Perché l’Autorità Nazionale Palestinese non è in grado di mobilitare il suo popolo?

Mariam Barghouti

4 febbraio 2020 – Al Jazeera

Per decenni l’ANP ha represso le proteste palestinesi e minato la mobilitazione di massa palestinese.

Con l’annuncio il 28 gennaio dell’ “accordo del secolo” dell’amministrazione Trump, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è entrata in azione. A poche ore dalla cerimonia alla Casa Bianca, durante la quale il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha divulgato i dettagli del suo piano, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato “mille no all’accordo del secolo”.

L’ANP ha quindi proceduto a rilasciare una serie di minacce, tra cui ancora una volta quella di rompere gli accordi con i corpi di sicurezza israeliani, e un appello a manifestazioni di massa contro l’accordo proposto.

Nonostante tutti i suoi affanni retorici, tuttavia, la leadership palestinese non è riuscita a radunare una forte reazione all’oltraggiosa violazione dei diritti dei palestinesi che è in realtà la proposta di Trump. Non è riuscita nemmeno a mobilitare la propria gente. Perché?

Perché da oltre 20 anni l’ANP ha partecipato attivamente alla repressione del popolo palestinese, mantenendo uno stretto rapporto con le forze di sicurezza israeliane. Il suo atteggiamento, i suoi discorsi e le politiche passate e presenti sono sempre stati diretti non a proteggere i diritti e il benessere del popolo palestinese, ma a mantenere il potere a tutti i costi.

L’ “accordo del secolo” ha smascherato la duplicità dell’ANP e il costo che ha rappresentato per la mobilitazione di massa palestinese.

Reprimere il dissenso palestinese

Dalla sua istituzione nel 1994 a seguito dei disastrosi accordi di Oslo, l’ANP ha fatto poco altro che aiutare Israele a pacificare i palestinesi mentre la loro terra, proprietà e risorse venivano confiscate dai coloni ebrei. Per garantirsi il potere, la leadership palestinese ha portato avanti una stretta cooperazione con Israele, torturando i dissidenti palestinesi e fornendo informazioni sugli attivisti palestinesi.

Ha anche represso violentemente qualsiasi protesta pubblica che minacciasse la sua stretta sul potere o fosse considerata una “minaccia” dagli israeliani. Ha ripetutamente schierato la guardia nazionale, la polizia antisommossa e gli scagnozzi fedeli a Fatah, il partito che controlla l’ANP, per reprimere il dissenso.

La mia prima esperienza con le maniere forti dell’ANP è stata nel 2011, durante una manifestazione in piazza Manara a Ramallah di solidarietà con le rivoluzioni dei vicini Paesi arabi. Centinaia di giovani si sono riuniti pacificamente, scandendo slogan politici, chiedendo l’unità tra Fatah e Hamas contro le regole di Oslo. Nel giro di poche ore siamo stati attaccati, malmenati e arrestati.

Nel 2012, siamo scesi in strada per una protesta contro la prevista visita a Ramallah del vice primo ministro israeliano Shaul Mofaz, un uomo accusato di aver commesso innumerevoli crimini contro i palestinesi, incluso il massacro di Jenin durante la seconda Intifada e l’assassinio di vari leader palestinesi.

Abbiamo considerato il suo incontro con Abbas un altro atto di complicità dell’ANP con il progetto di insediamento coloniale israeliano. Siamo usciti in massa per protestare, ma siamo stati duramente picchiati dalla polizia dell’ANP. Più tardi, l’intelligence dell’ANP ci ha seguiti e assaliti per strada, ha chiamato le nostre famiglie minacciandole. Peggio ancora, siamo stati calunniati dai lealisti dell’ANP sulle piattaforme dei social media come “traditori” che avrebbero lavorato per una “agenda straniera”.

Nel 2018, siamo scesi in strada per manifestare contro la complicità dell’ANP nel blocco israeliano su Gaza, che ormai ha reso la Striscia invivibile. L’ANP aveva tagliato lo stipendio ai dipendenti di Gaza, cancellato i trasferimenti per cure mediche e l’assistenza finanziaria a centinaia di famiglie bisognose. A causa dei loro meschini interessi di parte, due milioni di palestinesi soffrono condizioni di vita insopportabili. La nostra protesta è stata di nuovo brutalmente attaccata, siamo stati picchiati, trascinati per le strade di Ramallah e arrestati mentre cercavamo di farci curare le ferite in ospedale.

Questi sono solo alcuni esempi della campagna sistematica dell’ANP per mettere a tacere e placare i palestinesi in modo da fornire a Israele un “senso di sicurezza”. Questo non vuol dire che Hamas sia un attore senza colpe; anch’esso ha commesso la sua buona parte di repressione contro la popolazione palestinese a Gaza e ha cercato di mettere a tacere le critiche.

Basta leadership palestinese

Oltre a reprimere il dissenso palestinese, la leadership palestinese, sia in Cisgiordania che a Gaza, ha cercato anche di strumentalizzare la mobilitazione di massa per i suoi miopi obiettivi politici.

Ogni volta che c’è la dichiarazione di un organismo internazionale che minacci la posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese come rappresentante del popolo palestinese (e non è stata eletta), assistiamo a una serie di discorsi e dichiarazioni di politici palestinesi che chiamano alla protesta.

L’ANP e le altre fazioni e partiti politici palestinesi considerano la protesta palestinese un’arma che possono usare ogni volta che lo desiderano. Vogliono una mobilitazione di massa solo quando gli fa comodo, non quando è meglio per l’interesse del popolo palestinese.

Il problema è che questo atteggiamento, insieme ad anni di repressione del dissenso e angherie nei confronti della società civile, ha aggiunto un altro livello di repressione – oltre all’occupazione israeliana – lasciando i palestinesi disillusi e danneggiando la loro capacità di mobilitarsi efficacemente per la loro lotta.

Nel corso degli anni, molti hanno smesso di vedere una ragione per scendere in piazza, perché la loro protesta sarebbe stata brutalmente repressa o cooptata da forze politiche che considerano illegittime.

Non c’è da stupirsi quindi se, quando l’ANP ha chiesto la mobilitazione di massa nelle strade contro “l’accordo del secolo”, sono arrivati in pochi. Oggi l’ANP è in grado di mobilitare solo chi è fedele alle sue strutture politiche e al suo braccio armato – Fatah. Per radunare una folla a Ramallah, deve portare in bus le persone da fuori città.

Ormai molti palestinesi hanno perso fiducia nella loro leadership. Molti sanno che le minacce dell’ANP di tagliare i legami con le agenzie di intelligence israeliane sono false. L’ultima volta che l’ha fatto, nel 2017, è venuto poi fuori che il 95% del coordinamento per la sicurezza con Israele era stato mantenuto.

Ma nonostante il fallimento politico e morale dei loro leader, i palestinesi non sono disperati. Continuano la loro lotta per la giustizia, i diritti e la fine dell’occupazione israeliana e dell’apartheid. Continuano a mobilitarsi nonostante i loro leader e la loro complicità con Israele.

Lo spirito della piazza palestinese è vivo, ma non può più essere invocato da forze politiche disoneste. Si manifesterà solo in difesa della legittima lotta del popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese americana residente a Ramallah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché di fronte al piano di Trump gli Stati arabi si sono “divisi”?

Farah Najjar

31 gennaio 2020 – Al Jazeera

Diversi Paesi che attraversano sconvolgimenti sociali ed economici e percepiscono l’Iran come minaccia non riescono a contestare il piano di Trump.

Le reazioni divergenti tra gli Stati arabi al cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump non sono state una sorpresa, affermano gli analisti, osservando che il motivo principale del sostegno – forte o discreto che sia – è quello di garantire il sostegno a Washington contro un comune nemico nella regione, l’Iran.

Dicono che ciò è indicativo anche delle divergenze tra Paesi arabi e dell’impossibilità per alcuni, nelle loro relazioni con l’amministrazione Trump, di dare la priorità alla situazione del popolo palestinese rispetto alle agende economiche nazionali e ai calcoli politici.

Che non ci sia stato un ripudio compatto e deciso del piano di Trump presentato martedì segnala la volontà di alcuni Stati arabi di normalizzare i propri rapporti con Israele, per garantire un “fronte unito” contro le presunte minacce dell’Iran.

