Irresponsabilità aziendale di TripAdvisor

Laith Abu Zeyad

28 luglio 2019 – Al Jazeera

TripAdvisor afferma di voler aiutare i rifugiati, ma trascura il proprio appoggio alle violazioni dei diritti umani.

Il 20 giugno, Giornata Mondiale per i Rifugiati, l’amministratore delegato di TripAdvisor Stephen Kaufer ha pubblicato un editoriale in cui chiedeva alle imprese di contribuire ad affrontare la crisi globale dei rifugiati e si impegnava a donare milioni di dollari alle organizzazioni umanitarie “per sostenere e aiutare i rifugiati a ricostruire la propria vita e a rivendicare il proprio futuro.”

È certamente una lodevole iniziativa, se solo non contraddicesse lo spirito di altre prassi dell’azienda. Mentre TripAdvisor ha deciso di aiutare i rifugiati in alcune parti del mondo, altrove – in particolare nei territori palestinesi occupati – contribuisce alle sofferenze della popolazione locale, che è all’origine di una delle più grandi comunità di rifugiati al mondo.

Negli ultimi 70 anni le spietate politiche israeliane di confisca della terra, colonizzazione illegale e spossessamento, accompagnate da una violenta discriminazione, hanno inflitto enormi sofferenze ai palestinesi, privandoli dei loro diritti fondamentali. Anche TripAdvisor ha avuto parte in queste continue violazioni.

Nel gennaio 2019 Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato ‘Destinazione Occupazione’, che illustra come le compagnie leader mondiali del turismo online – Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor – contribuiscano e traggano profitto dal mantenimento, sviluppo ed espansione delle colonie illegali israeliane. In base al diritto internazionale tali attività costituiscono dei crimini di guerra.

TripAdvisor è il secondo sito web (dopo Google) più visitato dai turisti stranieri che arrivano in Israele, con oltre un quarto delle persone (più di 800.000) che dicono di aver consultato il sito prima del loro arrivo per le attrazioni turistiche, le escursioni, i ristoranti, i caffè, gli hotel o gli appartamenti in affitto.

Durante la nostra campagna abbiamo chiesto a Kaufer di smettere di inserire nei propri annunci, o promuovere, proprietà, attività e attrazioni situate nelle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati. TripAdvisor ha risposto sostenendo che “ l’inserimento negli annunci su TripAdvisor di una proprietà o di un’azienda non costituisce la nostra approvazione nei confronti di quella struttura”. Eppure la compagnia trae profitto da annunci che includono quelle che si trovano in colonie illegali israeliane.

TripAdvisor e altre compagnie cercano di difendere la loro posizione sostenendo che la questione delle colonie illegali israeliane è troppo politica, per cui loro non possono prendere posizione in merito. Comprendiamo che le aziende non hanno il compito di risolvere le questioni politiche, ma hanno la responsabilità di garantire che non provochino danni o non contribuiscano a violazioni dei diritti umani.

È forse difficile per i lettori immaginare l’impatto sui diritti umani del turismo e di altre attività aziendali in Palestina, ma è molto concreto per le persone che vivono sotto occupazione israeliana. Per esempio abbiamo scoperto che TripAdvisor ha segnalato con grande evidenza, fungendo da agenzia di prenotazioni, la ‘Città di Davide’, una nota attrazione turistica situata a Silwan, un quartiere palestinese nella Gerusalemme est occupata. Il sito è gestito da un’organizzazione chiamata ‘Fondazione Elad’, che è sostenuta dal governo israeliano e lavora per aiutare i coloni israeliani a trasferirsi in quell’area.

Silwan ospita circa 33.000 palestinesi. Ora vi vivono parecchie centinaia di coloni, per di più in insediamenti rigorosamente protetti. Israele ha trasferito i suoi cittadini nel quartiere fin dagli anni ’80. Questo ha comportato numerose violazioni di diritti umani, compresi l’espulsione e il trasferimento forzati di abitanti palestinesi.

Negli ultimi 10 anni almeno 233 palestinesi sono stati espulsi da Silwan. Molto recentemente, il 10 luglio, la polizia e le forze di sicurezza israeliane hanno cacciato dalla loro casa nel quartiere una famiglia di cinque palestinesi, compresi quattro bambini.

Incoraggiando attivamente gli utenti a visitare la ‘Città di Davide’ e a fare tour guidati del luogo, TripAdvisor ha promosso l’attività di Elad e tratto profitto da ogni prenotazione fatta attraverso il sito.

Se TripAdvisor avesse condotto almeno un’elementare valutazione del rischio della propria attività nelle, o con le, colonie israeliane, avrebbe scoperto che quelle inserzioni contribuiscono a sostenere una situazione illegale che è intrinsecamente discriminatoria e viola i diritti umani dei palestinesi. È stupefacente che una compagnia multimiliardaria (che sostiene di essere il sito di viaggi più visitato al mondo, con più di 450 milioni di visitatori al mese) o non abbia posto tale doverosa attenzione riguardo alle proprie operazioni in Israele e nei territori palestinesi occupati, o lo abbia fatto, ma abbia deciso di proseguire ugualmente le proprie attività.

Anche altre compagnie di turismo digitale hanno inviato messaggi ambigui sui diritti umani. Nell’aprile 2019 Airbnb ha annunciato che, in seguito ad una class-action da parte di avvocati israeliani ,avrebbe revocato una precedente decisione di eliminare le offerte nelle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata. La compagnia ha affermato che avrebbe donato i profitti derivanti da questi annunci a “organizzazioni non-profit impegnate negli aiuti umanitari che si occupano di persone in diverse parti del mondo.”

Airbnb, come TripAdvisor, mentre cerca di mostrare preoccupazione per le popolazioni bisognose attraverso un piano di responsabilità aziendale, non può continuare ad ignorare che la sua attività con le colonie israeliane illegali è contraria alle norme fondamentali delle leggi internazionali sui diritti umani,

Nessuna somma di denaro in donazioni cancellerà il danno che stanno commettendo nei territori palestinesi occupati e sicuramente nessun profitto a breve termine dovrebbe valere il prezzo della collaborazione con crimini di guerra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Laith Abu Zeyad è responsabile delle campagne su Israele/Palestina per Amnesty International.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Inviato palestinese afferma che le demolizioni di case da parte di Israele sono un “crimine di guerra”

James Reinl

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele accusato di “palese azione di pulizia etnica ed espulsione forzata” dopo la distruzione di case palestinesi.

Nazioni Unite – Martedì l’inviato palestinese Riyad Mansour ha detto che le ultime demolizioni di case palestinesi nei pressi di una barriera di separazione nei dintorni di Gerusalemme sono state “scioccanti e strazianti” e dovrebbero essere indagate in quanto crimine di guerra.

Rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU a New York Mansour ha mostrato foto di bulldozer, della polizia e di soldati israeliani che il giorno prima hanno attaccato la comunità di Sur Baher mentre famiglie palestinesi guardavano come le loro case venivano demolite.

Nelle prime ore di lunedì un gran numero di soldati israeliani è entrato nelle case delle famiglie che vi risiedevano obbligandole a lasciare le proprie case prima di procedere a distruggerle utilizzando bulldozer militari e grandi quantità di dinamite,” ha detto Mansour.

Le scene sono state scioccanti e strazianti…questo è un palese atto di pulizia etnica e di espulsione forzata, rappresenta un crimine di guerra e deve essere totalmente condannato e perseguito in quanto tale.”

Secondo Mansour la demolizione di circa 10 edifici abitativi, la maggior parte dei quali ancora in costruzione, ha lasciato 17 persone senza casa, compresi 11 bambini. Anche altri 350 palestinesi attendono l’imminente arrivo di bulldozer davanti a casa, ha aggiunto. L’esercito israeliano considera le case, che si trovano vicino a un muro di separazione israeliano che attraversa la Cisgiordania occupata, un rischio “per la sicurezza”.

Legge e ordine”

A giugno la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza a favore dell’esercito, ponendo fine a una battaglia legale durata sette anni, ed ha fissato lunedì come termine massimo per demolire le case.

Prima dell’incontro di martedì l’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon fuori dall’aula del Consiglio ha detto ai giornalisti: “Noi crediamo nella legge e nell’ordine. Se costruisci senza permesso, la tua casa non rimarrà in piedi.”

Ciò è quanto avviene alle case degli ebrei e a quelle degli arabi…Non è piacevole. Abbiamo visto quelle foto, non è facile demolire case. Ma questa è la legge in Israele.” Israele attribuisce al muro di separazione – progettato per essere lungo 720 km quando sarà terminato – il merito di aver arginato gli attacchi suicidi dei palestinesi che hanno raggiunto un picco nei primi anni 2000.

I palestinesi accusano Israele di aver utilizzato la sicurezza come pretesto per cacciarli dalla zona come parte di tentativi di lungo termine per espandere le colonie. Ogni colonia sulla terra palestinese occupata è illegale in base alle leggi internazionali.

Rosemary DiCarlo, capo del Dipartimento per gli Affari Politici e la Pacificazione dell’ONU, ha affermato che le demolizioni violano le norme internazionali ed hanno colpito le condizioni di vita di circa 300 palestinesi del luogo.

La politica israeliana di distruzione delle proprietà palestinesi non è compatibile con i suoi obblighi in base alle leggi umanitarie internazionali e contribuisce al rischio di trasferimento forzato che minaccia molti palestinesi in Cisgiordania,” ha affermato DiCarlo.

Particolarmente eclatanti”

Parlando a nome dell’Unione Europea, l’inviata della Gran Bretagna all’ONU Karen Pierce ha detto che le demolizioni sono state “particolarmente eclatanti” in quanto sono avvenute in zone che, in base al trattato di pace del 1993 noto come accordi di Oslo, dovrebbero essere sottoposte alla giurisdizione palestinese.

Il villaggio sparso sul terrotorio di Sur Baher si trova a cavallo tra Gerusalemme est occupata e la Cisgiordania occupata. È stato preso e occupato da Israele nella guerra del 1967.

Le demolizioni sono parte dell’ultimo episodio della lunga disputa sul futuro di Gerusalemme, in cui risiedono più di 500.000 israeliani e 300.000 palestinesi.

