciata dopo 20 mesi di detenzione amministrativa senza processo né accuse.

A luglio una delle due figlie di Jarrar, la 31enne Suha, è morta a Ramallah in seguito a complicazioni di salute, cosa che ha provocato appelli di massa ad Israele per il rilascio della donna politica in tempo per assistere al funerale di sua figlia, appelli respinti da Israele.

Domenica dopo il suo rilascio Jarrar si è recata al cimitero di Ramallah, dove è sepolta Suha.

Quando Jarrar è arrivata, erano presenti al cimitero decine di membri di spicco, sostenitori e leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), il capo dell’Associazione per i Prigionieri Politici, Qadura Faris, la governatrice delle città di Ramallah e al-Bireh, Leila Ghannam, e decine di giornalisti palestinesi.

Mi hanno vietato di partecipare al funerale della mia amatissima figlia e di darle un bacio sulla fronte”, ha detto Jarrar al cimitero.

Mi hanno impedito di dirle addio”, ha aggiunto prima di scoppiare in lacrime. “L’ultima volta che l’ho abbracciata è stata nella notte del mio arresto nel 2019.”

Un alto dirigente del PFLP ha detto che mentre “è veramente un momento doloroso e le parole non possono esprimere il sentimento di profonda tristezza, noi siamo felici che Jarrar sia libera dalla prigione dell’occupazione.”

Jarrar è stata trattenuta in detenzione amministrativa ancora fino a marzo di quest’anno, quando un tribunale militare israeliano la ha incriminata di “appartenenza ad un’organizzazione illegale”, a causa della sua affiliazione al PFLP, un’accusa in base alla quale era stata precedentemente incarcerata.

L’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer, con sede a Ramallah, ha dichiarato all’epoca che “tutte queste sue incarcerazioni ed arresti costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale e contraddicono il principio giuridico sancito a livello internazionale e il divieto di processare una persona due volte per la stessa azione.”

Israele dichiara illegali oltre 400 organizzazioni, compresi tutti i partiti politici palestinesi – inclusi il partito Fatah al governo e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) – in quanto “gruppi terroristi”.

Condanna regolarmente molti palestinesi col pretesto di “partecipazione ad un’organizzazione illegale” o di “fornire servizi ad una di esse” per via della loro affiliazione politica o di ogni tipo di attività pacifica.”

Jarrar è stata a lungo nel mirino dell’occupazione israeliana a causa del suo carattere schietto e del suo attivismo politico.

Ha trascorso molta parte degli ultimi sei anni entrando ed uscendo dalle carceri israeliane, compresi i periodi tra luglio 2017 e febbraio 2019 in detenzione amministrativa, una politica israeliana che consente l’incarcerazione dei palestinesi a tempo indeterminato, sulla base di “informazioni segrete”, senza presentare accuse formali contro di loro o consentire che siano sottoposti ad un processo.

Nel 2015 è stata condannata a 15 mesi con la stessa accusa – “appartenenza ad un’organizzazione illegale”.

Le autorità israeliane le hanno vietato di viaggiare dal 1988, tranne per un viaggio di tre settimane ad Amman in Giordania, per cure mediche.

Jarrar è stata eletta membro del PLC nella lista del PFLP nel 2006. E’ anche stata nominata nella Commissione Nazionale Palestinese per il monitoraggio rispetto alla Corte Penale Internazionale.

Relazione supplementare di Mohammed Najib a Ramallah

Fonte: Al Jazeera

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

 

 

È ora che Israele e l’Occidente riconoscano che la soluzione dei due-Stati è morta

Un recente sondaggio rivela che persino gli esperti occidentali e israeliani sanno che due Stati in Palestina sono impossibili.

Haidar Eid*

19 settembre 2021 – Al Jazeera

 

Lo scorso agosto l’autorevole rivista USA Foreign Affairs ha condotto un sondaggio sulla soluzione dei due Stati in Palestina fra “autorità con conoscenze specialistiche e i maggiori generalisti del campo”. I 64 esperti dovevano rispondere alla domanda “la soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile?” e spiegare la propria posizione con un breve commento.

La metà ha risposto che la soluzione dei due Stati non è morta, sette non si sono espressi e 25 hanno risposto di sì – quella soluzione è morta.

Tra chi ha risposto di no, qualcuno ha tuttora oppure ha avuto in precedenza a che fare con istituti di ricerca sionisti, quali il Washington Institute for Near East Policy. Uno di loro è Martin Indyk, ex ambasciatore USA allo Stato segregazionista di Israele, che prima di iniziare la carriera diplomatica ha prestato servizio come vicedirettore per la ricerca dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, considerata la più potente lobby negli USA, che sostiene lo Stato di Israele, ndtr].

L’elenco comprende anche Dennis Ross e altri fortemente impegnati nel cosiddetto “processo di pace”, una storia infinita il cui obiettivo è salvaguardare lo Stato segregazionista di Israele e liquidare del tutto i diritti basilari dei palestinesi.

Ovviamente chi ha avuto parte nel “processo di pace” continua a restare attaccato all’illusione che sia possibile instaurare un bantustan [territori del Sudafrica riservati alle popolazioni native dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid, ndtr.] palestinese.

Chi ha difeso la soluzione dei due Stati ha ammesso che alcune “barriere” ne ostacolano la realizzazione; fra queste la più citata è stata “la mancanza di volontà politica” da “entrambe le parti”. Qualcuno ha persino suggerito che la responsabilità sia esclusivamente della dirigenza palestinese, in quanto Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese non hanno il sostegno del popolo palestinese necessario per fare i sacrifici richiesti ed accettare l’apartheid e le politiche di insediamento coloniale di Israele.

È curioso che alcuni di quelli che non si sono espressi abbiano preferito adottare una posizione relativista post-moderna su un tema di libertà, uguaglianza e giustizia – perché ciò altro non è. Altri ancora hanno adottato un approccio alla questione palestinese incentrato sui diritti umani, rifiutandosi di assumere una posizione politica.

Sta a ciascuno giudicare che cosa significhi restare “neutrali” su un’evidente questione di giustizia. Solo pochi decenni fa chi avrebbe osato essere “neutrale” sulla fine dell’apartheid in Sudafrica?

In generale gran parte dei sostenitori della soluzione dei due Stati nel mondo accademico, nei circoli di politica estera e così via sono israeliani, americani o europei che non trovano nulla da ridire su un progetto di insediamento coloniale. I pochi palestinesi che sono a favore di questo approccio razzista alla questione palestinese non riconoscono i fatti compiuti: il sistema fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è in realtà quello di un unico Stato, uno Stato di apartheid dove una comunità gode di tutti i privilegi di cittadinanza, mentre l’altra è privata dei suoi diritti umani fondamentali.

È piuttosto difficile non notare il razzismo e l’ingiustizia connaturati alla realtà segregazionista in Palestina, dove a soffrire non sono soltanto i palestinesi che vivono nei territori occupati dal 1967, come lascia intendere la domanda di Foreign Affairs.

Da parte mia, ho partecipato al sondaggio credendo che fosse importante far sentire la mia voce di palestinese. Ecco ciò che ho scritto nel limitato spazio a disposizione:

“Oltre al fatto che Israele ha intrapreso passi irreversibili che hanno reso impossibile questa soluzione – ossia l’espansione delle colonie ebraiche; l’annessione di altra terra in Cisgiordania oltre che a Gerusalemme; la costruzione del muro dell’apartheid che separa i palestinesi da altri palestinesi; il blocco della Striscia di Gaza; l’approvazione da parte della Knesset della razzista Nation-State Law [Legge sullo Stato-Nazione: questa legge, approvata dal parlamento israeliano nel 2018, restringe ai cittadini ebrei il diritto di autodeterminazione, legittimando così la discriminazione dei cittadini non ebrei, ndtr] – in linea di principio la soluzione dei due Stati non garantisce al popolo palestinese i diritti fondamentali previsti dal diritto internazionale (l’uguaglianza e il diritto al ritorno). Una soluzione di tipo bantustan è una soluzione razzista per antonomasia.”

