Una Palestina post-Trump

Ahmed Abu Artema

Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace.

17 gennaio 2021 – Al Jazeera

I palestinesi dovrebbero smettere di sperare in un cambio di politica a Washington e andare avanti con la loro lotta per la libertà.

Per decenni i palestinesi hanno sofferto sotto l’occupazione coloniale israeliana sostenuta e consentita dall’appoggio politico, finanziario e militare degli USA. Ciò ha permesso ad Israele di espandere progressivamente la sua occupazione e colonizzazione della Palestina, al punto che oggi solo circa il 5% della terra della Palestina storica è realmente controllato dai palestinesi.

Questo processo è proseguito per anni, pressoché indisturbato da un controllo internazionale, con la copertura del “processo di pace” di Washington e della sua autoproclamata posizione di mediatore tra le parti palestinese ed israeliana.

Tuttavia quando Donald Trump è diventato presidente USA nel 2017 ha interrotto questo processo di graduale colonizzazione accuratamente costruito. Ha adottato il programma israeliano più razzista ed estremista e ha cancellato la pratica consolidata di onorare formalmente i diritti dei palestinesi.

Al governo di destra israeliano è stato dato il via libera per fare ciò che voleva, mentre il presidente americano ha continuato a legittimare le sue azioni illegali e criminali. Questo ha di fatto accelerato la prassi di creare “fatti sul terreno” – cioè l’usurpazione della terra palestinese e la sovversione di ogni autorità politica palestinese, al punto che è diventato impossibile soddisfare le richieste dei palestinesi ed i loro diritti sono diventati irrilevanti.

Quindi che cosa significa per i palestinesi l’eredità di Trump?

Quattro anni di Trump

Anche se il Congresso USA nel 1995 approvò un disegno di legge che riconosceva Gerusalemme come capitale di Israele, le successive amministrazioni USA ne hanno rinviato l’applicazione a causa della mancanza di un accordo tra l’Autorità Nazionale Palestinese ed Israele sullo status della città santa.

Il 6 dicembre 2017 Trump ha trasformato in realtà ciò che era già sulla carta, emanando un ordine esecutivo di trasferimento dell’ambasciata USA in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Ciò è avvenuto il 14 maggio dell’anno seguente, che coincideva con il 70^ anniversario della Nakba e che Israele ha segnato con il massacro di decine di palestinesi a Gaza.

Qualche mese dopo Trump ha annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA). Questa non è stata solo una catastrofe per milioni di palestinesi che dipendono dall’agenzia per il cibo, l’istruzione e la sanità, ma è stato un tentativo di cancellare lo status di rifugiati dei palestinesi e, di conseguenza, il loro diritto al ritorno. Cercando di distruggere l’UNRWA, Trump stava eseguendo gli ordini del governo israeliano che per decenni ha fatto il possibile per impedire ai palestinesi colpiti dalla pulizia etnica di ritornare e rivendicare la propria terra.

Il diritto al ritorno è stato ulteriormente compromesso anche dall’ “accordo del secolo” proposto da Trump e da suo genero Jared Kushner. Mutuando il linguaggio delle precedenti “iniziative di pace” USA, la proposta prometteva “pace” e “prosperità” per i palestinesi, ma respingeva la maggior parte delle loro richieste, compresa l’autodeterminazione attraverso uno Stato palestinese sovrano. Intanto il 18 novembre 2019 il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che il governo USA non considerava la costruzione delle colonie israeliane in Cisgiordania una violazione del diritto internazionale.

Nei suoi ultimi mesi da presidente, Trump non ha mancato di fare un altro generoso regalo ad Israele: la normalizzazione con gli Stati arabi. È stato un altro duro colpo per la causa palestinese.

In seguito alla seconda Intifada la Lega Araba – su iniziativa del defunto re saudita Abdullah – si era impegnata a normalizzare le relazioni con Israele solo in cambio della creazione di uno Stato palestinese sui confini del 1967, del ritorno dei rifugiati e del ritiro di Israele dalle Alture del Golan.

In agosto [2020] gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno firmato accordi di normalizzazione con Israele, sotto l’egida dell’amministrazione Trump, senza pretendere alcuna concessione sulla questione palestinese del ritorno: il Marocco e il Sudan poco dopo hanno fatto altrettanto. E’stata una palese rottura con l’accordo arabo su “terra in cambio di pace”.

Così, alla fine della presidenza Trump, i palestinesi appaiono spogliati di tutto ciò di cui potevano esserlo.

Una Palestina post-Trump

La vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali USA di novembre sembra aver portato un certo ottimismo in alcuni ambienti palestinesi rispetto al fatto che gli USA modificheranno la propria politica verso i palestinesi. Non dimentichiamo che la politica di Trump non è mai stata in contraddizione con la tradizionale posizione di Washington sulla Palestina, che mostrava pieno e incondizionato appoggio allo Stato di Israele.

Aspettarsi che Biden cambierà qualcosa o rimedierà ai danni del suo predecessore è una follia. Di fatto lui e la sua squadra hanno ampiamente chiarito che non ribalteranno le decisioni di Trump, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. La sua amministrazione non appoggerà la lotta dei palestinesi per la giustizia; non si adopererà per la loro liberazione, per la fine dell’occupazione israeliana, per lo smantellamento del regime di apartheid israeliano o per il ritorno dei rifugiati palestinesi nella loro patria.

La lezione che i palestinesi dovrebbero imparare dai quattro lunghi anni della presidenza Trump non deve poggiare sul fatto che un’amministrazione USA possa mai sostenere i loro interessi e diritti o diventare un arbitro obiettivo. L’élite politica americana è fautrice dell’occupazione e della colonizzazione israeliana della Palestina, tale è sempre stata e tale rimarrà in futuro. E, proprio come Trump, continuerà a concedere a Israele tutto quel che vuole, che sia la legittimazione dei suoi illegali furti di terra o un’illimitata fornitura di sofisticati armamenti da usare contro i palestinesi.

Appoggiato in pieno dagli USA, Israele continua a creare “fatti sul terreno”, a stabilire un dominio assoluto su tutta la Palestina storica e a rendere impossibile uno Stato palestinese. Ma c’è una cosa che Israele non è assolutamente in grado di fare, nonostante la sua potenza militare, le sue risorse finanziarie e l’illimitato sostegno da parte di una superpotenza: non può cancellare i palestinesi.

Sei milioni di palestinesi – privati della loro libertà e della loro patria – continuano a vivere nella Palestina storica. Milioni di altri palestinesi vivono nei vicini Paesi arabi e nella diaspora. La loro identità, la loro mera esistenza erodono giorno dopo giorno l’inganno che Israele ha usato per mascherare il proprio apartheid e presentarsi al mondo come un “modello di democrazia”. Più importante ancora, la vita e lo spirito dei palestinesi minano attivamente l’occupazione e l’apartheid israeliani.

I palestinesi subiscono terribili deprivazioni e soprusi da parte degli israeliani, ma sono tenaci. La loro stessa esistenza è diventata resistenza. E il tempo non è dalla parte del loro aguzzino. In questo momento Israele può sembrare un colonizzatore vittorioso, avendo eliminato quasi tutti gli ostacoli all’annessione della Cisgiordania. Ma la lotta palestinese sta facendo progressi. In un futuro non troppo lontano la giustizia prevarrà e i palestinesi otterranno la loro libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace. È autore del libro “Caos organizzato” e di numerosi articoli ed è uno dei promotori della Grande Marcia del Ritorno. È un rifugiato del villaggio di Al Ramla in Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele ordina un’ondata di nuove demolizioni di case a Silwan, Gerusalemme

Ibrahim Husseini

31 dicembre 2020 – Al Jazeera

Gli abitanti temono che il Comune di Gerusalemme stia preparandosi a radere al suolo molte case palestinesi nelle prossime settimane

Gerusalemme est – Fakhri Abu Diab, 59 anni, potrebbe dover decidere a breve se contrattare una squadra [di muratori] per demolire la casa della sua famiglia.

Diab è un attivista della sua comunità e uno de molti abitanti palestinesi del quartiere Al-Bustan di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, a cui in dicembre sono stati intimati ordini di demolizione da parte del Comune di Gerusalemme.

Ha costruito senza licenza edilizia il suo edificio, nelle cui tre unità abitative vivono 13 membri della famiglia, in quanto, dalla prima volta in cui ha fatto domanda nel 1987, essa gli è stata negata per quattro volte. Se il Comune metterà in pratica l’ordinanza di demolizione, notificata il 9 dicembre, il costo potrebbe essere di 30.000 dollari.

