L’ANP prospetta uno Stato demilitarizzato come controproposta al piano Trump

Ali Younes

9 giugno 2020 – Al Jazeera

I palestinesi inviano una risposta ai mediatori sul piano americano, il quale favorisce Israele con l’annessione di parti della Cisgiordania occupata.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) afferma di aver inviato ai mediatori internazionali una controproposta al piano mediorientale del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, proponendo l’istituzione di uno Stato palestinese demilitarizzato e sovrano nella Cisgiordania occupata, Gerusalemme est e Gaza.

Martedì, nel corso di una conferenza stampa con giornalisti stranieri, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha affermato che la proposta è stata presentata al Quartetto, un organo internazionale composto da Nazioni Unite, Unione Europea, Stati Uniti e Russia che ha il compito di mediare i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi.

Secondo Shtayyeh, la proposta palestinese mira alla creazione di uno “Stato palestinese sovrano, indipendente e demilitarizzato”, con Gerusalemme est come capitale. Inoltre lascia aperta la porta a modifiche dei confini tra lo Stato proposto e Israele, così come a scambi di aree di territorio uguali “per dimensioni, volume e valore – uno contro uno”.

Nessun altro dettaglio è al momento disponibile.

La proposta palestinese è arrivata in risposta al controverso piano di Trump che dà il via libera all’annessione da parte di Israele di ampie zone della Cisgiordania occupata, comprese le colonie illegali e la Valle del Giordano.

Presentato alla fine di gennaio, il piano di Trump propone l’istituzione di uno Stato palestinese demilitarizzato sul restante mosaico di parti sconnesse dei territori palestinesi senza Gerusalemme est, che i palestinesi vogliono come capitale del loro Stato.

I palestinesi hanno respinto il piano di Trump in quanto del tutto fazioso a favore di Israele e hanno minacciato di ritirarsi dagli accordi di Oslo.

La leadership palestinese aveva già tagliato i rapporti con l’amministrazione Trump nel 2017 a proposito della sua posizione pro-Israele, compreso il suo riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento lì dell’ambasciata americana nel maggio 2018.

La prevista annessione da parte israeliana priverebbe i palestinesi delle principali risorse agricole di terra e acqua, specialmente nella regione della Valle del Giordano. Inoltre affosserebbe definitivamente la soluzione dei due Stati al conflitto arabo-israeliano basata sull’idea di terra in cambio della pace.

Shtayyeh ha avvertito che se il governo israeliano andasse avanti con la prevista annessione, “il governo palestinese annuncerà la costituzione dello Stato [previsto] e l’istituzione di un Consiglio” che svolgerebbe le funzioni di Parlamento.

Questi sforzi, ha detto ad Al Jazeera, mirano a contrastare le politiche sia israeliane che statunitensi volte a minare il “diritto” palestinese ad uno Stato indipendente e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che furono espulsi con la forza dalle loro case e città quando fu fondato Israele nel 1948.

Wasel Abu Yousef, alto dirigente e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), ha descritto l’annuncio di martedì come “parte di diversi passi su cui sta lavorando la leadership palestinese, come raggiungere l’unità palestinese, boicottare i prodotti israeliani e portare avanti presso la Corte Penale Internazionale (CPI) le incriminazioni per crimini di guerra di Israele per la sua guerra contro Gaza del 2014”.

Abu Yousef ha affermato che la leadership palestinese non ha altra scelta se non quella di controbattere agli obiettivi statunitensi e israeliani di negare ai palestinesi i loro diritti e di respingere le attuali proposte di “pace” che vanno ben al di sotto delle richieste dei palestinesi.

“Nessun leader palestinese – ha detto – può essere d’accordo con le condizioni poste da americani e israeliani di dover rinunciare ai diritti o al ritorno dei rifugiati palestinesi, accettando l’annessione di Gerusalemme o permettendo a Israele di annettere parti della Cisgiordania dove ha costruito le sue illegali colonie ebree”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Impunità e annessioni: “Israele vuole far man bassa”

Mersiha Gadzo,

3 giugno 2020 Al Jazeera

Secondo gli analisti, Israele gode di impunità per la mancanza di volontà della politica internazionale ad oobbligarlo ad assumersi le sue responsabilità

Il governo israeliano ha dichiarato che l’annessione degli insediamenti illegali ebraici nella Cisgiordania occupata, così come quelli nella fertile Valle del Giordano, potrebbe iniziare già a partire dal 1 luglio.

Mentre i dettagli del piano di annessione rimangono vaghi, il primo ministro Benjamin Netanyahu recentemente confermato aveva dichiarato l’intenzione di annettere la Valle del Giordano durante la campagna elettorale dello scorso anno.

Da allora, gli Stati Uniti han proposto il loro piano per la pace in Medio Oriente che prevede la sovranità israeliana sugli insediamenti nei Territori Occupati, illegali secondo il diritto internazionale, e Netanyahu ha da allora ribadito le sue promesse.

Molte nazioni, tra cui gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno sconsigliato tale mossa, facendo notare come un’annessione unilaterale violerebbe il diritto internazionale e sarebbe un colpo devastante per la prospettiva di una soluzione a due Stati al conflitto Israelo-Palestinese.

A maggio il responsabile della politica estera dell’Unione Europea ha detto che l’Unione userà “tutte le proprie facoltà diplomatiche” per cercare di dissuadere il governo Israeliano a procedere col suo piano.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha rifiutato il progetto statunitense e ha recentemente dichiarato che considera nulli e privi di valore qualunque accordo precedentemente sottoscritto con Stati Uniti e Israele.

L’annessione unilaterale di un territorio è tassativamente vietata dal diritto internazionale, senza alcuna eccezione. Ma se l’Unione Europea è compatta nella sua opposizione all’annessione, rimane divisa su quali passi intraprendere, facendo sì che la sua risposta rimanga limitata alla retorica e alle condanne verbali.

Lezioni dalla storia

Uno scenario simile si verificò già nel 1980, quando Israele annetté Gerusalemme Est e poi nel 1981 le alture del Golan siriane.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU asserì che avrebbe implementato sanzioni economiche e politiche contro Israele, ma alle parole non seguirono i fatti.

Quattro decenni più tardi, la comunità internazionale continua a dibattere su come rispondere al piano israeliano di annettere circa un terzo dei Territori Occupati.

Non saremmo qui nel 2020 a discutere di questo se nel 1980 e nel 1981 si fossero tracciati dei confini certi” dichiara ad Al Jazeera Michael Lynk, inviato speciale dell’ONU per la situazione dei diritti umani nei Territori Occupati palestinesi.

Israele ha imparato una lezione irrefutabile per quanto concerne l’impunità – che la comunità internazionale farà passare risoluzioni contro l’annessione, adotterà risoluzioni sull’illegalità di costruire imprese coloniali, ma nonostante ciò la comunità internazionale non imporrà praticamente nessuna conseguenza ad Israele che quindi potrà, nei fatti, far man bassa” ha detto Lynk.

Israele è in violazione di più di 40 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e di circa 100 risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Nel 2018 Lynk ha esortato la comunità internazionale ad agire per impedire l’imminente annessione della Cisgiordania occupata.

Nel rapporto annuale del 2019, Lynk ha ribadito che l’Assemblea Generale e la comunità internazionale hanno l’obbligo legale di assicurare che il diritto internazionale venga rispettato dai propri membri.

Ciononostante, Israele ha goduto di un regime di impunità per decenni, nonostante gravi violazioni del diritto internazionale, a causa di un’assenza di volontà politica ad addossargli “una qualunque forma significativa di responsabilità”, scrive Lynk.

Il Caso della Crimea

La comunità internazionale in passato ha dimostrato di essere capace di rispondere alle annessioni illegali, come quando ha rapidamente imposto sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia quando ha occupato e annesso la Crimea dall’Ucraina nel 2014.