Che una pubblicazione USA così autorevole sollevi questa domanda sulla realtà dei due Stati in Palestina e si assicuri che ci siano voci palestinesi fra gli intervistati è sicuro indizio della capacità dei palestinesi di fare sentire la propria voce nel cuore dell’impero. È anche rivelatrice del fatto che lentamente ma inesorabilmente il dibattito internazionale sulla Palestina si sta allontanando dagli argomenti del “processo di pace” o della “intransigenza” della dirigenza palestinese.

Se un intervistato ha espresso totale sconcerto per la semplice decisione da parte di Foreign Affairs di fare una simile domanda, ciò dà evidentemente fastidio ai sionisti USA e israeliani. Il tono difensivo adottato in molte delle risposte negative alla domanda indica che persino i più accaniti sostenitori di Israele sono consapevoli che la soluzione dei due Stati non può risolvere la questione palestinese e che essa è già morta a causa delle politiche israeliane di apartheid in Palestina.

L’alternativa è evidente: uno Stato unico per tutti gli abitanti della Palestina storica, senza distinzione di razza, etnia e religione; uno Stato simile al Sudafrica post-apartheid, che non sia basato sulla oppressione di una comunità da parte di un’altra. Non si può arrivare ad una vera soluzione della questione palestinese se si parte da idee razziste sulla separazione dei popoli. Soltanto il recupero dell’identità multiculturale della Palestina, che sia davvero inclusiva, laica e democratica, può portare ad una pace duratura non solo fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ma anche oltre.

*Haidar Eid è professore associato all’Università Al-Aqsa di Gaza.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




L’avvocato: “Un prigioniero palestinese riarrestato è stato torturato”

 Zena Al Tahhan

15 settembre 2021 – Al Jazeera

L’avvocato di Mohammad al-Ardah afferma che è stato privato di cibo, sonno, cure mediche ed ha subito “una durissima sessione di torture”.

Cisgiordania occupata – Durante il primo incontro con il suo avvocato da quando è stato fermato la scorsa settimana, almeno uno dei quattro prigionieri politici palestinesi riarrestati ha detto di essere stato sottoposto a violenze e torture fisiche e psicologiche dagli investigatori israeliani.

Dopo che l’intelligence israeliana ha tolto il divieto di colloquio degli avvocati con i prigionieri a cinque giorni da quando sono stati riarrestati, mercoledì l’avvocato Khaled Mahajneh, del collegio di difesa della Commissione per la Questione dei Detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha incontrato il suo cliente Mohammed al-Ardah.

Dopo essere uscito dal centro di detenzione e aver visto il suo cliente, che a quanto ha detto è stato privato di cibo, sonno e cure mediche mentre subiva una serie di interrogatori intensivi, Khaled Mahajneh ha rilasciato una commovente intervista a Palestine TV [televisione ufficiale dell’ANP, ndtr.]

“Mohammed è stato sottoposto, e lo è ancora, a una pesante serie di torture,” ha detto Khaled. “Dopo il suo arresto Mohammed è stato portato nel centro di interrogatori di Nazareth, dove è stato interrogato in modo molto violento.

In una stanza piccolissima c’erano circa 20 investigatori dell’intelligence che gli hanno strappato tutti i vestiti, comprese le mutande, e lo hanno obbligato a rimanere nudo per molte ore. Poi gli hanno dato uno scialle per coprirsi i genitali e in seguito lo hanno trasferito nel centro per gli interrogatori di Jalama.”

Tagli ed escoriazioni”

L’avvocato ha detto che durante l’arresto le forze israeliane hanno picchiato Mohammed: “La sua testa è stata sbattuta per terra ed ora è ferito sopra l’occhio destro. Finora non ha ricevuto le cure mediche di cui ha bisogno. A seguito del tentativo di fuga e della caccia all’uomo da parte delle forze israeliane contro di lui e Zakaria Zubaidi, presenta tagli ed escoriazioni su tutto il corpo.”

Venerdì notte le autorità israeliane hanno annunciato il riarresto di Mahmoud Abdullah al-Ardah e Yaqoub Mahmoud Qadri, rispettivamente di 46 e 49 anni, nella periferia meridionale di Nazareth. Zakaria Zubeidi, 46 anni, e Mohammed al-Ardah, 39, sono stati arrestati sabato mattina nel villaggio palestinese di Shibli-Umm al-Ghanam. I quattro sono stati portati a Jalama per essere interrogati.

Erano tra i sei uomini, insieme a Ayham Nayef Kamanji, 35, e Munadel Infaat, 26, dei quali non si sa ancora dove si trovino, che sono scappati dalla prigione israeliana di Gilboa all’alba del 6 settembre.

Interrogatori giorno e notte”

Khaled Mahajneh ha detto che durante il loro incontro sei investigatori sono rimasti dietro Mohammed al-Ardah, incatenato mani e piedi. L’avvocato ha affermato di aver ripetutamente chiesto che venissero tolte le catene almeno dalle braccia di Mohammed, ma gli agenti hanno rifiutato di farlo.

Secondo Khaled, da quando è stato riarrestato a Mohammed per quattro giorni non è stato dato cibo e non ha dormito più di 10 ore a causa delle continue sessioni di interrogatorio.

“Da sabato è stato sottoposto a interrogatori giorno e notte… È stato interrogato a tarda notte e alle prime ore del mattino,” ha affermato Khaled. “Non vede il sole, o la luce, o il vento. Quando l’ho incontrato mi ha chiesto se fosse pomeriggio, non sapeva che era mezzanotte.”

L’avvocato ha detto che Mohammed è tenuto in una cella “non più grande di 2 metri per 1,” vive “sotto sorveglianza 24 ore su 24,” e “ogni giorno è stato interrogato da dieci poliziotti”.

In un’altra intervista postata su Facebook l’avvocato Ruslan Mahajneh, che la stessa notte ha incontrato Mahmoud al-Ardah, ha detto che il detenuto gli ha raccontato di essere stato interrogato varie volte dopo l’arresto.

“Sono stati arrestati venerdì notte. Gli interrogatori sono durati dal venerdì – sono arrivati a Jalama tra mezzanotte e l’una, e l’interrogatorio è continuato fino alle 8 del mattino,” ha detto.

“Dopodiché sono andati a dormire. L’interrogatorio varia, viene interrogato ogni giorno tra le 7 e le 8 ore. Ma di notte dorme. Dice che non sono stati torturati,” ha affermato Mahajneh.

Secondo un comunicato della commissione dell’ANP, l’avvocato Avigdor Feldman ha incontrato Zakaria Zubaidi a mezzanotte di mercoledì.

“È risultato che, durante il suo arresto con il prigioniero Mohammed al-Ardah, il detenuto Zubaidi è stato picchiato e maltrattato, provocando la rottura della mandibola e di due costole,” ha affermato la commissione.

Zubaidi, continua il comunicato, “è stato trasferito in un ospedale israeliano e dopo il suo arresto gli sono stati somministrati antidolorifici” e “in seguito alle percosse e ai maltrattamenti tutto il suo corpo è coperto di lividi ed escoriazioni.”

Benché nel 1999 la Corte Suprema israeliana abbia vietato l’uso della tortura, gli investigatori, in particolare dei servizi di intelligence, hanno continuato ad usare violenza contro i detenuti palestinesi, che i tribunali hanno retroattivamente approvato. I quattro prigionieri sono sottoposti, da parte dei servizi di intelligence in collaborazione con l’unità 443 Lahav della polizia, a interrogatori che secondo gli avvocati possono durare fino a 45 giorni.

Sabato i prigionieri sono comparsi separatamente davanti al tribunale di Nazareth, che ha deciso di estendere la loro detenzione fino al 19 settembre per “completare l’indagine”.