L’inviato di pace degli Stati Uniti Jason Greenblatt ha affermato che i palestinesi otterranno poco ripetendo “un trito discorso” e facendo appello alle leggi internazionali o a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “pesantemente scritte”.

Il muro di Israele ha portato la sicurezza?

Al contrario, i dirigenti palestinesi dovrebbero rivedere il proprio rifiuto a impegnarsi nel tentativo di pace guidato dagli USA, che include un piano di sviluppo economico da 500 milioni di dollari per i palestinesi, la Giordania, l’Egitto e il Libano, ha detto Greenblatt.

I dirigenti palestinesi dovrebbero “mettere da parte rifiuti generalizzati di un piano che non hanno neppure visto, e mostrare la volontà di impegnarsi in buona fede, in un dialogo sensato con Israele,” ha detto al Consiglio.

Il presidente USA Donald Trump deciderà presto quando rendere pubblica la “parte politica del piano” a lungo attesa, ha aggiunto Grennblatt.

Il progetto per la pace che pensiamo di presentare non sarà ambiguo, a differenza di molte risoluzioni che sono state approvate in questa aula,” ha detto.

Fornirà dettagli sufficienti in modo che la gente possa vedere quali compromessi saranno necessari per raggiungere una soluzione realistica, durevole e complessiva di questo conflitto.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




I tribunali israeliani possono garantire la giustizia ai palestinesi?

Ben White

17 luglio 2019 – Al Jazeera

Critiche mettono in dubbio il ricorso alla Corte Suprema dopo che essa ha consentito la demolizione di edifici sotto controllo palestinese

La demolizione di edifici di proprietà di palestinesi da parte delle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est è un avvenimento frequente.

Ma a Sur Baher, un quartiere sudorientale di Gerusalemme, incombe una demolizione di massa senza precedenti, con l’approvazione della Corte Suprema israeliana.

Dieci edifici abitati o in via di costruzione, che contano decine di appartamenti, sono stati segnati per essere distrutti, dopo aver contravvenuto a un ordine militare israeliano del 2011 che proibisce la costruzione all’interno di una zona cuscinetto di 100-300 metri dal muro di separazione.

Mentre la maggior parte di Sur Baher si trova all’interno dei confini municipali della Gerusalemme est unilateralmente annessa da Israele, parte della terra della comunità è in Cisgiordania – terreno che tuttavia è finito sul lato “israeliano” del muro condannato internazionalmente che è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Lo scorso mese la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione a Sur Baher, benché gli edifici in questione siano stati costruiti su terreni destinati al controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), da cui sono stati regolarmente ottenuti permessi edilizi.

Le autorità israeliane hanno fissato la scadenza per giovedì 18 luglio.

La documentazione parla chiaro”

La decisione della Corte Suprema non corrisponde alla sua fama internazionale come difensore di diritti umani. In effetti la Corte è stata a lungo una maledizione per parte della destra israeliana, che si è lamentata di una presunta tendenza progressista e di un’interferenza giudiziaria con le leggi.

Ma Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani “B’Tselem”, dice ad Al Jazeera che per “avere una visione adeguata riguardo alla Corte Suprema, è necessario esaminare quello che ha fatto finora.

E questi dati parlano chiaro, dimostrano in modo inequivocabile come la Corte abbia costantemente respinto i ricorsi presentati dai palestinesi, mentre ha fornito il beneplacito legale a sistematiche violazioni dei diritti umani, compresi trasferimenti forzati, punizioni collettive, impunità generalizzata per le forze di sicurezza israeliane e tortura,” aggiunge.

Sawsan Zaher, vice direttrice esecutiva del centro per i diritti giuridici “Adalah”, con sede ad Haifa, è d’accordo. “Se si guarda alla Corte Suprema riguardo ai territori palestinesi occupati, nella grande maggioranza dei casi essa ha respinto ricorsi che contestavano violazioni delle leggi umanitarie internazionali, indipendentemente dal fatto che i giudici fossero conservatori o più “progressisti”, dice ad Al Jazeera.

Secondo Zaher l’approccio della Corte alle petizioni presentate da cittadini palestinesi è differenziato. “Alcune sono accolte, in genere quelle riguardanti i classici casi di discriminazione, come quelli riguardanti la destinazione dei fondi,” dice Zaher.

Ma aggiunge che la Corte usa “ogni genere di scusa e di interpretazione per giustificare il rigetto” quando si tratta di “casi che sono al centro del conflitto nazionale tra lo Stato e i cittadini palestinesi come minoranza” e dell’“esistenza di Israele come ‘Stato ebraico’”, comprese le questioni relative a “terra e demografia”.

Pianificazione discriminatoria

Ma è l’intervento – o il mancato intervento – della Corte sul sistema discriminatorio di pianificazione di Israele e sulle conseguenti demolizioni di case palestinesi che recentemente forse è stato più sotto i riflettori, anche nei casi particolarmente gravi in attesa di espulsione forzata, come nel caso del villaggio di Khan al-Ahmar.

In aprile i giudici hanno respinto un ricorso sulla demolizione di case palestinesi costruite senza permesso, chiarendo che non avrebbero discusso il sistema di pianificazione in cui tali demolizioni avvengono – ma solo se le strutture erano state costruite “legalmente” o meno.

In un rapporto di quest’anno sulla “responsabilità” della Corte Suprema per la “spoliazione dei palestinesi”, B’Tselem ha affermato che, per quanto a sua conoscenza, “non c’è stato neppure un singolo caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro la demolizione delle loro case.”

Per Dalia Qumsieh, un’esperta consulente giuridica dell’Ong per i diritti dei palestinesi “Al-Haq”, il caso di Sur Baher “dimostra uno schema costante della Corte (Suprema) che si rifiuta di prendere le distanze dai progetti del governo e accoglie persino ogni sua richiesta: “In generale la Corte non mette in discussione la legalità di politiche o misure in sé,” dice ad Al Jazeera. “Al contrario, si concentra su dettagli tecnico-legali che riguardano la messa in pratica di tali politiche.

Il massimo risultato che si può ottenere essendo palestinese con una causa nel sistema israeliano non può andare oltre le tutele minime, ora ancora più difficili da ottenere,” aggiunge.

Altri dicono che persino quelle “tutele minime” sono minacciate.

“La composizione della Corte Suprema è cambiata,” afferma Zaher, indicando le nomine giudiziarie del 2017 fatte dall’allora ministra della Giustizia Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

“Oggi la critica dei conservatori alla Corte è cambiata: invece di accuse riguardo a un approccio “progressista” verso le richieste della minoranza araba, la destra sta criticando persino la facoltà della Corte di discutere della costituzionalità delle leggi,” aggiunge Zaher, descrivendo come negativa la parabola della Corte.

Complicità nel rafforzamento

Secondo Qumsieh, mentre la Corte “non è mai stata un vero luogo in cui è stata fatta giustizia per i palestinesi,” gli ultimi anni hanno visto “gravi sviluppi riguardanti il lavoro della Corte”, e in particolare lo “legame sempre più stretto” tra essa e il governo israeliano.

“Questo legame è passato dal fare pressione sui ricorrenti palestinesi perché accettino i progetti dell’esercito israeliano a dettare effettivamente al governo quello che deve fare per legalizzare politiche illegali,” aggiunge, citando il caso della revoca della residenza a Gerusalemme a politici affiliati ad Hamas. Per qualcuno, come El-Ad di B’Tselem, la situazione dell’attività giurisprudenziale della Corte significa che “la domanda è: per quale fine realistico si avvia una causa davanti ad essa?”

Per avvocati e gruppi per i diritti umani, palestinesi e israeliani, il vantaggio di impegnarsi in un giudizio con la Corte Suprema rimane una questione aperta.

“La Corte non ha mai sinceramente messo in discussione nessuna delle principali politiche che tengono in piedi l’occupazione,” afferma Qumsieh, “fino a diventarne un pilastro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La “crisi ambientale” di Israele è colpa sua

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

7 luglio 2019 – Al Jazeera

La distruzione da parte di Israele dell’ambiente nei territori palestinesi ora minaccia le vite israeliane.

La crescente crisi umanitaria di Gaza viene finalmente percepita in Israele come un problema pressante che richiede un’azione “chiara ed immediata”. Tuttavia non è l’impatto della crisi sulla popolazione di Gaza che desta l’allarme a Tel Aviv, ma il potenziale danno ambientale che la perdurante povertà di Gaza può causare ad Israele.

Il 3 giugno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele.”

Ci si aspetterebbe che qualunque rapporto sulla situazione ambientale a Gaza si concentrasse sul fatto che quasi due milioni di palestinesi nella Striscia vivono in condizioni disumane a causa del blocco israeliano che dura ininterrottamente da 12 anni e dei continui attacchi militari devastanti, che rendono l’area “inabitabile entro il 2020” [secondo un documento ONU del 2015, ndtr.].

Invece il rapporto presuppone che gli abitanti del luogo siano gli unici responsabili dell’imminente catastrofe ambientale a Gaza, che sta minacciando la sicurezza e il benessere dei cittadini israeliani. Anche il giornale israeliano Haaretz, che ha pubblicato un rapporto dettagliato sulla presentazione, ha trattato la questione come problema di sicurezza nazionale.

Ma ciò che adesso Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. L’occupazione, la colonizzazione, lo spossessamento e l’aggressione contro la Palestina e i palestinesi hanno provocato un tale danno ambientale che ora anche l’occupante israeliano ne sta soffrendo.

Inquinare Gaza

In questo momento la situazione ambientale a Gaza è certo tragica, ma non sono i palestinesi che l’ hanno causata. Né la “rapida crescita della popolazione”, né l’incuria o l’ignoranza degli abitanti locali ne sono le cause principali. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni hanno documentato dettagliatamente come e perché il principale colpevole sia Israele, i suoi violenti attacchi a Gaza ed il suo spietato assedio.

Consideriamo la questione delle acque reflue non trattate che finiscono in mare, che causano problemi agli israeliani che vanno al mare e agli impianti di desalinizzazione. Il motivo per cui le acque reflue vengono smaltite in questo modo “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio.

Le acque reflue non trattate sono parte della più ampia crisi idrica di Gaza. Come correttamente sottolinea il rapporto, gli abitanti di Gaza fanno uso eccessivo della falda acquifera sotto la Striscia, che è divenuta sempre più inquinata da acqua di mare e prodotti chimici e che costituisce l’unica fonte di acqua pulita per gli abitanti a causa della separazione non voluta dalla Cisgiordania.