La Russia è stata espulsa dal G8, la sua domanda di partecipazione all’OECD [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ndtr.] bloccata, sono stati posti blocchi all’importazione e esportazione dei beni da e per la Crimea, e le persone coinvolte nell’annessione sono state oggetto di sanzioni diplomatiche e blocco dei beni.

Tali misure sono ancora in corso, e sono state estese fino a giugno 2020, pur essendo la Russia un importante partner commerciale e un attore chiave della politica internazionale.

Lynk fa notare come Israele abbia un impatto molto meno significativo sulle economie globale ed europea.

[L’UE] potrebbe effettivamente imporre misure diplomatiche di responsabilizzazione ad Israele per assicurarsi che receda dalla decisione di annessione o per far si che si renda conto che ci sarà un prezzo da pagare se proseguisse sul percorso dell’annessione”, ha dichiarato Lynk

Ciononostante, l’UE appare alquanto divisa al suo interno sui passi da intraprendere.”

Non ci sono differenze politiche o legali significative tra l’annessione della Crimea nel 2014 e quella progettata per il 2020 di considerevole parte della Cisgiordania.”, dice Lynk

Al contrario, le relazioni tra l’UE e Israele si sono solo rafforzate.

Il commercio tra i due ha raggiunto cifre record negli ultimi anni. Nel 2017, l’export israeliano di beni verso l’UE ha raggiunto il 34% dell’export totale di Israele.

Quasi il 40% degli import israeliani arriva dall’UE, suo principale partner commerciale.

Gli Stati Uniti hanno addirittura ampliato i loro aiuti a livelli record. Nel 2016, verso la fine del mandato presidenziale di Barack Obama, gli Stati Uniti hanno accordato a Israele 38 miliardi di dollari di aiuti militari per la decade successiva, somma che Netanyahu ha definito “storica”.

Diana Buttu, un’analista di Haifa, ha detto ad Al Jazeera che il piano di Israele per l’annessione viene visto come “la ciliegina sulla torta” visto che non ci sono state conseguenze per i comportamenti illegali degli ultimi 53 anni di occupazione, che includono l’espansione degli insediamenti israeliani illegali, l’implementazione di un doppio sistema legale, l’impedimento ai palestinesi dell’accesso alle risorse naturali e i bombardamenti sulla Striscia di Gaza.

Abbiamo visto negli anni come Israele acquisti sempre più supporto internazionale da paesi in tutte le parti del mondo.”, dice Buttu.

La risposta [internazionale] è stata nulla, e questo è esattamente quello su cui scommettono i coloni. È esattamente ciò che hanno previsto.”

Buttu dice che la ragione per cui la comunità internazionale ha deciso di ignorare quelle azioni è per via “del fatto che Israele è un progetto coloniale”.

Il mondo arabo non ha mai avuto l’autodeterminazione. Non è mai stata un’area dove non ci fosse un qualche tipo di potere coloniale”, prosegue Buttu.

È possibile imporre cambiamenti. La Russia è molto più potente di Israele. Ma non c’è la volontà politica di farlo, è questa la vera differenza.”

Perdere l’opportunità per l’annessione

La comunità internazionale ha fatto poco riguardo alla proposta d’annessione di Israele poiché Israele ha gestito “una campagnia internazionale estremamente scaltra” e ha un servzio diplomatico “solido”, secondo Lynk.

Ha, ovviamente, il supporto di importanti gruppi pro-Israele negli Stati Uniti, che hanno una significativa influenza a Washington e altrove”, dice Lynk.

È noto che l’amministrazione Trump ha forti legami col partito Likud di Netanyahu.

A maggio 2018 gli Stati Uniti han spostato la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, ribaltando una linea politica vecchia di decenni. A marzo 2019 hanno riconosciuto l’annessione israeliana delle alture del Golan siriane.

A giugno 2019, gli Stati Uniti hanno azzerato i loro contributi all’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi e a febbraio hanno rifiutato di fornire finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese, a quanto è stato detto in un tentativo di forzare Ramallah a modificare la sua posizione sul piano di annessione.

Uno stato internazionale, come gli Stati Uniti, ha il dovere di isolare coloro che violano i diritti umani, non di finire per favorirli” dice Lynk.

Quello che vediamo sono il governo israeliano e il Partito Repubblicano [americano ndtr.] farsi scaltri e realizzare che l’attuale amministrazione potrebbe non essere rieletta a novembre, e che quindi potrebbe andare persa l’opportunità di realizzare probabilmente il più grande regalo americano a Israele di sempre, cioè il sostegno all’annessione di parti della Cisgiordania e la protezione per Israele da qualsiasi ricaduta diplomatica.”

I critici han paragonato l’idea di Stato palestinese di Stati Uniti e Israele al Bantustan sudafricano durante il regime dell’apartheid.

Lynk descrive il piano come “una serie sconnessa di circa 165 isolette di territorio separate le une dalle altre” e la soluzione dei due Stati come “un cadavere che sta semplicemente aspettando il proprio funerale”.

Se Israele dovesse andare avanti con l’annessione, creerà uno stato con due livelli distinti di diritti economici, politici, sociali,e di proprietà, ovvero un regime di apartheid, dice Lynk.

Quando il polverone si sarà posato…il mondo realizzerà che c’è un solo Stato in funzione tra il Mediterraneo il fiume Giordano, e che quello Stato è Israele.”

[traduzione dall’Inglese di Giacomo Ortona]




Sono trascorsi dieci anni, ma il massacro della Mavi Marmara, a cui ho assistito, ancora mi segna

Jamal Elshayyal

30 maggio 2020 – Al Jazeera

Quando, nel 2010, i commando israeliani presero d’assalto la nave Mavi Marmara, vennero uccise nove persone mentre un’altra morì in seguito alle ferite.

Fu una notte che non dimenticherò mai. Un’esperienza che ha consolidato in me la missione fondamentale di essere un giornalista, ma mi ha anche ricordato in che mondo ingiusto viviamo. Dieci anni dopo, la necessità di una stampa libera è ancora più grande e l’ingiustizia del mondo è ancora più evidente.

Ero a bordo della Mavi Marmara, la nave ammiraglia di una flottiglia di natanti che trasportavano aiuti umanitari alla Striscia di Gaza sotto assedio illegale (sulla base del diritto internazionale). Era un grande evento, oltre 600 attivisti umanitari, politici e medici di 40 diverse Nazioni avevano messo insieme questa flotta per consegnare oggetti come incubatrici per bambini e medicine per la gente di Gaza.

I precedenti tentativi di rompere l’assedio marittimo imposto da Israele erano falliti, ma erano stati portati avanti con piccole imbarcazioni che trasportavano una manciata di passeggeri. Questo era diverso. Una campagna coordinata a livello internazionale per far luce sulla difficile situazione dei palestinesi a Gaza, che le Nazioni Unite avevano descritto come “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”. La domanda che tutti si ponevano era: Israele avrebbe ceduto alle pressioni internazionali e avrebbe permesso agli aiuti di entrare, o avrebbe messo in pratica la sua minaccia e fermato le navi “ad ogni costo”, come aveva annunciato sfacciatamente l’allora ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.

Un’alba mortale

Verso le 4 del mattino del 31 maggio 2010 ricevemmo la risposta. Nonostante gli attivisti per la pace presenti nella flottiglia avessero cambiato la rotta delle navi e fossero rimasti in acque internazionali, i commando israeliani, a bordo di elicotteri e motoscafi e supportati a distanza da un’enorme nave da guerra, attaccarono. Mentre molti passeggeri pregavano, forti esplosioni di granate assordanti e candelotti lacrimogeni e poi il fragore degli spari di proiettili veri riempirono l’aria. In un attimo, quella che era una notte pacifica nel mezzo del Mar Mediterraneo si trasformò in un’alba di morte e orrore.

Otto cittadini turchi e un cittadino turco americano furono colpiti e uccisi durante l’assalto alla nave, e un altro cittadino turco morì in seguito per le ferite. Altre decine di persone rimasero ferite.