Processi giudiziari

Secondo la commissione dell’ANP, durante l’udienza di sabato contro i quattro sono state presentate molte accuse indiziarie: “Evasione, favoreggiamento in una evasione, complotto per commettere un’aggressione, partecipazione a un’organizzazione ostile e fornitura di servizi ad essa.”

Dopo l’udienza Khaled Mahajneh ha detto ad Al Jazeera che le autorità si sono rifiutate di fornire informazioni riguardo al “complotto per commettere un’aggressione”, sostenendo che la documentazione è segreta.

Nella sua intervista con Palestine TV Khaled ha affermato che Mohammed al-Ardah “respinge totalmente le accuse che la sicurezza sta cercando di imputargli.” Mohammed avrebbe detto a Khaled che “avrebbe potuto fare qualunque cosa nei cinque giorni” di libertà, ma “voleva essere libero e camminare per le strade della Palestina occupata nel 1948.”

In base alle leggi internazionali un prigioniero di guerra che scappa dalla prigione “è passibile solo di una punizione disciplinare,” cioè non possono essere comminati altri anni di carcere in aggiunta alla sentenza iniziale, anche se si tratta di una fuga recidiva.

Secondo gli avvocati in precedenti episodi in cui carcerati palestinesi sono scappati da prigioni israeliane e sono stati riarrestati molti hanno dovuto affrontare misure punitive, come lunghi periodi in isolamento, ma non hanno subito un allungamento della pena.

La maggioranza dei palestinesi vede i detenuti nelle carceri israeliane, che sono 4.650 palestinesi, compresi 200 minorenni e 520 sottoposti a detenzione amministrativa, cioè senza processo o accuse specifiche, come prigionieri politici che sono incarcerati a causa dell’occupazione militare israeliana o per la loro resistenza ad essa.

Prima di evadere dalla prigione quattro dei sei detenuti sono stati condannati all’ergastolo, mentre due erano detenuti in attesa di un processo militare.

I condannati sono stati arrestati tra il 1996 e il 2006 e sono stati incarcerati per aver compiuto attacchi contro militari o civili israeliani. Cinque di loro sono affiliati all’organizzazione palestinese Jihad Islamica, mentre uno è un importante membro dell’ala militare di Fatah, il gruppo palestinese che controlla l’ANP.

Dopo che i detenuti sono scappati attraverso un tunnel che sbucava a pochi metri dal muro della prigione, le forze israeliane hanno lanciato un’enorme caccia all’uomo per cercarli ed hanno arrestato membri delle rispettive famiglie.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Timori per i palestinesi in sciopero della fame che protestano contro la detenzione

Redazione Al Jazeera

14 settembre 2012 Al Jazeera

I detenuti palestinesi progettano scioperi della fame in massa a sostegno dei fuggitivi riarrestati e contro le loro pessime condizioni di detenzione.*

*Nota Redazionale . Lo sciopero della fame progettato per sabato 18 settembre è stato annullato in seguito alla sospensione dei provvedimenti punitivi dell’autorità carceraria israeliana.

Dura, Cisgiordania occupata – La tensione cresce da mesi, ma la situazione potrebbe presto esplodere in quando la rabbia per il trattamento dei prigionieri palestinesi da parte di Israele è sul punto di esplodere.

Ciò che sta anche accrescendo la rabbia palestinese è il deterioramento della salute di sei palestinesi in sciopero della fame, che protestano contro la loro detenzione amministrativa ovverosia detenzione senza processo.

I palestinesi sono esacerbati dalle misure punitive inflitte dall’Israel Prison Services (IPS) [servizio penitenziario israeliano] in seguito alla fuga e alla recente cattura di prigionieri palestinesi di alto profilo dalla prigione di Gilboa, nel nord di Israele.

Kayed Fasfous, Miqdad Qawasmeh e Hisham Abu Hawash di Hebron; Raik Bisharat di Tubas; Alla al-Araj di Tulkarem; e Shadi Abu Aker di Betlemme stanno facendo uno sciopero della fame prolungato, rifiutandosi di mangiare fino a quando le autorità israeliane non li informeranno di cosa sono stati accusati e di quando saranno rilasciati.

Fasfous, 32 anni – in sciopero della fame da oltre 60 giorni – rifiuta anche sale e vitamine e beve solo acqua. Ex bodybuilder, ha perso 30 kg e il suo peso è ora sceso a 40 kg.

È stato trasferito dalla prigione di Ofer vicino a Ramallah, dove era stato imprigionato dal suo arresto nel settembre 2020, al Ramle Hospital in Israele.

Non è in grado di camminare, è su una sedia a rotelle poiché le condizioni del suo cuore e di altri organi vitali continuano a deteriorarsi”, ha detto ad Al Jazeera suo fratello Khalid Fasfous.

Nessuno della sua famiglia ha potuto fargli visita e la Croce Rossa non ha potuto vederlo poiché il giorno della loro visita è stato spostato dal carcere di Ofer.

“Sto aspettando cattive notizie su di lui da un momento all’altro”, ha detto sua madre Fawzia Fasfous. “Non riesco a dormire la notte chiedendomi dove sia e cosa gli sia successo.”

I prigionieri della Jihad islamica si sono scontrati ripetutamente con le autorità dell’IPS in diverse carceri, dando fuoco alle celle delle prigioni.

Tuttavia, nonostante la brutale repressione dei disordini da parte della famigerata unità Masada dell’IPS – e l’invio di alcuni prigionieri in isolamento e il trasferimento forzato di molti altri – centinaia di altri prigionieri di tutto lo spettro politico palestinese si stanno preparando a iniziare uno sciopero della fame di massa dalla fine della settimana a sostegno dei fuggitivi riarrestati e di altri compagni di prigionia.

L’avvocato di Fasfous non è stato in grado di vedere il suo cliente poiché è in detenzione amministrativa.

Tutti i fratelli Fasfous sono stati posti in detenzione amministrativa nel corso degli anni.

In due occasioni, quando un altro fratello, Mahmoud Fasfous è stato arrestato nella casa di famiglia, sua moglie è stata aggredita dai soldati israeliani, provocandole l’aborto in entrambi i casi.

“Prove segrete”

La detenzione amministrativa è una procedura che consente alle forze di occupazione israeliane di trattenere i prigionieri a tempo indeterminato sulla base di informazioni segrete senza formulare accuse e garantire loro un processo, ha affermato l’organizzazione dei prigionieri palestinesi Addameer [organizzazione non governativa palestinese che monitora il trattamento dei prigionieri palestinesi arrestati in Cisgiordania dalla potenza occupante e fornisce assistenza legale, ndt].

“Le informazioni segrete o le prove non sono accessibili al detenuto né al suo avvocato e la detenzione amministrativa può, secondo gli ordini militari israeliani, essere rinnovata ogni sei mesi per un tempo illimitato”, ha affermato l’organizzazione per i diritti dei prigionieri.

L’organizzazione per i diritti dei prigionieri ha affermato che questa pratica è stata varata in seguito alla situazione politica nella Palestina occupata e al movimento palestinese di protesta contro l’ininterrotta occupazione israeliana dei territori palestinesi occupati nel 1967.

“Sebbene l’uso della detenzione amministrativa in modo diffuso e sistematico sia vietato dal diritto internazionale, l’occupazione israeliana utilizza la detenzione amministrativa come strumento per punire collettivamente i palestinesi”, ha affermato Addameer.

Attualmente ci sono 520 palestinesi in detenzione amministrativa.

Saba Abu Hawash, due anni, non riconoscerebbe suo padre Hisham se lo vedesse.

“Non vede suo padre da quando aveva qualche mese”, ha detto ad Al Jazeera Aisha Abu Hawash, la moglie di Hisham Abu Hawash in sciopero della fame.