La ragione per cui i palestinesi di Gaza non sono in grado di creare un adeguato sistema di gestione dell’acqua ancora una volta non è una loro responsabilità. Israele ha ripetutamente bombardato le infrastrutture idriche, comprese le tubature dell’acqua, i pozzi e altre strutture, e l’estenuante assedio israeliano ha impedito alle autorità locali di ripararle e di costruire un impianto di desalinizzazione.

Il problema dell’acqua a Gaza non è soltanto una seccatura per gli israeliani, ma una potenziale causa di epidemie per i palestinesi. Secondo il Ministero della Sanità palestinese sono già raddoppiate le patologie diarroiche, raggiungendo livelli epidemici, mentre anche la salmonella e la febbre tifoidea stanno aumentando.

Poi c’è il problema dell’immondizia, che i palestinesi bruciano e quindi “inquinano l’aria israeliana”. Come ha evidenziato l’accademico dell’università di Cambridge Ramy Salemdeeb, Gaza non ha potuto sviluppare un’adeguata gestione dei rifiuti a causa delle restrizioni economiche dovute all’assedio israeliano e di una “limitata disponibilità di terra” per via del suo isolamento dal resto dei territori palestinesi occupati.

Ciò che il rapporto israeliano non menziona è che, oltre ai problemi delle acque di scarico e dei rifiuti, Gaza soffre anche di una serie di altri danni ambientali, che di nuovo sono legati all’occupazione israeliana e all’aggressione contro i palestinesi.

L’esercito israeliano spruzza sistematicamente erbicidi sui terreni coltivabili palestinesi vicino alla barriera di separazione tra il territorio assediato e Israele. Il più delle volte il prodotto chimico utilizzato è il glifosato, che è provato essere cancerogeno. Secondo la Croce Rossa queste attività non solo danneggiano i raccolti palestinesi, ma contaminano il suolo e l’acqua.

Anche i ripetuti attacchi israeliani con pesanti bombardamenti sulla Striscia hanno contribuito all’inquinamento. Vi sono prove che l’esercito israeliano abbia usato nei suoi attacchi a Gaza uranio impoverito e fosforo bianco, che non solo provocano danni immediati alla popolazione civile, ma costituiscono una fonte di rischio per la salute per molto tempo dopo che il bombardamento è terminato.

Inoltre le armi usate nelle operazioni militari israeliane hanno contaminato l’ambiente di Gaza con metalli pesanti come tungsteno, mercurio, cobalto, bario e cadmio, che notoriamente causano cancro, malformazioni congenite, infertilità, ecc.

Colonialismo e devastazione ambientale

Che Israele, che è orgoglioso perché avrebbe “fatto fiorire il deserto”, sia il responsabile di un gravissimo disastro ambientale in quello stesso “deserto”, non sorprende molto. Posto che si tratta di un progetto di colonialismo di insediamento, il supersfruttamento della terra colonizzata a scapito dell’ambiente e della popolazione locale è parte intrinseca del suo modus operandi.

Certamente, tutta la terra che Israele ha preso ed occupato ha subito in un modo o nell’altro un degrado ambientale, e i suoi effetti dannosi vengono opportunamente scaricati sulla terra, sui villaggi e sulle città palestinesi.

L’aggressiva prassi israeliana di costruzione di insediamenti non solo ha sradicato, segregato e spossessato centinaia di migliaia di palestinesi, ma ha anche danneggiato l’ambiente. Ha causato un eccessivo consumo di acqua, che non solo ha significativamente ridotto l’accesso all’acqua per i palestinesi, spingendo alcuni a parlare di “apartheid dell’acqua”, ma ha anche impoverito le risorse idriche in generale.

L’uso aggressivo di acqua per l’agricoltura – per lo più da parte di coloni illegali in Cisgiordania – ha causato l’impoverimento delle falde acquifere ed una drastica riduzione dei livelli del lago di Tiberiade e del fiume Giordano.

Israele inquina la terra palestinese anche utilizzandola letteralmente come discarica. È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni palestinesi.

Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente senza alcun riguardo per la salute dei palestinesi che vivono nelle vicinanze.

Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi. Questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Tutte queste attività che danneggiano l’ambiente in cui vive il popolo palestinese si vanno accumulando nel tempo. Oggi mettono a rischio le vite dei palestinesi, ma domani minacceranno anche le vite degli israeliani.

Se Israele continua a trattare la questione come “un problema di sicurezza” non lo risolverà mai, perché alla sua base vi è la logica distruttiva di un’impresa coloniale che cerca di sfruttare sia la terra che la popolazione senza riguardo per la natura ed il benessere degli esseri umani.

In altri termini, Israele non otterrà mai la sicurezza – dell’ambiente o di altro – finché continuerà ad opprimere i palestinesi, ad occupare la loro terra e a devastare l’ambiente. L’aria, l’acqua e l’ambiente israeliano nel suo complesso non saranno mai immuni dai disastri perpetrati da Israele nella Palestina occupata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, consulente dei media, scrittore.

Romana Rubeo è una scrittrice e traduttrice freelance che vive in Italia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come “colonie archeologiche” stanno distruggendo case palestinesi

Mersiha Gadzo

 8 luglio 2019 – Al Jazeera

Secondo una Ong, Israele sta creando una “realtà storica immaginaria” con scavi di tunnel nella Gerusalemme est occupata.

Fayyad Abu Rmeleh, 60 anni, teme che un giorno il pavimento e il cortile della sua casa crollino. Ogni giorno, dice, dalla mattina fino al tardo pomeriggio, la famiglia sente scavare e trivellare tunnel sotto l’edificio.

Gli scavi condotti dalle autorità israeliane sono iniziati per la prima volta nel 2000, ma è stato solo cinque anni fa che loro hanno iniziato a notare danni alla casa.

“Sta mettendo in pericolo le nostre vite,” dice Abu Rmeleh ad Al Jazeera. “Se ti guardi intorno trovi nuove crepe. Non sappiamo quanti tunnel ci siano sotto la nostra casa, ma crediamo che siano almeno tre.”

I cinquanta membri della famiglia Abu Rmeleh vivono nel quartiere Wadi Hilweh di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, pubblicizzato come l’attrazione turistica della “Città di Davide”, dove secondo alcuni israeliani il re Davide biblico costruì l’“originaria città di Gerusalemme”, circa 3000 anni fa.

Sotto la loro casa le autorità israeliane hanno scavato tunnel, cercando le tracce dell’epoca del Secondo Tempio.

Nella sua casa si sono formate lunghe crepe irregolari in ogni direzione – sulle scale, vicino alle finestre in bagno e in sala, mentre in certi punti si sono staccati dal muro dei calcinacci.

Fuori di casa una crepa lunga un metro e mezzo si snoda sul terreno.

Ma la casa di suo nipote, che si trova nello stesso edificio, è stata ancora più danneggiata. All’inizio del 2018 è stato obbligato ad andarsene con la moglie e i cinque figli, in quanto il terreno ha ceduto e può a malapena sostenere i muri.

“Ho sempre paura, sono sempre preoccupato. Chiedo ai bambini di non giocare molto nel cortile o di non correre troppo, in quanto il pavimento potrebbe crollare in qualunque momento,” dice Umm Jihad, la moglie di Abu Rmeleh.

Da anni gli abitanti palestinesi di Silwan sono allarmati dai danni che le loro case hanno subito a causa degli scavi nel sottosuolo.

La scorsa settimana le autorità israeliane hanno inaugurato il tunnel scavato da poco, “il Cammino dei Pellegrini”, che si estende da Wadi Hilweh al Muro del Pianto, appena fuori dal complesso di Al Aqsa nella Città Vecchia della Gerusalemme est occupata.

Fonti ufficiali israeliane – compresi membri dell’organizzazione dei coloni “Elad”, che finanzia gli scavi e gestisce il sito – affermano che la strada era percorsa dai pellegrini ebrei verso il Secondo Tempio, che credono si trovasse dove ora c’è il complesso di Al Aqsa.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha condannato la presenza di funzionari USA all’inaugurazione, definendo l’avvenimento come parte della “ebreizzazione” di Gerusalemme.

Il consigliere della Casa Bianca Jason Greenblatt ha risposto in un tweet che la protesta è “ridicola”, aggiungendo: “Non possiamo ‘ebreizzare’ quello che la storia/archeologia mostrano. Possiamo attestarlo e voi potete smettere di fare finta che non sia vero! La pace può essere costruita solo sulla verità.”

Cattiva archeologia”

Mentre Greenblatt e membri di “Elad” sono certi che il nuovo tunnel servisse come cammino dei pellegrini verso il Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono, come ha notato in un articolo Yonathan Mizrachi, che vive a Gerusalemme.

Mizrachi, direttore dell’Ong israeliana “Emek Shaveh”, dice ad Al Jazeera che i tunnel che Israele ha scavato dentro e attorno alla Città Vecchia e a Silwan sono “problematici”.

Finora non è stato pubblicato nessun articolo accademico o scientifico sui tunnel, né è stato pubblicato alcun dato su quello che è stato scoperto. Secondo “Emek Shaveh”, riguardo al “Cammino dei Pellegrini” non ci sono certezze relative alla datazione del canale di drenaggio.

Oltretutto i tunnel sono stati scavati orizzontalmente, rompendo in pratica con il metodo di scavo verticale dalla superficie in giù accettato da un secolo, secondo Mizrachi il metodo utilizzato dagli archeologi in tutto il mondo. Le informazioni ottenute da scavi orizzontali sono quasi senza alcun valore.

“Quando scavi orizzontalmente, non puoi capire esattamente come i vari periodi si sono sviluppati nel sottosuolo, non capisci correttamente quello che trovi perché lo vedi da una sezione laterale, non dall’alto,” dice Mizrachi.

“Non è il modo di fare archeologia. Quando scavi orizzontalmente commetti fin dall’inizio un errore.” In precedenza due importanti funzionari dell’Autorità Israeliana delle Antichità, Jon Seligman e Gideon Avni, avevano criticato l’escavazione dei tunnel, affermando che, contrariamente alla prassi accettata, è “cattiva archeologia” e “le autorità non dovrebbero essere orgogliose di questi scavi.”