È stato il mio primo reportage importante per Al Jazeera, la prima volta in cui vidi colpire a morte qualcuno di fronte a me: era un collega giornalista. Ucciso da un proiettile alla testa mentre impugnava la macchina fotografica per scattare foto dell’attacco, cercando di documentare ciò che stava accadendo. Quando cadde a terra, parte del suo sangue mi ricoprì le scarpe. Fu un momento vividamente surreale; sono ancora scioccato da come fui allora in grado di girargli intorno puntando su di lui la telecamera per riprendere la sua morte. La testimonianza sulla sua morte venne registrata solo un paio di giorni dopo, mentre ero seduto dentro una cella israeliana dopo essere stato illegalmente arrestato insieme agli altri giornalisti.

Scrissi un breve resoconto, centrato sulla cronologia degli avvenimenti di quella notte, dopo il nostro rilascio dal carcere. Ma 10 anni dopo, mi ritrovo a raccontare alcuni degli avvenimenti più sconvolgenti a cui ho assistito. Come l’impotenza sui volti dei medici mentre lottavano invano per salvare la vita di tre passeggeri che erano stati colpiti dagli israeliani, ma sapendo benissimo che non sarebbero stati in grado di farlo perché non avevano gli strumenti necessari . O l’altruismo dell’organizzatore della flottiglia nel togliersi la camicia bianca e usarla come una bandiera, in piedi di fronte al commando israeliano, per esortarli a smettere di uccidere i passeggeri. O l’anziano palestinese che era stato espulso da casa sua nel 1948 da bambino e sognava di tornare in patria, per poi vederlo piangere nel momento in cui si rese conto che il suo sogno non avrebbe mai potuto diventare realtà.

Sostenere la forza della testimonianza

Il mio lavoro all’epoca era quello di raccontare questa storia in modo onesto e preciso, ed era ciò in cui credo, cosa che ha fatto infuriare le autorità israeliane che durante la mia detenzione hanno finito per trattarmi peggio rispetto agli altri giornalisti. All’epoca il governo israeliano cercò di giustificare il suo attacco alla flotta umanitaria disarmata sostenendo che i passeggeri fossero in possesso di armi e affermando persino che la nave fosse entrata nelle acque territoriali israeliane. Probabilmente sarebbero riusciti a convincere il mondo di tale versione, se non fosse per il fatto che giornalisti come me erano a bordo ed in grado di trasmettere in video le prove che non solo non esistevano armi a bordo, ma anche che al momento dell’attacco ci trovavamo in acque internazionali. Questa è la parte che ha rafforzato in me [la consapevolezza, ndtr.] del potere del giornalismo: garantire che la testimonianza sia sempre chiara e che i potenti non riescano a riscrivere i libri di storia.

Tuttavia la questione è: a che serve mettere le cose in chiaro se le persone innocenti vengono comunque uccise, gli assassini non vengono puniti e i giornalisti che le documentano sono presi di mira?

Non sono sicuro di avere una risposta convincente, perché negli ultimi 10 anni gli alleati di Israele hanno usato il loro potere di veto alle Nazioni Unite per proteggere la potenza occupante dall’affrontare la giustizia, la Corte Penale Internazionale non ha perseguito coloro che hanno ordinato o perpetrato omicidi in alto mare e governi che affermano di sostenere gli ideali di libertà e i diritti umani non hanno fatto nulla per far sì che venga fatta giustizia. Di conseguenza, dal punto di vista di un giornalista, ciò ha portato i miei colleghi non solo ad essere illegalmente detenuti da Israele, come me, ma da allora ha provocato la morte di sette di loro.

Mentre ripenso a quella notte storica e rifletto su cosa è cambiato da allora, mentre sono infuriato perché non è stata fatta giustizia e, per molti aspetti, il mondo si è ancora di più abituato all’assassinio di persone innocenti, sono convinto nel mio intimo che se vogliamo avere qualche possibilità di rendere la nostra realtà un po’ meno ingiusta, dobbiamo proteggere i giornalisti e l’idea di una stampa libera. Perché, mentre le vittime potrebbero non avere mai giustizia, l’opinione pubblica possa almeno essere in grado di avere le idee chiare dopo aver riscontrato delle prove concrete sui suoi schermi e nelle sue fonti di informazione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La polizia israeliana uccide un palestinese disarmato nella Gerusalemme est occupata

30 maggio 2020 – Al Jazeera

Iyad el-Hallak, 32 anni, frequentava e lavorava in una scuola per disabili nella Città Vecchia, nei pressi della quale è stato colpito a morte.

La polizia israeliana ha colpito e ucciso un palestinese disarmato nei pressi della Città Vecchia nella Gerusalemme est occupata.Secondo l’agenzia di notizie palestinese Wafa l’uomo assassinato, il trentaduenne Iyad el-Hallak, frequentava e lavorava in una scuola per disabili nella Città Vecchia, vicino al luogo in cui è stato colpito sabato mattina.

Un parente, che ha parlato all’agenzia di notizie Associated Press in forma anonima, ha affermato che el-Hallak aveva problemi mentali e si stava dirigendo verso la scuola.

Il portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld ha affermato che i poliziotti “hanno individuato un sospetto con un oggetto sospetto che sembrava una pistola. Gli hanno detto di fermarsi ed hanno iniziato ad inseguirlo a piedi, e durante l’inseguimento alcuni agenti hanno anche aperto il fuoco contro il sospettato.”

Rosenfeld ha aggiunto che nella zona non è stata trovata nessuna arma.

In seguito alla sparatoria la polizia israeliana ha chiuso la Città Vecchia e mezzi d’informazione locali hanno detto che ai medici è stato vietato di entrare nella zona.

Wafa afferma che “(alcuni palestinesi) hanno detto che è stato colpito da vari proiettili e che è stato lasciato a terra sanguinante per un po’ di tempo finché è morto.”

La polizia ha anche fatto irruzione nella casa di el-Hallak, nel quartiere di Wadi Joz, dove alcuni membri della sua famiglia sono stati interrogati.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha affermato che membri della famiglia di el-Hallak negano affermazioni secondo cui egli fosse armato e ha citato le loro affermazioni secondo cui “era incapace di fare del male a una mosca.”

Essi hanno detto che il corpo di el-Hallak è stato trasportato all’istituto di medicina legale Abu Kabir a Tel Aviv, in cui si trovano corpi di palestinesi uccisi in presunti attacchi contro israeliani, aggiungendo che le autorità non hanno fornito loro ulteriori dettagli.

L’istituto è noto come il luogo in cui sono stati asportati organi e parti del corpo di palestinesi.

La sparatoria è giunta il giorno dopo che soldati israeliani hanno ucciso un palestinese nei pressi della città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, che secondo loro cercava di investirli con il suo veicolo. In nessuno dei due episodi sono rimasti feriti israeliani.

Alcune associazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno sollevato preoccupazioni per il fatto che le forze di sicurezza israeliane abbiano fatto un uso eccessivo della forza nell’affrontare palestinesi che stavano effettuando o erano sospettati di mettere in atto aggressioni.

Piani di annessione

Gli incidenti sono avvenuti mentre Israele sta portando avanti i suoi progetti di annessione di vaste aree della Cisgiordania, in linea con il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, che favorisce notevolmente Israele ed è stato rifiutato dai palestinesi.

Il piano consente a Israele di annettere le colonie israeliane, illegali dal punto di vista del diritto internazionale, e zone strategiche in Cisgiordania.

Per la maggior parte della comunità internazionale una simile iniziativa da parte di Israele sarebbe una gravissima violazione delle leggi internazionali e distruggerebbe le speranze di una soluzione a due Stati per il conflitto israelo-palestinese.

La scorsa settimana l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato di non essere più legata ai precedenti accordi con Israele e con gli USA e di aver interrotto tutti i rapporti [con Israele], compreso il pluriennale coordinamento per la sicurezza – una prassi molto discussa che è stata ripetutamente criticata dalle associazioni palestinesi per i diritti umani.

Israele occupò Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza – assediata dal 2007 – durante la Guerra arabo-israeliana dei Sei Giorni nel 1967.