Abu Hawash, un operaio edile, è in detenzione amministrativa dal suo arresto nell’ottobre 2020.

Suo figlio Izzadeen, sei anni, ha un grave problema ai reni e deve andare regolarmente in ospedale per cure.

Tutti e cinque i bambini hanno bisogno del padre non solo per il supporto emotivo, ma anche per provvedere a loro. Non capiscono cosa sta succedendo e chiedono ripetutamente dove sia il loro padre”, ha detto Aisha.

Il fratello di Hisham, Emad, dice che la famiglia è priva di notizie da quando ha cominciato lo sciopero della fame 27 giorni fa, dato che non sanno dove sia e in quali condizioni perché la Croce Rossa non ha ancora potuto fargli visita e le autorità israeliane si rifiutano di rilasciare qualsiasi informazione.

“Sappiamo che è stato messo in detenzione amministrativa nella prigione di Ofer, ma da quando ha iniziato il suo sciopero della fame non sappiamo se è ancora in isolamento o se è stato trasferito in ospedale e siamo estremamente preoccupati per lui”, Emad ha detto ad Al Jazeera

“Ho scritto alla Croce Rossa e all’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite spiegando la nostra disperazione, ma non ho avuto notizie nemmeno da loro “, ha detto Emad

Pertanto, consideriamo questo un caso di sparizione forzata. Facciamo appello per avere qualsiasi informazione sulla sua situazione”

La violenza si intensifica

La rabbia dei palestinesi è cresciuta in modo esponenziale ad ogni sviluppo relativo alla questione dei prigionieri, poiché ogni famiglia ha avuto almeno un suo membro arrestato e imprigionato.

Dalla fuga dei sei prigionieri dalla prigione di Gilboa una settimana fa, scontri sono scoppiati ogni giorno in tutta la Cisgiordania occupata; l’intelligence israeliana ha riferito di dozzine di incidenti con lancio di pietre, sparatorie, accoltellamenti, lancio di ordigni incendiari, bombe fatte in casa piazzate per le strade, razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e altri attacchi contro le forze di sicurezza e i coloni israeliani

Cinque dei fuggitivi erano membri della Jihad islamica. L’IPS ha dichiarato pubblicamente di non essere in grado di controllare i prigionieri della Jihad islamica e di aver faticato per creare profili di intelligence su di loro.

L’altro fuggitivo era Zacharia Zubeidi. Dopo il suo nuovo arresto ha dovuto essere ricoverato in ospedale; la sua famiglia ha detto che gli è stata rotta una gamba e che ha subito altre ferite durante il suo interrogatorio.

Due dei fuggitivi sono ancora in fuga.

Inoltre, sembra che l’IPS non avrà solo a che fare con i riottosi prigionieri della Jihad islamica, poiché centinaia di detenuti di Fatah hanno rilasciato una dichiarazione in cui affermavano che intendevano unirsi a uno sciopero della fame in corso a partire da venerdì a sostegno di tutti i prigionieri.

Hanno avvertito che avrebbero intensificato le loro azioni di protesta in modo progressivo fino a quando le autorità israeliane non avessero cessato le loro misure punitive. Se uno degli scioperanti della fame dovesse morire nel frattempo, ciò potrebbe incendiare la polveriera della Cisgiordania.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Azienda israeliana presenta droni armati da combattimento per pattugliare i confini

Al Jazeera

13 settembre 2021 – Al Jazeera

Israel Aerospace Industries, azienda statale israeliana e principale contractor nel settore della difesa, ha presentato un robot armato controllato da remoto in grado di pattugliare le zone di combattimento, inseguire infiltrati e far fuoco.

Il veicolo senza pilota che si è visto lunedì è l’ultima novità nel mondo della tecnologia dei droni che sta rapidamente cambiando i moderni campi di battaglia.

I fautori sostengono che tali mezzi semi-autonomi permettono agli eserciti di proteggere i propri soldati mentre i critici temono che queste siano un altro pericoloso passo verso le decisioni di vita o morte prese da robot.

Il robot a quattro ruote motrici è stato sviluppato dall’azienda statale israeliana Israel Aerospace Industries’ “REX MKII”.

È manovrato da un tablet elettronico e può essere equipaggiato da due mitragliatrici, telecamere e sensori, ha comunicato Rani Avni, vicepresidente divisione sistemi autonomi dell’azienda. Il robot può raccogliere informazioni per le truppe di terra, trasportare soldati feriti e rifornimenti dal e sul luogo degli scontri e colpire bersagli nei dintorni.

È il più avanzato tra una decina di veicoli senza equipaggio sviluppati negli ultimi 15 anni da ELTA Systems, una sussidiaria di Aerospace Industries.

Per pattugliare il confine con la Striscia di Gaza e contribuire a rafforzare il blocco che Israele ha imposto nel 2007 quando Hamas ha preso il potere, l’esercito israeliano ora usa il “Jaguar”, un veicolo simile, ma più piccolo.

A Gaza abitano 2 milioni di palestinesi, quasi tutti imprigionati dal blocco che è sostenuto in parte anche dall’Egitto. La zona del confine è luogo di frequenti proteste e occasionali tentativi di entrare in Israele da parte di combattenti palestinesi o lavoratori disperati.

Stando al sito web dell’esercito israeliano il semi-autonomo Jaguar, equipaggiato con una mitragliatrice, è stato progettato per ridurre l’esposizione dei soldati ai pericoli del pattugliamento lungo l’instabile confine Gaza-Israele. È uno dei molti strumenti, come i droni armati con missili guidati, che hanno dato all’esercito israeliano un’enorme superiorità tecnologica su Hamas.

I veicoli senza equipaggio sono sempre più in uso in altri eserciti, tra cui quelli di Stati Uniti, Regno Unito e Russia. I loro compiti includono il supporto logistico, la rimozione di mine e l’azionamento di armi.

Il tablet può controllare manualmente il veicolo, ma molte delle sue funzioni, come il movimento e il sistema di sorveglianza, possono anche operare autonomamente.

A ogni missione il dispositivo raccoglie nuovi dati che può memorizzare per quelle future,” ha detto Yonni Gedj, un esperto della divisione di robotica della compagnia.

I critici hanno sollevato preoccupazioni concernenti le armi robotiche che potrebbero decidere da sole, magari sbagliando, di colpire bersagli. L’azienda ha affermato che tali funzioni esistono, ma non sono offerte ai clienti.

È possibile rendere l’arma in sé anche indipendente, tuttavia oggi si tratta di una decisione dell’utilizzatore,” ha precisato Avni. “Non si è ancora raggiunta la maturità del sistema o dell’utilizzatore.”

Bonnie Docherty, ricercatrice di alto livello presso la divisione bellica di Human Rights Watch, sostiene che tali armi sono preoccupanti perché non si può confidare che distinguano tra combattenti e civili o lancino i dovuti avvertimenti riguardo ai danni che gli attacchi potrebbero arrecare ai civili che si trovano nelle vicinanze.

Le macchine non possono comprendere il valore della vita, cosa che, in sostanza, minaccia la dignità umana e viola le leggi sui diritti umani,” ha affermato. In un rapporto del 2012, Docherty, docente presso la Scuola di Diritto di Harvard, ha invocato la messa al bando di armamenti totalmente automi da parte del diritto internazionale.

Jane’s, la rivista che si occupa di tecnologie militari, ha affermato che lo sviluppo di veicoli di terra autonomi è arretrato rispetto a quello di velivoli e navi perché spostarsi sul terreno è molto più complesso che navigare in acqua o in aria. Diversamente dall’oceano, i veicoli devono affrontare “buche” e sapere esattamente quanta forza applicare per superare un ostacolo fisico, afferma l’articolo.

Anche la tecnologia dei veicoli senza conducenti solleva preoccupazioni. Il produttore dell’auto elettrica Tesla, tra le altre imprese, è stato collegato con una serie di incidenti mortali, incluso uno in Arizona nel 2018 quando una donna è stata investita da una macchina con pilota automatico.