Diab dice che, se perderà la casa, “al momento non ho alternative se non piazzare una tenda.”

Dice che nel solo mese di dicembre ad Al-Bustan sono stati consegnati 21 ordini di demolizione.

I proprietari di case e gli osservatori temono che il Comune, con l’appoggio del primo ministro Benjamin Netanyahu, stia preparandosi a radere al suolo nelle prossime settimane un numero significativo di case palestinesi in città.

Le nuove elezioni politiche israeliane, fissate in marzo, e gli ultimi giorni alla Casa Bianca del presidente USA uscente Donald Trump potrebbero accelerare questa iniziativa.

Ci sono molte pressioni da parte dell’estrema destra sia all’interno della città che a livello nazionale per approfittare del tempo che resta,” dice ad Al Jazeera Laura Wharton, consigliera municipale a Gerusalemme per il partito di sinistra [sionista, ndtr.] israeliano Meretz.

Wharton ritiene che il numero di ordini di demolizione pendenti a Gerusalemme est sia addirittura di 30.000. Tuttavia non prevede che tutti siano in pericolo immediato.

Nel solo 2020 le Nazioni Unite hanno registrato 170 demolizioni nella sola Gerusalemme est e 644 nell’area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata.

I dati indicano che questo è il secondo numero di demolizioni più alto dal 2016, dopo che nel 2009 l’ONU ha iniziato a registrare le demolizioni nei territori palestinesi occupati.

Per contrastare la diffusione della pandemia da coronavirus, dal primo ottobre è entrato in vigore un congelamento delle demolizioni di case occupate a Gerusalemme est. Ma l’11 novembre l’amministrazione comunale di Gerusalemme ha improvvisamente posto fine al congelamento.

Quando Al Jazeera ha contattato il Comune di Gerusalemme per ottenere risposte sui nuovi ordini di demolizione, esso non ha affrontato il problema ma ha affermato in una dichiarazione: “Gerusalemme è una delle città leader al mondo nel farsi carico delle necessità dei suoi abitanti, di tutti i suoi abitanti, soprattutto durante questo difficile periodo.”

Silwan, che si trova a sud delle mura della Città Vecchia, è stato a lungo un bersaglio dei coloni religiosi ultranazionalisti che spesso influenzano il consiglio municipale di Gerusalemme, afferma Wharton: “È un problema quando ci sono estremisti all’interno del Comune e a livello nazionale un primo ministro che sta cercando di farsi votare,” dice Wharton ad Al Jazeera.

Lotta per Silwan

A Silwan vivono circa 30.000 palestinesi, molti in case scadenti e con scarse infrastrutture. Circa 500 coloni ebrei vivono in insediamenti sparsi nel quartiere.

La Fondazione della Città di David, una Ong israeliana comunemente nota come El-Ad (acronimo in ebraico che sta per “Per la Città di David”) venne fondata nel 1986 principalmente per avanzare rivendicazioni territoriali attraverso l’archeologia e l’insediamento di coloni a Silwan.

A metà degli anni ’90 venne contrattata per gestire il parco [archeologico, ndtr.] della Città di David, che essa intende estendere da Wadi Hilweh fino ai dintorni Al-Bustan.

Il progetto implica la demolizione di circa 90 case palestinesi per far posto a un parco nazionale e a un nuovo sviluppo urbano per i coloni.

In base al presupposto che migliaia di anni fa fosse un giardino dei re israeliti, il Comune di Gerusalemme ha ufficialmente cambiato il nome “Al-Bustan” in “Gan Hamelekh” (il Giardino del Re).

Il Comune ha sistematicamente negato agli abitanti palestinesi di Al-Bustan i permessi edilizi perché, in base ad un programma chiamato “La Valle del Re”, esso è considerato “un’area paesaggistica aperta”.

La mia casa è distrutta”

Sono stato maltrattato in ogni modo, la mia casa è distrutta… mia moglie e i bambini ora stanno vivendo lontano da me,” dice ad Al Jazeera il ventottenne Kazem Abu Shafe’a.

Abu Shafe’a aveva bisogno di una casa per la sua famiglia composta da quattro persone. Ma, in quanto assistente sociale per anziani con uno stipendio modesto, non poteva permettersi di lasciare Silwan.

Così in agosto ha deciso di costruire sopra la casa di sua madre, anch’essa con un ordine di demolizione, un’abitazione per la sua famiglia, senza presentare una richiesta di permesso.

È entrato nell’ appartamento aggiunto all’inizio di novembre, ma il 17 dello stesso mese funzionari comunali hanno consegnato ad Abu Shafe’a un ordine di demolizione.

Ha consultato un avvocato, ma questi gli ha detto che non si poteva far annullare l’ordinanza.

Abu Shafe’a ha iniziato a mettere in salvo i mobili, la moglie ha preso i figli ed è andata a vivere con i suoi genitori finché non troveranno un posto da affittare. Abu Shafe’a è rimasto a casa di sua madre.

Il 22 dicembre è arrivata la squadra per la demolizione, inclusi poliziotti e impiegati comunali.

Era circa mezzogiorno, non c’è stato nessun preavviso,” dice Abu Shafe’a. “Circa 30 poliziotti si sono sparpagliati nel quartiere e hanno operato la demolizione,” dice.

Impedire una capitale palestinese

A Silwan, al-Bustan non è l’unico quartiere che si trova sotto pressione da parte delle autorità israeliane.

Gli abitanti di Baten el-Hawa, nel cuore di Silwan, devono affrontare ordini di demolizione dopo che organizzazioni di coloni sono riuscite a far riconoscere rivendicazioni di proprietà nei tribunali israeliani.

Peace Now, un’associazione di monitoraggio delle colonie israeliane, afferma che le azioni legali dei coloni comporteranno l’espulsione di un’intera comunità a Gerusalemme est, in base all’applicazione della legge del “diritto al ritorno”, che Israele concede solo ai suoi cittadini ebrei.

Attraverso al-Bustan i coloni otterranno la contiguità di tre località: il “Parco della Città di David” ai confini di Wadi Hilweh e Baten el-Hawa ad est.

Il progetto è collegare tutte le colonie nei quartieri palestinesi,” dice ad Al Jazeera Hagit Ofran, ricercatore e portavoce di Peace Now [associazione israeliana contraria all’occupazione, ndtr.]. “Per circondare la Città Vecchia e impedire che Gerusalemme est sia la capitale dei palestinesi.”

Dal 2004, in netto contrasto con la politica di demolizioni dell’amministrazione comunale di Gerusalemme nei confronti dei palestinesi, a Batn el-Hawa sorge un edificio di sei piani, abitato da coloni ebrei.

La “Casa di Jonathan”, dal nome di Jonathan Pollard, un americano analista dell’intelligence che ha fatto la spia per Israele, è stata costruita 20 anni fa senza permesso, eppure il Comune ha ignorato un ordine del tribunale di svuotare e sigillare l’edificio ed ha lasciato intatto l’edificio.

Invece Zuheir Rajabi, 50 anni, e la sua famiglia di sei persone vivono a Batn el-Hawa a pochi metri dalla “Casa di Jonathan”.

Un tribunale israeliano ha deciso che la famiglia deve lasciare la propria casa dopo che l’associazione a favore dei coloni “Ateret Cohanim”, attraverso il Custode Israeliano delle Proprietà degli Assenti [che si occupa della gestione delle proprietà forzatamente abbandonate dai palestinesi, ndtr.] , si è impossessata della proprietà del terreno in nome di una fiduciaria benefica per ebrei yemeniti poveri immigrati oltre un secolo fa.

Ora a Batn el-Hawa ci sono 87 ordini di espulsione contro abitanti palestinesi in seguito a cause intentate da Ateret Cohanim.

Rajabi dice ad Al Jazeera che, se inizieranno a mettere in pratica le demolizioni, ci sarà una forte reazione da parte degli abitanti: “Se tutte le famiglie rimangono unite contro questa politica, allora possiamo bloccare l’esecuzione degli ordini,” afferma Rajabi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Simorgh: L’arte sui muri dell’apartheid

Hamid Dabashi

31 dicembre 2020 – ALJAZEERA

Dalla Siria e dalla Palestina all’Egitto e agli Stati Uniti, gli artisti stanno trasformando provocatoriamente i muri che ci dividono in virtuali gallerie di resistenza.

All’inizio di questo mese BBC Culture ha pubblicato un eccellente articolo di Arwa Haidar che esplora la portata globale e il linguaggio universale dell’arte della protesta attraverso i murales dipinti in tutto il mondo per onorare George Floyd, l’uomo afro-americano la cui uccisione a maggio per mano di un agente di polizia di Minneapolis ha innescato una massiccia rivolta a favore della giustizia razziale negli Stati Uniti e altrove.