“Il breve conflitto militare USA-Iran a gennaio [a seguito dell’assassinio del generale Qassem Soleiman. ndtr.] ha convinto alcuni Paesi del Golfo che Washington è il loro unico protettore”, ha detto ad Al Jazeera Ramzy Baroud, scrittore e giornalista palestinese.

“Alcuni fra gli arabi hanno completamente abbandonato la Palestina e stanno abbracciando Israele per difendersi da una immaginaria minaccia iraniana”, ha detto Baroud.

Negli ultimi anni alcuni Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che tradizionalmente sostenevano la causa palestinese, hanno cercato di ingraziarsi Israele perché vedono l’Iran come la maggiore minaccia nella regione.

Penso che ciò che è successo sia che queste persone abbiano adottato l’approccio secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico”, ha detto ad Al Jazeera Diana Buttu, analista ed ex consulente legale dei negoziatori di pace palestinesi.

“E non dovrebbe essere necessario neutralizzare l’Iran, o occuparsi dell’Iran … finirebbe per essere a spese dei palestinesi”, ha detto.

Stato di decadenza morale”

Trump, insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha presentato la sua proposta alla Casa Bianca ad un pubblico filoisraeliano. Tra i presenti alla riunione inaugurale c’erano gli ambasciatori del Bahrain, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Oman.

Muscat [capitale dell’Oman, ndtr.], che ha tradizionalmente condotto una politica estera neutrale, nel 2018 con una mossa a sorpresa ha ricevuto Netanyahu, prima visita in Oman di un leader israeliano in oltre due decenni.

Mentre l’Arabia Saudita ha affermato di apprezzare gli sforzi di Trump e ha auspicato colloqui diretti israelo-palestinesi, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef al-Otaiba, ha dichiarato che il piano “offre un importante punto di partenza per un ritorno ai negoziati all’interno di un quadro internazionale guidato dagli Stati Uniti.”

L’Egitto ha seguito l’esempio, sollecitando “un attento e approfondito esame del progetto statunitense”, mentre la Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi”. Amman custodisce il complesso della moschea Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, considerato il terzo sito santo dell’Islam.

Nonostante alcuni di questi Paesi si siano sempre opposti alla crescente influenza dell’Iran nella regione, in passato avevano preso posizioni più forti contro la politica israeliana in Palestina.

Da quando ha assunto la carica il 20 gennaio 2017, Trump è apparso sostenitore dichiarato di Israele e Netanyahu e delle loro politiche anti-palestinesi, che includono una serie di misure criticate come “razziste” e “discriminatorie”.

In particolare, il controverso riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata nel 2018 hanno suscitato una condanna unanime da parte dei leader arabi, mentre i leader palestinesi, che vedono Gerusalemme Est come capitale del loro futuro Stato, hanno affermato che gli Stati Uniti non sono più un mediatore onesto nei negoziati.

L’amministrazione Trump ha anche dichiarato che non considera più illegali gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, invertendo decenni di politica americana – una mossa contrastata con forza da palestinesi e associazioni per i diritti.

Washington ha anche chiuso gli uffici della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a Washington per il rifiuto dell’autorità palestinese di avviare colloqui con Israele guidati dagli Stati Uniti.

A queste mosse contro il popolo palestinese e la sua leadership, le Nazioni arabe hanno reagito condannando apertamente le politiche USA-israeliane come violazioni del diritto internazionale, specialmente in merito allo status di Gerusalemme e al trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv.

“Penso che il valore simbolico di Gerusalemme renda più difficile per gli Stati legati agli USA andare contro l’opinione pubblica”, ha affermato Sam Husseini, direttore dell’Institute of Public Accuracy [Istituto per il contrasto alla falsa informazione, ndtr] con sede a Washington.

“È più facile abbandonare i palestinesi come popolo”, ha detto.

Analogamente, Baroud ha affermato che il sostegno al piano di Trump con il conseguente abbandono del popolo palestinese riflette lo “stato di decadenza morale e la disunione del mondo politico arabo”.

“Da un lato, cercano timidamente di mostrare il loro sostegno ai palestinesi, ma dall’altro non vogliono trovarsi in uno scontro politico con Washington e i suoi alleati”, ha detto.

Alaa Tartir, consulente politico di Al-Shabaka: Palestinian Policy Network [rete politica palestinese, ndtr.] afferma che i Paesi arabi non vogliono sfidare gli Stati Uniti.

“In assenza di una potente Lega di Stati arabi … i singoli Stati arabi danno priorità al proprio programma, ai propri bisogni e alle aspirazioni e ambizioni nella regione “, ha detto Tartir ad Al Jazeera.

“Dire un ‘no’ diretto all’amministrazione americana avrebbe conseguenze che molti Stati arabi non sono disposti a sostenere”, ha osservato.

Dipendenza dagli Stati Uniti”

La proposta di Trump ha tolto di mezzo i palestinesi e viola la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che invitava Israele a ritirare le sue forze dai territori occupati nella guerra dei Sei Giorni, e auspicava anche il ritorno dei rifugiati

Prevede l’annessione israeliana di vaste aree della Cisgiordania occupata, compresi gli insediamenti illegali e la Valle del Giordano, offrendo a Israele un confine orientale definitivo lungo il fiume Giordano.

Per contrastare il piano, gli Stati arabi dovrebbero elaborare un “piano e una visione operativa parallela e dettagliata”, ha affermato Tartir.

“Potrebbero iniziare un processo di riforma delle istituzioni di governance globale; e investire in procedure e norme internazionali per rafforzare quella governance di fronte alle continue violazioni americane-israeliane”.

Ma la maggior parte degli Stati arabi è intrappolata in una sequenza di “frammentazione, polarizzazione, debolezza” e, soprattutto, “dipendenza dall’amministrazione americana”, ha affermato Tartir, riferendosi agli sconvolgimenti sociali ed economici in diversi Paesi della regione.

Alcuni dipendono dagli Stati Uniti per mantenere il potere politico; altri, come la Giordania e l’Egitto, dipendono anche dai finanziamenti statunitensi – entrambi i Paesi sono tra i principali beneficiari degli aiuti statunitensi.

Dal 1979, l’Egitto ha ricevuto aiuti per una media di 1,6 miliardi di dollari l’anno, la maggior parte dei quali è stata destinata all’esercito. Il finanziamento statunitense è stato brevemente sospeso durante l’amministrazione del presidente Barack Obama in seguito al colpo di stato militare del 2012.

Amman e il Cairo, stretti alleati degli Stati Uniti e uniche Nazioni arabe ad avere legami diplomatici con Israele, sembrano essere economicamente troppo fragili per contrastare le politiche di USA e Israele nella regione.

“Parlare di potere politico arabo e di una eventuale unità a difesa dei diritti dei palestinesi sembra del tutto incompatibile con l’attuale natura della realtà politica”, ha osservato Baroud.

“I diritti del popolo palestinese e, diciamolo, i diritti dei popoli arabi al momento non incidono minimamente sull’agenda politica araba”, ha affermato.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Trump rivela il suo piano per il Medio Oriente, rifiutato dai palestinesi

Al Jazeera

28 gennaio 2020 Al Jazeera

I palestinesi respingono la proposta di Trump in Medio Oriente, definendola una “cospirazione” che “non passerà”.

Dopo molti rinvii, martedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha esposto il suo piano per il Medio Oriente – una proposta che i leader palestinesi hanno definito una “cospirazione” che “non passerà”.

“Oggi Israele ha fatto un passo da gigante verso la pace”, ha dichiarato Trump con a fianco il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

“Il mio progetto presenta una soluzione vantaggiosa per entrambe le parti”, ha affermato, aggiungendo che i leader israeliani hanno dichiarato che avrebbero appoggiato la proposta.

Prima che fosse annunciata, i palestinesi l’avevano dichiarata già morta, dicendo che si tratta di un tentativo di “liquidare” la causa palestinese.

In seguito all’annuncio di Trump, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato i suoi “mille no” al piano.

Nel frattempo, Netanyahu ha detto trattarsi di un “giorno storico” e ha ringraziato Trump per la sua proposta. Ha detto che se i palestinesi accettano il piano, Israele sarà disposto a negoziare “subito”.

Gerusalemme “capitale indivisa”

L’iniziativa di Trump, il cui autore principale è suo genero Jared Kushner, segue una lunga serie di sforzi per risolvere uno dei problemi più irresolubili del mondo. I colloqui di pace israelo-palestinesi sono falliti nel 2014.

