Minori palestinesi uccisi da Israele a Gaza

Due adolescenti palestinesi colpiti a morte dall’esercito israeliano

Fonti ufficiali affermano che durante le proteste a cui hanno partecipato più di 5.000 persone sono anche state ferite dall’esercito israeliano 76 persone.

di Ali Younes

6 settembre 2019 – Al Jazeera

 

Nel corso di una protesta lungo la barriera di confine tra Israele e Gaza due palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano.

Le autorità sanitarie di Gaza hanno detto che venerdì Ali al-Ashqar, di 17 anni, e Khaled al-Ribie, di 14, sono stati colpiti al petto dalla polizia israeliana, mentre migliaia di palestinesi manifestavano in diversi punti della barriera.

Ashraf al-Qidra, un portavoce del Ministero palestinese della Sanità a Gaza, ha detto ad Al Jazeera che sono state ferite dal fuoco israeliano anche 76 persone, 45 delle quali sono state colpite deliberatamente.

“La maggior parte delle vittime ha riportato ferite alla parte superiore del corpo, il che indica l’intenzione di uccidere”, ha detto.

Secondo i partecipanti, oltre 5.000 palestinesi hanno preso parte alla marcia di venerdì.

L’esercito israeliano ha stimato un numero maggiore di partecipanti, affermando che 6.200 persone si sono radunate in diversi punti lungo il confine con Israele.

Le proteste settimanali sono state organizzate a partire dal marzo 2018 dalla ‘Commissione per la Marcia per il Diritto al Ritorno’, una coalizione di organizzazioni della società civile.

Ghazi Hamad, un importante dirigente di Hamas a Gaza, ha detto ad Al Jazeera che Israele ha adottato la prassi di prendere di mira i manifestanti palestinesi, ma il livello della sua azione contro di loro spesso è dipeso dalla situazione politica tra Israele e Hamas.

Hamad ha sottolineato che le uccisioni e l’alto numero di feriti di venerdì sono indicative della mancanza di “un’intesa politica” tra Israele e Hamas.

“Quando non ci sono accordi o un’intesa politica tra Hamas e Israele, come accade adesso, la tensione alle frontiere sale e spesso Israele inasprisce la sua reazione letale”, ha detto.

Assenza di speranza

Un palestinese che partecipa regolarmente alle marce ha detto da Gaza ad Al Jazeera che la maggior parte della gente partecipa perché loro e le loro famiglie stanno pagando un alto costo a causa del blocco economico e anche della chiusura del valico di confine tra Gaza ed Egitto.

“La gente ha perso la speranza. Intorno a loro ci sono solo disperazione e miseria”, ha detto il palestinese, che ha chiesto di restare anonimo.

Negli ultimi mesi le marce sono diventate meno partecipate, dopo che a inizio anno dei mediatori hanno ottenuto un cessate il fuoco non ufficiale. Secondo l’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.], dal 2018 durante queste marce sono stati uccisi più di 200 palestinesi e un soldato israeliano

Circa il 70% dei due milioni di palestinesi di Gaza sono rifugiati ufficialmente riconosciuti, che sono stati originariamente espulsi dalle loro case da quelle che all’epoca erano milizie armate sioniste, prima della fondazione di Israele nel 1948.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Israele attacca forze filo-iraniane

Attacchi contro forze sostenute dall’Iran: quello che c’è da sapere

Una serie di attacchi aerei contro milizie sostenute dagli iraniani in Siria, Iraq e Libano hanno accentuato le tensioni in Medio Oriente

 

26 agosto 2019 – Al Jazeera

 

 

Da sabato scorso una serie di attacchi ha preso di mira milizie sostenute dagli iraniani in Siria, Iraq e Libano, alimentando timori di un’escalation regionale.

Le milizie, che fungono da alleati dell’Iran, hanno accusato degli attacchi Israele, che ha intensificato i tentativi di contenere l’espansione dell’influenza iraniana in Medio Oriente.

Lunedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l’Iran sta pianificando attacchi contro Israele ed ha sollecitato la comunità internazionale ad “agire immediatamente in modo che l’Iran interrompa la propria aggressione.”