In un articolo altrettanto brillante su AFAR [rivista di viaggi e turismo, ndtr.], Maya Kroth attira ugualmente l’attenzione sul modo in cui gli artisti di tutto il mondo siano in grado di trasformare in vigorose proteste i muri dei confini, che simboleggiano la separazione e l’oppressione.

In effetti, dalla Siria e dalla Palestina all’Egitto e agli Stati Uniti, gli artisti trasformano provocatoriamente i muri che ci separano in gallerie virtuali di resistenza contro l’ingiustizia, la crudeltà e la violenza, ricordando ai tiranni e agli assassini di masse che governano su di loro che sono osservati e che un giorno dovranno rendere conto.

Specchio, specchio delle mie brame

La rivolta di Black Lives Matter [movimento attivista internazionale, originato all’interno della comunità afroamericana, impegnato nella lotta contro il razzismo, ndtr.] di quest’anno negli Stati Uniti e il favore riscontrato tra le persone in diversi angoli del mondo ha attirato una rinnovata attenzione sull’arte di denuncia. Tuttavia, le forme artistiche peculiari che esprimono e aiutano a plasmare i movimenti e le rivoluzioni sociali coesistono in un quadro di riferimento molto più ampio che certamente include il movimento Black Lives Matter ma non è limitato ad esso.

Dall’Asia e dall’Africa all’America Latina, murales e graffiti che chiedono giustizia, onorano i caduti e svergognano gli oppressori fungono da specchio per un’anima spezzata e frammentata dell’umanità che brama una liberazione universale resa impossibile dalle stesse pareti su cui sono disegnati e dipinti.

Insieme queste opere d’arte disegnano una mappa del mondo diversa da quella plasmata da confini coloniali fittizi che dividono le nazioni e i loro sogni collettivi. Dai murales e dai graffiti dipinti e disegnati nel secolo scorso durante i movimenti di liberazione nazionale in Asia, Africa e America Latina, a quelli creati durante le lotte per la libertà e la giustizia in corso in Kashmir, Palestina, Hong Kong e più recentemente negli Stati Uniti, queste opere rivelano il superamento di falsi confini e la mappa di una sfida globale.

Dal cielo alla terra e ritorno

Nel capolavoro del 1177 del famoso poeta persiano Farid al-Din Attar, Il Verbo degli Uccelli [Milano, SE, 2007], leggiamo la storia di uno stormo di uccelli che intraprese un viaggio verso il Monte Qaf [catena montuosa della mitologia mediorientale, ndtr.] per trovare il proprio “re”, il mitico uccello Simorgh. Nella poesia, Attar ci racconta come questo uccello divino una volta avesse lasciato cadere una singola piuma da un’ ala sulla Cina e avesse gettato in subbuglio il mondo intero:

Quella piuma è ora in un museo in Cina –

Questo è ciò che il Profeta intendeva con “Cerca la conoscenza dovessi anche arrivare in Cina!”

Se il colore della sua piuma non fosse stato rivelato

non si sarebbe diffuso così tanto trambusto in tutto il mondo …

La sublime allegoria mistica di Attar ha trovato in questi nostri tempi travagliati un nuovo significato. È come se in tutto il mondo decine di artisti disinteressati, per lo più anonimi, avessero assistito alla visione della piuma solitaria di Simorgh e fossero stati ispirati a iscrivere il grido collettivo di libertà dell’umanità sui muri che li circondano.

La piuma di Simorgh è sempre stata un simbolo di bellezza e verità, nell’ispirare poeti e filosofi a fare e dire il bello e il giusto. Questi artisti anonimi, i mistici del nostro tempo, che raffigurano le crudeltà della nostra epoca su quelle spaventose pareti sono i figli di Simorgh.

Murales come specchi

Per quanto possano sembrare sul momento vincenti, le rivoluzioni e i movimenti sociali, corrono spesso il rischio di essere bruscamente schiacciati dalle forze militari o di aprire la strada, con il passare del tempo, a un diverso tipo di oppressione. Ma le opere d’arte ispiratrici mantengono vivi i sogni e le aspirazioni delle anime coraggiose che le hanno originariamente realizzate.

Vorrei fare un esempio: subito dopo la rivoluzione iraniana del 1978-1979 io e il mio collega Peter Chelkowski [studioso di storia e cultura medio-orientale, ndtr.] abbiamo raccolto un intero archivio di arte rivoluzionaria che includeva murales, poster, graffiti e altro materiale correlato e abbiamo pubblicato il primo libro sulla memoria visuale di quello storico evento. Il nostro libro, Staging a Revolution: The Art of Persuasion in the Islamic Republic of Iran [Messa in scena di una rivoluzione: l’arte della persuasione nella repubblica islamica dell’Iran, ndtr.] (1995), ha finito per essere visto come un’attenta disamina dell’intera iconografia della rivolta rivoluzionaria e ha posto la rivoluzione iraniana accanto a eventi di riferimento simili, come le rivoluzioni francese, cubana e russa e al corpus monumentale di arte pubblica e politica che avevano prodotto.

Decenni dopo mi sono imbattuto in una preziosa collezione di poster pre-rivoluzionari degli anni ’50 e ’60 che anticipavano la rivoluzione del 1979. Ho usato questa raccolta per aiutare a curare una mostra d’arte ad Ashville, nella Carolina del Nord, e in seguito ho pubblicato un libro su questi poster, In Search of Lost Causes: Fragmented Allegories of an Iranian Revolution [Alla ricerca delle cause perse: allegorie spezzate di una rivoluzione iraniana, ndtr.] (2014). Durante quel periodo, stavo anche lavorando per creare un archivio del cinema palestinese nel tentativo di preservare un prezioso repertorio artistico che documentasse la lotta e i sogni del popolo palestinese.

Contemporaneamente ai miei sforzi migliaia di altre persone in tutto il mondo, dall’Iran e dalla Siria all’Egitto e agli Stati Uniti, stavano lavorando per produrre, preservare e promuovere l’arte politica che ha aiutato e continua ad aiutare la gente comune a sconfiggere gli eserciti, porre fine alle occupazioni, far cadere i dittatori e sostenere i più elementari diritti e le libertà fondamentali.

La rivoluzione iraniana degenerò in una teocrazia. La rivoluzione egiziana che è seguita decenni dopo è stata brutalizzata da un colpo di stato militare. La rivoluzione siriana è stata brutalmente oltraggiata dalle forze combinate di Bashar al-Assad, dei leader arabi reazionari e dei loro benefattori occidentali. La liberazione nazionale palestinese sta affrontando la gigantesca macchina militare statunitense / israeliana. La rivolta Black Lives Matter negli Stati Uniti sta combattendo una forza di polizia razzista e militarizzata i cui fondi, secondo il primo presidente nero, non devono essere tagliati. Ma ciò che rimane costante nel flusso e riflusso di tutti questi sogni e lotte sono le arti visive e dello spettacolo che essi hanno ispirato.

Specchi come muri

Vorrei ora passare a un altro esempio: nel febbraio 2004 ho visitato la Palestina insieme a un certo numero di rinomati registi palestinesi per partecipare a un festival cinematografico che ho contribuito a organizzare. Mentre stavamo attraversando un posto di blocco vicino al muro dell’apartheid tra Gerusalemme e Ramallah, il leggendario regista cileno-palestinese Miguel Littin ha iniziato a riflettere su come proiettare il suo film sul muro dell’apartheid. I nostri ospiti che vivono su entrambi i lati di quel muro hanno rapidamente convinto Littin ad abbandonare l’idea esprimendo la loro paura che i cecchini israeliani dal grilletto facile avrebbero sparato e ucciso chiunque si fosse avvicinato al muro per guardare il suo film.

In quell’occasione non abbiamo potuto proiettare la visione della libertà di un regista palestinese sul muro dell’apartheid israeliano. Ma presto innumerevoli, per lo più anonimi, artisti palestinesi hanno trasformato quegli stessi muri in una galleria che rispecchia le loro lotte.

I muri non sono solo confini politici artificiali che pericolosi fascisti come Trump o Netanyahu erigono per cercare di preservare i loro imperi e colonie in rovina. I muri sono anche un invito a dipingere, a sognare, a sfidare, a smantellare ciò che rappresentano.