I palestinesi si sono rifiutati di confrontarsi con l’amministrazione Trump e hanno condannato la prima fase della proposta – un piano di risanamento economico di 50 miliardi di dollari annunciato lo scorso giugno.

Il piano politico di 50 pagine riconosce la sovranità israeliana sui principali gruppi di colonie illegali nella Cisgiordania occupata, a cui quasi sicuramente i palestinesi si opporranno. Trump ha dichiarato che a Israele verrà concesso il controllo di sicurezza della Valle del Giordano nella Cisgiordania occupata.

Trump ha detto che Gerusalemme resterà “capitale indivisa” di Israele. Ma ha anche detto che, secondo il piano, “Gerusalemme est” sarebbe la capitale di uno Stato di Palestina. Non ha approfondito cosa intendesse per Gerusalemme est. In seguito ha dichiarato su Twitter che una capitale palestinese potrebbe essere da qualche parte a “Gerusalemme est”.

Trump aveva già riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, trasferendovi l’ambasciata americana da Tel Aviv.

In replica al piano, Abbas ha dichiarato: “Gerusalemme non è in vendita; tutti i nostri diritti non sono in vendita e non sono un affare”.

Sami Abu Zhuri, funzionario di Hamas [portavoce di Hamas nella Striscia di Gaza], ha affermato che la dichiarazione di Trump è “un’aggressione e scatenerà molta rabbia”.

“La dichiarazione di Trump su Gerusalemme è una sciocchezza e Gerusalemme sarà sempre terra dei palestinesi”, ha detto Zhuri all’agenzia di stampa Reuters . “I palestinesi si opporranno a questo accordo e Gerusalemme rimarrà terra palestinese”.

Martedì scorso, migliaia di palestinesi hanno manifestato nella Striscia di Gaza assediata per protestare contro l’atteso piano. Ci sono state proteste anche a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Marwan Bishara, capo analista politico di Al Jazeera, ha affermato che “In questo caso il diavolo non è nei dettagli “.

“Il diavolo è nei titoli”, ha detto Bishara. “Ciò che abbiamo qui è un riconfezionamento – ingegnoso, molto intelligente e diabolico – dei problemi cronici di Israele e in Palestina per promuoverli come soluzioni”.

Conseguenze pericolose”

La maggior parte dei leader della regione ha stracciato il piano, ma altri hanno prudentemente incoraggiato israeliani e palestinesi a sedersi al tavolo dei negoziati.

La Giordania ha messo in guardia contro “l’annessione delle terre palestinesi” con l’allarme del ministro degli esteri del regno per le “pericolose conseguenze di misure israeliane unilaterali che mirano a imporre nuove realtà sul terreno “.

Anche Numan Kurtulmus, vicepresidente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AK) al potere in Turchia, ha rigettato le dichiarazioni di Trump su Gerusalemme, dicendo: “No, Trump! Gerusalemme è capitale dello Stato palestinese e cuore del mondo islamico!”

Secondo Al Manar TV, il movimento libanese Hezbollah ha definito la proposta “l’accordo della vergogna”, aggiungendo che si tratta di un passo molto pericoloso che avrebbe conseguenze negative sul futuro della regione,.

Ha dichiarato anche che non ci sarebbe stata questa proposta senza “complicità e tradimento” da parte di diversi stati arabi.

L’Egitto ha esortato israeliani e palestinesi a “studiare attentamente” la proposta. Il ministero degli Esteri ha affermato in una dichiarazione che il piano favorisce una soluzione che ripristina tutti i “diritti legittimi” del popolo palestinese attraverso la creazione di uno “Stato indipendente e sovrano sui territori palestinesi occupati”.

L’ambasciatore in USA degli Emirati Arabi Uniti ha dichiarato che gli Emirati Arabi Uniti credono che palestinesi e israeliani possano raggiungere una pace duratura e un’autentica convivenza con il sostegno della comunità internazionale.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato di essere impegnate ad aiutare israeliani e palestinesi a discutere la pace sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, degli accordi bilaterali e della visione di due Stati basati sui confini pre-1967. Una di queste risoluzioni delle Nazioni Unite è stata adottata dal Consiglio di sicurezza un mese prima dell’entrata in carica di Trump nel gennaio 2017. La risoluzione chiede la fine delle colonie israeliane, con 14 voti a favore e l’astensione dell’amministrazione dell’ex presidente americano Barack Obama.

Mediatore onesto?

I palestinesi avevano precedentemente affermato che gli Stati Uniti non possono essere un onesto mediatore per la pace nella regione, accusandoli di pendere a favore di Israele.

Oltre a spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, l’amministrazione Trump ha anche tagliato centinaia di milioni di dollari in aiuti umanitari ai palestinesi e riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate da Israele.

A novembre, con l’annuncio del segretario di Stato Mike Pompeo, che Washington non considerava più gli insediamenti israeliani sulle terre occupate della Cisgiordania come incompatibili con il diritto internazionale, l’amministrazione Trump ha ribaltato decenni di politica americana.

Kushner ha detto ad Al Jazeera che gli Stati Uniti credono che la proposta di Trump sia “l’ultima possibilità per i palestinesi di avere uno Stato”.

“È tempo [per i palestinesi] di lasciar andare le vecchie fiabe che a dirlo chiaramente non si realizzeranno mai”, ha aggiunto.

La proposta giunge proprio quando Trump e Netanyahu si trovano ad affrontare problemi politici in patria.

Trump ha ricevuto l’impeachment alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti il mese scorso ed è sotto processo al Senato per abuso di potere. Anche lui dovrà affrontare la rielezione a novembre. Netanyahu è accusato di corruzione e le elezioni nazionali saranno il 2 marzo, la sua terza volta in meno di un anno. Entrambi negano di aver commesso un illecito.

Il rivale elettorale di Netanyahu, Benny Gantz, anche lui a Washington questa settimana, ha affermato di aver lui pure appoggiato la proposta.

“Il piano di pace del presidente è una pietra miliare significativa e storica”, ha detto Gantz ai giornalisti lunedì.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi mettono in guardia Israele e gli USA mentre Trump sta discutendo il nuovo ‘piano per la pace’

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

I palestinesi respingono l’incontro tra gli USA e Netanyahu affermando di non riconoscere il piano di pace che si prevede favorisca Israele.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha messo in guardia Israele e gli Stati Uniti dal “valicare le linee rosse” promettendo che non riconoscerà il piano di pace per il Medio Oriente che aveva già respinto in precedenza mentre il Presidente USA Donald Trump si prepara a presentare il piano nei prossimi giorni.

Giovedì Trump ha detto che probabilmente rivelerà il tanto atteso progetto prima della visita a Washington, DC, di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, la prossima settimana.

“Probabilmente lo renderò noto un po’ prima” ha detto il leader degli USA ai reporter che andavano con lui in Florida a bordo dell’Air Force One, riferendosi all’incontro di martedì alla Casa Bianca.

“È un ottimo piano. È un piano che funzionerà davvero” ha aggiunto.

I palestinesi, che non sono stati invitati alla Casa Bianca per l’incontro con Netanyahu, hanno immediatamente respinto le trattative che si svolgono negli USA, in quanto respingono il piano in sé che è stato elaborato dal 2017. La sua presentazione è stata più volte rimandata.

La parte economica del piano è stata rivelata a giugno e prevede 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nei territori palestinesi e nei Paesi arabi vicini per 10 anni.

I palestinesi hanno respinto i tentativi di pace di Trump dopo il suo controverso riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata USA a maggio 2018.

Come ha riferito la WAFA, l’agenzia stampa ufficiale palestinese, Nabil Abu Rudeineh, un portavoce del presidente palestinese, ha dichiarato che i leader palestinesi respingeranno ogni atto USA che infranga le leggi internazionali. 

“Se questo accordo viene presentato con quelle premesse che sono state già respinte, i leader annunceranno una serie di misure volte a garantire i nostri legittimi diritti e pretenderemo che Israele si assuma tutte le responsabilità quale potenza occupante” ha detto Abu Rudeineh.

Sembrava fare riferimento alle minacce, spesso reiterate, di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele. Ciò costringerebbe Israele ad assumersi la responsabilità di fornire servizi essenziali a milioni di palestinesi.