Realtà storica immaginaria”

L’ultima inaugurazione è emblematica del più complessivo problema: ai visitatori dei luoghi archeologici accompagnati nella Gerusalemme est occupata viene detto che gli scavi sono esclusivamente relativi alla storia ebraica, ignorando i diversi capitoli multiculturali della storia di Gerusalemme, come i periodi bizantino e omayyade.

“La gente della fondazione “Elad” ha creato una realtà storica immaginaria fondata sulle sue convinzioni religiose e sui suoi obiettivi nazionalisti piuttosto che su ritrovamenti archeologici e altre prove storiche,” ha osservato Emek Shaveh in un suo rapporto del 2017.

Per esempio, secondo Emek Shaveh presso i famosi tunnel del Muro del Pianto resti di periodi non relativi alla storia ebraica rimangono per lo più ignorati dai visitatori, nonostante gli archeologi concordino sul fatto che la maggior parte dei reperti sia successiva alla distruzione del Secondo Tempio.

In realtà la maggior parte degli scavi presso i tunnel del Muro del Pianto sono al di sotto di strati che sono totalmente musulmani, strutture dei Mamelucchi del XIV° e XV° secolo, nota Mizrachi.

Eppure quello che viene raccontato ai visitatori si concentra quasi esclusivamente sulla storia del Secondo Tempio. Uno degli spazi più vasti scavati nei tunnel del Muro del Pianto è un hammam (bagno turco) del periodo mamelucco, nel XIV° secolo.

Eppure è stato convertito in un’esposizione dell’eredità ebraica, dedicato a raccontare la storia del pellegrinaggio degli ebrei a Gerusalemme, “ignorando quindi completamente il significato storico del sito in cui si trova”, ha scritto Emek Shaveh.

Non ci sono indicazioni per fare in modo che il visitatore sappia che si tratta di una struttura mamelucca o che è stata costruita dal governatore di Damasco, Sayf al-Din Tankaz, responsabile di alcuni degli edifici più considerevoli del tempo, ha scritto Mizrachi in un articolo.

Allo stesso modo nel 2012 il governo israeliano ha deciso di progettare un Centro Biblico all’ingresso di Silwan, che avrebbe presentato storie bibliche e la loro importanza per gli israeliani.

Eppure, secondo Emek Shaveh, nessun resto significativo di periodi biblici è stato scoperto in quel luogo.

A Silwan continuano gli scavi sotto le case palestinesi per trovare prove storiche di re Davide per pubblicizzarla come la “Città di Davide”, nonostante il fatto che gli archeologi mettano in discussione le testimonianze di un regno nel X° secolo a.C.

“C’è un dibattito molto acceso tra gli archeologi su quanto avvenne a Gerusalemme nel X° secolo a.C., il periodo che intendo come l’epoca di Davide e del regno di Salomone,” dice Mizrachi.

“Le testimonianze archeologiche sono molto poche e non ci forniscono il quadro di una vera e propria città, né assolutamente di una città vasta, grande, importante.

“Ci sono stati 150 anni di scavi (alla ricerca della città di Davide), ci sono certamente ancora molte testimonianze mancanti riguardo al tempo di Davide e Salomone. Questo è sicuramente un problema.”

Colonia archeologica”

Mizrachi afferma che gli scavi del tunnel fanno “tutti parte di un progetto politico”.

“Sfortunatamente Israele sta utilizzando questi tunnel mascherati da scavi archeologici, ma in realtà ciò fa parte dell’obiettivo politico di impedire che Gerusalemme rientri in qualunque soluzione politica,” afferma Mizrachi. “Pensiamo che sia un’altra forma di colonizzazione. È una colonia senza persone, ma si tratta di una colonia archeologica. Non è meno problematica, ma persino di più, rispetto ad altre colonie.”

Riguardo alla famiglia Abu Rmeleh, pensa che la sua vita sia in pericolo ma non sa a chi rivolgersi per essere aiutata.

Oltre alle crepe che il loro edificio ha subito, nella casa del nipote hanno anche trovato un buco che porta ai tunnel.

“Lo abbiamo coperto con questo pezzo di legno e qualche pietra perché temiamo quello che potrebbe uscire da quel buco,” dice Abu Rmeleh.

In marzo l’agenzia di notizie Ma’an ha informato che a Silwan un campo giochi è crollato in seguito a 12 anni di scavi sotterranei.

“La cosa più importante nella vita di una persona è vivere in sicurezza e con stabilità. Una casa dovrebbe essere il luogo in cui ci possiamo sentire (sicuri), ma non è il nostro caso,” afferma Abu Rmeleh, aggiungendo che continueranno a vivere nell’edificio nonostante la sua fragilità.

“Questa casa vuol dire tutto per un anziano come me…Il legame tra me e la casa è come quello tra padre e figlio,” dice Abu Rmeleh.

Sull’autrice

Mersiha Gadzo è una giornalista e produttrice in rete di Al Jazeera in inglese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I rifugiati palestinesi e il ‘monologo del secolo’

Lorenzo Kamel

24 giugno 2019 – Al Jazeera

Ovvero, perché l’analogia tra l’espulsione dei palestinesi e l’‘esodo’ degli ebrei dai Paesi arabi è fuorviante

Nel 1948 circa 450 villaggi palestinesi vennero rasi al suolo dalle forze israeliane e circa 770.000 persone – compresi circa 20.000 ebrei cacciati da Hebron, Gerusalemme, Jenin e Gaza dalle milizie arabe – furono espulsi nell’arco di pochi giorni e poi venne loro negato il ritorno con la forza. Alcuni di loro fuggirono per paura, spesso dopo aver assistito al tragico destino dei loro parenti e amici.

Un caso emblematico fu l’espulsione di massa di palestinesi dalle città di Lydda e Ramle nel luglio 1948, che rappresentarono un decimo di tutto l’esodo arabo-palestinese. La maggioranza dei 50.000-70.000 palestinesi che vennero cacciati dalle due città lo furono in seguito a un ordine ufficiale di espulsione firmato dall’allora comandante della brigata Harel, Yitzhak Rabin: “Gli abitanti di Lydda,” chiarì Rabin, “devono essere espulsi rapidamente senza badare all’età.” Molte centinaia di loro morirono durante l’esodo per lo sfinimento e la disidratazione.

Oltre 70 anni dopo è diventato sempre più comune imbattersi in analogie tra i rifugiati palestinesi come quelli di Lydda e Ramle e il “simultaneo sradicamento” di ebrei che vivevano nei Paesi arabi. Il vice ministro israeliano delle Finanze Yitzhak Cohen, per esempio, ha detto che “il problema degli ebrei espulsi è uguale al problema dei rifugiati palestinesi, se non maggiore.”

L’analogia, che in primo luogo intende eliminare il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace, è in genere presentata nei seguenti termini: a causa del “rifiuto arabo” del piano delle Nazioni Unite del 1947, scoppiò un conflitto e 770.000 palestinesi “fuggirono” da quello che oggi è Israele”; allo stesso tempo 800.000 ebrei che vivevano nei Paesi arabi dovettero affrontare un’“espulsione di massa”; quindi ci fu uno “scambio di popolazione” tra “rifugiati arabi ed ebrei.” I palestinesi dovrebbero quindi accettare questa “reciprocità” e rinunciare alle loro richieste di tornare e/o di indennizzi.

Ma questo tentativo di equivalenza morale è fuorviante. Palestinesi ed ebrei scapparono dalle proprie case in contesti diversi e i primi non possono essere accusati del destino dei secondi. La complessa storia dei rifugiati palestinesi non dovrebbe essere ridotta a una semplice analogia su basi non dimostrate.

Chi ha rifiutato cosa?

Una pletora di osservatori e studiosi ha legato l’inizio del problema dei rifugiati palestinesi, e più in generale il conflitto arabo-israeliano, al “rifiuto arabo” della partizione della Palestina da parte dell’ONU nel 1947. Mentre apparentemente questa affermazione può avere senso, la realtà di chi rifiutò cosa negli anni ’40 è più complicata di così.

Infatti, come ha evidenziato il defunto giornalista e attivista israeliano Uri Avnery, se ai palestinesi “fosse stato chiesto, probabilmente avrebbero rifiutato la partizione, dato che – secondo loro – concedeva una gran parte della loro patria storica a stranieri.” Tanto più, ha notato, “in quanto agli ebrei, che all’epoca rappresentavano un terzo della popolazione, venne destinato il 55% del territorio – ed anche lì gli arabi costituivano il 40% della popolazione.”

Ma dalla prospettiva degli arabo-palestinesi, che all’inizio del secolo costituivano circa il 90% della popolazione, il 1947-48 non segnò l’inizio della lotta, ma coincise piuttosto con il capitolo finale di una guerra che era iniziata con alcuni leader sionisti che nei primi anni del XX° secolo avevano adottato politiche e strategie di rifiuto.

L’inizio del conflitto può essere fissato al 1907, quando l’ottavo congresso sionista creò un “ufficio della Palestina” a Giaffa, sotto la direzione del leader sionista Arthur Ruppin, il cui principale obiettivo era – con le sue stesse parole – “la creazione di un contesto ebraico e di un’economia ebraica chiusi, in cui produttori, consumatori e intermediari debbano essere tutti ebrei.” In effetti il “rifiuto” era presente con particolare rilievo nella mentalità di Ruppin.

L’obiettivo di un’“economia ebraica chiusa” venne parzialmente messo in pratica dal 1904 in poi dai dirigenti della seconda e terza aliyot (ondate di immigrazione ebraica in Palestina) attraverso politiche come la kibbush ha’avoda (conquista del lavoro) e la pratica dell’ avodah ivrit (lavoro ebraico, o l’idea che solo i lavoratori ebrei dovessero lavorare terra ebraica).

Benché entrambe fossero guidate dalla necessità di maggiori opportunità di lavoro per i nuovi immigrati, diedero come risultato la creazione di un sistema di esclusione che bloccò fin dall’inizio, in primo luogo a livello ideologico, qualunque potenziale integrazione con la popolazione araba locale.