Alla fine del Verbo degli Uccelli di Attar – attraverso un gioco sulla parola “Simorgh” che letteralmente significa “30 uccelli” – solo 30 uccelli sopravvivono al faticoso viaggio verso il Monte Oaf. Quando raggiungono la loro destinazione, questi uccelli si trovano faccia a faccia non con l’uccello leggendario, ma con uno specchio in cui non vedono altro che il proprio riflesso. Si rendono conto che “Simorgh” non fosse altro che le loro 30 anime coraggiose e ribelli che, contro ogni previsione, avevano osato scoprire di essere gli autori del proprio destino. Non avevano bisogno di alcun re, erano tutti dei re.

Gli artisti che utilizzano provocatoriamente i muri che ci separano per trasmettere un messaggio di speranza e unità sono come quegli uccelli: i re che osservano l’immagine della loro libertà sullo specchio dei muri che essi hanno splendidamente dipinto e coraggiosamente affrontato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Hamid Dabashi

Hamid Dabashi è docente [della cattedra] Hagop Kevorkian di studi iraniani e letteratura comparata presso la Columbia University. Nel 1984 ha conseguito un doppio dottorato di ricerca in Sociologia della Cultura e Studi Islamici presso l’Università della Pennsylvania, seguito da una borsa di studio post-dottorato presso l’Università di Harvard. Ha scritto la sua dissertazione sulla teoria dell’autorità carismatica di Max Weber [sociologo, filosofo, economista e storico tedesco vissuto a cavallo tra l’‘800 e il ‘900, ndtr.] con Philip Rieff (1922-2006), il più illustre critico culturale freudiano del suo tempo. Il professor Dabashi ha insegnato e tenuto conferenze in molte università nordamericane, europee, arabe e iraniane. Ha scritto venticinque libri, ha curato l’edizione di altri quattro collaborando a molti altri con suoi contributi. È anche autore di oltre 100 saggi, articoli e recensioni di libri su argomenti che vanno dagli studi iraniani, all’Islam medievale e moderno e alla letteratura comparata, al cinema mondiale e alla filosofia dell’arte (transestetica). I suoi libri e articoli sono stati tradotti in numerose lingue, tra cui giapponese, tedesco, francese, spagnolo, danese, russo, ebraico, italiano, arabo, coreano, persiano, portoghese, polacco, turco, urdu e catalano. I suoi libri includono Authority in Islam [L’Autorità nell’Islam, ndtr.] [1989]; Theology of Discontent [Teologia dell’insoddisfazione, ndtr.] [1993]; Truth and Narrative [Verità e narrativa, ndtr.] [1999]; Close Up: Iranian Cinema, Past, Present, Future [Primo piano: cinema iraniano, passato, presente, futuro, ndtr.] [2001]; Staging a Revolution: The Art of Persuasion in the Islamic Republic of Iran [Mettere in scena una rivoluzione: l’arte della persuasione nella Repubblica islamica dell’Iran, ndtr.] [2000]; Masters and Masterpieces of Iranian Cinema [Maestri e capolavori del cinema iraniano, ndtr.] [2007]; Iran: A People Interrupted [Iran: un popolo interrotto, ndtr.] [2007]; e un volume di cui ha curato la pubblicazione, Dreams of a Nation: On Palestinian Cinema [Sogni di una Nazione: intorno al cinema palestinese, ndtr.] [2006]. Tra i suoi lavori più recenti, Shi’ism: A Religion of Protest [La fede sciita: una religione di protesta, ndtr.] (2011), The Arab Spring: The End of Postcolonialism [La primavera araba: la fine del postcolonialismo, ndtr.] (2012), Corpus Anarchicum: Political Protest, Suicidal Violence and the Making of the Posthuman Body [Il corpo anarchico: la protesta politica, la violenza suicida e la realizzazione del corpo post-umano ndtr.] (2012), The World of Persian Literary Humanism [Il mondo dell’umanesimo letterario persiano, ndtr.] (2012) e Being A Muslim in the World [Essere un musulmano nel mondo, ndtr.] (2013).

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I palestinesi lasciati in attesa mentre Israele è pronto a partire con la vaccinazione anti-COVID

17 dicembre 2020 – Al Jazeera

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi di vaccino, sufficienti per coprire circa metà della sua popolazione

Dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu si è messo personalmente in contatto con il capo del gigante farmaceutico statunitense Pfizer, la prossima settimana Israele inizierà a lanciare una vasta campagna di vaccinazione anti-coronavirus.

Ma i milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano dovranno attendere molto di più.

Gli israeliani potrebbero tornare presto alla vita normale e alla ripresa economica, anche se il virus continua a minacciare città e villaggi palestinesi a pochi chilometri di distanza.

Israele ha raggiunto un accordo con Pfizer per la fornitura di otto milioni di dosi del vaccino da poco approvato, sufficienti a coprire quasi metà della popolazione israeliana di circa nove milioni, in quanto ogni persona ha bisogno di due dosi.

Israele possiede unità mobili per la vaccinazione con refrigeratori che come richiesto possono tenere a meno 70 gradi le dosi [di vaccino] della Pfizer, sviluppate con l’impresa tedesca BioNTech. Prevede di iniziare le vaccinazioni la prossima settimana, con un massimo di oltre 60.000 iniezioni al giorno.

All’inizio del mese Israele ha raggiunto un accordo separato con Moderna [altra industria farmaceutica, ndtr.] per comprare sei milioni di dosi del suo vaccino, sufficienti per altri tre milioni di israeliani.

La campagna di vaccinazione israeliana includerà i coloni ebrei, che sono cittadini israeliani e che vivono nella Cisgiordania illegalmente occupata, ma non i 2,5 milioni di palestinesi del territorio.

Essi dovranno aspettare l’Autorità Nazionale Palestinese, a corto di fondi, che in base ad accordi di pace provvisori raggiunti negli anni ’90 amministra parti della Cisgiordania occupata.

Nella guerra del 1967 in Medio Oriente Israele ha conquistato la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est, territori che i palestinesi vogliono per il loro futuro Stato.

L’ANP spera di avere i vaccini attraverso una collaborazione dell’OMS con l’organizzazione umanitaria nota come COVAX, che intende fornire vaccini gratis fino a un massimo del 20% della popolazione di Paesi poveri, molti dei quali sono stati particolarmente colpiti dalla pandemia.

Ma il programma ha garantito solo una parte delle due milioni di dosi che l’ANP spera di comprare nel prossimo anno, deve ancora confermare un qualche accordo concreto e scarseggia di fondi.

I Paesi ricchi hanno già prenotato circa nove miliardi dei 12 miliardi di dosi che si stima l’industria farmaceutica sia in grado di produrre il prossimo anno.

A complicare la questione, i palestinesi hanno solo un’unità di refrigerazione in grado di stoccare il vaccino Pfizer-BioNTech, nella città-oasi di Gerico.

Ali Abed Rabbo, importante dirigente del ministero della Salute palestinese, ha affermato che l’ANP è in trattative con Pfizer, Moderna, AstraZeneca e i fabbricanti del vaccino russo, per lo più non testato, ma deve ancora firmare accordi, oltre a quello con COVAX.

Secondo Rabbo, l’ANP spera di vaccinare il 20% della popolazione con COVAX, iniziando dai lavoratori della sanità.

“Gli altri dipenderanno dalle forniture che la Palestina riuscirà ad ottenere sul mercato mondiale, e stiamo lavorando con varie imprese,” afferma.

Sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese hanno lottato per contenere i propri focolai, che si sono alimentati a vicenda in quanto la gente viaggiava avanti e indietro, soprattutto le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che hanno un impiego in Israele.

Israele ha registrato più di 366.000 casi tra cui almeno 3.000 morti.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato più di 85.000 casi nella Cisgiordania occupata, tra cui 800 morti, e nelle ultime settimane l’epidemia si è intensificata.

La situazione è ancora più grave a Gaza, che ospita due milioni di palestinesi e che da quando Hamas è stato eletto nel 2007 è sottoposta a un blocco israeliano ed egiziano.

Lì le autorità hanno comunicato più di 30.000 casi, tra cui 220 morti.

Con i governanti di Hamas a Gaza ignorati dalla comunità internazionale, anche il territorio dovrà fare affidamento sull’Autorità Nazionale Palestinese.

Ciò significa che potrebbero passare parecchi mesi prima che nell’impoverita striscia costiera venga effettuata una vaccinazione su vasta scala.