Il drone israeliano è stato presentato alla fiera internazionale delle tecnologie per la difesa e sicurezza che si svolge a Londra questa settimana.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Proteste a Gaza contro l’assedio

 

25 Agosto 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane sparano proiettili veri e lacrimogeni mentre centinaia di palestinesi chiedono a Israele di allentare il blocco soffocante di Gaza.

Centinaia di palestinesi hanno manifestato a ridosso della recinzione israeliana nella Striscia di Gaza assediata chiedendo a Israele di allentare il blocco soffocante dopo pochi giorni che un’analoga manifestazione tenuta il fine settimana ha dato seguito a degli scontri letali con l’esercito israeliano.

I militari israeliani, che prima della manifestazione di mercoledì avevano potenziato le loro forze, hanno dichiarato di aver fatto uso di lacrimogeni e proiettili veri per disperdere la folla nella parte meridionale di Gaza. I medici palestinesi hanno riferito che sono rimaste ferite almeno nove persone.

La rete televisiva Al Aqsa TV, gestita da Hamas, il gruppo palestinese che governa Gaza, ha mostrato una massa di persone avvicinarsi alla recinzione per poi fuggire all’arrivo di un veicolo militare israeliano. Si poteva vedere il gas lacrimogeno fluttuare nel vento.

L’esercito ha affermato di aver utilizzato proiettili calibro 22, un tipo di arma che dovrebbe essere meno letale delle armi da fuoco più potenti, ma che può essere mortale.

Youmna El Sayed di Al Jazeera, nel riferire sulle proteste a Gaza, ha affermato che nella città meridionale di Khan Younis, nella Striscia di Gaza, sono state sparate decine di lacrimogeni contro i manifestanti.

“Oggi già tre palestinesi sono stati feriti da proiettili veri e decine sono rimasti soffocati dai lacrimogeni sparati contro di loro”, dice El Sayed.

Sabato hanno manifestato centinaia di palestinesi dando origine a violenti scontri.

Il ministero della Salute ha comunicato che durante le manifestazioni di sabato sono stati feriti dal fuoco israeliano più di 40 palestinesi, tra cui un ragazzo di 13 anni colpito alla testa.

Uno dei feriti, Osama Dueji, 32 anni, è morto mercoledì in seguito ad una ferita da proiettile a una gamba.

Hamas lo ha identificato come un componente del suo gruppo armato e lo ha pianto come un “eroico martire”.

Mercoledì un soldato israeliano, rimasto gravemente ferito quando un palestinese gli ha sparato alla testa a distanza ravvicinata attraverso un buco nel muro, è stato trasportato in ospedale.

Dopo la sparatoria, nelle prime ore di domenica, l’esercito israeliano ha bombardato i depositi di armi di Hamas nella Striscia di Gaza.

Hamas ha organizzato le proteste nel tentativo di fare pressione su Israele perché allenti il blocco di Gaza.

Israele ed Egitto hanno mantenuto il blocco da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni palestinesi.

Il blocco ha devastato l’economia di Gaza e ha alimentato un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 50%. Israele ha affermato che il blocco, che limita fortemente il movimento di merci e persone dentro e fuori Gaza, ha lo scopo di impedire ad Hamas di rafforzare le sue capacità militari.

Dal 2007 Israele e Hamas hanno combattuto quattro guerre e numerose schermaglie e, più recentemente, a maggio, un’escalation di violenza di 11 giorni che ha ucciso 260 palestinesi e 13 persone in Israele.

Hamas ha accusato Israele di aver violato, inasprendo il blocco, il cessate il fuoco che ha posto fine ai combattimenti. In particolare ha limitato l’ingresso dei materiali necessari per la ricostruzione.

Israele ha chiesto la restituzione delle spoglie di due soldati uccisi nella guerra del 2014, così come la riconsegna di due civili israeliani che si ritiene siano prigionieri di Hamas.

La scorsa settimana Israele ha raggiunto un accordo con il Qatar che consente al Paese del Golfo di riprendere il versamento degli aiuti a migliaia di famiglie povere di Gaza.

Con il nuovo metodo, i pagamenti saranno consegnati dalle Nazioni Unite direttamente alle famiglie, dopo che queste siano state passate al vaglio da Israele. In passato, gli aiuti venivano consegnati in contanti direttamente ad Hamas.

I pagamenti dovrebbero iniziare nelle prossime settimane, fornendo un po’ di sollievo a Gaza.

Ma la tensione resta alta. Oltre alle manifestazioni, Hamas ha lasciato che i suoi sostenitori lanciassero palloni incendiari oltre il confine, provocando diversi incendi nel sud di Israele. Israele ha lanciato una serie di raid aerei sugli obiettivi di Hamas a Gaza.

L’Egitto, che fa da mediatore tra Israele e Hamas, si è impegnato per a negoziare una tregua a lungo termine tra gli acerrimi nemici.

Questa settimana l’Egitto, in segno di insofferenza nei confronti di Hamas, ha chiuso il suo valico di frontiera con Gaza, il principale punto di uscita a disposizione delle persone del territorio per viaggiare all’estero.

 

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele consente in sordina agli ebrei di pregare nel complesso di Al Aqsa: rapporto.

24 agosto 2021 – Al Jazeera

Il NYT informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al- Aqsa, alimentando il timore di modifiche allo status quo del luogo sacro.

Il New York Times informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al-Aqsa, noto agli ebrei come il Monte del Tempio, nella Gerusalemme occupata, con un’iniziativa che rischia di modificare lo status quo del luogo.

In un articolo pubblicato martedì il Times afferma che il rabbino Yehudah Glick ha fatto “ben poco per nascondere le sue preghiere” e le ha persino diffuse in diretta video.

L’area è all’interno delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e fa parte del territorio che Israele ha conquistato nella guerra del 1967 in Medio Oriente. Israele ha occupato [in realtà ha annesso, ndtr.] Gerusalemme est nel 1980, con un’iniziativa che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Dal 1967 la Giordania e Israele hanno concordato che il Waqf, fondazione islamica, avrebbe avuto il controllo su questioni relative al complesso, mentre Israele si sarebbe occupato della sicurezza esterna. Ai non musulmani sarebbe stato consentito di entrare nel luogo durante gli orari di visita, ma non di pregarvi.

Secondo il Times, Glick, nato negli USA ed ex- deputato di destra, da decenni guida i tentativi di modificare lo status quo e afferma di definire i suoi tentativi come una questione di “libertà religiosa”.

Anche altri movimenti in ascesa, come quello del Devoto del Monte del Tempio e l’Istituto del Tempio, hanno sfidato il divieto del governo israeliano agli ebrei di entrare nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

L’accordo formale in vigore, accettato da Giordania e Israele, intende evitare conflitti nel luogo particolarmente delicato.

Ma le forze israeliane consentono regolarmente a gruppi, a volte centinaia,  di coloni ebrei che vivono nei territori palestinesi occupati di affollare il complesso di Al-Aqsa con la protezione della polizia e dell’esercito, diffondendo tra i palestinesi il timore che Israele si impossessi del sito.

Nel 2000 il politico israeliano Ariel Sharon entrò nel luogo sacro accompagnato da circa 1.000 poliziotti israeliani. Il suo ingresso nel compound scatenò la Seconda Intifada, nella quale vennero uccisi più di 3.000 palestinese e circa 1.000 israeliani.

Nel 2017 il governo israeliano installò metal detector agli ingressi del luogo, cosa che portò a gravi scontri tra i palestinesi e le forze israeliane.

A maggio le truppe israeliane hanno fatto irruzione varie volte nella moschea di Al-Aqsa, e l’escalation che ne è seguita ha portato all’attacco israeliano di 11 giorni contro la Striscia di Gaza assediata.