Alcuni ricercatori hanno sottolineato che allo stesso modo la popolazione araba tendeva a evitare di assumere coloni ebrei. Ciò, tuttavia, non tiene in alcun conto il fatto che gli arabi avevano solo un interesse molto limitato ad assumere una minoranza di nuovi immigrati che avevano una molto minore esperienza agricola e non parlavano la lingua utilizzata dal resto della popolazione locale. Il loro rifiuto dei lavoratori ebrei non faceva parte di una campagna politica organizzata.

Bisognerebbe anche notare che il “sistema di esclusione” e le due strutture sociali e politiche parallele che innescarono colpirono altre questioni fondamentali, quali la terra e le sue risorse.

Per esempio il Fondo Nazionale Ebraico (KKL) venne fondato con il compito di comprare terre in Palestina (riuscì a comprare i nove decimi della terra acquistata in Palestina da proprietari sionisti), mentre vietava la vendita di queste nuove aree acquisite a non ebrei.

Le aree del KKL vennero gestite in modo discriminatorio rispetto alla popolazione araba. I contadini del KKL che venivano scoperti ad assumere lavoratori non ebrei erano soggetti a multe e/o espulsioni. Tali politiche erano effettivamente allarmanti, soprattutto in considerazione dell’ obiettivo perseguito, che il futuro primo presidente dello Stato di Israele, Chaim Weizmann, sottolineò in una lettera inviata a sua moglie nel 1907: “Se i nostri capitalisti ebrei, cioè solo i capitalisti sionisti, dovessero investire i loro capitali, anche solo in parte, in Palestina, non ci sono dubbi che l’arteria vitale della Palestina – tutta la fascia costiera – sarebbe in mani ebraiche entro venticinque anni (…) L’arabo conserva il suo attaccamento primitivo alla terra, l’istinto del suolo è forte in lui, ed essendo costantemente impiegato in esso c’è il pericolo che possa sentirsi indispensabile, con un diritto morale su di esso.”

Tutto ciò conferma ulteriormente che la tendenza a collegare il “rifiuto arabo” alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi ignora buona parte della storia e non può che favorire una comprensione limitata di una questione molto più complessa.

Rapporti arabo – ebraici

Le politiche di rifiuto ebbero un effetto estremamente distruttivo sui rapporti intercomunitari in Palestina. Una serie di fonti primarie prodotte da attori locali alla fine del XIX° secolo e agli inizi del XX° confermano che prima della messa in pratica di queste politiche i rapporti tra diverse comunità erano molto meno conflittuali di quanto sia stato sostenuto di recente.

Per esempio un editoriale anonimo pubblicato sul quotidiano arabo-palestinese “Filastin” del 29 aprile 1914 asseriva: “Fino a dieci anni fa gli ebrei costituivano un elemento autoctono ottomano fraterno. Vivevano e si mescolavano liberamente in armonia con altri soggetti ed intrattenevano rapporti di lavoro, vivevano negli stessi quartieri e mandavano i propri figli nelle stesse scuole.” Queste parole, nonostante il tono apologetico, non erano lontane dalla realtà. Gli atteggiamenti mostrati da varie importanti figure e gruppi religiosi nella regione e la pressione esercitata dalla Porta [la Sublime Porta, cioè l’impero ottomano, ndtr.] in modo che gli ebrei locali potessero diventare cittadini ottomani a pieno diritto confermano – almeno come tendenza generale – tali considerazioni.

Parlando in una pubblica piazza a Beirut nella primavera del 1909, l’avvocato ebreo Shlomo Yellin affermò che “non è legittimo dividere in base alla razza: turchi, arabi, armeni ed ebrei si sono mischiati tra loro e tutti sono legati insieme.”

Lo studioso e scrittore Yaacov Yehoshua scrisse nelle sue memorie “Yaldut be-Yerushalayim ha-yashena” (Infanzia nella Gerusalemme vecchia), pubblicate nel 1965, che a Gerusalemme “c’erano complessi edilizi comuni di ebrei e musulmani. Eravamo come una famiglia (…) I nostri figli giocavano con i loro (musulmani) in cortile, e se bambini del quartiere ci davano fastidio i bambini musulmani che vivevano nel nostro complesso ci proteggevano. Erano nostri alleati.”

Nello stesso periodo, in una città religiosa per eccellenza come Gerusalemme, circa l’80% degli abitanti viveva in quartieri e strutture misti.

Tutto ciò non dovrebbe far pensare che conflitti interreligiosi e/o confessionali fossero sconosciuti. Divisioni e scontri di questo tipo possono essere documentati fin dal Medioevo. Eppure la loro natura e dimensione non erano comparabili con quelle di tempi più recenti. Cosa ancora più importante, non riflettono la storia reale di buona parte del passato della regione.

I palestinesi e l’espulsione degli ebrei

Se la questione dei rifugiati palestinesi ha poco a che vedere con il “rifiuto arabo”, lo stesso si può dire riguardo al tentativo di collegare i rifugiati palestinesi alla vittimizzazione ed espulsione delle comunità ebraiche.

Certamente migliaia di ebrei nei Paesi arabi patirono discriminazioni, oppressione, minacce e varie forme di violenza. L’esempio più noto è il “Farhud” – un pogrom del 1941 in cui oltre 180 ebrei vennero brutalmente uccisi a Baghdad. Secondo Hayyim J. Cohen, “fu l’unico evento (di questo genere) noto riguardo agli ebrei in Iraq, almeno durante il loro ultimo secolo di vita là.”

Indipendentemente dal fatto che siamo d’accordo o meno con le parole di Cohen, è comunque incontestabile che i palestinesi non furono responsabili di quanto avvenne a Baghdad o altrove in Medio Oriente. Possono anche essere arabi, ma non erano e non sono lo stesso popolo degli iracheni.

Ebrei che soffrirono discriminazioni e brutalità in alcuni Paesi arabi hanno rivendicazioni legittime, ogni forma di violenza è ugualmente inaccettabile e deve essere riconosciuta e condannata. Al contempo, va rilevato che, contrariamente ai rifugiati palestinesi, molti dei quali vennero espulsi, o scapparono per paura, una grande maggioranza degli ebrei non volle raggiungere la loro “Eretz Yisrael” (Terra di Israele).

Una personalità che spesso viene utilizzata per giustificare la presunta responsabilità dei palestinesi per le condizioni degli ebrei nei Paesi arabi è Hajj Amin al-Ḥusayni, il “Grand Mufti di Gerusalemme”. Al-Husayni era un sostenitore del primo ministro iracheno Rashid Ali al-Gaylani, che intendeva stabilire legami più forti con la Germania nazista e l’Italia. Fu all’indomani della caduta del governo di al-Gaylani che a Baghdad scoppiarono i disordini che portarono al “Farhud”.

Nel 1941 al_Husayni andò prima in Italia e poi in Germania. Due anni dopo partecipò alla formazione della “Handschar”, una divisione nazista creata in collaborazione con il comandante delle SS Heinrich Himmler, che combatté contro i partigiani comunisti in Yugoslavia e commise vari crimini contro la popolazione locale, compresi molti ebrei. Date le sue presunte credenziali islamiche, venne incaricato di reclutare musulmani bosniaci e serbi che, insieme a qualche volontario croato cattolico, formarono il nucleo centrale dell’unità.

Non c’erano palestinesi arruolati nell’”Handschar”; al contrario, circa 12.000 arabi palestinesi si unirono all’esercito britannico per combattere le potenze dell’Asse nel 1939.

A causa della sua collaborazione con il regime nazista, al-Husayni è spesso utilizzato come esempio del perché il popolo palestinese sia stato il presunto responsabile del suo tragico destino. Eppure, come hanno dimostrato studi recenti, egli [Al-Husayni] non era un legittimo rappresentante del popolo palestinese, in quanto venne semmai imposto ai palestinesi dalle autorità britanniche.

La questione dell’‘assimilazione’

L’analogia tra i rifugiati palestinesi e gli ebrei dei Paesi arabi è fuori luogo per una serie di altri aspetti. Uno dei più ovvi è la questione di come e perché i rifugiati palestinesi e gli ebrei espulsi o emigrati dai Paesi arabi sono (o non sono) stati “assimilati”. Durante e dopo la guerra del 1948, molti palestinesi vennero obbligati a scappare nei vicini Paesi arabi. Fino al recente passato, a molti di loro è stato vietato di prendere la cittadinanza e di esercitare alcune professioni. Le sofferenze dei rifugiati palestinesi sono state – e in alcuni casi sono ancora – sfruttate dalla dirigenza di quei Paesi per fini politici.

Inoltre un paragone tra i campi di rifugiati palestinesi in Libano o in Siria e i ma’abarot, i campi di assimilazione degli immigrati in Israele negli anni ’50 sarebbe fuorviante.

La ragione per cui l’ultimo ma’abara venne chiuso nel 1963 ha in parte a che vedere con la costruzione in Israele di una serie di città di sviluppo, in cui agli ebrei rifugiati è stata fornita una casa. Molti nuovi immigrati dovettero passare attraverso un penoso e violento processo di inserimento in case palestinesi vuote.

Chiunque abbia visitato Ein Hod, Musrara, Qira e qualche centinaio di altri villaggi, quartieri o città in precedenza palestinesi conosce bene le migliaia di case rimaste ancora perfettamente intatte. La maggior parte (se non tutte) sono oggi abitate da famiglie di ex-immigrati.

Quindi non dovrebbe sorprendere che molti dirigenti israeliani abbiano rifiutato il termine “rifugiati”. Come il presidente della Knesset Yisrael Yeshayahu notò nel 1975, “non siamo rifugiati. (Alcuni di noi) sono venuti in questo Paese prima che nascesse lo Stato. Avevamo aspirazioni messianiche.”

L’ex-membro della Knesset Ran Cohen è andato oltre affermando: “Devo dire questo: non sono un rifugiato (…) Sono arrivato al servizio del sionismo, a causa dell’attrazione che questa terra esercita e dell’idea di redenzione. Nessuno mi definirà un rifugiato.”

Al contrario una gran parte della popolazione palestinese ora è formata da rifugiati di seconda, terza o quarta generazione che vivono ancora nei campi.