I dirigenti palestinesi vogliono che i territori facciano parte del loro futuro Stato, con Gerusalemme est come capitale, mentre Israele considera tutta la città di Gerusalemme come propria capitale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sono in isolamento, ma non a causa del coronavirus

Laith Abu Zeyad

27 Maggio 2020 – Al Jazeera

Israele mi ha vietato di uscire dalla Cisgiordania e ha rifiutato di dirmi perché.

Nei mesi scorsi, a causa della pandemia da coronavirus, milioni di persone nel mondo hanno sperimentato per la prima volta le difficoltà e la frustrazione di essere sottoposti a norme e regole imposte dallo Stato che limitano la loro libertà di movimento.

Tuttavia per me il blocco totale non è stata una novità. Sono abituato a vivere sotto una serie di norme mutevoli che stabiliscono dove posso andare e che cosa posso fare. Perché? Perché sono un palestinese che vive sotto occupazione israeliana.

Sono cresciuto nella Cisgiordania occupata, perciò i checkpoint e i coprifuoco hanno sempre fatto parte della mia vita quotidiana. L’anno scorso Israele ha reso ancora più stretta la mia prigione impedendomi di uscire dalla Cisgiordania per qualunque motivo.

Le autorità israeliane si sono rifiutate di darmi una giustificazione per il divieto al di là di un [generico] “ragioni di sicurezza”, e ha negato che questa misura abbia qualcosa a che vedere con il mio lavoro come attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

Ho appreso del divieto nel modo peggiore possibile, quando lo scorso settembre mi è stato negato un permesso per accompagnare mia madre agli appuntamenti per la chemioterapia a Gerusalemme est occupata. Mentre inoltravo freneticamente altre richieste di permesso, mia madre peggiorava. Stavo a soli 15 minuti di macchina dall’ospedale, ma il mio disperato desiderio di essere vicino a mia madre collideva con la rigida applicazione israeliana del sistema dei permessi. Mia madre è morta alla vigilia di Natale senza che io abbia più potuto vederla.

Finora i “motivi di sicurezza” che mi hanno causato tanto strazio non mi sono stati rivelati. Tutto quel che so è che sono sottoposto a totale divieto di spostamenti, il che significa che non posso recarmi fuori dalla Cisgiordania, nemmeno per andare al mio ufficio, che si trova a Gerusalemme est. Perciò il blocco per il COVID-19, che è in vigore dal 22 marzo, non è altro che un’ ulteriore sbarra nella gabbia in cui vivo da tempo.

Non potrò mai riavere quella preziosa opportunità di essere accanto a mia madre nei suoi ultimi giorni, ma posso fare la cosa giusta per lei opponendomi a questa ingiustizia. Il 25 marzo 2020 Amnesty International ha inoltrato una petizione alla Corte Distrettuale di Gerusalemme cercando di farmi revocare il divieto di viaggio, e il 31 maggio vi sarà un’udienza. Ovviamente si terrà in mia assenza – e poiché non mi è permesso conoscere i contenuti delle accuse contro di me, il mio avvocato ed io non possiamo contrastarli efficacemente.

Eppure nel passato i divieti di viaggio nei confronti dei palestinesi sono si sono sgretolati quando sono stati oggetto di un controllo dal punto di vista giudiziario. Tra il 2015 e il 2019 l’organizzazione israeliana per i diritti HaMoked ha presentato 797 ricorsi contro divieti di viaggio ed è riuscita a farne revocare il 65%. Considerando questo risultato, è ragionevole ipotizzare che la maggior parte di quei divieti fossero in primo luogo del tutto ingiustificati.

Israele ha una comprovata esperienza nell’uso arbitrario dei divieti di viaggio contro difensori dei diritti umani, compreso Omar Barghouti, cofondatore del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), e Shawan Jabarin, direttore dell’organizzazione palestinese per i diritti al-Haq. Nel caso di Shawan Jabarin, come nel mio, non è stata fornita nessuna giustificazione al di là di “ragioni di sicurezza”.

Che cosa significa? Se io costituisco un così grave rischio per la sicurezza ci si aspetterebbe che le autorità israeliane mi facessero delle domande. Ma io non sono mai stato interrogato su nessuna questione di sicurezza, neppure ad un posto di confine, sono solo stato respinto. Non mi è mai stata data occasione di contestare la decisione o di difendermi. Come può essere giusto questo?

È difficile spiegare quanto stretti siano i controlli di Israele sui movimenti dei palestinesi.

Due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza sono sottoposti ad un feroce blocco militare da oltre 12 anni, facendo di essa la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Noi della Cisgiordania non possiamo andare all’estero attraverso i porti israeliani o l’aeroporto internazionale Ben Gurion – la nostra unica possibilità è andare in Giordania passando per il confine del ponte di Allenby/Re Hussein. Molte persone non sanno di avere il divieto di viaggio finché non arrivano alla frontiera. Lo scorso ottobre, per esempio, volevo partecipare al funerale di mia zia in Giordania; quando sono arrivato al confine con mio padre e la mia valigia, mi è stato negato il passaggio.

Ci sono moltissime vicende come questa. Il COVID-19 ha dato al mondo un’idea dell’esperienza palestinese – la crudeltà di essere separati dai propri cari, il tedio della reclusione, la paura e il senso di isolamento. Mentre le misure di blocco per il coronavirus sono state messe in atto per proteggere la popolazione da un virus letale, il blocco israeliano priva i palestinesi della libertà di movimento come forma di punizione collettiva.

Come tante persone in tutto il mondo, io spero di essere presto in grado di ritornare nel mio ufficio, vedere i miei amici e la mia famiglia in altre città, e di provare l’ebbrezza di viaggiare in posti nuovi. Dopo 72 anni di deportazioni ed ingiustizie, i palestinesi vogliono e meritano gli stessi diritti e libertà di chiunque altro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Laith Abu Zeyad è un attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Città palestinesi “accerchiate” dalle politiche discriminatorie di Israele

Human Rights Watch afferma che per decenni il governo israeliano ha imposto all’interno di Israele prassi discriminatorie riguardo alla terra.

12 maggio 2020 – Al Jazeera

Un nuovo rapporto di Human Rights Watch (HRW) afferma che ai palestinesi con cittadinanza israeliana è stato negato l’accesso alla terra per l’edilizia abitativa al fine di adeguarsi all’ “aumento naturale della popolazione”, riflettendo la politica israeliana di confinamento delle comunità palestinesi persino al di là dei territori occupati.

Martedì l’associazione per i diritti umani con sede negli USA ha detto che la politica del governo israeliano favorisce i cittadini ebrei, in quanto decenni di confisca di terreni e di politiche discriminatorie hanno rinchiuso i cittadini palestinesi in centri urbani e villaggi densamente popolati che hanno uno spazio molto ridotto per espandersi.

Ha anche sostenuto che il governo israeliano “favorisce la crescita e l’espansione” delle vicine comunità prevalentemente ebraiche, molte delle quali costruite sulle rovine di villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba del 1948, quella che i palestinesi chiamano la catastrofe che si abbatté su di loro nella guerra che portò alla fondazione di Israele, quando centinaia di migliaia di loro vennero cacciate con la forza dalle proprie case.

La politica israeliana da entrambi i lati della Linea Verde [cioè sia in Israele che nella Cisgiordania occupata, ndtr.] rinchiude i palestinesi in centri abitati densamente popolati, mentre aumenta il più possibile la terra a disposizione delle comunità ebraiche,” afferma Eric Goldstein, direttore esecutivo ad interim per il Medio Oriente di HRW.

Queste pratiche sono ben note quando si tratta della Cisgiordania occupata, ma le autorità israeliane stanno imponendo pratiche discriminatorie riguardo alla terra anche all’interno di Israele.”

Secondo il rapporto, nonostante il fatto che i cittadini palestinesi di Israele costituiscano il 21% della popolazione del Paese, nel 2017 le associazioni per i diritti umani israeliane e palestinesi stimavano che in Israele meno del 3% di tutta la terra ricadesse sotto la giurisdizione delle amministrazioni locali palestinesi.