Ecco quello che si deve sapere:

 

Siria

Quando: sabato notte

L’esercito israeliano afferma di aver attaccato obiettivi nella zona di Aqrabah, nei pressi della capitale Damasco, in quello che ha affermato essere stato un tentativo riuscito di sventare un imminente attacco iraniano con droni contro Israele.

L’esercito israeliano ha detto che la propria aviazione ha colpito “forze operative della milizia iraniana Quds e sciite”, che stavano preparando piani di attacco in fase avanzata per prendere di mira luoghi in Israele dalla Siria.

La forza d’elite Quds, guidata dal maggiore generale Qassem Soleimani, è il ramo dei Corpi delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran (IRGC) all’estero.

Un importante comandante delle guardie rivoluzionarie ha negato che siano stati colpiti obiettivi iraniani e ha detto che i “centri dei suoi consiglieri militari non sono stati danneggiati.”

 

Libano

Quando: domenica, lunedì

A Beirut sono stati avvistati due droni che volavano sul quartiere periferico di Dahyeh, dominato da Hezbollah [gruppo armato libanese sciita, ndtr.].

Domenica Hezbollah, appoggiato dall’Iran, ha affermato che il primo drone israeliano si è schiantato su un edificio che ospita l’ufficio stampa di Hezbollah, mentre un secondo drone è esploso in aria, spingendo il leader del movimento Hassan Nasrallah a descrivere l’incidente come una “missione suicida”.

Nasrallah ha anche detto che il suo movimento abbatterà qualunque drone israeliano sui cieli libanesi, e che “il tempo in cui l’aviazione israeliana arrivava e bombardava il Libano è finito.”

Il primo ministro libanese Saad Hariri ha detto che i due droni rappresentano un palese attacco contro la sovranità del Paese.

“La nuova aggressione…costituisce una minaccia alla stabilità regionale e un tentativo di spingere la situazione verso un’ulteriore tensione,” ha affermato domenica.

In riferimento all’attacco israeliano contro la Siria, Nasrallah ha detto, con una rara ammissione, che l’obiettivo non era una postazione della forza Quds, ma una casa in cui si trovavano combattenti di Hezbollah – due dei quali sono rimasti uccisi in conseguenza dell’attacco. Ha promesso una ritorsione contro l’attacco israeliano in Siria e ha detto che ci sarà un’imminente risposta da parte di Hezbollah contro l’esercito israeliano.

Il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric ha affermato in un comunicato che “è imperativo per tutti evitare un’escalation e rispettare importanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.

Le Nazioni Unite chiedono alle parti di esercitare la massima moderazione sia nelle azioni che nelle parole.” Lunedì le autorità libanesi hanno detto che Israele ha attaccato una base palestinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale (PFLP-CG) [gruppo armato palestinese filo-siriano, ndtr.] al confine orientale del Libano con la Siria.

I tre attacchi, avvenuti a pochi minuti di distanza nei pressi del villaggio di Qusaya, nella Valle della Bekaa, hanno colpito la base del PFLP-CG, che è un alleato di Hezbollah.

Il presidente libanese Michel Aoun ha affermato: “Siamo un popolo pacifico e non vogliamo la guerra. Non accetteremo che chiunque ci minacci in alcun modo.”

Negli ultimi anni raid aerei di Israele contro le fazioni palestinesi in Libano sono stati rari.

Non ci sono state reazioni immediate da parte di Israele.

 

Iraq

Quando: domenica

Le Forze Popolari di Mobilitazione (PMF) appoggiate ed addestrate dall’Iran accusano per la prima volta Israele di un attacco contro un loro deposito di armi nella città irachena di Al-Qaim, nei pressi dei confini occidentali del Paese con la Siria.

“Nel contesto della serie di attacchi sionisti contro l’Iraq, i malvagi corvi israeliani sono tornati a colpire le Hash al-Shaabi, questa volta con due droni all’interno del territorio dell’Iraq,” sostiene un comunicato delle PMF. L’attacco, continua la dichiarazione, rappresenta una dichiarazione di guerra.