“Non bloccateli più”

Secondo Glick la politica ha iniziato a cambiare sotto il governo dell’ex-primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha guidato partiti di estrema destra ed è stato uno strenuo alleato del presidente USA Donald Trump.

“Glick dice che cinque anni fa la polizia ha iniziato a consentire a lui e ai suoi sostenitori di pregare sul monte in modo più palese,” afferma l’articolo del Times.

Benché questa politica non sia mai stata ampiamente pubblicizzata per evitare reazioni, il numero è stato “incrementato in sordina.”

Nonostante gli accordi in vigore, in realtà “ogni giorno decine di ebrei ora pregano apertamente in un luogo appartato del lato orientale del sito, e i poliziotti israeliani che li scortano non cercano più di impedirglielo,” racconta il Times.

Israele limita già l’ingresso dei palestinesi nel complesso in vario modo, tra cui il muro di separazione, costruito negli anni 2000, che riduce l’afflusso di palestinesi dalla Cisgiordania occupata all’interno di Israele.

Dei circa 3 milioni di palestinesi della Cisgiordania viene consentito l’accesso a Gerusalemme di venerdì [giorno di preghiera per i musulmani, ndtr.] solo a quelli al di sopra di una certa età, mentre altri devono presentare richiesta alle autorità israeliane per avere un permesso molto difficile da ottenere.

Le restrizioni provocano già gravi ingorghi e tensioni ai checkpoint tra la Cisgiordania e Gerusalemme, dove in centinaia di migliaia devono passare attraverso controlli di sicurezza per entrare nella moschea e pregare.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quattro palestinesi colpiti e uccisi da armi da fuoco in un’incursione dell’esercito israeliano a Jenin

Al Jazeera – agenzie di stampa

16 Agosto 2021 – Al Jazeera

Lunedì mattina sono scoppiati scontri quando l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel campo profughi di Jenin nel nord della Cisgiordania occupata.

Almeno quattro uomini palestinesi sono stati colpiti a morte durante gli scontri con l’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

Saleh Mohammed Ammar, di 19 anni, e Raed Ziad Abu Seif, di 21, sono stati colpiti da armi da fuoco lunedì e sono morti per le ferite poco dopo l’arrivo all’ospedale cittadino di Jenin, secondo una fonte della struttura sanitaria.

Due cittadini sono arrivati al pronto soccorso, colpiti dall’esercito israeliano, e sono morti poco dopo, in seguito alle ferite”, ha detto una fonte interna all’ospedale, secondo i media locali.

Alcune fonti hanno riferito che i corpi dei due altri uomini, uno dei quali identificato come Noor Jarrar e l’altro come Amjad Iyad Azmi, sono stati portati via dalle forze israeliane.

Il governatore di Jenin ha confermato i decessi.

Almeno due altri palestinesi sono stati arrestati. Uno è stato colpito ad una mano e l’altro, identificato come Mohammed Abu Zina, è stato portato via da casa sua durante l’incursione.

Nel frattempo nel campo profughi di Jenin sono iniziati i cortei funebri per le vittime.

Testimoni hanno detto che un gruppo di palestinesi è stato coinvolto in scontri con i membri della Musta’ribeen della polizia israeliana – un’unità di infiltrati composta da israeliani travestiti da palestinesi.

Gli agenti di questa unità normalmente si infiltrano in zone palestinesi con l’intenzione di arrestare delle persone. La Maan (agenzia di informazione palestinese, ndtr.) ha riferito che gli agenti si trovavano dentro il campo ore prima che le forze israeliane irrompessero nella zona.

Secondo Maan, gli agenti della Musta’ribeen hanno aperto il fuoco “direttamente su un numeroso gruppo di giovani” appena le truppe israeliane sono entrate nel campo.

Testimoni hanno riferito che sono stati lanciati contro i palestinesi anche granate assordanti e candelotti lacrimogeni.

La polizia israeliana ha affermato in una dichiarazione che i soldati hanno sparato contro “aggressori” dopo che i palestinesi hanno aperto il fuoco contro le “forze in borghese” dell’esercito.

Nessuno tra le forze israeliane è stato ferito nell’incidente. Esse sarebbero state in missione per arrestare una persona, ha detto la polizia.

L’alto dirigente palestinese Hussein Al Sheikh ha accusato Israele di “un crimine odioso” ed ha twittato: “La comunità internazionale dovrebbe vergognarsi del suo silenzio su fatti come questi e della propria incapacità di dare protezione al popolo palestinese da questa oppressione”.

Nelle scorse settimane vi sono stati numerosi scontri tra israeliani e palestinesi nel nord della Cisgiordania occupata, soprattutto a Jenin e Beita.

Beita è teatro di ricorrrenti manifestazioni contro l’occupazione illegale israeliana e l’espansione delle colonie, che spesso si risolvono in scontri.

La lotta contro le forze israeliane è costata la vita a molti palestinesi ed ha provocato centinaia di feriti.

Colonie illegali

Circa mezzo milione di persone vivono in colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata, accanto a 2 milioni e 800mila palestinesi.

A partire da maggio i palestinesi hanno organizzato proteste quasi quotidiane a Beita per gridare la loro rabbia contro un vicino avamposto illegale di coloni israeliani.

La colonia è stata evacuata all’inizio di luglio, ma le truppe dell’esercito israeliano rimangono posizionate là, mentre le autorità decidono sul loro destino. Se la colonia verrà autorizzata, i suoi fondatori potranno prendervi la residenza in modo permanente.

Gli abitanti di Beita hanno giurato che proseguiranno la loro campagna finché anche l’esercito non abbandonerà l’avamposto.

La Cisgiordania occupata è parte del territorio in cui è previsto uno Stato palestinese in base alla soluzione di due Stati.

Israele ha occupato la Cisgiordania durante la guerra del 1967 e tutti gli insediamenti al suo interno sono considerati illegali dalla maggior parte della comunità internazionale.

Le forze israeliane effettuano sovente incursioni in diverse zone in tutta la Cisgiordania, in cui arrestano e spesso uccidono dei palestinesi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




L’ANP ha sempre avuto lo scopo di “uccidere” la causa palestinese

Somdeep Sen

6 ago 2021 – Al Jazeera

La morte di Nizar Banat per mano delle forze di sicurezza dell’ANP non è stata un’anomalia.

La morte del 24 giugno di Nizar Banat, un deciso oppositore dell’ANP, per mano delle forze di sicurezza di quest’ultima ha scatenato settimane di proteste e critiche internazionali. Ciò è avvenuto sulla scia di proteste senza precedenti contro il sequestro di case palestinesi da parte dei coloni israeliani a Gerusalemme est e di una brutale guerra israeliana a Gaza.

I palestinesi che hanno protestato per la morte di Banat considerano il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas complice delle azioni dell’occupazione israeliana e chiedono la caduta del suo governo.

In una recente intervista con The Media Line, il ministro per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, Hussein al-Sheikh, si è scusato con la famiglia di Banat a nome del presidente Abbas. Ha inoltre spiegato: “Forse si è verificato un errore durante l’azione delle forze dell’ordine. Anche se [Banat] era ricercato o voleva comparire per ottenere giustizia, non c’è nulla che possa giustificare questa vicenda”. Tuttavia, di fronte alle continue critiche, l’ANP ha anche cancellato l’articolo 22 del “Codice di condotta” per i dipendenti pubblici che garantisce la “libertà di espressione”.

L’ANP guidata da Mahmoud Abbas ha una lunga e ben documentata storia di brutale repressione degli attivisti dell’opposizione. Ma la crisi di legittimità che l’ANP sta affrontando non è solo il risultato dell’autoritarismo di Abbas.