Il governo israeliano controlla direttamente il 93% della terra del Paese, compresa Gerusalemme est occupata. Secondo HRW un ente governativo, l’“Israel Land Authority” [Autorità Israeliana per la terra] (ILA), gestisce e decide la destinazione di questi terreni statali.

Circa metà dei membri dell’ILA fa parte del Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico] (JNF), il cui compito esplicito è di “sviluppare e concedere in affitto terra agli ebrei e non a qualunque altro segmento della popolazione,” nota HRW.

Oltretutto molte piccole cittadine ebraiche hanno commissioni per l’ ammissione, che di fatto impediscono ai palestinesi di andarci a vivere. Queste commissioni sono in genere legalmente autorizzate e hanno il potere di vendere e comprare terra dello Stato e definire i requisiti per ottenervi la residenza.

Questo avviene anche nei villaggi beduini palestinesi del Negev, la maggior parte dei quali non sono riconosciuti. Nel Negev le autorità israeliane mettono in atto sistematicamente degli ordini di demolizione in base al fatto che questi villaggi non hanno permessi di costruzione, che secondo gli abitanti sono impossibili da ottenere.

Parole sulla carta”

Dal 1948 Israele ha autorizzato lo sviluppo di più di 900 centri abitati ebraici, rispetto a solo un pugno di cittadine e villaggi per i palestinesi con cittadinanza israeliana. Ha anche approvato la costruzione di strade e di altre infrastrutture attorno alle comunità palestinesi, impedendone ulteriormente l’espansione.

Omar Shakir, direttore di HRW per Israele e la Palestina, afferma che è “palese” che le cittadine e i villaggi palestinesi siano stati “messi in trappola”.

Nel corso di molti anni le politiche di pianificazione e la confisca di terreni da parte di Israele li hanno rinchiusi in una serie di centri densamente abitati, mentre alle comunità ebraiche è stato consentito di crescere,” dice Shakir ad Al Jazeera.

Il Centro Arabo di Pianificazione Alternativa, con sede in Israele, stima che in Israele, esclusa Gerusalemme, sono a rischio di demolizione dalle 60.000 alle 70.000 case.

Shakir afferma che, mentre negli ultimi anni il governo israeliano ha riconosciuto che si tratta di un “problema serio”, non è stata presa alcuna iniziativa concreta per mettere in atto piani e proposte che possano contribuire ad alleviarlo.

Shakir aggiunge che quello di cui c’è bisogno sono investimenti significativi in quelle comunità e destinare loro terre statali.

Il rapporto nota che politiche simili sono state utilizzate anche per limitare la crescita delle comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata, dove non si sono ridotte le demolizioni di case, le confische di terreni e l’espansione delle colonie ebraiche illegali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il mio primo lockdown è stato durante la prima Intifada

Majed Abusalama

9 maggio 2020 – Al Jazeera

Vivere un blocco totale in Europa mi ha fatto ricordare la mia infanzia a Gaza durante la rivolta palestinese.

Il 23 marzo la Germania annunciava misure su scala nazionale per prevenire un’ulteriore diffusione del coronavirus. Si consigliava alla gente di stare a casa e venivano proibiti gli assembramenti pubblici; si chiudevano ristoranti e pub. Giorni prima erano state chiuse le scuole e poi palestre, cinema, musei e altri posti pubblici. E così è cominciata la vita in lockdown.

Per molti dei miei amici tedeschi questa era la prima volta che sperimentavano tali restrizioni imposte dal governo. Il blocco a Berlino, dove ora vivo, a me ha riportato alla mente ricordi della prima Intifada.

Ero solo un bambino quando nel dicembre 1987 è cominciata la rivolta nel campo profughi di Jabalia a Gaza, il mio luogo di nascita. Quando finì avevo l’età per andare a scuola. Blocco totale, coprifuoco e una varietà di restrizioni sono tutto quello che ho vissuto per i primi sei anni della mia vita.

L’Intifada era scoppiata dopo l’uccisione di quattro palestinesi da parte di soldati israeliani a un posto di blocco del nostro campo. Quando folle di palestinesi uscirono per protestare contro le morti, i militari israeliani aprirono il fuoco e uccisero un altro palestinese.

Le uccisioni furono solo la miccia: la vera ragione erano decenni di brutale occupazione militare e apartheid che il mio popolo aveva sopportato mentre vedeva la nostra terra colonizzata da occupanti ebrei europei e americani che arrivavano dall’estero.

In tutta la Palestina storica esplose la protesta. A lacrimogeni e pallottole israeliani, i palestinesi risposero con fionde e pietre. L’esercito di occupazione israeliano e i “civili” israeliani “ uccisero 1.500 palestinesi, più di 300 dei quali erano i bambini.

Davanti a una rivolta popolare che la repressione non riusciva a domare, il governo israeliano cominciò a imporre varie modalità di blocchi per cercare di controllare la popolazione palestinese, cosa che diede inizio a una lunga campagna locale di resistenza.

I coprifuoco andavano e venivano. Gli israeliani li imponevano di volta in volta per giorni, settimane o persino mesi. Secondo la studiosa americana Wendy Pearlman, durante il primo anno dell’Intifada l’esercito di occupazione israeliano impose a varie comunità palestinesi dei coprifuoco di ventiquattro ore al giorno per più di 1600 volte.

In quei periodi non potevamo uscire. Qualche volta finivamo il cibo e mia nonna e le zie dovevano rischiare la vita per uscire e cercare di comprare delle provviste.

Il cibo era scarso perché ai contadini non era permesso di andare nei campi. Molti prodotti marcirono perché nessuno li raccoglieva.

Università e scuole chiusero, con un’intera generazione di bambini e ragazzi palestinesi che ritardarono la propria formazione. Non avevamo parchi o giardini pubblici dove giocare. Anche le spiagge erano state “chiuse” dagli israeliani.

Ma le molte restrizioni, la costante persecuzione e le continue uccisioni non riuscirono a spezzare lo spirito dei palestinesi. In tutta la Palestine storica si crearono dei comitati di resistenza popolare che coordinavano varie attività per aiutare la gente. Mio padre, Ismael, era impegnato nell’organizzazione del comitato nel nostro campo.

Le donne coltivavano prodotti in casa e sui tetti e fondarono cooperative agricole che chiamarono ‘orti della vittoria’ per creare un’economia palestinese autonoma e permettere il boicottaggio dei prodotti israeliani. I comitati dei commercianti organizzarono scioperi; quelli sanitari crearono cliniche di emergenza, quelli addetti all’istruzione organizzarono classi clandestine. Tutti contribuirono come potevano per aiutare la loro comunità e nessuno fu lasciato senza sostegno. 

Naturalmente tutto ciò fece arrabbiare gli israeliani. Ricordo chiaramente che quando avevo quattro anni i soldati israeliani fecero irruzione e cominciarono a distruggere le nostre cose. Era la punizione per le attività politiche di mio padre, un evento di cui furono ripetutamente vittime molte famiglie.

Mio padre fu anche spesso interrogato e imprigionato per settimane, talvolta mesi. Una volta, dopo un interrogatorio di un’ora, un comandante israeliano gli chiese se avesse qualcosa da dire. Mio padre rispose che voleva un permesso per andare dalle sue api. Il comandante ridendo disse: “Stai per finire in galera fra poco e pensi alle tue api?” Mio padre rispose che doveva occuparsene sennò sarebbero morte e quelle api davano da mangiare alla sua famiglia. Quella volta mio padre rimase in carcere per una settimana. Le api non sopravvissero.

Incominciammo a dipendere dal salario della mamma che faceva l’infermiera in una clinica UNRWA [Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa specificamente dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ndtr.]. Dovendo andare a lavorare ogni giorno anche durante il coprifuoco aveva un permesso per attraversare i posti di blocco degli israeliani. Curava molti degli adolescenti del nostro campo che venivano picchiati o feriti dai soldati israeliani. Secondo l’ong Save the Children, nei primi due anni tra le 23.600 e 29.900 persone ebbero bisogno di aiuto medico per le ferite riportate.