Le PMF, o Hash al-Shaabi, sono il braccio ufficiale delle forze di sicurezza irachene, che includono brigate che operano in modo semi-autonomo.

Il gruppo ha detto che nell’attacco di domenica un combattente delle PMF è stato ucciso e un altro gravemente ferito, aggiungendo che anche gli Stati Uniti sono complici.

Lunedì in un comunicato la presidenza irachena ha detto che gli attacchi sono stati una “flagrante azione ostile che ha preso di mira l’Iraq,” aggiungendo che “la sovranità irachena e il benessere del suo popolo sono una linea che non si può superare.”

Israele non ha commentato.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La corsa di Israele in Africa: vendere acqua, armi e menzogne

Ramzy Baroud

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele sta cercando di riscrivere la storia per entrare nei cuori dei cittadini africani, ma non ci riuscirà

Per anni, il Kenya è stato la porta di Israele verso l’Africa. Israele ha usato le forti relazioni politiche, economiche e di sicurezza tra i due Stati per espandere la sua influenza sul continente e mettere altre Nazioni africane contro la Palestina. Malauguratamente la strategia di Israele sembra, almeno in apparenza, avere successo: il sostegno storico e dichiarato dell’Africa alla lotta palestinese sulla scena internazionale sta diminuendo.

Il riavvicinamento del continente a Israele è una sventura, perché, per decenni, l’Africa è stata all’avanguardia nell’opporsi a tutte le ideologie razziste, incluso il sionismo, ideologia alla base della fondazione di Israele sulle rovine della Palestina. Se l’Africa cedesse alle lusinghe e alle pressioni israeliane e accettasse pienamente lo Stato sionista, il popolo palestinese perderebbe un partner prezioso nella lotta per la libertà e i diritti umani.

Ma non tutto è perduto.

Il mese scorso ho visitato Nairobi, capitale del Kenya, per partecipare a incontri con giornalisti, intellettuali, attivisti per i diritti umani e cittadini comuni del Paese, nel tentativo di contrastare parte della propaganda imposta negli ultimi anni dalla macchina israeliana dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.]. Considerando il successo di Israele nel penetrare i vari strati della società keniota, volevo indagare se fosse ancora in qualche modo possibile una solidarietà.

Alla fine della mia visita sono rimasto piacevolmente sorpreso, poiché ho scoperto che la “storia del successo” di Israele in Kenya e nel resto dell’Africa è superficiale e l’affinità tra Africa e Palestina è troppo profonda perché sia facilmente sradicata da una qualsiasi “campagna d’immagine” da parte di Israele.

La lunga storia della solidarietà africana con la Palestina

Secondo l’analista politico israeliano Pinhas Anbari, la “campagna d’immagine in Africa” di Israele è iniziata dopo che Israele ha fallito nel convincere gli Stati europei a sostenere le sue politiche nei confronti dei palestinesi.

“Quando l’Europa espresse apertamente il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese”, ha detto Anbara, “Israele ha preso la decisione strategica di rivolgersi all’Africa”.

Ma il sostegno dell’UE a uno Stato palestinese e le critiche occasionali alle colonie ebraiche illegali nei territori occupati non sono state le uniche ragioni alla base della decisione di Israele di concentrarsi sull’Africa.

La maggior parte dei Paesi africani, come la maggior parte dei paesi del sud del mondo, ha votato a lungo a favore delle risoluzioni filo-palestinesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), contribuendo ulteriormente al senso di isolamento di Israele sulla scena internazionale. Di conseguenza, riconquistare l’Africa – “riconquistare” perché l’Africa non è sempre stata ostile a Israele e al sionismo – è diventato un modus operandi delle relazioni internazionali israeliane.

Il Ghana riconobbe ufficialmente Israele nel 1956, otto anni appena dopo la sua nascita, e iniziò una tendenza che continuò tra i Paesi africani negli anni seguenti. All’inizio degli anni ’70, Israele aveva conquistato una posizione forte nel continente. Alla vigilia della guerra arabo-israeliana del 1973, Israele aveva rapporti diplomatici con 33 Paesi africani.