“Noi vogliamo mettere in guardia Israele e l’amministrazione USA dal valicare le linee rosse” ha detto Abu Rudeineh che ha ripetuto la richiesta di porre fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e detto che dovrebbe essere costituito uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme.

‘Si parla solo di Israele’

In aereo, giovedì, Trump si è detto contento che Netanyahu e il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, capo del partito di centro Blu Bianco, avrebbero fatto visita alla Casa Bianca nel mezzo della campagna per le elezioni in Israele del 2 marzo.

“Verranno entrambi i candidati, una cosa mai successa!” ha detto Trump.

Alla domanda se avesse contattato i palestinesi, Trump ha detto: “Abbiamo parlato brevemente con loro, ma lo faremo fra poco.

E loro hanno molti incentivi a farlo. Sono sicuro che forse all’inizio reagiranno negativamente, ma per loro è davvero molto positivo.”

Husam Zomlot, il capo della missione palestinese nel Regno Unito, ha detto all’agenzia di stampa AFP [agenzia di stampa francese, N.d.T] che il fatto che Trump abbia invitato i due leader israeliani e nessun palestinese dimostra che il meeting intende influire sulla politica interna israeliana più che essere un vero tentativo di pace. 

“Questa è la conferma di quella che è stata dall’inizio la loro politica fin dall’inizio – si parla solo di Israele.”

Si prevede che il progetto sia fortemente a favore di Israele e che gli offra il controllo di vaste zone della Cisgiordania.

I palestinesi vorrebbero invece che l’intero territorio, conquistato da Israele nel 1967, diventasse il cuore di un futuro Stato indipendente, parte della soluzione dei due Stati sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale.

Netanyahu ha detto che intende annettere sia la Valle del Giordano occupata che gli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, ponendo così fine a ogni possibilità di creare uno Stato palestinese sostenibile.

Netanyahu ha tentato di fare di questa promessa la chiave di volta della sua campagna per la rielezione in seguito al testa a testa senza precedenti dopo le ultime elezioni dell’anno scorso che lo ha lasciato in virtuale pareggio con Gantz, ma senza che nessuno dei due fosse in grado di formare una coalizione di governo.

‘L’accordo del secolo’ di Trump

Trump, la cui squadra sta da tempo lavorando sul progetto di un piano di pace segreto, si è ripetutamente vantato di essere il presidente USA più pro-israeliano della storia.

Abbas ha tagliato ogni rapporto con gli USA dal dicembre 2017, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con cui Trump ha rotto decenni di consenso internazionale.

I palestinesi considerano la parte orientale della città la capitale del loro futuro Stato e le potenze mondiali concordano da tempo che il destino di Gerusalemme dovrebbe essere deciso con una soluzione negoziata.

Trump è salito al potere nel 2017 promettendo di mediare la pace tra israeliani e palestinesi, che aveva chiamato “l’accordo del secolo “.

Ma da allora ha preso una serie di decisioni che hanno indignato i palestinesi, incluso il taglio di centinaia di milioni di dollari di aiuti e la dichiarazione che gli USA non considerano più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania.

Si ritiene che il suo piano per porre fine al conflitto israelo-palestinese ruoti attorno alla promozione di enormi investimenti economici.

Dopo molti rinvii, l’iniziativa di pace era prevista parecchi mesi fa, ma è stata rimandata dopo che le elezioni in Israele a settembre si sono dimostrate inconcludenti e non si pensava che sarebbe stata resa nota fino a dopo il voto del 2 marzo.

I media israeliani hanno discusso quella che dicono siano le linee generali dell’accordo trapelate giovedì, sostenendo che gli USA sono d’accordo su molte delle principali richieste israeliane.

L’incontro a Washington, DC, si terrà circa un mese prima delle nuove elezioni, con i sondaggi che mostrano un testa a testa fra la destra del Likud di Netanyahu e il partito di Gantz, il Blu e Bianco.

Il meeting di martedì coincide con una seduta del parlamento [israeliano] prevista per discutere la possibile immunità di Netanyahu per l’imputazione in una serie di casi di corruzione.    

I media israeliani sospettano che Trump abbia scelto di annunciare l’evento per sostenere il tentativo di rielezione di Netanyahu, il terzo in un anno.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il BDS ha bisogno di una visione politica sulla costruzione di uno Stato palestinese

Haidar Eid

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

Finora la campagna del BDS ha evitato questa questione, ma prima o poi dovrà fare una scelta.

Sono passati quasi 15 anni da quando il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è stato promosso dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI).

L’obiettivo della campagna è costringere Israele e i suoi sostenitori a riconoscere che lo status quo nelle terre palestinesi e in Israele non è sostenibile a lungo termine e che non può esserci soluzione senza rispetto del diritto internazionale, della civiltà e della democrazia. Ciò significa porre fine all’occupazione illegale della Cisgiordania e all’assedio di Gaza, garantire uguali diritti all’interno di Israele per i suoi cittadini palestinesi e concretizzare il diritto di tornare alle loro case per i palestinesi cacciati durante la diaspora.

Oggi la campagna del BDS gode del sostegno della stragrande maggioranza della società civile palestinese. La tendenza sta cambiando anche in Occidente, dove il sistema di oppressione a più livelli da parte di Israele, in particolare l’occupazione, la colonizzazione e l’apartheid, sono sempre più condannati.

La società civile internazionale sembra aver raggiunto la conclusione che, come per il Sudafrica, il sistema di oppressione israeliano non può essere arrestato senza che si ponga fine alla complicità internazionale e si intensifichi la solidarietà globale, in particolare attraverso il BDS. Pertanto, la campagna si sta rapidamente avvicinando al modello sudafricano per maturità e impatto.

Personalmente, sono stato coinvolto nel BDS sin dalle sue origini e lo sostengo con tutto il cuore. Tuttavia, sono anche preoccupato che l’attenzione del pubblico si limiti alle richieste immediate della campagna a spese dello sviluppo di un piano coerente per il futuro politico della Palestina. In altre parole, poiché la campagna si limita a garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi, manca una visione della realtà politica all’interno della quale tali diritti saranno collocati.

La campagna del BDS è stata volutamente ambigua sulla forma che lo Stato palestinese dovrebbe prendere e ci sono ragioni tattiche per questo – evitare principalmente disaccordi all’interno del movimento.

Tuttavia, sono del parere che optare per il silenzio su importanti questioni politiche sul futuro della Palestina sia una tattica sbagliata. Concentrarsi sulla fine dell’occupazione, i diritti dei palestinesi in Israele e il diritto al ritorno deve essere inserito in un programma politico che promuova la soluzione dello Stato unico.

Questo è il motivo per cui ho co-fondato, con un gruppo di accademici e attivisti, il One Democratic State Group [Organizzazione per lo Stato unico democratico]. Il gruppo, che fa parte della One State Campaign [ODSC, Campagna per lo Stato unico democratico, organizzazione con adesioni palestinesi e israeliane fondata nel 2017, ndtr.], ha presentato un programma che non solo ribadisce il diritto al ritorno, i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e la fine dell’occupazione, ma propone anche una visione riguardo a un’organizzazione statale, uno sviluppo economico, una giustizia sociale e una politica internazionale responsabile.

La premessa centrale è che la soluzione dei due Stati è morta e dovrebbe essere dichiarata tale, nonostante l’attaccamento che molti gruppi, specialmente quelli di sinistra, [continuano ad] avere.

È tempo che tutti coloro che nella discussione pubblica in Palestina e all’estero continuano a proporre la soluzione dei due Stati si rendano conto che la strategia israeliana di colonizzazione della Cisgiordania e la graduale espulsione dei residenti palestinesi col proposito di una futura annessione l’ha resa impossibile.

A questo punto, attenersi alla visione dei due Stati – una soluzione impossibile – significa semplicemente la continuazione dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid.

Anche se capisco perfettamente la posizione assunta dai difensori dell’approccio basato sui diritti, penso ancora che vi sia un urgente bisogno di una visione politica che aiuti a portare una luce alla fine del tunnel per quei milioni di persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo e per gli oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi sparsi in tutto il mondo.