Nell’estate del 1991, a mia mamma vennero le doglie. Dato che all’epoca nel campo profughi c’erano pochi telefoni, non riuscimmo a chiamare l’ambulanza e comunque non avrebbe potuto entrare durante il coprifuoco. Così fu costretta ad andare a piedi fino alla clinica UNRWA, a un chilometro di distanza. Fece tutta la strada appoggiandosi alla nonna che sventolava un fazzoletto bianco, nella speranza che i soldati israeliani non sparassero.

Non lontano da casa, i soldati puntarono le armi contro di loro e le costrinsero a fermarsi. Cominciarono a fare delle domande a mia mamma sul motivo per cui avevano infranto il coprifuoco anche se era ovvio che stava per partorire e che poteva a malapena reggersi in piedi. “Fu un momento spaventoso,” mi ha poi raccontato. “Stavo cercando di proteggere la mia pancia dalle loro armi mentre si susseguivano le dolorose contrazioni.”

Poi le lasciarono andare e quella sera la mamma diede alla luce la mia sorellina,Shahd. La mattina sfidarono nuovamente il coprifuoco e tornarono a piedi a casa. Noi eravamo tutti felici di rivedere loro e la sorellina.

La vita era estremamente difficile per noi, ma i miei genitori ricordano sempre l’Intifada come un momento di liberazione e spesso dicono: “Non abbiamo rinunciato alla resistenza. Non siamo diventati delle vittime sottomesse.” Anzi, i palestinesi diedero l’esempio di una lotta dal basso raramente vista prima di allora.

Ed eccomi qua oggi, oltre trent’anni dopo, di nuovo a vivere in un lockdown che è però molto diverso. Non ci sono proiettili ricoperti di gomma o veri, o candelotti lacrimogeni a colpire la gente che cammina in strada; non ci sono checkpoint; nessuna repressione violenta come l’avevo vissuta in Palestina.

Anch’io sono in ansia, come i miei amici tedeschi, per la situazione qui, ma quasi tutto il tempo la mia mente va a Gaza.

La mia famiglia vive ancora nel campo profughi di Jabalia, densamente popolato, dove il distanziamento fisico è impossibile. Nel nostro campo vivono più di 113.000 persone su una superficie di poco più di mezzo chilometro quadro.

A Gaza già diciassette persone sono risultate positive. Le autorità locali e le organizzazioni internazionali hanno già avvertito della possibilità di una catastrofe imminente.

Sento la preoccupazione dei miei genitori, specialmente di mia mamma che continua a lavorare per la clinica dell’UNRWA. Lei corre un grosso rischio ogni volta che va al lavoro, dove ogni giorno assiste decine di persone. Il sistema sanitario a Gaza è stato compromesso per anni dall’assedio soffocante imposto da Israele ed Egitto sulla Striscia e da varie guerre distruttive lanciate dall’esercito israeliano contro il mio popolo. La situazione è estremamente delicata e una grande epidemia di coronavirus causerebbe un disastro.

A differenza della Germania, dove il governo sta già allentando le misure e parlando di un ritorno alla “normalità” in futuro, a Gaza la mia gente si sta preparando per il peggio. La morte e le sofferenze che questa epidemia potrebbe infliggere ai palestinesi sarebbero un altro episodio della lunga lista di crimini di guerra che gli israeliani hanno commesso contro di noi e peserà notevolmente sulla coscienza della comunità internazionale che ci ha abbandonati.

In questi giorni continuo a chiedermi se il mondo ci ha dimenticati, accettando le nostre condizioni di vita disumane, o se questa volta farà qualcosa e riterrà Israele responsabile.

Le opinioni espresse in quest’articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera. 

Majed Abusalama è un pluripremiato giornalista palestinese, studioso, attivista e difensore dei diritti umani.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Netanyahu ha formato un “governo di salvezza personale”

Akiva Eldar

23 aprile 2020 – Al Jazeera

Il governo di emergenza nazionale di Israele è stato formato non per sconfiggere il Covid-19, ma per tenere fuori di prigione Netanyahu.

A differenza dell’Olocausto, questa volta abbiamo identificato il pericolo in tempo”, ha detto il 20 aprile il Primo Ministro ad interim (per ora) Benjamin Netanyahu, dandosi da solo una pacca sulla spalla in una dichiarazione registrata in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto.

Abbiamo preso importanti decisioni, come la chiusura dei confini”, ha proseguito Netanyahu, rivolgendosi alla telecamera. “Abbiamo mobilitato tutti i sistemi dello Stato per la guerra contro il coronavirus.”

Il distorto sfruttamento da parte di Netanyahu di questo giorno della memoria dedicato ai sei milioni di ebrei massacrati dai nazisti al fine di ostentare le proprie presunte capacità di “individuazione tempestiva” [del virus], è qualcosa che ricorda la sua “rivelazione”, nel 2015, del fatto che il Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, fu colui che ideò il piano per lo sterminio del popolo ebraico.

Ci sono molti dubbi che Netanyahu abbia profeticamente identificato la minaccia del coronavirus, ma è certo che ha identificato la sua potenzialità di essere un vaccino contro la propria personale rovina, quella di traslocare dall’ufficio di Primo Ministro alla cella di un carcere.

Il nome ufficiale di questo vaccino è “governo di emergenza nazionale”. Ma la denominazione più appropriata per questo governo, le cui linee guida e composizione sono state definite e messe nero su bianco il 20 aprile, sarebbe “governo di salvezza personale”.

Poco dopo che è stato trasmesso il suo messaggio alla Nazione sull’Olocausto, Netanyahu ha firmato un accordo di 14 pagine sulla condivisione del potere con il suo principale rivale politico, il leader dell’alleanza Blu e Bianco Benny Gantz, che sancisce il governo di Israele più affollato di sempre – con 36 ministri e 16 viceministri.

In base all’accordo, Netanyahu sarà Primo Ministro per i primi 18 mesi del mandato di 3 anni, mentre Gantz ricoprirà la carica appena creata di “Primo Ministro supplente”. Netanyahu consegnerà il potere a Gantz una volta scaduto il termine e per la seconda parte del mandato fungerà lui da Primo Ministro “supplente”.

Ho promesso al popolo di Israele un governo di emergenza che salverà le vite e i mezzi di sussistenza”, ha scritto Netanyahu sulla sua pagina Facebook. “Continuerò a fare qualunque cosa per il vostro bene, cittadini di Israele.”

L’accordo di condivisione del potere è stato firmato dopo settimane di febbrili negoziati. Ma la questione che ha rallentato la firma del documento non riguardava il conflitto israelo-palestinese, né il regime di apartheid in Cisgiordania o il blocco di Gaza.

L’unico accenno nel documento alla malattia cronica nota come occupazione si può trovare nella sezione relativa al piano del presidente USA Donald Trump per la pace israelo-palestinese, che stabilisce che alla data del 1 luglio di quest’anno il primo ministro potrebbe chiedere al governo e alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di approvare l’accordo raggiunto con gli USA in base al piano Trump sull’imposizione della sovranità sulle colonie israeliane in Cisgiordania.

Secondo l’accordo, anche Gantz sarà invitato a partecipare alle consultazioni con il primo ministro su questo paragrafo del patto, che praticamente rende esplicito l’abbandono della soluzione dei due Stati.

La questione che ha rallentato l’accordo tra le due parti non era neanche legata alla ‘raison d’etre’ ufficiale di un governo di emergenza – alleviare la crisi del coronavirus. Di fatto, l’accordo a malapena menziona la questione, ma lascia al suo posto il Ministro della Sanità in carica, Yaakov Litzman, anche se ciò comporta cambiamenti di ruolo o destituzioni per la maggior parte degli altri ministri dell’attuale coalizione.