Di fatto sono gli unici rifugiati non di competenza dell’UNHCR [agenzia Onu per i rifugiati, ndtr.] ma che invece hanno la propria agenzia (UNRWA). La ragione di ciò è radicata nel pieno riconoscimento del pesante prezzo pagato dai palestinesi per le decisioni – pienamente legittime agli occhi di alcuni, completamente o parzialmente illegali secondo altri – prese dalla comunità internazionale alla fine degli anni ’40.

In altre parole, 70 anni fa l’UNRWA venne fondata dall’assemblea generale dell’ONU come agenzia umanitaria per appoggiare quegli stessi rifugiati che avevano perso la propria casa nel 1948, qualche mese dopo il piano ONU di partizione della Palestina nel novembre 1947. Ancor oggi l’UNRWA rispecchia l’obbligo della comunità internazionale di fornire una soluzione giusta e duratura per loro.

Il ‘monologo del secolo’

“La gente (adatta) la propria memoria in modo che si adegui alla propria sofferenza,” scrisse lo storico ateniese Tucidide nella sua “Storia della guerra del Peloponneso”. Oggi questa affermazione sembra particolarmente significativa per il conflitto israelo-palestinese.

Un certo livello di accettazione reciproca delle narrazioni e traumi dell’altro, attraverso riconciliazione e empatia, è la chiave per qualunque pace duratura.

Infatti, quando cicatrici visibili e invisibili sono sfruttate per scopi politici e ideologici, non possono che preparare la strada a quello che il filosofo ebreo nato in Austria Martin Buber ha chiamato “monologo mascherato da dialogo” cioè il dialogo “in cui due o più uomini, riuniti in un luogo, parlano solo con se stessi in modo stranamente contorto e indiretto, eppure immaginano di essere sfuggiti al cruccio di dover ricorrere alle proprie risorse.”

Il cosiddetto “accordo del secolo”, i cui dettagli saranno resi noti durante la riunione economica in Bahrain il 25 giugno, è un ulteriore esempio di una lunga lista di monologhi mascherati da dialoghi.

Tutti gli indizi suggeriscono che quelli che stanno dietro all’“accordo” cercheranno di togliere di mezzo il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace. È il passato presentato come se fosse il futuro. È per questo che è destinato a fallire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Lorenzo Kamel è professore associato di storia all’università di Torino e membro anziano dell’IAI [Istituto Affari Internazionali].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un fotogiornalista palestinese rischia di essere espulso da Israele

Linah Alsaafin

1 giugno 2019 – Al Jazeera

Mustafà al-Kharouf, che vive a Gerusalemme est occupata, rischia l’espulsione in Giordania

Negli ultimi cinque mesi Mustafà al-Kharouf è stato a languire nel carcere israeliano di Givon, lontano dalla moglie Tamam e dalla figlia Asia di un anno e mezzo, ma ora rischia la deportazione in Giordania.

Il trentaduenne fotogiornalista, figlio di madre algerina e padre palestinese, ha vissuto a Gerusalemme dal 1999, quando la sua famiglia vi è tornata.

Nonostante vari tentativi negli ultimi dieci anni, gli è stato negato lo status di residente permanente, a cui avrebbe diritto, facendo quindi di lui un apolide.

Quando la famiglia di Kharouf ha raggiunto i requisiti stabiliti dalle regole per avere la residenza, Mustafà aveva 18 anni e la sua famiglia non poteva presentare per lui una richiesta di ricongiungimento familiare o di registrazione di un minore.

A gennaio Mustafà, che lavorava per l’agenzia Anadolu [agenzia di notizie turca, ndtr.], è stato arrestato dopo che il suo legale si è opposto alla decisione del ministero dell’Interno israeliano di negargli la domanda per la regolarizzazione. Ora il suo destino è nelle mani di un tribunale israeliano, che deciderà se sarà espulso in Giordania, un Paese con cui non ha nessun legame.

Per ottenere lo status legale come palestinesi in città, la famiglia di Kharouf aveva presentato richieste di ricongiungimento familiare.

Ma alla base delle complicate leggi israeliane per i residenti palestinesi di Gerusalemme – a cui vengono concessi i diritti di residenza ma non la cittadinanza israeliana – è la politica del “centro della vita”, che è stata descritta come una “pulizia etnica legalizzata”.

Questa politica, che esige dai palestinesi che vivono nella Gerusalemme est occupata di dimostrare di avere il centro della propria vita in città per conservare il proprio status giuridico, è stata criticata dai gruppi per i diritti umani in quanto discriminatoria e come prodromo dell’espulsione – una grave violazione delle leggi internazionali.

Status giuridico rifiutato dal ministero degli Interni israeliano

Adi Lustigman, l’avvocatessa di Kharouf dell’organizzazione israeliana per i diritti umani “HaMoked”, ha detto ad Al Jazeera che per anni Kharouf ha cercato di regolarizzare la propria situazione a Gerusalemme, ma senza risultati. “Ha avuto un permesso temporaneo per qualche tempo, ma per il resto si è solo arrangiato in qualche modo, come fanno molti altri abitanti di Gerusalemme, apolidi e privi di status,” ha affermato Lustigman. “Ovviamente è estremamente difficile essere una persona senza diritti, senza permesso di lavoro e senza un luogo in cui andare per essere legale.”

Dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015 Kharouf ha ottenuto un visto israeliano di lavoro B/1 per “ragioni umanitarie”. Eppure alla fine le richieste di una proroga del visto sono state rigettate dal ministero dell’Interno per “ragioni di sicurezza”.

Lustigman crede che i rifiuti del ministero riguardino il suo lavoro come fotogiornalista che documenta le violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità israeliane a Gerusalemme est occupata.

Dopo che nel 2016 si è sposato con Tamam, una palestinese di Gerusalemme, Kharouf ha presentato un’altra domanda di ricongiungimento familiare, ma è stata di nuovo rigettata nel dicembre del 2018 dal ministero dell’Interno.

Secondo Lustigman, la decisione era basata su accuse infondate secondo cui Kharouf sarebbe membro di Hamas, messa fuorilegge da Israele.

Il 21 gennaio 2019 l’avvocatessa ha presentato appello contro la decisione, ma il giorno dopo le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di Kharouf e lo hanno arrestato, e da allora è sottoposto a detenzione amministrativa – incarcerazione indefinita senza processo o accuse contro di lui. “Mio marito è la persona più ottimista che conosca, ma ora è disperato,” ha detto ad Al Jazeera Tamam, la moglie di Kharouf.

Tamam ha il permesso di visitare suo marito una volta alla settimana per un massimo di 20 minuti solo attraverso una vetrata.

Il suo stato d’animo è molto peggiorato da quando è stato arrestato,” dice la ventisettenne consulente scolastica. “Ha perso 10 chili ed è molto depresso.”

Pochi mesi fa, in aprile, il tribunale distrettuale israeliano ha rigettato l’appello di Kharouf e gli ha concesso un permesso provvisorio perché non sia espulso, in modo che possa presentare il suo caso all’Alta Corte israeliana, con il 5 maggio come scadenza. L’appello è già stato presentato, ma l’Alta Corte non ha ancora preso una decisione. Kharouf rimane esposto al rischio di essere espulso in Giordania.

Ordine di espulsione ‘illegale’

Saleh Hijazi, il capo dell’ufficio di Amnesty International a Gerusalemme, ha definito la decisione israeliana di negare la richiesta di residenza di Kharouf e di espellerlo “crudele e illegale”. “[Kharouf] deve essere rilasciato immediatamente e gli deve essere concessa la residenza permanente a Gerusalemme est in modo che possa riprendere la sua vita normale con la moglie e la figlia,” dice Hijazi.

L’arresto arbitrario e la prevista espulsione di Mustafà al-Kharouf riflettono la pluriennale politica israeliana di riduzione del numero di palestinesi residenti a Gerusalemme est, negando loro i diritti umani,” prosegue.

In seguito all’annessione illegale di Gerusalemme est da parte di Israele nel 1967, almeno 14.600 palestinesi si sono visti revocare il permesso di residenza.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra l’espulsione da un territorio occupato di persone protette è illegale. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che “la deportazione o il trasferimento [da parte del potere occupante] di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o fuori da questo territorio” costituisce un crimine di guerra.

Una persona non può essere resa apolide,” ha sostenuto in aprile con un comunicato stampa Jessica Montell, direttrice esecutiva di HaMoked. “A livello pratico, non ha senso mantenere Mustafà in ‘attesa di espulsione’ quando non c’è nessun Paese in cui Israele lo possa espellere.

L’Alta Corte di Giustizia ha riconosciuto gli abitanti di Gerusalemme est come popolazione indigena con uno status unico. Israele quindi deve rilasciare senza indugio Mustafà e concedergli lo status legale a cui ha diritto in quanto gerosolimitano.”

Tamam si è molto impegnata per consultare avvocati e vedere quello che si può fare, ma dice che la maggior parte di loro afferma che il caso di suo marito è troppo complicato ed ha rifiutato di occuparsene.

Non ho mai pensato a un progetto alternativo per noi,” dice Tamam. “Se Mustafà viene espulso in Giordania, non otterrà la residenza, per non parlare della cittadinanza. Di fatto verrà arrestato dalle autorità giordane appena attraversato il confine per tutto il tempo che ci vorrà perché controllino la sua documentazione e prendano una decisione su cosa farne di lui,” continua. Se viene espulso non sarà solo una famiglia che verrà separata. Verrà strappato a me e a mia figlia, ai suoi genitori e ai suoi suoceri.”

Lustigman afferma che mettere in evidenza il caso di Kharouf può fare la differenza per non sradicare la vita del fotogiornalista.

Speriamo che l’opinione pubblica, l’interesse della stampa e le azioni delle Ong possano avere un certo peso ed aiutare,” sostiene l’avvocatessa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu promette “attacchi massicci” a Gaza mentre sale il numero di morti

Al Jazeera

5 maggio 2019

Nove palestinesi e tre israeliani uccisi, mentre le forze israeliane si ammassano sul confine di Gaza, alimentando il timore di un’invasione di terra.[ i dati aggiornati sono 27 palestinesi uccisi e 4 israeliani ndt]

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato “attacchi massicci” contro la Striscia di Gaza dopo un’escalation di due giorni che ha portato all’uccisione di nove palestinesi e tre israeliani.