Secondo me, il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe tradursi in una soluzione razzista in cui vi siano due Stati, uno dei quali viola i diritti dei due terzi del popolo palestinese. Vale a dire, uno Stato israeliano continuerebbe a trattare i suoi cittadini palestinesi come di seconda classe e continuerebbe a negare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Non sarebbe diverso dal Sudafrica del governo bianco, uno Stato che ha concesso diritti esclusivi a una razza escludendone tutte le altre. Se vogliamo imparare dal movimento anti-apartheid sudafricano, allora dovremmo prestare attenzione alla sua visione politica: democrazia, uguaglianza razziale e fine della segregazione.

Questa strategia ha portato alla creazione di uno Stato laico e democratico nella terra del Sudafrica, che appartiene a tutti i sudafricani, proprio come previsto dalla Carta della libertà dell’Alleanza congressuale sudafricana [The Congress South African Alleance è un’organizzazione anti-apartheid fondata in Sud Africa, su iniziativa dell’African National Congress, negli anni ‘50 del secolo scorso ndtr.].

È incredibile che alcune persone che hanno sostenuto la fine dell’apartheid non vedano la contraddizione intrinseca nel loro sostegno a uno Stato etnico palestinese, che soddisferebbe il diritto all’autodeterminazione solo di quei palestinesi che risiedono in Cisgiordania e a Gaza e priverebbe di questo diritto la diaspora e i cittadini palestinesi di Israele.

Ciò equivale a sostenere il “diritto” dei quattro famigerati Bantustan [i Bantustan, vere e proprie riserve per le popolazioni di colore, conseguenza delle politiche di aparheid portate avanti in Sud Africa dal 1948 al 1991 dal National Congress, ndtr.], Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei, all’ “indipendenza”

La soluzione dei due Stati non garantirà la democrazia, la fine della segregazione e i pieni diritti politici per tutti i palestinesi. Non fornirà l’autodeterminazione per tutti i palestinesi. In realtà, escluderà milioni di palestinesi che vivono in Israele sia nella diaspora dalla cittadinanza palestinese sia dal riconoscimento dei diritti.

Dobbiamo andare oltre il dibattito sulla soluzione tra uno e due Stati e cercare di perseguire un approccio più accurato : la lotta basata sui diritti unita a una visione politica ben definita che può essere realizzata nel quadro di uno Stato unitario con garanzia di uguaglianza per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla religione, dall’etnia o dal genere.

Per il momento la campagna del BDS potrebbe attendere nel prendere una posizione, ma prima o poi dovrà farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Haidar Eid è professore associato presso l’Università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il processo contro il software di sorveglianza israeliano si svolge a porte chiuse

Pegasus è collegato allo spionaggio politico in Messico, Emirati Arabi e Arabia Saudita: Citizen Lab dell’università di Toronto.

16 gennaio 2020 – Al Jazeera

Giovedì un tribunale israeliano ha disposto le udienze a porte chiuse del processo intentato da Amnesty International per bloccare le esportazioni del gruppo NSO [dalle iniziali dei fondatori dell’azienda: Niv, Shalev e Omri, è una società tecnologica israeliana, ndtr.] di software di spionaggio, che le associazioni per i diritti affermano vengano usati per spiare giornalisti e dissidenti in tutto il mondo.

Una giudice della Corte Distrettuale di Tel Aviv ha citato preoccupazioni relative alla sicurezza nazionale quando ha escluso il pubblico e i media dalle udienze. L’iniziativa ha comportato un’immediata condanna da parte dell’associazione di attivisti.

“È vergognoso che veniamo costretti al silenzio”, ha detto ai giornalisti Gil Naveh, un portavoce di Amnesty.

Il Ministero della Difesa di Israele – che ha richiesto il divieto della Corte – e NSO hanno rifiutato di commentare la causa intentata da Amnesty. La causa potrebbe stabilire se il governo debba inasprire i controlli sulle esportazioni di strumenti informatici – un settore in cui Israele è leader mondiale.

Amnesty afferma che i governi hanno usato il software di hackeraggio dei cellulari della società israeliana per reprimere gli attivisti in tutto il mondo. Uno studio di Citizen Lab [Laboratorio dei Cittadini, associazione che difende i cittadini dallo spionaggio illecito dei governi, ndtr.] dell’università di Toronto ha collegato Pegasus allo spionaggio politico in Messico, Emirati Arabi e Arabia Saudita.

NSO ha affermato di vendere la propria tecnologia solo ad enti statali e alle forze dell’ordine per “aiutarle nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata.”

La giudice Rachel Barkai inizialmente aveva detto che avrebbe permesso che le argomentazioni di Amnesty fossero ascoltate dal pubblico, ma gli avvocati del governo hanno sostenuto che sarebbe parso che lo Stato stesse accettando le accuse di Amnesty e Barkai ha cambiato idea.

NSO è finita sotto esame quando un dissidente saudita legato al giornalista assassinato Jamal Khashoggi ha intentato causa sostenendo che NSO aveva aiutato la corte reale ad entrare nel suo cellulare e a spiare le sue comunicazioni con Khashoggi.

NSO ha negato che la sua tecnologia sia stata utilizzata nell’omicidio di Khashoggi.

In ottobre WhatsApp, che è di proprietà di Facebook Inc., ha fatto causa a NSO presso la corte federale degli Stati Uniti a San Francisco. WhatsApp ha accusato NSO di aiutare le spie governative ad entrare nei telefoni di circa 1.400 utenti in quattro continenti.

Nella causa di Amnesty, intentata da membri e sostenitori del suo ufficio di Israele, l’organizzazione ha affermato che NSO continua a trarre profitti dal suo programma spia che viene usato per commettere violazioni contro attivisti in tutto il mondo e che il governo israeliano “è rimasto a guardare senza fare niente.”

“Il modo migliore per impedire che i potenti prodotti di spionaggio di NSO arrivino ai governi repressivi è revocare la licenza di esportazione della società, e questo è esattamente ciò che questa causa legale intende fare”, ha detto Danna Ingleton, vicedirettrice di Amnesty Tech.

Amnesty Tech è descritta sul sito web di Amnesty International come una collettività globale di avvocati, esperti di informatica, ricercatori e tecnologie che sfidano “la sistematica minaccia ai nostri diritti” da parte delle imprese di spionaggio.

NSO, che l’anno scorso è stata acquisita dalla società privata Novalpina Capital con sede a Londra, a settembre ha annunciato che avrebbe iniziato ad attenersi alle linee guida dell’ONU sulle violazioni dei diritti umani.

FONTE: Agenzia di informazioni Reuters

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Israele: il voto del partito dimostra che il Likud non ha intenzione di abbandonare Netanyahu

Arwa Ibrahim

27 Dec 2019 27 dicembre 2019 – Al Jazeera

Il primo ministro in difficoltà deve affrontare accuse di corruzione e terze elezioni politiche in 11 mesi

Gli analisti dicono che la vittoria schiacciante del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nelle primarie di giovedì ha dimostrato che il Likud non abbandonerà il suo storico leader e primo ministro in carica per più tempo [nella storia di Israele, ndtr.].

Pur essendo il primo capo del governo in carica ad essere accusato di corruzione e che ha dovuto affrontare gravi sconfitte in due elezioni generali in meno di sei mesi, un conteggio [delle preferenze] del Likud ha dato a Netanyahu il 72,5% dei voti contro il suo sfidante, l’ex ministro degli Interni e dell’Educazione Gideon Sa’ar. La commissione elettorale israeliana deve ancora pubblicare i dati ufficiali del voto, ma il conteggio preliminare ha rafforzato la reputazione di Netanyahu come politico invincibile, soprannominato il “mago”.

Questa schiacciante vittoria è la prova che Netanyahu non ha avversari nel Likud, nonostante le accuse di corruzione e il fatto che per due volte non sia riuscito a formare un governo,” dice ad Al Jazeera l’analista israeliano Mayer Cohen.

Il Likud crede ancora che Netanyahu abbia un ampio sostegno dell’opinione pubblica e sia l’unico in grado di guidare il partito nelle imminenti elezioni,” aggiunge.

Sa’ar, che venerdì ha riconosciuto la sconfitta, aveva annunciato la propria candidatura per la direzione del partito dopo che in novembre il procuratore generale di Israele ha incriminato Netanyahu in tre diversi processi penali per corruzione, frode e abuso di potere.

Netanyahu per due volte non è neanche riuscito a formare un governo in seguito a due elezioni politiche inconcludenti tenutesi nell’aprile e nel settembre di quest’anno.