Questo è l’uomo che all’inizio della crisi non poteva nemmeno pronunciare la parola “coronavirus”, che ha egli stesso contratto la malattia quando ha pregato in un gruppo contravvenendo alle istruzioni del suo stesso Ministero ed ha speso la maggior parte del tempo dall’inizio della pandemia favorendo gli interessi del suo elettorato ultra-ortodosso.

Con Litzman al proprio posto, Netanyahu continuerà a guidare di fatto il ministero, come ha fatto finora. Inoltre sostituirà il capo della commissione speciale della Knesset per la crisi del coronavirus con uno dei suoi fedelissimi, facilitandosi il compito di mascherare i tanti insuccessi del suo governo nella gestione della pandemia, che sono già stati palesati.

Se dovesse essere istituita una commissione per esaminare la gestione della crisi da parte dello Stato, troverebbe pane per i suoi denti nella relazione provvisoria resa pubblica il 7 aprile dal comitato di sorveglianza della Knesset, alla cui guida si trovava all’epoca il deputato di opposizione Ofer Shelach [del partito di centro tuttora all’opposizione Yesh Atid, ndtr.].

La relazione ha rilevato, tra le varie cose, che le ripercussioni sociali e sanitarie della stretta economica imposta dal governo erano ormai diventate una minaccia reale e grave quanto il virus. Il prezzo politico di queste severe ripercussioni economiche e sociali verrà ora diviso equamente tra tutti i componenti del nuovo governo di coalizione.

La firma dell’accordo era stata bloccata a causa di un articolo che riguardava solo l’unico israeliano il cui processo per corruzione è previsto iniziare il 24 maggio e dispone una deroga per lui, un fatto senza precedenti nella storia politica di Israele.

Il contorto linguaggio di questo articolo in sostanza stabilisce che, se delle circostanze, come per esempio una sentenza della Corte Suprema, impedissero a Netanyahu e/o a Gantz di ricoprire la carica di primo ministro e di primo ministro “supplente”, i partiti Likud [di Netanyahu, ndtr,] e Blu e Bianco [di Gantz, ndtr.] non proporrebbero nessun altro per questi incarichi, scioglierebbero invece congiuntamente la Knesset e indirebbero nuove elezioni.

Se Netanyahu non avesse categoricamente rifiutato di dimettersi dopo essere stato incriminato per corruzione, Israele non sarebbe stato trascinato in tre consecutive e inconcludenti elezioni nell’arco di un anno e con la minaccia di un’incombente quarta turnata elettorale se non si fosse raggiunto un accordo su un nuovo governo.

Fin dall’inizio la leadership di Blu e Bianco ha espresso la propria preferenza per un governo di unità con il Likud. La sua principale, se non unica, condizione era la sostituzione di Netanyahu con un altro membro del suo partito, il Likud. Se lui avesse davvero voluto “fare qualunque cosa” in suo potere per il bene dei cittadini di Israele, come ha dichiarato questa settimana nel suo discorso per commemorare l’Olocausto, Israele non avrebbe avuto bisogno di un governo di emergenza. Quel che doveva fare era dimettersi, anche temporaneamente, e passare il suo tempo in modo accurato a convincere i tribunali della sua innocenza.

La codardia di altri personaggi di spicco del Likud ha lasciato Gantz e i suoi amici tra l’incudine e il martello. Sono stati costretti a scegliere tra far parte di un governo guidato da Netanyahu, contro il volere della maggioranza dei loro elettori che hanno dato a Gantz e alla sua coalizione una maggioranza in parlamento di 62 seggi, e favorire una quarta tornata elettorale all’ombra di una profonda crisi economica e sociale.

La decisione di Blu e Bianco e dei suoi alleati del partito laburista di ignorare il loro principale impegno elettorale di non entrare in una coalizione di governo con Netanyahu è destinata ad abbreviare la loro carriera politica. Dovranno faticare molto per convincere gli elettori che non avevano altra scelta che allearsi a Netanyahu in un governo di più di 40 tra ministri e vice ministri, solo per affrontare l’epidemia.

La palla è ora alla Corte Suprema, cui sono state sottoposte diverse petizioni che chiedono di annullare l’accordo di coalizione, tra cui un appello di decine di ex funzionari della sicurezza, accademici e uomini d’affari contro la nomina di un primo ministro incriminato.

In una lettera a Netanyahu pubblicata il 20 aprile sul quotidiano israeliano Haaretz, l’ex consulente giuridica della Knesset e avvocatessa Nurit Elstein ha scritto: “Alla luce delle sue incriminazioni per corruzione, che comprendono violazione dell’integrità o, più precisamente, condotta immorale, la Corte potrebbe decidere che lei non è adatto ad essere primo ministro Nessuno statuto giuridico le fornirà una completa protezione o, fino a quando Israele sarà una democrazia, darà legittimità ad una questione che è fondamentalmente disonesta.” Considerato il modo in cui è stato costituito il governo designato e le sue linee guida, l’accento andrebbe posto sulle parole “fino a quando”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Akiva Eldar è un analista israeliano

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Aumentano i casi di violenza domestica contro le donne palestinesi

Farah Najjar

20 aprile 2020 – Al Jazeera

Secondo le attiviste, dall’inizio del lockdown da coronavirus almeno cinque donne sono state uccise dai loro aguzzini

A colpi di pentole e padelle e sventolando striscioni fatti in casa, decine di palestinesi hanno espresso la loro solidarietà alle donne che subiscono varie forme di violenza domestica durante il blocco imposto dalla pandemia di coronavirus.

L’iniziativa di lunedì, che ha visto sia donne che uomini affacciarsi alle finestre e ai balconi nei Territori palestinesi occupati e nella Palestina storica, mirava a far luce sulla condizione delle donne chiuse in casa con i loro persecutori.

Secondo un calcolo effettuato da Tal’at, il movimento politico femminista indipendente che ha organizzato la campagna, undici palestinesi sono state uccise a causa della violenza domestica dall’inizio dell’anno, cinque delle quali sono morte dall’implementazione del blocco agli inizi di marzo. Di queste cinque, quattro sono decedute in seguito a ferite da armi da fuoco. 

Soheir Asaad, attivista di Tal’at, ha precisato che, mentre a molte la parola “quarantena” fa pensare allo stare al sicuro in casa, per altre vuol dire “inferno”.

“Significa vivere con qualcuno che potrebbe toglierti la vita”, ha riferito Assad ad Al Jazeera da Haifa, descrivendo la realtà in cui si trovano alcune donne durante il blocco.

Assiwar, una ONG di sostegno alle donne, sostiene che il numero di chiamate ricevute nelle ultime settimane è aumentato del 30%, oltre alla valanga di messaggi arrivati sulle sue piattaforme social. Altri gruppi riportano aumenti simili e la PWWSD, l’Associazione delle donne lavoratrici palestinesi per lo sviluppo, [ong fondata nel 1981 per fornire alle donne palestinesi strumenti per emanciparsi, ndtr.] riferisce che, fra il 22 marzo e il 15 aprile, la sua helpline di sostegno ha ricevuto 924 chiamate.

Lamia Naamneh, a capo di Assiwar e difenditrice dei diritti delle donne da oltre 20 anni, ha detto che la maggior parte delle richieste arrivavano da donne che avevano ricevuto minacce di morte.

“Appena ieri una chiamata ci ha messo in contatto con una donna che poteva comunicare da casa solo con una chat di Messenger,” ha riferito lunedì ad Al Jazeera.

“Ci ha detto che era stata minacciata e picchiata e noi abbiamo mandato la polizia a trasferirla in un domicilio protetto,” ha detto.

Naamneh ha poi aggiunto che, in seguito alle misure di lockdown, c’è stato anche un incremento dei casi di violenza sessuale e domestica contro i bambini.

C’è inoltre grande preoccupazione perché si teme che molti casi non siano denunciati.

“La paura è l’ostacolo maggiore per le donne vittime di violenza… Paura di essere ostracizzate, escluse, abbandonate, di non essere brave mamme o figlie,” commenta Amany Khalifa, un’assistente sociale che ha, anche lei, partecipato alla manifestazione di lunedì.