Questa crisi è un’eredità duratura degli Accordi di Oslo che hanno istituito l’Autorità Palestinese non come uno strumento del movimento nazionale palestinese, ma come un meccanismo istituzionale appositamente costruito per circoscrivere qualsiasi forma di attivismo palestinese che miri a contrastare l’occupazione israeliana. I palestinesi che protestano stanno sfidando sempre più l’ANP e la soluzione dei due Stati per la quale, apparentemente, si batte.

Lo scopo dell’ANP è garantire la sicurezza di Israele

Che l’ANP non si sarebbe preoccupata del movimento nazionale palestinese era già evidente nelle “lettere di mutuo riconoscimento” scambiate dal presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e leader di Fatah Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin il 9 settembre 1993.

Nella sua lettera Arafat riconosceva il diritto di Israele a “esistere in pace e sicurezza”, dichiarava che l’OLP avrebbe rinunciato alla violenza e si assumeva la responsabilità di prevenire attacchi violenti contro Israele e punire i trasgressori dell’accordo.

Nella sua risposta, Rabin non riconosceva la richiesta palestinese di uno Stato o della sovranità. Invece accettava l’OLP solo come “rappresentante del popolo palestinese” e concordava di iniziare i negoziati.

Gli Accordi di Oslo hanno poi stabilito l’ANP e il Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) come un meccanismo provvisorio per l’autogoverno. Ma il processo di Oslo ha fatto ben poco per realizzare la formazione di uno Stato sovrano palestinese, poiché la confisca della terra, l’espansione del movimento delle colonie e la successiva frammentazione dei territori palestinesi occupati sono continuate nel corso del periodo provvisorio. E dal fallimento del vertice di Camp David, seguito dalla Seconda Intifada nel 2000, Israele ha solo consolidato ulteriormente il suo controllo militare sui territori occupati.

Con la dura occupazione israeliana in atto, il mandato di governo dell’ANP oggi è in gran parte limitato all’esecuzione di quanto contenuto nell’articolo 8 degli accordi di Oslo, in cui si afferma che l’ANP deve mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza interna” attraverso “un forte apparato di polizia”. Ciò ha portato ad assegnare la quota maggiore del bilancio nazionale alle forze di sicurezza dell’ANP. Inoltre il settore della sicurezza impiega quasi la metà del personale della pubblica amministrazione.

Questo apparato poliziesco è stato poi utilizzato per fornire una forte cooperazione nel campo della sicurezza con Israele. Le forze di sicurezza dell’ANP ostacolano e reprimono regolarmente l’attivismo palestinese che prende di mira la presenza militare e le colonie israeliane in Cisgiordania. L’ANP è anche impegnata nello scambio di informazioni con le autorità israeliane e contrasta preventivamente gli attacchi palestinesi progettati in aree e situazioni in cui l’esercito israeliano non è in grado di operare.

Esiste anche una “politica di arresti da porta girevole”: i palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano subito dopo il loro rilascio dalle carceri dell’ANP, o viceversa. Questo sistema a due livelli di arresto e detenzione, che spesso comporta la tortura dei prigionieri in custodia, ha lo scopo di scoraggiare le attività di resistenza dei palestinesi contro Israele.

Riflettendo sulla peculiarità di questa cooperazione, un attivista mi ha detto: “È proprio frustrante… Stiamo combattendo gli israeliani, ma l’ANP e Fatah lavorano con loro e li aiutano. Ironia della sorte, il mio attivismo è contro Israele, ma sono stato picchiato più volte dall’Autorità Nazionale Palestinese [che dagli israeliani, ndt.]”

Il rivoluzionario è diventato il burocrate

Dietro la condotta dell’Autorità Nazionale Palestinese c’è anche una generazione di funzionari di Fatah che hanno abbandonato la loro posizione rivoluzionaria nel corso del processo di Oslo.

La rinuncia alla violenza di Arafat nel 1993 fu il più notevole allontanamento dall’ethos rivoluzionario della lotta nazionale palestinese. Nel 1974 Arafat intervenne alle Nazioni Unite come il simbolo iconico della lotta di liberazione palestinese e dichiarò di essere arrivato portando sia “un ramoscello d’ulivo che il fucile di un combattente per la libertà”. Quindi implorò la comunità internazionale di “non lasciare che il ramoscello d’ulivo mi cada di mano”. Eppure, meno di due decenni dopo, aveva di fatto criminalizzato la lotta armata palestinese.

La sua trasformazione ha ispirato altri, come uno stretto collaboratore e fedele membro di Fatah che intervistai nel 2012. Parlando dell’ala militare della fazione islamista Hamas, sua rivale, e della risposta di quest’ultima all’operazione “Pilastro di Difesa” di Israele contro Gaza, mi disse: “Guarda, ero molto vicino ad Arafat. Sono stato addestrato per diventare un combattente. Ero con Arafat in Libano a combattere gli israeliani durante la guerra civile. Ho visto come stava soffrendo. Gli israeliani lo cercavano casa per casa. Dormiva in una casa per 20 minuti e poi lo trasportavamo nella casa successiva. Ma abbiamo combattuto perché stavamo lottando per essere rispettati”.

Tuttavia, non era favorevole alle operazioni militari di Hamas. Invece mi spiegò: “Adesso le cose sono cambiate. Con Oslo, il nostro leader ci ha detto che era ora che il combattente palestinese si togliesse la tuta mimetica e si mettesse giacca e cravatta. Mi sono tolto l’uniforme militare e ho lavorato per costruire il mio Paese. Sono diventato un ufficiale di polizia e ho lavorato a lungo, addestrando i poliziotti dell’Autorità Nazionale Palestinese”.

La percezione che “le cose sono cambiate” era evidente anche nelle mie conversazioni con i leader di Fatah nella Striscia di Gaza governata da Hamas nel 2013. Uno di questi importanti membri di Fatah, seduto nel soggiorno della sua casa nel leggendario campo profughi di Jabalia, mi disse: “Guarda le notizie. Queste persone [Hamas] non possono gestire il governo. Non fanno altro che parlare di muqawama [resistenza]. Guarda lo stato di Gaza a causa di questo”.

Naturalmente, Abbas personifica il completamento di questa trasformazione del rivoluzionario palestinese. Arafat è stato spesso visto coprirsi la testa con la kefiah palestinese, uno storico simbolo della lotta nazionale palestinese e della rivendicazione militante delle terre palestinesi nella loro interezza. A confronto il suo successore ha poche credenziali militari. A volte Abbas indossa simbolicamente la kefiah al collo e parla la lingua del nazionalismo. Ma raramente affronta l’occupazione. Al contrario, mantiene una cooperazione in materia di sicurezza con Israele ed è principalmente interessato a mantenere un residuo istituzionale degli accordi di Oslo, nonostante il processo di Oslo abbia fallito per quanto riguarda lo Stato palestinese.

L’autoritarismo dell’ANP è finanziato dai donatori internazionali

In sostanza Abbas e l’ANP sono stati in grado di sostenere il loro sistema di “governo” perché i donatori internazionali, che continuano a finanziare gli stipendi del settore pubblico, gli sforzi di rafforzamento delle istituzioni e la riforma del settore della sicurezza nei territori occupati, vedono la costituzione di istituzioni statali come un mezzo di costruzione della pace.

L’ANP gode di un controllo civile e militare minimo nei Territori Occupati ed è in gran parte vincolata alla volubile volontà dell’occupazione militare israeliana. Tuttavia, donatori come l’Unione Europea – che nel 2020 ha contribuito con 85 milioni di euro a stipendi e pensioni del settore pubblico – continuano a fornire all’Autorità Nazionale Palestinese i mezzi finanziari per agire in termini statali come un modo per disincentivare uno scontro militare e garantire la sicurezza di Israele.

Il risultato è che la fazione al potere, Fatah, è in grado di porsi come sinonimo di politica ufficiale e legittima. Ciò è in parte dovuto al fatto che, avendo ufficialmente rinunciato alla lotta armata contro Israele, gli è stato concesso il sostegno politico e materiale degli interlocutori a livello internazionale in quanto partner negoziale accettabile.