Il vice-ministro della Salute israeliano Yoav Kisch ha detto a Kan Radio [rete radiofonica pubblica, ndtr.] che Israele sta lavorando per ottenere un surplus per gli israeliani e che “se dovessimo constatare che le esigenze di Israele sono state soddisfatte e avessimo un’ulteriore disponibilità [di vaccini], sicuramente prenderemmo in considerazione di aiutare l’Autorità Nazionale Palestinese.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Che Dio ci conceda la pazienza”: i palestinesi piangono il ragazzo ucciso

Anas Jnena, Mersiha Gadzo

6 dicembre 2020 – ALJAZEERA

Ali Abu Alia è il quinto minore palestinese della Cisgiordania occupata ucciso quest’anno dalle forze israeliane con munizioni vere, dichiara un’organizzazione per i diritti.

Venerdì Ali Abu Alia aveva appena compiuto 15 anni, quando le forze israeliane gli hanno sparato uccidendolo, con l’utilizzo di munizioni vere, durante una protesta nel villaggio di al-Mughayyir, nella Cisgiordania occupata.

Era elettrizzato per la festa di compleanno che ci sarebbe stata più tardi la sera, soprattutto perché la famiglia Abu Alia è religiosa e non è solita fare festeggiamenti.

Ma il padre di Ali, Ayman, aveva fatto sapere a sua moglie che questa volta gli avrebbero organizzato una festa.

Ali era molto eccitato e ha chiesto a sua madre di preparare la torta per la sera. Ma il suo destino è mangiare la torta in un altro luogo [in paradiso] “, afferma Ayman, 40 anni, ad Al Jazeera da al-Mughayyir, a nord-est di Ramallah.

Secondo le informazioni ottenute da Defense for Children International Palestine (DCIP)[ONG con sede a Ginevra impegnata nella salvaguardia dei diritti dei bambini, ndtr.] le forze di occupazione israeliane hanno sparato ad Ali all’addome mentre osservava gli scontri tra i giovani palestinesi e le forze israeliane all’ingresso del villaggio.

Proprio come in gran parte della Cisgiordania, ogni settimana ad al-Mughayyir si svolgono proteste contro gli insediamenti israeliani.

Un’ambulanza ha trasferito Ali Abu Alia in un ospedale di Ramallah dove un medico ne ha dichiarato la morte poco dopo il suo arrivo.

Ittaf Abu Alia, un parente, ha detto ad Al Jazeera che dopo aver appreso la notizia la madre di Ali è svenuta e la famiglia ha cercato uno psicologo per tentare di calmarla.

Si è affermato che altri quattro palestinesi sono stati feriti da proiettili di metallo rivestiti di gomma.

Venerdì gli organi di informazione hanno riferito che un portavoce dell’esercito israeliano ha negato che durante la protesta siano state usate munizioni vere.

Ali non sarà l’ultimo ragazzo ad essere ucciso”

Ayman descrive Ali come “il ragazzo più tranquillo”, amichevole, pieno di gioia, con un sorriso che non lasciava mai il suo viso.

Trascorreva la maggior parte del tempo a giocare a calcio con i suoi amici o a pascolare le pecore con il nonno.

Mi manca tutto di lui – il suo sorriso, le sue risate e la gioia nei suoi occhi quando la sua squadra [di amici] vinceva una partita di calcio. Ha lasciato nel cuore della sua famiglia un vuoto che nessuno può colmare”, dice Ayman.

“La sua morte è caduta come un fulmine a ciel sereno sulla nostra casa, ma non è il primo ragazzo palestinese [ad essere ucciso] e non sarà l’ultimo”.

Secondo il DCIP Ali è il quinto minore palestinese della Cisgiordania ad essere ucciso quest’anno dalle forze israeliane con munizioni vere ed è il secondo omicidio documentato ad al-Mughayyir negli ultimi anni.

Nel febbraio 2018 ad al-Mughayyir le forze israeliane hanno sparato, uccidendolo, al sedicenne Laith Abu Naim, dopo che egli aveva lanciato una pietra contro un veicolo militare, ha dichiarato venerdì il DCIP. Il proiettile di metallo rivestito di gomma è penetrato nella parte sinistra della sua fronte e si è fermato nel cervello.

Secondo il diritto internazionale, [l’uso della] forza letale intenzionale è giustificata solo quando c’è una minaccia diretta per la vita o per lesioni gravi, ma le indagini del DCIP rivelano che le forze israeliane usano la forza letale contro i minori palestinesi in circostanze ingiustificate, il che può equivalere a uccisioni extragiudiziali.

Ayed Abu Eqtaish, direttore del DCIP, venerdì ha detto che le forze israeliane violano regolarmente il diritto internazionale usando la forza letale contro i minori palestinesi senza giustificazione.

“Come quasi ogni altro caso riguardante l’uccisione illegale di minori palestinesi da parte delle forze israeliane, l’impunità sistemica come norma garantisce che l’autore del reato non sia mai ritenuto responsabile da parte delle autorità israeliane”, ha sostenuto Abu Eqtaish.

“Siamo costantemente presi di mira”

Ciò che infastidisce di più Ayman è come alcune persone siano apparse scandalizzate quando hanno saputo dell’uccisione di un quindicenne.

“Questa non è una novità … Siamo continuamente presi di mira – le nostre pecore, le nostre case e i nostri figli – se non dall’esercito israeliano, dai coloni”, afferma Ayman.

Secondo il DCIP, gli abitanti di al-Mughayyir tengono regolari manifestazioni di protesta contro il vicino avamposto israeliano illegale Malachei HaShalom, insediato sulle terre del villaggio nel 2015.

Ayman riferisce che nel loro quartiere sono state finora incendiate dai coloni due moschee: la moschea Al Kabeer e la moschea Abu Bakir. Suo figlio di 17 anni, Bassam, è stato ferito due volte prima dai coloni israeliani e poi dall’esercito israeliano.

Ogni venerdì, i coloni israeliani compaiono nelle strade di al-Mughayyir e iniziano ad attaccare gli abitanti palestinesi, lanciando pietre contro di loro o contro le loro auto. È tutto fatto con l’intenzione di “privarci della nostra libertà e identità“, dice Ayman.

“Il mondo sa cosa sta succedendo, ma nessuno agisce … Ali non è il primo a morire senza motivo e non sarà l’ultimo. È una lotta continua e sarà sempre la stessa storia fino a quando l’occupazione non sarà finita”, afferma Ayman.

Ripeterò ciò che Ali diceva sempre: che Dio ci conceda la pazienza di sopportare [l’occupazione]”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’espulsione di palestinesi a Sheikh Jarrah è parte della politica israeliana

Linah Alsaafin

20 novembre 2020 – Al Jazeera

La minaccia di espulsione dalle proprie case incombe sulla testa di almeno una decina di famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah, quartiere della Gerusalemme est occupata, paralizzando ogni progetto per il futuro.

Ad ottobre il tribunale israeliano di Gerusalemme ha sentenziato di espellere 12 delle 24 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah e di consegnare le loro case a coloni ebrei israeliani. Il tribunale ha anche stabilito che ogni famiglia deve pagare ai coloni 70.000 shekel (circa 17.000 euro) di spese processuali.

Alle famiglie sono stati concessi 30 giorni per presentare appello, ma la maggioranza ha espresso scarse speranze in una sentenza a proprio favore, affermando che il sistema giudiziario israeliano non è altro che uno strumento della politica di occupazione israeliana di espulsione forzata e cancellazione della presenza palestinese a Gerusalemme.

Dall’ordine di espulsione abbiamo vissuto con il timore giornaliero di non sapere quando l’esercito israeliano arriverà e ci caccerà dalle nostre case,” dice Ahmad Hammad, un abitante di Sheikh Jarrah.

Tutti i miei ricordi sono qui. Sono nato qui e mio padre, le mie zie e zii, i miei nonni hanno vissuto in questa casa.”

Una macchina coloniale ben oliata”

Sheikh Jarrah, che si trova alle falde del Monte Scopus, subito a nord della Città Vecchia, ospita 3.000 palestinesi, tutti rifugiati che erano stati espulsi dalle loro case in altre parti della Palestina storica durante la Nakba [la Catastrofe in arabo, la pulizia etnica ad opera delle forze sioniste, ndtr.] nel 1948.

Il quartiere è una giustapposizione di zone ricche e povere, sede della Colonia Americana [fondata nel 1881 da membri di una società utopica cristiana, ndtr.] e degli hotel Ambassador. Ma la parte in cui vivono i rifugiati e i loro discendenti è segnata da strade non asfaltate e da case che sono in rovina a causa del fatto che il Comune di Gerusalemme impedisce ogni tipo di lavoro di ristrutturazione.