“La guerra di ottobre”, tuttavia, ha cambiato tutto. Allora, i Paesi arabi, sotto la guida egiziana, agivano, in certa misura, con una strategia politica unitaria. E quando i Paesi africani dovettero scegliere tra Israele, un Paese nato da intrighi coloniali occidentali, e gli arabi, che soffrivano per mano del colonialismo occidentale quanto l’Africa, scelsero naturalmente la parte araba. Uno dopo l’altro, i Paesi africani iniziarono a recidere i legami con Israele. Ben presto nessuno Stato africano tranne Malawi, Lesotho e Swaziland intrattenne relazioni diplomatiche ufficiali con Israele.

In seguito, la solidarietà del continente con la Palestina è andata anche oltre. L’Organizzazione dell’Unità Africana – il precursore dell’Unione Africana – nella sua dodicesima sessione ordinaria, tenutasi a Kampala nel 1975, fu il primo organo internazionale a riconoscere su larga scala il razzismo intrinseco nell’ideologia sionista di Israele, adottando la Risoluzione 77 (XII) [di sostegno alla popolazione palestinese e forte condanna di Israele, ndtr]. La stessa risoluzione è citata nella risoluzione UNGA 3379, adottata nel novembre dello stesso anno, che stabiliva che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. La risoluzione 3379 è rimasta in vigore fino a quando non è stata revocata dall’Assemblea nel 1991, dietro una veemente pressione americana.

Purtroppo, la solidarietà dell’Africa con la Palestina ha iniziato a erodersi negli anni ’90. In quegli anni il processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti ebbe un grosso slancio, dando luogo agli Accordi di Oslo e ad altri accordi che normalizzarono l’occupazione israeliana senza dare ai palestinesi i diritti umani fondamentali. Con molti incontri e strette di mano tra palestinesi e raggianti funzionari israeliani, presentati regolarmente sui media, molte Nazioni africane ebbero l’illusione che una pace duratura fosse finalmente a portata di mano. Alla fine degli anni ’90, Israele aveva riattivato i legami con ben 39 Paesi africani. Mentre i palestinesi perdevano sempre più terra grazie a Oslo, Israele ottenne molti nuovi alleati importanti in Africa e in tutto il mondo.

Eppure per Israele una “lotta per l’Africa” a tutto campo – come alleata politica, partner economico e cliente delle sue tecnologie della “sicurezza” e di armamenti – non si è manifestata apertamente che poco tempo fa.

La lotta di Israele per l’Africa

Il 5 luglio 2016, Benjamin Netanyahu ha dato il via alla corsa di Israele per l’Africa con una storica visita in Kenya, che ha fatto di lui il primo ministro israeliano a visitare l’Africa negli ultimi 50 anni. Dopo aver trascorso un po’ di tempo a Nairobi, dove ha partecipato al Forum economico Israele-Kenya accanto a centinaia di leader israeliani e kenioti, si è trasferito in Uganda, dove ha incontrato i leader di altri Paesi africani tra cui il Sud Sudan, il Ruanda, l’Etiopia e la Tanzania. Nello stesso mese, Israele ha annunciato il ripristino dei rapporti diplomatici tra Israele e Guinea.

La nuova strategia israeliana è iniziata lì. Sono seguite altre visite ad alto livello in Africa e annunci trionfali su nuove joint venture e investimenti economici.

Tuttavia, il primo ministro israeliano ha presto rilevato come gli sforzi diplomatici ed economici per conquistare l’Africa fossero insufficienti. Quindi, si è arreso alla riscrittura della storia per migliorare la posizione di Israele nel continente.

Nel giugno 2017, Netanyahu ha preso parte alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), che si tiene nella capitale liberiana Monrovia. “Africa e Israele godono di una naturale affinità”, ha affermato Netanyahu nel suo discorso. “Abbiamo, sotto molti aspetti, storie simili. Le vostre Nazioni hanno sofferto duramente sotto il dominio straniero. Avete vissuto guerre e massacri orribili. La nostra storia è molto simile.”