Il 2 marzo 2020 si terranno le terze elezioni politiche senza precedenti, dopo uno stallo politico derivato dal fatto che neppure il rivale di Netanyahu e leader dell’alleanza “Blu e Bianco” [coalizione di centro destra che ha vinto per un seggio le elezioni di settembre, ndtr.], Benny Gantz, è riuscito a formare una coalizione di governo.

Base d’appoggio

Secondo alcuni analisti, il successo di Netanyahu alle primarie è dovuto a un forte senso di lealtà all’interno del partito e al suo retaggio come primo ministro di successo.

Nel Likud le persone danno importanza alla lealtà. Considerano il partito una famiglia e nessuno tradisce la famiglia,” dice Uri Dromi, direttore generale del Jerusalem Press Club [agenzia che fornisce servizi ai giornali, ndtr.].

Yair Wallach, importante docente di politica israeliana presso la Scuola di Studi Orientali e Africani a Londra, è d’accordo.

Il Likud non ha mai cacciato un leader. Farlo viene visto come sleale,” dice Wallach. “Anche l’opinione pubblica israeliana considera il regno di Netanyahu come un successo. È visto come una forza positiva per Israele sia economicamente che diplomaticamente, così come riguardo alla sicurezza. Il suo approccio militare relativamente cauto è considerato (dai suoi sostenitori) un pregio,” aggiunge Wallach.

Ma secondo lui tenersi stretto Netanyahu potrebbe porre seri rischi al Likud nelle prossime elezioni, e aggiunge che “per il Likud la seconda elezione è andata peggio della prima, e la terza potrebbe benissimo essere persino peggiore. Di conseguenza aggrapparsi su Netanyahu è un rischio per il Likud e per la destra in generale.”

Sfide da affrontare

Secondo Dromi molti membri del Likud potrebbero anche considerare Sa’ar un traditore per aver sfidato Netanyahu, ma l’ex-ministro dell’Educazione ora si è collocato nella posizione di essere in futuro il potenziale sostituto del leader del partito.

Sa’ar è visto come l’unico che ha avuto il coraggio di sfidare Netanyahu. Qualora Netanyahu venga spodestato, politicamente o per via giudiziaria, Sa’ar potrebbe sostituirlo,” spiega.

L’Alta Corte israeliana ha affermato che la prossima settimana prenderà una decisione sulla possibilità che un primo ministro sotto processo formi un governo – nel caso in cui Netanyahu vinca le elezioni di marzo.

Finora l’Alta Corte non ha espresso un parere sull’argomento, ma ha chiesto al procuratore generale Avichai Mandelblit di rendere pubblico un parere giuridico sulla questione prima dell’udienza. Secondo l’analista israeliano Eli Nissan la vittoria di Netanyahu alle primarie del partito potrebbe rafforzare la sua posizione in tribunale. “Dopo i risultati di oggi, questa decisione ora spetta all’opinione pubblica più che al tribunale,” dice Nissan a Al Jazeera.

Cohen concorda, affermando che “la base di sostenitori di destra di Netanyahu ha iniziato a convincersi sempre di più che egli è vittima di una caccia alle streghe per ragioni politiche guidata dai media.” Netanyahu, che ha definito la causa legale contro di lui come una caccia alle streghe politica orchestrata dai media e da una sinistra israeliana che spera di cacciarlo, ha cercato [di ottenere] l’immunità dall’incriminazione.

Benché all’inizio dell’anno gli alleati di Netanyahu abbiano sostenuto la bozza di una controversa legge intesa a proteggerlo dall’incriminazione, così come una normativa che limiterebbe il potere della Corte Suprema israeliana, non è scontato che al primo ministro venga concessa l’immunità.

Se i membri della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] che hanno votato per Sa’ar si astengono o si oppongono alla concessione dell’immunità a Netanyahu, allora egli è nei guai e il suo processo inizia,” dice Dromi ad Al Jazeera. “È ciò che potrebbe fare la differenza nelle terze elezioni.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Riorganizzare l’UNRWA nel mondo della post-verità

Christopher Gunness

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Non più dipendente dai finanziamenti USA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi deve tornare a dedicarsi al suo storico compito.

Nel mondo di Donald Trump e Boris Johnson della post-verità e della post-vergogna, in cui le politiche sono lanciate con un tweet, la storia è riscritta con una citazione e la “realtà” fatta da un titolo in prima pagina, il sostegno costante dell’UNRWA a oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi, ai loro diritti e alla loro dignità non è mai stato più importante.

Ma l’agenzia, che ora celebra i suoi 70 anni, deve riuscire a ribaltare il recente scandalo di cattiva gestione, ricuperare la fiducia dei donatori e riprendere i contatti con le comunità di rifugiati. Sotto la sua nuova dirigenza può riuscirci e risorgere più forte.

La posta in gioco non è mai stata così alta.

Nell’agosto 2018 la Casa Bianca di Trump ha tagliato il contributo annuale degli USA all’UNRWA – 365 milioni di dollari del bilancio dell’agenzia – pregiudicando i servizi per la più numerosa ed antica popolazione di rifugiati al mondo.

È presto emerso uno schema di unilateralismo distruttivo. Nel dicembre 2017 gli USA hanno annunciato la decisione di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo l’annessione e l’occupazione illegali della città da parte di Israele, facendo a pezzi decenni di consenso internazionale.

Nel marzo di quest’anno l’ambasciatore di Washington in Israele ha appoggiato l’illegale annessione delle Alture del Golan e a novembre gli USA hanno dichiarato che le colonie ebraiche non sono in contraddizione con le leggi internazionali, avallando quindi molteplici “gravi violazioni” delle Convenzioni di Ginevra – che potrebbero rappresentare crimini di guerra – da parte di Israele, il potere occupante, contro un popolo protetto dall’ONU.

Incoraggiato dalla debole risposta internazionale, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha chiesto di più. Ha sollecitato il sostegno USA ai progetti di annessione della Valle del Giordano, in cui oltre 65.000 palestinesi vivono accanto a circa 11.000 coloni ebrei su terre anch’esse espropriate in violazione del diritto internazionale.

Il quadro giuridico si cui l’ordine mondiale si è fondato dalla Seconda Guerra Mondiale è sotto attacco unilaterale.

Oltretutto la Casa Bianca sta cercando di ridefinire tre questioni centrali per la ricerca della pace in Medio Oriente – Gerusalemme, i rifugiati e le colonie –, tutto ciò a costo zero per Israele, senza chiedere niente in cambio.

Sia chiaro chi sta guidando tutto questo. Fin dal dicembre 2016 Netanyahu ha chiesto che l’UNRWA venisse “smantellata”. I suoi accoliti a Washington, come l’amico di famiglia di Netanyahu e genero di Trump diventato consigliere per il Medio Oriente, Jared Kushner, hanno offerto il loro appoggio all’obiettivo a lungo accarezzato da Israele: l’eliminazione dello status di oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi registrati dall’UNRWA, insieme al loro diritto al ritorno.

La Casa Bianca di Trump ha sostenuto che i discendenti dei rifugiati del 1948 non sono anch’essi rifugiati, un concetto in flagrante conflitto con le norme internazionali e le buone pratiche riguardo ai rifugiati sostenute da molti, compresa l’altra agenzia dell’ONU per i rifugiati, l’UNHCR, di cui gli USA sono il principale donatore.

Ma c’è stata opposizione contro questo tentativo di spazzare via dalla storia i diritti, l’identità, l’esistenza stessa di milioni di rifugiati.

A dicembre l’assemblea generale dell’ONU ha votato in modo quasi unanime il rinnovo del mandato dell’UNRWA per altri tre anni, compresa la corretta definizione di rifugiati. Non meno di 169 membri l’hanno appoggiata e solo due hanno votato contro: gli USA e Israele. Sono stati isolati, sconfitti.

Per l’UNRWA questa vittoria diplomatica ha un nuovo significato.

Nel periodo che ha preceduto il dibattito all’assemblea generale, l’agenzia è stata usurata da uno scandalo gestionale limitato a un piccolo gruppo di funzionari della cerchia del direttore esecutivo, il commissario generale, che è stato obbligato a dare le dimissioni.