I rifugiati, 28 famiglie cacciate dalle loro case da Israele, poterono risistemarsi a Sheikh Jarrah nel 1956, dopo che la Giordania, che aveva un mandato sulla parte orientale di Gerusalemme, vi costruì case popolari per loro. Un accordo tra le Nazioni Unite e la Giordania stabiliva che le famiglie avrebbero ricevuto le case in cambio della rinuncia alla loro condizione di rifugiati con l’agenzia ONU per i rifugiati e che dopo tre anni il governo giordano avrebbe trasferito il titolo di proprietà alle famiglie.

Tuttavia ciò non avvenne e nel 1967 Israele si impossessò di Gerusalemme est.

Secondo Fayrouz Sharqawi, direttore della mobilitazione globale di “Grassroots Jerusalem” [Gerusalemme di base, associazione della società civile gerosolimitana, ndtr.], è “assurdo” basarsi sul sistema giudiziario israeliano per proteggere i diritti dei palestinesi.

Questo sistema è parte integrante dello Stato colonialista sionista, definito ‘Stato ebraico’, e di conseguenza opprime, spoglia ed espelle sistematicamente i palestinesi,” dice ad Al Jazeera.

Sentenze che sospendono momentaneamente gli ordini di espulsione o di demolizione servono solo ad Israele, in quanto creano l’illusione che sia uno Stato democratico in cui i tribunali ritengono responsabili il governo o l’esercito e impediscono le violazioni dei diritti dei palestinesi,” aggiunge.

Sharqawi dice che persino nel migliore degli scenari più di 70 anni di occupazione dimostrano che le decisioni dei tribunali rimandano ma raramente annullano questi ordini, che prima o poi sono messi in pratica. “I palestinesi, soprattutto a Gerusalemme, devono affrontare una macchina colonialista ben oliata: l’esercito e il sistema burocratico e giudiziario israeliani, che lavorano congiuntamente per la spoliazione ed espulsione dei palestinesi,” afferma.

Le espulsioni sono parte dell’“equilibrio demografico” israeliano

Per quanto riguarda Hammad, egli conosce fin troppo bene la situazione.

Non sono ottimista riguardo all’appello,” afferma. “Sento che ci vorrà più tempo, ma solo perché accada l’inevitabile. Abbiamo tutti i documenti e le prove necessari,” aggiunge. “Ma la sensazione prevalente è di timore e di vedere le nostre case tolte e assegnate ai coloni.”

Dagli anni ’70 il governo israeliano ha lavorato per mettere in pratica a Gerusalemme un “equilibrio demografico” con un rapporto di 70 a 30, limitando la popolazione palestinese in città al 30% o meno.

Questo progetto urbano è stato messo in atto attraverso una serie di politiche come la confisca di terreni, le espulsioni e la colonizzazione dei quartieri palestinesi.

Il 26 novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha autorizzato l’espulsione di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa, nel quartiere di Silwan di Gerusalemme est occupata, a favore dell’organizzazione di coloni israeliani “Ateret Cohanim”[organizzazione che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme est, ndtr.].

Gli 87 abitanti palestinesi di Batan al-Hawa hanno vissuto nelle loro case dal 1963. Dopo aver iniziato un procedimento giudiziario contro gli abitanti, “Ateret Cohanim” ha insediato 23 famiglie israeliane, pesantemente protetti, tra gli 850 abitanti palestinesi.

Altre organizzazioni di coloni, alcune finanziate da singoli cittadini statunitensi, includono [quella del quartiere religioso ebraico di] Nahalat Shimon e l’Israel Land Fund [Fondo per la Terra di Israele, storica organizzazione sionista che si occupa dell’acquisto e dello sfruttamento a favore degli ebrei delle terre in Palestina, ndtr.].

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), nel solo 2020 nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, sono state demolite 689 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

Indiscutibilmente politico”

Per Mohammed al-Kurd, poeta e scrittore di Sheikh Jarrah che attualmente studia a New York, le evizioni di palestinesi, che descrive come “espulsioni forzate”, non sono solo un evento isolato.

È il percorso di un movimento di spoliazione duratura,” dice ad Al Jazeera.

Dobbiamo sempre costantemente ricordare alla gente che non si tratta solo di qualche povera famiglia palestinese (che) per qualche bizzarra ragione giuridica perde la sua proprietà. Ciò riguarda centinaia di migliaia di palestinesi in tutta Gerusalemme e nelle città vicine, nella Palestina in generale, che devono affrontare le feroci zanne di un sistema giudiziario concepito intrinsecamente per cacciarli.”

Al-Kurd aveva solo 11 anni quando nel novembre 2009 alcuni coloni ebrei occuparono con la forza metà della sua casa e descrive il fatto di aver dovuto condividerla con “occupanti abusivi con accento di Brooklyn” come “insopportabile, intollerabile (e) terribile.”

Si sono piazzati nella nostra casa, tormentandoci, maltrattandoci, facendo il possibile non solo per obbligarci ad andarcene dalla nostra metà della casa ma spingendo anche i nostri vicini a lasciare le proprie case come parte di un tentativo di annullare totalmente la presenza palestinese a Gerusalemme,” dice.

Haddad, cresciuto con al-Kurd, afferma che è difficile pensare e pianificare il futuro.

Non so quello che succederà se ci cacciano,” dice. “Questa sentenza è arrivata in un momento in cui la vita è arrivata a un punto morto a causa della pandemia da coronavirus.

Andiamo avanti alla giornata,” continua. “Anche se decidessimo di piantare una tenda fuori dalla nostra casa e viverci, il governo israeliano non ce lo consentirebbe.”

Al-Kurd sostiene che la sua famiglia non può permettersi di affittare un posto a Gerusalemme e l’unica alternativa sarà andare nella Cisgiordania occupata, dove perderanno la residenza a Gerusalemme e non potranno ritornare in città.

Questo è il problema più generale qui,” spiega. “Sono le demolizioni di case, le espulsioni forzate, le evizioni, ma è anche un problema psicologico, perdere la possibilità di rientrare a Gerusalemme.

Israele ha fatto in modo che questo sembri una specie di problema giuridico, ma non lo è, è indiscutibilmente politico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




ONU: nella Striscia di Gaza assediata oltre un milione di palestinesi sono sotto la soglia di povertà

Barbara Bibbo

25 novembre 2020, Al-Jazeera

Il rapporto delle Nazioni Unite chiede la fine dell’assedio israeliano che dura da 13 anni e ha paralizzato ogni attività economica nell’enclave costiera.

Ginevra, Svizzera – Secondo un nuovo rapporto delle Nazioni Unite il blocco imposto da Israele alla Striscia di Gaza è costato all’enclave palestinese più di 16 miliardi di dollari e in poco più di 10 anni ha ridotto più di un milione di persone sotto la soglia della povertà.

Il documento fornito mercoledì all’Assemblea Generale dell’ONU dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) copre gli anni tra il 2007 e il 2018.

Vi si chiede la cessazione immediata del lungo assedio, che ha causato un crollo quasi totale delle attività economiche a Gaza e un tasso di povertà del 56%.

“La situazione è destinata a peggiorare se il blocco continua”, ha detto Mahmoud Elkhafif, coordinatore dell’Assistenza al Popolo Palestinese dell’UNCTAD.

Questo blocco ingiusto che tiene chiusi due milioni di palestinesi all’interno di Gaza dovrebbe essere immediatamente revocato. Dovrebbero essere autorizzati a muoversi liberamente, fare affari, commerciare con il mondo esterno e riconnettersi con le loro famiglie al di fuori della Striscia”, ha aggiunto Elkhafif.

Dal giugno 2007 gli abitanti di Gaza sono confinati nell’enclave di 365 chilometri quadrati della Striscia e soggetti ad embargo terrestre, aereo e marittimo. L’ingresso delle merci è stato ridotto al minimo, il commercio con l’estero e le esportazioni sono bloccati. Nel frattempo, la popolazione ha un accesso molto limitato all’acqua potabile e manca di una normale fornitura elettrica e anche di un sistema fognario adeguato.

“Fino a che i palestinesi della Striscia non avranno accesso al mondo esterno, per la società palestinese di Gaza è difficile vedere altro che un destino di sottosviluppo”, ha detto Richard Kozul-Wright, direttore della Divisione Globalizzazione e Strategie di Sviluppo dell’UNCTAD. “È davvero scioccante che nel XXI secolo due milioni di persone possano essere lasciate in quelle condizioni”.

Oltre al prolungato blocco e alle restrizioni da parte del vicino Egitto, l’enclave gestita da Hamas ha subito tre interventi militari israeliani, nel 2007, 2012 e 2014, che hanno gravemente danneggiato le infrastrutture civili e causato numerose vittime.