Domenica aerei da guerra e cannoniere israeliani hanno continuato a colpire la Striscia di Gaza mentre combattenti nell’enclave assediata hanno sparato una raffica di razzi sul sud di Israele.

Un comandante di Hamas di 34 anni è stato ucciso in quello che l’esercito israeliano ha descritto come un attacco mirato. Un comunicato dell’esercito ha accusato Hamad al-Khodori di “aver trasferito grandi somme di denaro” dall’Iran alle fazioni armate di Gaza.

È stato il quinto palestinese che si dice sia stato ucciso domenica. Altre vittime palestinesi hanno incluso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, uccise sabato a Gaza.

Nella città israeliana di Ashkelon un cinquantottenne israeliano è stato ucciso dopo essere stato colpito dalle schegge per un attacco con i razzi. Altri due israeliani, gravemente feriti domenica pomeriggio in diversi attacchi con i razzi contro una fabbrica, in seguito sono morti.

Questa mattina ho dato istruzioni alle IDF (l’esercito israeliano) di continuare con massicci attacchi contro i terroristi nella Striscia di Gaza,” ha detto domenica in un comunicato Netanyahu, che ha anche l’incarico di ministro della Difesa, dopo aver consultato il gabinetto di sicurezza.

Ha detto di aver anche ordinato che “carri armati, artiglieria e forze di fanteria” rinforzino le truppe già schierate nei pressi di Gaza, un’iniziativa che suscita timori di un’invasione di terra.

Hamas è responsabile non solo per i suoi attacchi contro Israele, ma anche per quelli della Jihad Islamica, e sta pagando un prezzo molto alto per questo,” ha aggiunto Netanyahu.

Sabato a Gaza fazioni armate, altrimenti note come “Joint Operations Room” [Sala Operativa Unitaria], che include il braccio armato di Hamas e quello del Movimento della Jihad Islamica in Palestina, hanno giurato di “estendere la propria risposta” se l’esercito israeliano continua a prendere di mira la Striscia.

La nostra risposta sarà più vasta e più dolorosa nel caso in cui (Israele) estenda l’aggressione, e continueremo ad essere lo scudo protettivo del nostro popolo e della nostra terra,” ha affermato in un comunicato la Joint Operations Room.

Harry Fawcett, che informa dal lato israeliano del confine con Gaza per Al Jazeera, ha affermato che l’escalation è “tutt’altro che finita”.

È potenzialmente una grave escalation militare pericolosa e lunga,” dice. “I mezzi di informazione israeliani hanno citato importanti fonti della difesa, che hanno detto di aspettarsi che questo scontro durerà alcuni giorni.”

I media israeliani hanno informato che negli ultimi due giorni i combattenti di Gaza hanno lanciato più di 400 razzi verso città e cittadine nella parte meridionale di Israele e che il sistema antimissile israeliano Iron Dome ne ha intercettati più di 250.

L’ufficio stampa del governo a Gaza ha detto che aerei da guerra israeliani hanno condotto circa 150 raid, oltre ai bombardamenti dell’artiglieria che hanno preso di mira 200 luoghi di interesse civile nella Striscia di Gaza, compresi edifici residenziali, moschee, negozi e mezzi d’informazione.

Secondo il ministero della Salute di Gaza circa 70 palestinesi sono rimasti feriti negli attacchi.

In seguito ai raid aerei l’abitante di Gaza Um Alaa Abu Absa ha passato la domenica a raccogliere pezzi di vetro e detriti nella sua proprietà.

Ci sono stati molti bombardamenti, i vicini sono stati molto colpiti, la scena per strada era indescrivibile, la gente aveva paura, era terrorizzata e correva, e ognuno si occupava dei propri figli, nessuno era nelle condizioni di vedere gli altri,” ha detto Abu Absa.

Uno degli edifici distrutti ospitava l’ufficio dell’agenzia ufficiale di notizie dello Stato turco Anadolu a Gaza.

Chiediamo alla comunità internazionale di agire prontamente per allentare le tensioni che si sono accentuate a causa delle azioni sproporzionate di Israele nella regione,” ha affermato un comunicato del ministero degli Esteri turco.

Domenica l’esercito israeliano ha negato che Falastine Abu Arar, madre incinta di 37 anni, e la sua nipotina di 14 mesi, Siba, siano state uccise dalle forze israeliane. Ha invece incolpato un errore nel lancio di un razzo palestinese.

Sabato notte anche due palestinesi, Imad Nseir, di 22 anni, e Khaled Abu Qaleeq, di 25, sono stati uccisi da attacchi aerei israeliani.

Il gruppo della Jihad Islamica palestinese ha detto che i due uomini uccisi durante la notte di domenica, Mahmoud Issa, di 26 anni, e Fawzi Bawadi, di 23, erano membri del suo braccio armato.

Il ministero della Salute ha affermato che nel primo pomeriggio altri due palestinesi sono stati uccisi dopo che un raid aereo israeliano ha preso di mira un gruppo di persone nel quartiere orientale di Gaza City di Shujayea,. Gli uomini sono stati identificati come Bilal Mohammed al-Banna e Abdullah Abu Atta, pare entrambi sui vent’anni.

Poco dopo, in quello che i palestinesi hanno definito il primo assassinio mirato dal 2014, a Gaza City un attacco aereo israeliano ha colpito l’auto di al-Khoudary, comandante di Hamas. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti nell’attacco.

Pericolosa escalation”

Il Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha chiesto a tutte le parti di “ridurre immediatamente la tensione e di tornare alle intese degli ultimi mesi.”

Sono profondamente preoccupato di un’ennesima pericolosa escalation a Gaza e della tragica perdita di vite umane,” ha detto.

I miei pensieri e le mie preghiere vanno alle famiglie e agli amici di tutti quelli che sono stati uccisi, e auguro una rapida guarigione ai feriti.”

L’ultima crisi è arrivata dopo che venerdì altri quattro palestinesi sono rimasti uccisi in due diversi incidenti.

Due di loro sono stati colpiti a morte durante le proteste settimanali della Grande Marcia del Ritorno nei pressi del confine orientale di Gaza, mentre un raid aereo che ha preso di mira un avamposto di Hamas ha ucciso due membri del braccio armato del movimento.

L’esercito israeliano ha affermato che il raid aereo era una risposta a una sparatoria che ha ferito due suoi soldati nei pressi del confine.

Il nostro corrispondente ha detto che un attacco israeliano con un drone nei pressi di un veicolo, che ha ferito tre palestinesi, ha preceduto il lancio di una raffica di razzi.

Da quando Hamas ha preso il controllo del territorio nel 2007 Israele ed Egitto hanno mantenuto un blocco asfissiante contro Gaza.

Dopo pesanti scontri, alla fine di marzo Israele ha accettato di alleggerire il blocco in cambio di un’interruzione del lancio di razzi. Ciò ha incluso l’estensione della zona di pesca lungo le coste di Gaza, un aumento delle importazioni a Gaza e il permesso al Qatar, Stato del Golfo, di consegnare aiuti all’immiserito territorio.

Tuttavia Israele non ha rispettato gli accordi su questi temi e alla fine di aprile ha ridotto l’estensione della zona di pesca.

Varie intese rese note riguardo all’alleggerimento delle restrizioni economiche, alla creazione di lavoro e all’intenzione di aumentare la fornitura di elettricità a Gaza – non c’è stato niente del genere,” ha detto Harry Fawcett.

Circa due milioni di palestinesi vivono a Gaza, la cui economia ha sofferto per anni di blocco così come per il recente taglio agli aiuti. Secondo la Banca Mondiale la disoccupazione arriva al 52% e la povertà è dilagante.

Dal dicembre 2008 Israele ha scatenato tre offensive contro Gaza.

L’ultima guerra, nel 2014, ha gravemente danneggiato le già carenti infrastrutture di Gaza, inducendo le Nazioni Unite ad avvertire che la Striscia sarà “inabitabile” entro il 2020.

Fonte: Al Jazeera e agenzie di notizie

(traduzione di Amedeo Rossi)




Razzi sparati da Gaza il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro palestinesi

4 maggio 2019 ore 16  Al Jazeera

Incursione israeliana uccide un palestinese a Gaza nel contesto di una crisi il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro persone in due incidenti separati.

Secondo il ministero della Salute di Gaza un palestinese è rimasto ucciso durante un raid aereo israeliano nel nord della Striscia di Gaza, nel contesto di una nuova escalation tra l’esercito israeliano e i combattenti di Gaza.

Imad Nseir, di 22 anni, è stato ucciso a Beit Hanoun dopo che sabato mattina aerei da guerra israeliani hanno preso di mira varie zone nell’enclave assediata dopo che decine di razzi sono stati sparati da Gaza verso il sud di Israele.

L’ultima crisi è arrivata dopo che venerdì le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in due diversi incidenti.

Harry Fawcett, inviato di Al Jazeera da Gerusalemme, ha detto che la raffica di razzi sparati da Gaza è avvenuta dopo l’attacco nel nord della Striscia di un drone israeliano, che sabato mattina ha ferito tre persone.

Stiamo assistendo a un’altra escalation militare, la prima da quella del mese scorso in cui abbiamo visto un altro scambio di incursioni aeree e lancio di razzi da Gaza, che sembrava essere terminato con qualche speranza riguardo a una sorta di soluzione a lungo termine,” ha detto.

C’è stato un buon accordo riguardo a colloqui tra Israele e Hamas mediati dall’Egitto con un ulteriore alleggerimento della situazione da parte di Israele che probabilmente sarebbe avvenuto,” ha continuato.

Hamas dice che finora tutto quello che hanno visto è la riduzione dei controlli marittimi, che consente di pescare fino al limite di 15 miglia nautiche rispetto a 6, che ora è stato di nuovo ridotto.”

Razzi lanciati

L’esercito israeliano ha affermato che il sistema missilistico Iron Dome ha intercettato decine di razzi, aggiungendo che circa 90 razzi sono stati lanciati dalla Striscia. Ha anche detto che non ci sono notizie di vittime dal lato israeliano.

Secondo agenzie di notizie palestinesi, in seguito al lancio di razzi aerei da guerra israeliani hanno preso di mira una zona agricola a Beit Hanoun, una città del nord della Striscia, con molti raid.