Con queste parole, Netanyahu ha cercato non solo di coprire la brutta faccia del colonialismo sionista e di ingannare gli africani, ma anche di derubare i palestinesi della loro storia.

Nonostante l’evidente falsità delle “storie simili” di Netanyahu, l’offensiva del fascino di Israele in Africa è proseguita di successo in successo. Nel gennaio di quest’anno, ad esempio, il Ciad, nazione a maggioranza musulmana e geograficamente la più importante dell’Africa centrale, ha stabilito legami economici con Israele.

Cercando di affermarsi come partner delle Nazioni africane, Israele ha fornito alcuni aiuti a beneficio degli africani, come la fornitura di tecnologie solari, idriche e agricole alle regioni bisognose. Tuttavia, questi contributi hanno avuto un alto costo.

Quando, ad esempio, nel dicembre 2016, il Senegal ha sottoscritto la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che condannava la costruzione di insediamenti ebrei illegali nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, Netanyahu ha richiamato l’ambasciatore israeliano a Dakar e prontamente cancellato tutti i progetti di irrigazione a goccia del Mashav [l’Agenzia israeliana per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale, ntr.] – i progetti erano stati precedentemente “ampiamente pubblicizzati come parte importante del contributo di Israele alla ‘lotta contro la povertà in Africa’ “.

Israele non solo si è servito così di progetti come questi per punire le nazioni africane quando queste abbiano mancato di fornire supporto cieco a Israele nei contesti internazionali, ha anche usato le sue nuove relazioni per trasformare l’Africa in un nuovo mercato per la vendita di armi.

Paesi africani come Ciad, Niger, Mali, Nigeria e Camerun, tra gli altri, sono diventati clienti delle tecnologie israeliane di “antiterrorismo”, gli stessi strumenti mortali attivamente utilizzati per reprimere i palestinesi nella loro eterna lotta per la libertà.

E tutto questo mentre Israele continua a promuovere la medesima mentalità razzista e coloniale che ha asservito e soggiogato l’Africa per centinaia di anni. La cosa sembra essere sfuggita ai leader africani che si sono messi in fila per ricevere sussidi e appoggio israeliani nella loro dubbia “guerra al terrorismo”. Inoltre, lo sfacciato razzismo anti-africano che impronta in generale la politica e la società israeliane non sembra avere alcuna conseguenza per il crescente fan-club di Israele in Africa.

Molti governi africani, compresi quelli di Nazioni a maggioranza musulmana, stanno dando a Israele esattamente ciò che vuole: un modo per uscire dal suo isolamento e legittimare l’apartheid.

“Israele si sta facendo strada nel mondo islamico”, ha detto Netanyahu durante la prima visita di un leader israeliano nella capitale del Ciad, Ndjamena, il 20 gennaio 2019. “Stiamo facendo la storia e stiamo trasformando Israele in una potenza globale in crescita”.

I palestinesi e gli arabi, naturalmente, hanno una parte di colpa in tutto ciò, per aver abbandonato i loro alleati africani nell’ inseguimento insensato, dopo le promesse di Stati Uniti e Occidente, di una pace che non si è mai realizzata. La politica araba è enormemente cambiata dalla metà degli anni ’70. Non solo i Paesi arabi non parlano più con una sola voce e, quindi, non hanno una strategia unificata per quanto riguarda l’Africa o il resto del mondo, ma alcuni governi arabi stanno attivamente tramando con Tel Aviv e Washington contro i palestinesi. La conferenza economica del Bahrain, che si è tenuta a Manama dal 25 al 26 giugno, è stata l’ultimo di questi eventi.

La stessa leadership palestinese ha allontanato la propria attenzione politica dal sud del mondo, soprattutto dopo la firma degli Accordi di Oslo. Per decenni, l’Africa ha avuto poca importanza nei calcoli angusti e auto-referenziali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Per l’ANP, solo Washington, Londra, Madrid, Oslo e Parigi avevano un’importanza strategica – un errore politico deplorevole sotto tutti gli aspetti. Questo errore storico deve essere corretto prima che la storia del successo di Israele escluda i palestinesi da qualsiasi influenza in Africa e nel resto del sud del mondo.