Secondo il rapporto dell’UNCTAD almeno 3.793 palestinesi sono stati uccisi, circa 18.000 feriti e più della metà della popolazione di Gaza è sfollata.

Più di 1.500 imprese commerciali e industriali sono state danneggiate, insieme a circa 150.000 unità domestiche e infrastrutture pubbliche tra cui quelle per energia, acqua, servizi igienico-sanitari, e poi strutture sanitarie e scolastiche ed edifici governativi.

Come risultato dell’assedio e delle guerre contro Gaza, il tasso di povertà è balzato dal 40 % nel 2007 al 56% nel 2017, il che significa che più di 1 milione di palestinesi non hanno mezzi di sopravvivenza. Il rapporto stima che portare questa parte della popolazione al di sopra della soglia di povertà richiederebbe un’iniezione di fondi per un importo di 838 milioni di dollari, quattro volte l’importo necessario nel 2007.

Tra il 2007 e il 2018 l’economia di Gaza è cresciuta meno del 5% e la sua quota nell’economia palestinese è diminuita dal 31% al 18% nel 2018. Di conseguenza, il PIL pro capite si è ridotto del 27%.

Nel frattempo, l’isolamento della Striscia non ha impedito alla pandemia di coronavirus di raggiungere Gaza, aggravando una situazione già critica. Allo scorso lunedì, 14.768 persone avevano contratto il COVID-19, con 65 morti.

Lunedì, le autorità sanitarie di Gaza avevano segnalato il pericolo di una catastrofe imminente se Israele avesse continuato a bloccare l’accesso agli aiuti umanitari, nonché l’ingresso delle attrezzature sanitarie e delle forniture mediche necessarie. Gli ospedali e il personale sanitario necessitano di indumenti protettivi, ventilatori e letti.

“La crisi sanitaria sta rendendo evidenti le condizioni di base, peggiorate da oltre un decennio”, ha detto Kozul-Wright.

Parlando a Ginevra agli inviati delle Nazioni Unite, il funzionario dell’UNCTAD si è detto fiducioso che sotto la nuova amministrazione statunitense del presidente eletto Joe Biden ci sarebbe stato un cambiamento nelle relazioni israelo-palestinesi.

Nel 2018, l’amministrazione Trump aveva sospeso i finanziamenti all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che sostiene cinque milioni di rifugiati palestinesi a Gaza, nella Cisgiordania occupata, in Libano, Siria e Giordania.

Il taglio di 200 milioni di dollari è stato un colpo enorme per l’economia palestinese. Sarà interessante vedere se la nuova amministrazione annullerà quella decisione nei confronti dell’UNRWA ”, ha detto Kozul-Wright. “Tuttavia, anche prima del 2016, i diritti umani dei palestinesi e il diritto internazionale codificati dalla risoluzione delle Nazioni Unite sono stati ignorati e le tensioni politiche erano alte”.

Il rapporto chiede la fine del blocco nel contesto della risoluzione 1860 del Consiglio di sicurezza (8 gennaio 2009) per consentire il reintegro dell’economia di Gaza con il resto del mondo e la ricostruzione di tutte le infrastrutture essenziali.

Chiede anche il ripristino dei diritti umani fondamentali per gli abitanti di Gaza, il loro diritto alla libera circolazione, all’assistenza sanitaria, allo studio e al lavoro e raccomanda che allo Stato Palestinese sia permesso di sfruttare i giacimenti di gas naturale scoperti negli anni ’90 nelle acque territoriali palestinesi al largo della costa di Gaza.

Queste entrate consentirebbero una tregua finanziaria e un finanziamento per la ricostruzione delle infrastrutture essenziali.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gaza dichiara il disastro da COVID-19 con un sistema sanitario prossimo al collasso

Walid Mahmoud

23 novembre 2020 – ALJAZEERA

Con la mancanza di ventilatori, DPI e medicine, le autorità affermano che l’assedio di Israele rappresenta una “condanna a morte” per i malati di coronavirus di Gaza.

Gaza City – Le autorità sanitarie avvertono che un rapido incremento delle infezioni da coronavirus nella Striscia di Gaza ha raggiunto un “livello catastrofico” e che il sistema sanitario dell’enclave palestinese assediata rischia l’imminente collasso.

Il COVID si sta diffondendo in modo esponenziale a Gaza – uno dei luoghi più affollati della Terra – soprattutto nei campi profughi, e il ministero della Salute ha lanciato l’allarme sulle “disastrose” conseguenze.

Il dottor Fathi Abuwarda, consigliere del ministero della Salute, ha detto ad Al Jazeera che il recente picco di infezioni potrebbe presto diventare incontrollabile, con centinaia di persone che contraggono il virus ogni giorno e nessun posto dove curarle.

“Siamo entrati nella fase della catastrofe e se continuiamo in questo modo, il sistema sanitario crollerà“, ha detto Abuwarda. “La soluzione migliore è un blocco totale per 14 giorni, che consentirebbe alle squadre mediche di controllare e combattere il virus, tendendo aperti solo i negozi di alimentari“.

Abuwarda afferma che il ministero della Salute ha destinato l’ospedale europeo di Gaza per la cura dei pazienti da COVID-19, ma che la capacità dell’ospedale è insufficiente, dato che sono già occupati 300 dei suoi 360 posti letto.

Nella Striscia di Gaza – ha detto – ci sono circa 500 posti letto sparsi per l’enclave costiera…. Ma considerando che a Gaza per ogni chilometro quadrato vivono circa 5.000 palestinesi, questi ospedali non sono in grado di ospitare tutti i casi”.

Anche la mancanza di kit per il test del coronavirus e di dispositivi di protezione individuale (DPI) complica la lotta, poiché Israele continua a imporre restrizioni sulle forniture sanitarie che raggiungono Gaza.

Gaza si trova da più di 13 anni sotto uno stretto assedio di terra, aria e mare da parte di Israele ed Egitto, tagliata fuori dal resto del mondo. Le iniziali speranze che l’isolamento di Gaza l’avrebbe risparmiata dalla pandemia sono state deluse, dal momento che la sovrappopolata regione costiera si trova in grave pericolo a causa di un sistema sanitario fatiscente che non è in grado di gestire l’assalto dei pazienti.

Al 24 agosto nella Striscia di Gaza solo quattro palestinesi risultavano stati infettati dal virus. Fino a lunedì scorso 14.768 persone hanno contratto il COVID-19, con 65 morti. Il numero di casi critici si attesta a 79.

“Una catastrofe imminente”

Le autorità affermano che l’assedio di Israele è una condanna a morte per i malati di COVID-19 di Gaza.

“Nella Striscia di Gaza mancano macchinari per la generazione di ossigeno, ventilatori, equipaggiamento protettivo e materiali per l’igiene”, ha detto il dott. Basim Naim, responsabile delle relazioni internazionali nel governo guidato da Hamas.

“Il 32% dei farmaci di base e il 62% dei farmaci e dei materiali per i laboratori medici non sono disponibili”.

L’ex ministro della Salute ha chiesto alla comunità internazionale e alle agenzie umanitarie di intervenire immediatamente per fermare la “catastrofe imminente”, accusando Israele di limitare l’ingresso delle forniture sanitarie con “il pretesto della sicurezza”.

“La leadership di Hamas non accetterà la morte del popolo palestinese né per fame né consentendone la morte per la pandemia”, ha detto Naim. “Chiediamo alla comunità internazionale di fornirci le risorse finanziarie indispensabili per acquistare tutti gli strumenti necessari per combattere il virus”.

Salama Marouf, a capo dell’ufficio informazioni del governo, ha sottolineato l’esigenza di portare ventilatori salvavita a Gaza. Ha aggiunto che “tutte le misure sono ora sul tavolo, incluso un blocco completo” per tenere i contagi sotto controllo.

Le autorità affermano che, nonostante la mediazione egiziana, Israele si rifiuta ancora di consentire l’ingresso a Gaza dei ventilatori, subordinando la concessione di tale autorizzazione alla restituzione dei corpi dei soldati trattenuti da Hamas dalla guerra israeliana contro Gaza del 2014.

La Striscia di Gaza – un’area costiera lunga 100 km che ospita oltre 2,1 milioni di palestinesi – è stata una delle ultime regioni al mondo ad essere colpita dal COVID-19.

Ma molte persone qui hanno ignorato il consiglio di indossare le mascherine, hanno tenuto grandi feste di matrimonio e proteste contro l’occupazione israeliana e continuano ad interagire nel corso di riunioni di massa.