Anche forze israeliane presso la barriera con Gaza hanno bombardato una serie di postazioni di osservazione a Khan Younis, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Fonti mediche ufficiali di Gaza hanno anche detto che quattro palestinesi sono rimasti feriti in uno degli attacchi israeliani.

Le sirene hanno suonato nelle città israeliane di Ashdod e Ashkelon ed è stata chiusa anche la vicina spiaggia di Zikim, situata a due chilometri a nord della Striscia di Gaza.

Non c’è stata nessuna rivendicazione immediata per il razzo lanciato da Gaza.

Secondo il “Centro Palestinese di Informazione” il portavoce di Hamas, Abdullatif Al-Qanou’, ha affermato: “La resistenza rimarrà pronta a rispondere ai crimini dell’occupazione e non le consentirà di versare il sangue del nostro popolo.”

Anche il movimento della Jihad Islamica ha rilasciato un comunicato simile, dicendo che “la resistenza sta facendo il proprio dovere di proteggere e difendere il nostro popolo,” aggiungendo che “risponderà con tutte le sue capacità militari all’aggressione (israeliana).”

Nel contempo nella Cisgiordania occupata il movimento Fatah ha condannato l’escalation nella Striscia di Gaza ed ha chiesto che la comunità internazionale “contrasti l’aggressione.”

Venerdì quattro palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due diversi incidenti: due di loro sono stati colpiti a morte durante le settimanali proteste della Grande Marcia del Ritorno nei pressi della barriera israeliana a est di Gaza, mentre un attacco aereo ha preso di mira un avamposto di Hamas, uccidendo due membri del braccio armato del movimento.

L’esercito israeliano ha detto di aver colpito la base di Hamas dopo che due dei suoi soldati sono stati feriti da Gaza presso la barriera israeliana da colpi di arma da fuoco.

Un cessate il fuoco tra Israele e Hamas mediato dall’Egitto e dalle Nazioni Unite aveva portato a una relativa calma nel periodo delle elezioni politiche israeliane del 9 aprile.

Ma martedì, dopo che dal territorio è stato sparato un razzo, Israele ha ridotto il limite di pesca che impone alle imbarcazioni che operano al largo di Gaza.

L’esercito israeliano ha incolpato la Jihad Islamica del razzo, caduto nel Mediterraneo.

Giovedì Israele ha affermato che la sua aviazione ha colpito un complesso militare di Hamas, dopo che palloni aerostatici con bombe incendiarie ed esplosivi sono stati lanciati attraverso il confine.

Dopo l’attacco aereo l’esercito israeliano ha detto che due razzi sono stati lanciati da Gaza verso Israele, facendo suonare le sirene in alcune zone del sud.

Con il cessate il fuoco a rischio, giovedì una delegazione di Hamas guidata dal capo di Gaza Yahya Sinwar ha lasciato l’enclave per recarsi al Cairo per colloqui con funzionari egiziani per negoziare una tregua.

Il cessate il fuoco ha visto Israele consentire al Qatar di fornire milioni di dollari in aiuti per Gaza al fine di pagare i salari e finanziare la fornitura di combustibile e ridurre la grave carenza di elettricità.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu è attualmente impegnato in negoziati per formare un nuovo governo in seguito alle elezioni dello scorso mese, mentre dal 14 al 18 maggio Israele ospiterà a Tel Aviv la competizione canora “Eurovision”.

Da più di un anno palestinesi hanno partecipato a periodiche manifestazioni e scontri lungo il confine di Gaza, chiedendo ad Israele di alleggerire il suo asfissiante blocco dell’enclave.

Dall’inizio delle proteste nel marzo 2018 almeno 270 palestinesi, in maggioranza lungo il confine, sono stati uccisi da fuoco israeliano.

Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

Israele accusa Hamas di utilizzare le proteste come copertura per condurre attacchi e afferma che le sue azioni sono necessarie per difendere il confine e bloccare le infiltrazioni.

I risultati di un’inchiesta ONU diffusi alla fine di febbraio hanno stabilito che Israele potrebbe aver commesso crimini contro l’umanità in risposta alle proteste sul confine, in quanto i cecchini hanno “intenzionalmente” sparato a civili, compresi minorenni, a giornalisti e a un disabile.

Israele ha respinto “totalmente” il rapporto, mentre Hamas ha chiesto che Israele venga chiamato a rispondere delle sue azioni.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La riduzione della zona di pesca di Gaza è “una punizione collettiva illegale”

Maram Humaid

30 aprile 2019,  Al Jazeera

La mossa arriva pochi giorni dopo che Israele ha esteso la zona di pesca a 15 miglia nautiche come parte di un accordo di cessate il fuoco

Per i 4.000 pescatori dell’enclave la decisione da parte dell’esercito israeliano di ridurre la zona di pesca accessibile nella Striscia di Gaza assediata non è “una sorpresa”.

Non è arrivata inaspettata. L’occupazione viola sempre gli accordi che riguardano i pescatori della Striscia,” ha detto ad Al Jazeera Zakaria Bakr, capo dell’Unione dei pescatori di Gaza.

Citando un presunto attacco con i razzi, martedì l’esercito israeliano ha detto che fino a nuovo avviso la pesca a Gaza sarà consentita solo fino a 6 miglia nautiche (11 km).

L’iniziativa arriva dopo che il 1 aprile Israele ha esteso la zona fino a un massimo di 15 miglia nautiche, come parte di un cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e Hamas, il gruppo che governa la Striscia di Gaza.

Martedì in un comunicato l’esercito israeliano ha detto che la decisione è stata la risposta a un razzo lanciato dal gruppo Jihad Islamica lunedì sera, un’affermazione che il gruppo palestinese nega. “Le accuse di Israele sono parte della campagna di menzogne contro il movimento della Jihad Islamica,” ha detto ad Al Jazeera il portavoce della Jihad Islamica Mosaab al-Breim.

Fa anche parte della guerra psicologica che ha condotto a lungo contro il popolo palestinese…Il braccio armato della Jihad Islamica non ha confermato il lancio di un razzo verso l’occupazione (israeliana),” ha detto.

Bakr, dell’Unione dei pescatori, ha affermato che la decisione di Israele arriva in un momento critico e che l’accordo di cessate il fuoco non è riuscito ad alleviare l’opprimente blocco di Israele contro la Striscia.

Lo scopo dell’estensione era di migliorare l’economia di Gaza, che si basa molto sul settore ittico.

Molti pescatori hanno manifestato la propria soddisfazione per il gesto insolito, soprattutto in quanto il mese santo del Ramadan è imminente. Ma oggi, dicono, è una situazione “molto triste e difficile”.

Israele inventa sempre dei pretesti (per ridurre la zona di pesca consentita), soprattutto quando si avvicina la stagione della pesca,” dice Bakr.

Le barche nella Striscia di Gaza sono “più attive” durante la primavera che in qualunque altro periodo dell’anno, afferma, sottolineando che la mossa è una continuazione della “sistematica oppressione” di Israele contro i pescatori di Gaza, così come contro i quasi due milioni di abitanti.

Barche disperse

Oltre ai 4.000 pescatori che dipendono dal settore in quanto rappresenta una delle poche opportunità a disposizione per lavorare a Gaza, ci sono almeno altre 1.500 persone che beneficiano della vendita e dell’esportazione del pesce pescato là.

Ma le esportazioni si sono ridotte nel corso degli anni e il declino del settore della pesca a Gaza è tra le molte conseguenze della politica israeliana.

Nel 2007, in seguito alla vittoria di Hamas nelle elezioni che le hanno dato il controllo del territorio assediato, Israele ha imposto un rigido blocco terrestre, aereo e navale.

L’iniziativa ha anche ridotto l’ingresso di materie prime, lasciando la maggior parte delle barche senza le necessarie riparazioni per operare al massimo delle loro potenzialità.

Il limite sempre modificato da Israele riguardante fin dove i pescatori hanno il permesso di navigare nel Mediterraneo ha posto molte barche – e vite – in pericolo.

La barca di Omar Mounir è stata tra le 50 imbarcazioni salpate dalla costa di Gaza martedì mattina.

Questa mattina eravamo in mare, cercando di pescare come al solito,” dice a Al Jazeera il cinquantunenne.

Afferma che le barche erano arrivate al segnale delle 11 miglia nautiche quando hanno visto imbarcazioni della marina militare israeliana arrivare nella loro direzione.

Hanno sparato con cannoni ad acqua per disperdere le barche – alcune si sono rotte e altre più piccole sono affondate,” dice Mounir.

Ci hanno obbligati a girare e a tornare verso la riva, affermando che il limite era stato riportato indietro a sei miglia nautiche…Non abbiamo avuto il tempo di ritirare le nostre reti che avevamo sistemato nell’acqua.”

In base agli accordi di Oslo firmati nel 1993 Israele è obbligato a consentire di pescare fino a 20 miglia marine, ma ciò non è mai stato messo in pratica.

Israele nell’ultimo decennio ha lanciato tre grandi attacchi contro Gaza, che hanno pesantemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture della città. Durante questi attacchi la pesca è stata totalmente vietata.

I pescatori con cui Al Jazeera ha parlato hanno affermato che fare una spedizione di pesca al largo delle coste di Gaza potrebbe arrivare a costare 400 dollari.

Benché la zona consentita fosse stata estesa a 15 miglia nautiche, molti dei pescatori non hanno l’equipaggiamento adeguato o il combustibile per fare tutto il percorso.

Miriam Marmur di “Gisha”, un’organizzazione israeliana per i diritti, ha detto a Al Jazeera che l’ultima mossa israeliana costituisce “una punizione collettiva illegale”.

Israele restringe ed estende regolarmente la zona di pesca di Gaza, spesso come misura punitiva, provocando una grande incertezza e insicurezza,” dice Marmur.

Secondo lei le restrizioni israeliane contro Gaza sono state messe in atto come parte di una politica ufficiale di “guerra economica” contro la Striscia e hanno “poco” a che vedere con la sicurezza.

Dal 30 marzo 2018 i palestinesi della Striscia di Gaza hanno chiesto una fine del blocco e anche il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie sono state espulse durante la fondazione di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza almeno 6.500 manifestanti sono stati colpiti da cecchini israeliani, che hanno ucciso più di 250 persone tra cui minorenni, giornalisti e medici.

(traduzione di Amedeo Rossi)