Un dirigente ad interim, Christian Saunders – un esperto riformatore dell’ONU e persona di fiducia del segretario generale dell’ONU – è stato inviato per risolvere la cattiva gestione. Il voto a stragrande maggioranza dell’assemblea generale è stato un primo segnale del fatto che l’UNRWA sta voltando pagina. Recentemente donatori che avevano sospeso l’aiuto finché l’agenzia non avesse risolto i suoi problemi interni sono tornati.

L’UNRWA ha ancora un grave deficit finanziario da colmare entro la fine dell’anno. Ma ha un piano in corso per riempire il vuoto lasciato dal malvagio de-finanziamento di Washington. Cosa fondamentale, e senza dubbio temporanea, ha bloccato l’attacco politico ispirato da Israele, che ha incluso un tentativo di chiudere l’operatività dell’UNRWA a Gerusalemme.

Quindi, come va avanti l’agenzia dopo il triplice smacco della crisi finanziaria, dello scandalo della dirigenza e dell’attacco politico contro il suo mandato?

Per iniziare, deve consolidare la fiducia dei suoi principali donatori per realizzare le riforme gestionali iniziate da Christian Saunders, intese a stabilizzare l’agenzia in seguito alle dimissioni del precedente commissario generale e della sua cerchia più ristretta.

I donatori devono onorare pienamente il loro tanto vantato “grande patto” e rispondere con accordi pluriennali a tutti i livelli, facilitando la pianificazione a lungo termine e la sicurezza finanziaria, riconoscendo il contributo di lungo periodo dell’UNRWA al capitale umano e la costante necessità dei suoi programmi d’emergenza.

Garantire e migliorare i servizi aiuterà l’UNRWA a recuperare presso i palestinesi che aiuta la credibilità danneggiata dalle recenti accuse di cattiva gestione.

Ma l’agenzia deve andare oltre.

Con un incremento dei finanziamenti arabi e una maggiore diversificazione della sua base di donatori in seguito alla dipartita degli americani, c’è un’opportunità di sostegno e di lavoro mediatico più consistenti, guidati da prove e basati sul diritto internazionale, che quest’anno sono stati palesemente assenti.

Una UNRWA rafforzata deve radicare la propria missione umanitaria nelle esperienze dei rifugiati. Per riuscirvi, l’agenzia deve iniziare un dialogo inclusivo ad ampio raggio con le comunità di rifugiati. Liberata dai limiti della pressione finanziaria americano-israeliana, ora è tempo di consultare i rifugiati sulle loro aspirazioni e rivendicare in modo significativo i loro diritti, compreso quello all’autodeterminazione e all’intero spettro dei loro diritti civili e politici.

L’UNRWA deve dire con chiarezza e con fermezza alla comunità dei donatori che l’aiuto non è un’attività di rimpiazzo. Non potrà mai sostituire i diritti e la dignità. I diritti dei palestinesi non sono in vendita.

I portavoce dell’UNRWA devono richiamare l’attenzione sul contesto in cui l’agenzia lavora e sul suo impatto sui rifugiati, gente che vive da mezzo secolo sotto occupazione in Cisgiordania e a Gaza, da 13 anni sotto un blocco illegale a Gaza, da 9 anni di guerra in Siria e da decenni di emarginazione sociale in Libano.

L’agenzia deve tornare a storicizzare il discorso pubblico, ricordando al mondo gli eventi del 1948, in cui 770.000 persone vennero espulse e più di 450 villaggi palestinesi vennero distrutti durante una campagna sistematica di pulizia etnica da parte dei gruppi armati ebraici. Dopo settant’anni l’UNRWA e i suoi donatori devono impegnarsi di nuovo nella propria missione finché le ingiustizie del 1948, che durano fino ad oggi, sarano affrontate e verrà risolta la spoliazione dei palestinesi.

Soprattutto, l’UNRWA deve dare ai palestinesi il potere di presentarsi al mondo come titolari e attori della loro stessa dignità e del loro destino.

Per fare ciò, i servizi devono essere totalmente finanziati; ci devono essere accurate e costanti modifiche della gestione e un sostegno consistente e basato sui diritti. Questi sono i tre pilastri su cui sicuramente deve essere costruita la riorganizzazione dell’UNRWA.

Sono anche una potente e realizzabile risposta all’unilateralismo di Trump attorno a cui l’UNRWA e tutti i soggetti coinvolti – compresi i rifugiati – si devono unire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Christopher Gunness è un giornalista pluripremiato che in precedenza è stato portavoce dell’UNRWA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Due donne palestinesi sottoposte da Israele alla detenzione amministrativa

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Due donne palestinesi arrestate la scorsa settimana dall’esercito israeliano sono state sottoposte a detenzione amministrativa, una forma di internamento in cui un prigioniero è detenuto indefinitamente senza accusa né processo.

Bushra al-Tawil, 26 anni, è stata arrestata nel corso di un’incursione israeliana nella sua casa di al-Bireh, città della Cisgiordania sotto occupazione, giorni dopo la scarcerazione di suo padre da una prigione israeliana.

La Palestinian Prisoner Society (PPS) [organizzazione umanitaria palestinese che si occupa del rispetto dei diritti umani dei detenuti palestinesi] ha affermato che al-Tawil è attualmente detenuta nella prigione di Hasharon, nel nord di Israele.

Impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, al-Tawil è stata arrestata più volte dalle forze israeliane. Secondo i media locali, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione.

Al-Tawil è stata arrestata per la prima volta a 18 anni. Ha scontato cinque mesi della sua condanna a 18 mesi prima di essere rilasciata nel 2011 nel quadro di un accordo di scambio di prigionieri.

Tuttavia, è stata nuovamente arrestata nel 2014 e ha trascorso in stato di detenzione i restanti 11 mesi della sua pena. Nel 2017, è stata ancora arrestata e ha trascorso otto mesi in prigione.

Suo padre, Jamal al-Tawil, è un ex leader della municipalità di al-Bireh. È stato rilasciato il 5 dicembre dopo due anni di detenzione amministrativa.

Gli studenti sono un bersaglio dell’esercito israeliano

Anche Shatha Hassan, una studentessa di 20 anni e coordinatrice del consiglio studentesco della Università di Birzeit, è stata arrestata la scorsa settimana a Ramallah nella sua casa di famiglia.

Il PPS ha riferito che martedì è stata sottoposta ad una detenzione amministrativa di tre mesi.

Il 12 dicembre, con un raid prima dell’alba, un grosso contingente di veicoli militari israeliani ha circondato la sua casa nel quartiere di Ain Misbah.

I video diffusi sui social media mostrano sua madre che grida: “Dio sia con te” a cui Shatha risponde: “Prega per me!” prima di essere spinta dai soldati su di una jeep israeliana.

I media locali hanno riferito che l’esercito israeliano ha improvvisato un checkpoint sulla strada che porta all’Università Birzeit nella Cisgiordania centrale per verificare l’identità degli studenti che transitavano in vista di una conferenza organizzata dal braccio studentesco del movimento di Hamas.

Prima dell’arresto della Hassan è stato diffuso dall’esercito israeliano un video in cui si afferma che l’Università Birzeit sia un “centro di reclutamento per terrorismo e di incitamento alla violenza”.

Ghassan Khatib, un docente universitario, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Dalla nostra lunga esperienza sull’occupazione israeliana, ogni volta che loro lanciano una campagna di disinformazione sull’università significa che si stanno preparando ad una campagna di oppressione e ad un’accentuazione della repressione sull’ organizzazione educativa nei territori palestinesi.”

L’ Università Birzeit è stata a lungo un bersaglio da parte dell’esercito israeliano. Nel marzo 2018 l’allora presidente del consiglio studentesco Omar Kiswani è stato arrestato durante un raid nell’università da parte di militari israeliani sotto copertura.

Secondo la campagna sul diritto all’istruzione, più di 80 studenti sono attualmente detenuti nelle carceri israeliane, dei quali 20 ancora senza processo.

La campagna spiega sul suo sito web: “Queste detenzioni e misure non sono altro che una spaventosa violazione della libertà di parola e di espressione”.

Il PPS ha riferito che il numero di donne detenute nelle carceri israeliane è arrivato a 42, di cui 38 nella prigione di Damoon, mentre le restanti quattro, inclusa Tawil, sono imprigionate nel centro di detenzione di Hasharon.

Secondo i dati ufficiali palestinesi, più di 5.500 palestinesi stanno attualmente languendo nelle carceri israeliane, con 450 [di loro] in [stato di] detenzione amministrativa.