Più significativamente, però, attraverso il ben finanziato apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, i suoi dirigenti hanno i mezzi per sorvegliare la popolazione palestinese e determinare le uniche forme legittime e concesse di attivismo politico.

Donatori come gli Stati Uniti – che hanno lavorato per rafforzare la leadership di Abbas contro Hamas – sostengono che questo mandato consente all’ANP di essere garante di sicurezza, stabilità e pace. Ma come è evidente nella risposta dell’ANP alle proteste in corso, ciò dà solo a una fazione, di fronte a livelli di opposizione senza precedenti, le risorse per sopprimere i suoi critici con il pretesto di mantenere la legge e l’ordine.

Un cambio di leadership potrebbe non risolvere la crisi

Edward Said si rammaricò amaramente per la firma degli Accordi di Oslo in quanto simbolo della “capitolazione palestinese”. Anche i palestinesi che protestano contro la morte di Nizar Banat considerano la condotta dell’ANP una continuazione della capitolazione della lotta nazionale palestinese.

Finora ci sono poche prove che dimostrino che Abbas sia disposto a rinunciare al suo ruolo alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. Tuttavia, nell’improbabile scenario in cui l’attuale crisi costringesse alla fine a un cambio di leadership, il nuovo governo sarebbe ancora vincolato dall’assetto istituzionale dell’ANP e dalle priorità politiche dei donatori.

Un cambiamento di paradigma potrebbe aver luogo solo se una nuova leadership fosse in grado di riproporre l’ANP – con il sostegno politico e finanziario della comunità dei donatori – come un’istituzione che opera in accordo con il movimento nazionale palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Somdeep Sen è professore associato di Studi sullo Sviluppo Internazionale alla Roskilde University in Danimarca. È l’autore di Decolonizing Palestine: Hamas between the Anticolonial and the Postcolonial [Decolonizzare la Palestina: Hamas tra l’anticoloniale e il post-coloniale] (Cornell University Press, 2020)

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La Corte israeliana rinvia l’appello contro le espulsioni di Sheikh Jarrah

2 Agosto 2021 – Al Jazeera

Le famiglie palestinesi respingono la proposta della Corte di rimanere nelle loro case come “inquilini protetti”, se riconoscono la proprietà israeliana

La Corte Suprema di Israele ha rinviato la decisione su un appello da parte di quattro famiglie palestinesi contro l’espulsione forzata dal quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme est occupata, in quanto le famiglie affermano di aver respinto una proposta della Corte di rimanere nelle case come “inquilini protetti”, riconoscendo però la proprietà israeliana.

Il caso esaminato lunedì riguardava quattro famiglie palestinesi, per un totale di circa 70 persone.

I tribunali israeliani di prima istanza hanno approvato le espulsioni delle quattro famiglie per far posto a coloni israeliani. Hanno sentenziato che le loro case sono state costruite su terreni di proprietà di ebrei prima della fondazione di Israele nel 1948.

Ma, tenendo conto del ricorso di ultima istanza da parte dei residenti, la Corte ha proposto un accordo che concederebbe loro lo status di “inquilini protetti”, che riconoscerebbero la proprietà israeliana delle case e pagherebbero un affitto annuale simbolico, ma le famiglie lo hanno rifiutato.

Il giudice Isaac Amit ha richiesto ulteriore documentazione e ha detto: “Renderemo nota una decisione più avanti”, ma non ha fissato una data.

Hoda Abdel-Hamid di Al Jazeera, riferendo dal tribunale di Gerusalemme ovest, ha detto che il giudice ha offerto alle famiglie palestinesi l’opzione di firmare un documento che attesta che la terra appartiene ai coloni israeliani.

In cambio avrebbero una locazione garantita nella casa per le prossime tre generazioni”, ha detto Abdel-Hamid.

Ci hanno fatto forti pressioni per raggiungere un accordo con i coloni israeliani, in cui noi saremmo affittuari delle organizzazioni di coloni”, ha detto Muhammad al-Kurd, membro di una delle quattro famiglie al centro della disputa.

Ovviamente questo accordo è stato respinto”, ha detto.

Anche Sami Ershied, un avvocato che rappresenta le famiglie palestinesi, ha detto a Al Jazeera che la proposta era inaccettabile.

Finora non abbiamo ricevuto un’offerta che fosse abbastanza equa e tutelasse i diritti dei residenti. Perciò non abbiamo aderito ad alcun compromesso”, ha affermato Ershied.

Però ha detto che l’udienza è stata “un buon passo avanti”.

I giudici hanno detto che ci convocheranno ad una seconda udienza. Non hanno ancora respinto il nostro appello: questo è un buon segno”, ha detto.

Speriamo che i giudici continuino ad ascoltare le nostre argomentazioni e prendano in considerazione tutti i nuovi dettagli che abbiamo fornito loro e alla fine prendano una decisione favorevole ai residenti di Sheikh Jarrah”, ha affermato.

Ershied ha aggiunto che la Corte deciderà quando fissare la prossima udienza e che essa si potrebbe svolgere in un arco di settimane o mesi.

Lunga battaglia legale

Era previsto che la Corte Suprema emettesse una sentenza a maggio, ma ha rinviato la decisione dopo che il procuratore generale ha richiesto più tempo per esaminare i casi.

La minaccia delle espulsioni ha scatenato proteste che hanno subito una dura repressione da parte delle forze di sicurezza israeliane in aprile e maggio ed hanno messo alla prova la nuova coalizione di governo israeliana, che comprende tre partiti favorevoli alle colonie ed un piccolo partito che rappresenta i palestinesi cittadini di Israele. Per amor di unità, il governo ha cercato di accantonare le questioni palestinesi per evitare divisioni interne.

Settimane di disordini –caratterizzati dalle violente tattiche della polizia israeliana contro gli abitanti e i dimostranti che li sostenevano – hanno attirato l’attenzione internazionale prima degli 11 giorni di bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza assediata a maggio.

Il 21 maggio è entrato in vigore un cessate il fuoco, ma la campagna di lunga durata dei coloni israeliani per cacciare decine di famiglie palestinesi è continuata.

I coloni hanno condotto una campagna di decenni per espellere le famiglie dai quartieri palestinesi densamente popolati appena fuori dalle mura della Città Vecchia, in una delle aree più sensibili della Gerusalemme est occupata.

I coloni hanno sostenuto che le case erano costruite su terreni di proprietà di ebrei prima della guerra del 1948, quando fu creato Israele. La legge israeliana consente agli ebrei di reclamare tale proprietà, diritto negato ai palestinesi che hanno perso terra e case nello stesso conflitto.

La Giordania ha avuto il controllo su Gerusalemme est dal 1948 al 1967. Le famiglie divenute rifugiate durante la guerra del 1948 hanno detto che le autorità della Giordania hanno offerto loro le case in cambio della rinuncia allo status di rifugiati.

Israele ha occupato Gerusalemme est, insieme alla Cisgiordania e Gaza, nel 1967 e la ha annessa con un’iniziativa non riconosciuta a livello internazionale. La soluzione di due Stati concepita dagli Accordi di Oslo del 1993 considerava le tre aree parte di uno Stato palestinese.

Nel 1972 gruppi di coloni dissero alle famiglie che stavano sconfinando su terra di proprietà di ebrei. Fu l’inizio di una lunga battaglia legale che negli ultimi mesi è culminata in ordini di espulsione contro 36 famiglie di Sheikh Jarrah e altri due quartieri di Gerusalemme est occupata.

Associazioni per i diritti hanno affermato che anche altre famiglie sono a rischio, stimando che più di 1.000 palestinesi rischiano di essere espulsi.

Qualunque sarà la sentenza del giudice sia per i coloni che per le famiglie palestinesi, essa darà il segnale di ciò che avverrà in seguito”, ha detto Abdel-Hamid.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)