La situazione diventa ancora più difficile quando le autorità non lavorano per proteggere le donne, ha comunicato ad Al Jazeera da Gerusalemme Est occupata.

“Non possiamo chiedere a un’istituzione di per sé violenta di cambiare la realità delle donne palestinesi.”

È normale che non tutti i casi siano denunciati in certe zone della Cisgiordania, come nell’Area C, che è sotto il totale controllo militare israeliano. Questo perché è difficile per la polizia raggiungere le case, secondo Futna Khalifa, coordinatrice della PWWSD, che fa anche notare che i checkpoint ostacolano i movimenti dei palestinesi.

“Molte famiglie palestinesi vivono in piccoli appartamenti in condomini e gli spazi limitati possono far aumentare le occasioni di attriti e liti fra marito e moglie,” dice Khalifa.

“Questo è particolarmente vero per quelle donne che già avevano subito violenze prima del blocco. Quella che magari era una violenza psicologica di questi tempi può trasformarsi in forme di abusi fisici.”

Intervenire nella sfera pubblica’

Nel mondo molte donne sperimentano realtà simili, ma per le palestinesi la violenza è particolarmente complessa e sistematica, precisa Tal’at’s Asaad. Le palestinesi vivono in una condizione di “frammentazione” e devono già far fronte alle numerose conseguenze dell’occupazione israeliana, aggiunge.

“La realtà vissuta dalle donne palestinesi è unica,” fa notare Assad.

Tal’at, che può essere tradotto con “insorgere”, si è formata nel settembre scorso dopo l’assassinio della ventunenne Israa Gharib nella Cisgiordania occupata. Si ripromette di creare un contesto in cui si parli della violenza contro le donne palestinesi nel quadro della “liberazione politica e nazionale della Palestina”.

“Noi interpretiamo la violenza come un’ingiustizia sociale, economica e politica contro le donne, non solo come violenza domestica,” afferma Assad. “Questi aspetti hanno influenzato il modo in cui noi viviamo la violenza e la nostra capacità di resistere e persino di parlarne”. 

Accanto alle rigide misure dovute alla pandemia, la situazione è aggravata dalla pressione dell’occupazione israeliana, dall’oppressione economica e dall’apatia politica, dicono le attiviste.

“Questo è il motivo per cui abbiamo voluto creare uno spazio nel nostro movimento per le donne palestinesi”, ha specificato Assad a proposito dell’iniziativa di lunedì. “Se non possiamo scendere in strada… … staremo tutte nelle nostre case, ma non ci faremo zittire”.

Khalifa è d’accordo. È molto importante che nella sfera pubblica sia presente una voce critica, perché la vita non può continuare mentre esiste questa enorme presenza della violenza contro le nostre donne”. 

Ha poi aggiunto: “Noi dobbiamo renderci conto che la violenza coloniale e quella patriarcale sono connesse.”

La casa non è un posto sicuro’

In Israele ci sono solo due case rifugio destinate alle donne palestinesi, il che comporta una costante mancanza di spazi per accogliere nuove arrivate.

A complicare ulteriormente la situazione, di questi tempi le ONG come Assiwar devono per prima cosa garantire che le nuove ospiti non siano portatrici del coronavirus. Spesso a queste donne è richiesto di restare in albergo per 14 giorni a loro spese, un lusso che molte non possono permettersi.

“Abbiamo la fortuna che i sostenitori del nostro lavoro, in parecchie occasioni hanno accettato di ospitarle”. Naamneh ha inoltre aggiunto che alcune, quando non sono ammesse nelle case sicure, “finiscono in strada.”

Ultimamente molti palestinesi che lavorano in Israele nel settore dei servizi nelle ultime settimane hanno perso il loro lavoro, il che ha peggiorato la già disperata situazione economica.

Dato che sono confinati in casa, molti tendono a sfogare la propria frustrazione sulle donne, vulnerabili e rimaste senza i rifugi durante il blocco, dice Khalifa.

La violenza spesso è scatenata dalla frustrazione che si trasforma in abuso,” dice. “Ecco perché le case, per molte donne, non sono un posto sicuro.”

Il fatto che la polizia israeliana non presti attenzione alle comunità palestinesi non fa che peggiorare le cose. Quando l’occupazione non dà la priorità alla nostra sicurezza, è facile uccidere quando non si vive in un mondo sicuro,” conclude Naamneh.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il presidente israeliano chiede al parlamento di scegliere il primo ministro

16 aprile 2020 Al-Jazeera

Netanyahu e Gantz, rispettivamente leader dei partiti Likud e Blu e Bianco, dicono che continueranno i negoziati per formare un governo di unità nazionale di “emergenza”.

Il presidente di Israele ha chiesto alla Knesset di scegliere un nuovo primo ministro e ha concesso al parlamento tre settimane per giungere a un’intesa su un leader o, fatto senza precedenti, costringere il Paese alla quarta elezione consecutiva in poco più di un anno.

Reuven Rivlin ha preso questa decisione dopo che Benny Gantz e Benjamin Netanyahu non sono riusciti a raggiungere un accordo entro la scadenza della mezzanotte. 

Ciò nonostante Netanyahu e Gantz hanno detto che continueranno i loro negoziati per formare un governo unitario d’ “emergenza” e guidare il Paese durante la crisi da coronavirus.

Ora le due parti hanno ufficialmente tre settimane per trovare un accordo, altrimenti la Knesset verrà sciolta e si andrà a ulteriori elezioni.

Concludere un accordo?

Lunedì Reuven Rivlin il presidente che sovrintende ai colloqui, ha detto che gli sviluppi giustificavano la sua decisione di concedere a Gantz altri due giorni per trovare un compromesso.

Ma il mandato di Gantz è scaduto a mezzanotte di mercoledì dopo un tentativo dell’ultima ora compiuto dagli inviati dei due leader. Ciò complicherà i piani per la ripresa economica, quando la pandemia sarà sotto controllo e si allenterà il rigido lockdown imposto al Paese.

Giovedì mattina Netanyahu e Gantz hanno rilasciato una dichiarazione congiunta dicendo che avrebbero continuato i negoziati più tardi in giornata. Tecnicamente i colloqui potrebbero continuare fino allo scioglimento formale del parlamento.

Gantz aveva detto in precedenza che non avrebbe fatto parte di un governo guidato da Netanyahu che, pur respingendo ogni accusa, deve affrontare un’imputazione di corruzione. L’inizio del processo è previsto per il prossimo mese.

Ma l’enormità della crisi da coronavirus ha spinto Gantz a infrangere la promessa fatta durante la sua campagna e a prendere in considerazione un accordo, decisione che ha irritato molti dei suoi sostenitori anti Netanyahu.

Il risultato sembra aver indebolito Gantz e rafforzato Netanyahu, il cui governo provvisorio sta gestendo la risposta alla crisi.

Dato che Gantz non ha più il “mandato” conferitogli dal presidente Netanyahu potrebbe andare in cerca di altre opzioni. 

In totale 59 parlamentari su 120 hanno appoggiato Netanyahu, a cui mancano pochi voti per ottenere la maggioranza. Continuando a dialogare con Gantz potrebbe anche cercare di convincere altri due membri dell’opposizione nella speranza di mettere insieme un governo con una maggioranza risicata.

Lunedì un sondaggio trasmesso dal canale israeliano Channel 12 ha rivelato che se ci fosse un’elezione adesso, il Likud guadagnerebbe 4 seggi e arriverebbe a 40 sui 120 che compongono la Knesset, mentre l’indebolita alleanza Blu e Bianco di Gantz ne otterrebbe solo 19.

Secondo il sondaggio circa il 64% dei cittadini è soddisfatto del modo in cui Netanyahu sta gestendo la pandemia.

Israele ha registrato più di 12.500 casi di COVID-19 e almeno 130 decessi. Le restrizioni hanno confinato la maggioranza degli israeliani nelle loro case, costretto le aziende alla chiusura e fatto salire il tasso di disoccupazione a oltre il 25%.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)