52 anni di privazione delle libertà fondamentali

Indipendentemente da questo, martedì scorso Human Rights Watch (HRW), con sede a New York, ha pubblicato un rapporto in cui si chiede a Israele di concedere ai palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata, come minimo, le stesse garanzie di legge dei cittadini israeliani.

Il rapporto di 92 pagine – intitolato Nato senza diritti civili: l’utilizzo israeliano delle draconiane direttive militari per la repressione dei palestinesi in Cisgiordania – evidenzia l’uso da parte di Israele di norme militari che criminalizzano l’attività politica non violenta.

“La legge militare israeliana in vigore da 52 anni – ha detto Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva degli uffici del HRW attivi nel Medio Oriente e nel Nord Africa – esclude i palestinesi in Cisgiordania da libertà fondamentali come [poter] sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, aderire a tutti i principali movimenti politici e pubblicare materiale politico”.

“Questi direttive danno carta bianca all’esercito per perseguire chiunque organizzi politicamente, parli pubblicamente o addirittura riferisca le notizie con modalità non gradite all’esercito”.

Citando esempi di ordinanze militari israeliane definite in modo generico, secondo il rapporto tra il 1 luglio 2014 e il 30 giugno 2019 l’esercito israeliano ha perseguito 358 palestinesi per “istigazione”, 1.704 per “appartenenza e attività in un’associazione illegale” e 4.590 palestinesi per essere entrati in una “zona militare vietata” – un termine che l’esercito usa frequentemente per i luoghi in cui si svolgono le proteste.

Il rapporto fa anche cenno ad una condanna a 10 anni che può essere inflitta ai palestinesi che partecipino ad un raduno di oltre 10 persone senza un permesso militare per qualsiasi problema “che potrebbe essere interpretata come politico”, o nel caso in cui espongano “bandiere o simboli politici” senza l’approvazione dell’esercito.

Whitson ha affermato che, dato il controllo di lunga data di Israele sui palestinesi, il governo “dovrebbe almeno consentire loro di esercitare gli stessi diritti che garantisce ai propri cittadini, indipendentemente dagli accordi politici in vigore”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




I bambini della famiglia al-Sawarka di Gaza sopravvissuti lottano dopo il raid israeliano

Ali Younes

2 dicembre 2019Al Jazeera

Lo scorso mese nove membri della famiglia palestinese sono stati uccisi dopo un attacco israeliano contro la loro casa nella zona centrale di Gaza

Striscia di Gaza – La vita di Noor al-Sawarka è cambiata per sempre la notte in cui l’esercito israeliano ha colpito la casa della sua famiglia nella città di Deir al-Balah, nel centro di Gaza.

Il 14 novembre la dodicenne ha perso i suoi genitori e tre fratelli, dopo che missili israeliani hanno colpito l’abitazione della famiglia a circa 15 km a sud di Gaza City. La dimora, che consisteva in baracche coperte di lamiera ondulata, è saltata in aria in mille pezzi.

L’esercito israeliano ha sostenuto di aver preso di mira la casa di un comandante militare del gruppo armato palestinese Jihad Islamica, un’affermazione immediatamente respinta dalla famiglia delle vittime. Noor dice che, quando ha sentito la prima esplosione, si è ritrovata a correre fuori in campo aperto. “Ho corso più veloce che potevo verso il terreno libero vicino a noi,” racconta ad Al Jazeera. “Non sapevo cosa stesse succedendo e non ho visto altro che un denso fumo nero.”

I suoi occhi si annebbiano quando rifiuta di dire come si sente due settimane dopo il bombardamento che ha reso orfani lei e due fratelli minori.

Anche sua sorella Reem e un fratello, Dia, di 7 e 6 anni, sono sopravvissuti a quella notte. Sul labbro inferiore, il naso e la fronte di Reem sono ancora visibili escoriazioni.

Dopo che sono andata a letto quella notte, ricordo solo di essermi svegliata in ospedale,” racconta. Da allora di notte Reem ha avuto problemi di sonno per il timore che cadano di nuovo bombe su di lei. Afferma di sentire spesso la “zannana”, parola araba per il ronzio che fanno i droni israeliani che sorvolano [la Striscia].

Il bombardamento ha ucciso nove membri della famiglia al-Sawarka: Rasmi Abu Malhous al-Sawarka, 46 anni, la sua seconda moglie Maryam, 45 anni, e tre dei loro 11 figli – Mohannad, 12 anni, Salim, 3 anni, e Firas di tre mesi. 

Anche il fratello minore di Rasmi, il quarantenne Mohamed, e sua moglie Yousra, di 39 anni, sono stati uccisi nell’attacco, oltre a due dei loro figli: Waseem e Moaaz, di 13 e 7 anni. Le vittime della famiglia al-Sawarka sono state tra i 34 palestinesi uccisi dagli attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza durante due giorni, nel corso di un’escalation di violenze tra Israele e la Jihad Islamica il mese scorso.

False affermazioni israeliane

Le due parti hanno iniziato a scambiarsi attacchi in seguito all’uccisione da parte di Israele del comandante in capo della Jihad Islamica Bahaa Abu al-Ata a Gaza. Come risposta la Jihad Islamica ha lanciato razzi nel sud di Israele, e l’esercito israeliano ha affermato di aver contato più di 350 proiettili.

Un cessate il fuoco, che sarebbe stato mediato dall’Egitto, è stato dichiarato la mattina dopo che è stata colpita la famiglia al-Sawarka.

Mohamad Awad, membro della tribù beduina al-Sawarka e vicino di casa della famiglia, ha detto ad Al Jazeera che il bombardamento israeliano è stato un “crimine di guerra” perché Rasmi e suo fratello Mohammed erano civili e non avevano niente a che vedere con alcun gruppo armato.

Allevavano pecore e sbarcavano a fatica il lunario prima di essere uccisi,” ha affermato.

Awad nega le affermazioni dell’esercito israeliano secondo cui Rasmi sarebbe stato un membro della Jihad Islamica, e sostiene che era un impiegato del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con sede a Ramallah.

Awad ha chiesto alle organizzazioni internazionali per i diritti umani di fare un’inchiesta sui “crimini israeliani” contro palestinesi innocenti.

Il mondo non può rimanere in silenzio riguardo ai crimini israeliani contro di noi,” afferma.

L’esercito israeliano ha detto di stare svolgendo un’indagine sull’incidente e su “danni causati a civili.”

Subito dopo l’attacco il portavoce dell’esercito israeliano Avichay Adraee ha sostenuto su Twitter che l’attacco aveva preso di mira il capo di un’unità per il lancio di razzi della Jihad Islamica, che ha identificato come Rasmi Abu Malhous.

“Rasmi Abu Malhous, dirigente della Jihad Islamica e comandante dell’unità lanciarazzi nella brigata della parte centrale di Gaza è stato il bersaglio della scorsa notte nell’attacco contro Deir al_Balah,” ha detto Adraee.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha citato un ufficiale dell’esercito israeliano che avrebbe detto che le affermazioni di Adraee sarebbero state basate su false notizie diffuse in rete.

Awad afferma che ora sta aiutando l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem a raccogliere prove e a documentare testimonianze dirette per fare un’indagine sul bombardamento.

Un dirigente di B’Tselem ha detto a Al Jazeera che l’incidente è sottoposto ad indagine.

Miracolo

Awad dice che è stato un “miracolo” che molti dei bambini siano sopravvissuti: “Dio ha visto sulla terra quei bambini e li ha salvati,” sostiene.

Dopo il bombardamento è andato a cercare suo cugino e i bambini, e in mezzo a un fumo denso ha sentito il rumore sordo del pianto di un bambino sotto le lamiere contorte.

Dice di aver tolto di mezzo i detriti e di aver trovato Farah, la bimba di un mese e mezzo di Rasmi, stesa sulla sabbia e coperta da una lastra di lamiera.

Farah stava piangendo quando l’ho presa in braccio, ed era incolume,” afferma. “Dio ha salvato quella bimba.”

Tutti i bambini della famiglia al-Sawarka sopravvissuti ora si trovano presso parenti e sopravvivono grazie agli aiuti di organizzazioni umanitarie.

La Striscia di Gaza è sottoposta da più di un decennio a un blocco congiunto di Israele ed Egitto che ha seriamente limitato la libertà di movimento dei suoi due milioni di abitanti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)