Abuwarda ha evidenziato lo “scarso impegno” dei palestinesi quando si tratta di indossare le mascherine, di praticare il distanziamento e un’igiene adeguata. “Dobbiamo contare sulla consapevolezza delle persone per fermare la diffusione del virus”, ha detto.

Misure drastiche

L’afflusso di pazienti affetti da coronavirus negli ospedali appropriati minaccia anche quelli destinati ad altre patologie.

“Questi ospedali non sono del tutto preparati per affrontare i pazienti da COVID-19 e ciò avrà un impatto negativo sul servizio sanitario fornito ai pazienti normali”, ha detto Naim.

Molti palestinesi erano favorevoli a che il governo adottasse misure drastiche per frenare la rapida diffusione del coronavirus.

Ma alcuni responsabili affermano di non poter imporre un blocco generale poiché i bisogni minimi essenziali delle persone rimarrebbero insoddisfatti a causa del deterioramento della situazione economica.

Ahmad Abu Mustapha, 35 anni, proprietario di un negozio di apparecchiature elettriche, chiede al governo di applicare un blocco totale per “consentire di salvare vite umane”, anche se ciò imporrebbe sofferenze sul piano economico.

Temiamo per noi stessi, per le nostre famiglie e per i bambini. Vogliamo un blocco totale anche se questo ci danneggierebbe economicamente”, ha detto Mustapha.

Il giornalista Hassan Islayih, 32 anni, concorda sulla necessità di interrompere gli spostamenti all’interno della Striscia di Gaza, sottolineando che “la presa di coscienza della gente non è come dovrebbe essere”.

Oggi – sostiene – la situazione è pericolosa. Alcune persone perderanno il lavoro, il che è triste, ma non c’è altra soluzione che un blocco totale”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Palestinese detenuto da Israele interrompe lo sciopero della fame dopo 103 giorni

6 novembre 2020 – Al Jazeera

Maher ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione di quattro mesi, che termina il 26 novembre ma potrebbe essere prolungata.

Un palestinese incarcerato a luglio da Israele perché presunto membro di un gruppo armato ha interrotto lo sciopero della fame dopo 103 giorni, ha affermato la moglie.

Maher al-Akhras, 49 anni, è stato arrestato nei pressi della città di Nablus, nella Cisgiordania occupata, e posto in detenzione amministrativa, una politica che Israele utilizza per incarcerare sospetti senza accuse.

Venerdì [6 novembre] sua moglie Taghrid ha detto all’agenzia di notizie AFP che Maher “dopo 103 giorni ha interrotto lo sciopero della fame.”

In una telefonata dall’ospedale di Rehovot, una città israeliana a sud di Tel Aviv in cui suo marito è in cura, ha detto di essere “contenta” per la decisione, ma ancora “preoccupata” date le sue gravissime condizioni di salute.

Non ci sono stati commenti immediati da parte delle autorità israeliane in merito a se hanno offerto qualche garanzia particolare a Maher, ricoverato in un ospedale israeliano per problemi di cuore e convulsioni, secondo sua moglie.

In precedenza, sempre venerdì, Taghrid ha detto che Maher stava per morire, con gravi spasmi ed emicrania.

L’agenzia israeliana per la sicurezza interna Shin Bet afferma che Maher è stato arrestato in seguito a informazioni secondo cui egli sarebbe un militante dell’organizzazione armata Jihad Islamica, un’accusa che la moglie smentisce.

Padre di sei figli, ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro il suo ordine di detenzione di quattro mesi, che finisce il 26 novembre, ma potrebbe essere prolungato.

Maher aveva giurato che avrebbe continuato a rifiutare cibo solido nonostante la decisione della Corte Suprema israeliana ad ottobre di non prolungare la sua detenzione oltre quella data.Ma, dopo aver ricevuto quella che essa ha definito “un forte impegno (da parte di Israele) di non rinnovare la sua detenzione amministrativa… Maher Al-Akhras ha deciso di porre fine allo sciopero della fame,” ha detto venerdì in un comunicato il Palestinian Prisoners Club [associazione indipendente di ex-detenuti palestinesi, ndtr.], che opera a favore dei prigionieri.

Passerà in cura nell’ospedale il periodo [di detenzione] fino al suo rilascio,” aggiunge il comunicato.

Cinque membri della Lista Araba Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] nel parlamento israeliano, che hanno visitato Maher in ospedale, hanno diffuso su Facebook l’annuncio della fine dello sciopero della fame.

Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha chiesto il suo immediato rilascio, mentre palestinesi e cittadini palestinesi di Israele hanno manifestato in suo favore.

Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, nell’agosto di quest’anno erano circa 355 i palestinesi, compresi due minorenni, detenuti per ordini di detenzione amministrativa.

Molti prigionieri palestinesi affermano di essere stati sottoposti a torture e violenze mentre erano in prigione. Negli ultimi anni ci sono state molte proteste, tra cui parecchi scioperi della fame, contro le pessime condizioni carcerarie.

Molti detenuti soffrono anche per la scarsa assistenza sanitaria nelle prigioni. I carcerati devono pagare per l’assistenza medica e non gli vengono fornite cure adeguate.

Al Jazeera ha in precedenza informato che molti hanno ricevuto antidolorifici come cure e come trattamento per malattie croniche.

Secondo Addameer, organizzazione che aiuta i prigionieri, da settembre 4.400 prigionieri politici palestinesi, tra cui 39 donne e 155 minorenni, sono stati incarcerati nelle prigioni israeliane.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Adolescente palestinese muore dopo essere stato “percosso dai soldati israeliani”

25 ottobre 2020 – Al Jazeera

Il direttore del centro medico dice che Snobar è morto per le ferite al collo subite mentre veniva picchiato dalle forze israeliane.

Secondo diverse fonti di informazione palestinesi un adolescente palestinese è morto a causa delle ferite riportate dopo essere stato percosso dai soldati israeliani vicino alla città di Turmus-Ayya, a nord-est di Ramallah.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che Amer Abedalrahim Snobar sarebbe arrivato in ospedale dopo essere stato “colpito duramente al collo”.

Ahmed al-Bitawi, direttore del Palestine Medical Complex [complesso sanitario situato a Ramallah comprendente 5 ospedali con varie specializzazioni cliniche, ndtr.], ha confermato domenica mattina ai notiziari palestinesi che Snobar sarebbe morto a causa delle ferite riportate in seguito ad unaggressione da parte di soldati israeliani.

“Sul collo di Snobar c’erano segni visibili di percosse”, ha detto Bitawi.

Il centro medico ha riferito che le ferite sul collo di Snobar sarebbero compatibili con percosse inferte dai soldati israeliani con il calcio dei fucili.

In una dichiarazione, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha accusato le truppe israeliane di “un mostruoso atto di brutalità contro un giovane indifeso il cui unico crimine era essere palestinese”.

L’importante esponente dell’OLP Hanan Ashrawi ha sostenuto nella sua dichiarazione che Snobar è stato “brutalmente percosso” dalle truppe israeliane.

Snobar proveniva dal villaggio di Yatma, a sud della città occupata di Nablus, in Cisgiordania.

I membri di un’equipe di una ONG sanitaria hanno detto alle fonti di informazione palestinesi locali di aver tentato di eseguire la rianimazione cardiaca su Snobar prima di trasferirlo al centro medico.

L’esercito israeliano ha sostenuto che i soldati avrebbero risposto in seguito ad un episodio avvenuto a nord di Ramallah, dopo che sarebbero state lanciate delle pietre contro un veicolo dell’esercito.

Nel comunicato dell’esercito si legge che delle truppe di stanza “nella zona sono state inviate sul posto e hanno setacciato la zona alla ricerca di aggressori”.

“I primi dati emersi indicano che all’arrivo dei soldati … i due sospettati hanno cercato di scappare a piedi”, sostiene. “Durante la fuga, uno dei sospetti apparentemente ha perso conoscenza, è crollato a terra e ha battuto la testa. Il sospetto non è stato colpito dalle truppe delle IDF [esercito israeliano, ndtr.]”.

In una dichiarazione, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra, ha affermato che l’omicidio di Snobar sarà una “maledizione che continuerà a perseguitare i traditori arabi” – in riferimento ai recenti accordi di normalizzazione da parte di Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan .

Il comunicato afferma che “la risposta a questo crimine efferato è la revoca del riconoscimento dell’entità sionista e di tutti gli accordi che ne sono derivati, e la formazione di una leadership nazionale unificata in grado di guidare la resistenza popolare contro l’occupazione sionista”.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)