Eppure, nonostante i molti successi nell’attirare governi africani nella propria rete di alleati, Israele non è riuscito a entrare nei cuori degli africani, che ancora vedono la lotta palestinese per la giustizia e la libertà come un’estensione della propria lotta per la democrazia, l’uguaglianza e i diritti umani.

È vero, Israele ha ottenuto il sostegno di parte della classe dirigente in Africa, ma non è riuscito a conquistare il popolo africano, che rimane dalla parte dei palestinesi. Durante la mia visita di 10 giorni nel loro Paese, i kenioti di ogni estrazione sociale mi hanno dimostrato il loro sostegno alla Palestina nel modo più confortante, autentico e naturale. 

A Nairobi, studenti, accademici e attivisti per i diritti umani si rapportano al popolo palestinese non come osservatori esterni simpatizzanti della loro lotta, ma come partner in una battaglia collettiva per giustizia, libertà e diritti. La sanguinosa lotta del Kenya contro il colonialismo britannico, la sua orgogliosa guerra di liberazione e i molti sacrifici per ottenere la libertà sono un’immagine quasi speculare dell’attuale lotta palestinese contro un altro nemico coloniale e razzista.

La Palestina sarà sempre vicina al cuore di tutti gli africani a causa della dolorosa e orgogliosa storia di colonialismo e resistenza che condividiamo. Con questa considerazione, i palestinesi dovrebbero rendersi conto del fatto che Israele sta attivamente cercando di riscrivere la loro storia e privarli della solidarietà di popoli che forse comprendono la loro situazione meglio di chiunque altro.

Sarebbe un’ingiustizia morale alla quale non dovrebbe essere permesso di avere la meglio. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è editorialista noto a livello internazionale, consulente per i media e scrittore.

(traduz. di Luciana Galliano)




Non punire i rifugiati palestinesi per il malfunzionamento dell’UNRWA

Yara Hawari

1 agosto 2019 – Al Jazeera

All’inizio della settimana un rapporto etico interno riguardo all’Agenzia ONU per il Sostegno e il Lavoro (UNRWA) per i rifugiati palestinesi è stato fatto filtrare sia ad Al Jazeera che all’agenzia di notizie AFP. In base a testimonianze di ex-dipendenti e dipendenti, come anche a una serie di altri documenti che le confermano, il rapporto dettaglia gravi abusi di autorità all’interno della dirigenza dell’agenzia.

Cosa più importante, esso accusa il commissario generale Pierre Krahenbuhl ed altri della sua cerchia ristretta di essere “coinvolti in scorrettezze, nepotismo (e) rappresaglie.” Il rapporto nota anche che la situazione è peggiorata nel 2018, in seguito alla decisione degli Stati Uniti, il principale donatore dell’UNRWA, di tagliare i finanziamenti all’agenzia. Ciò ha consentito ai dirigenti di giustificare “un’estrema concentrazione del potere di decisione nelle mani dei membri della ‘cricca’…un incremento dell’inosservanza delle regole dell’agenzia e delle procedure stabilite, con l’eccezione che è diventata la norma, e continui viaggi troppo frequenti del commissario generale.”

Molti palestinesi non sono rimasti particolarmente stupiti dal contenuto trapelato del rapporto. Nel corso degli anni abbiamo sentito molti aneddoti sulla cultura piuttosto problematica di abusi e irregolarità perpetrati dal ben pagato personale straniero dell’UNRWA e di altre agenzia dell’ONU.

Oltre a nepotismo e abuso di potere, ci sono gravissimi problemi nella distribuzione delle scarse risorse economiche destinate a questi enti. Per esempio, in tempi di austerità, i programmi di supporto vengono in genere tagliati prima dei salari del personale straniero e dei dirigenti.

Funzionari di alto livello sono anche ben noti per essersi impegnati in una serie di azioni ipocrite, compreso il fatto di aver affittato a Gerusalemme (soprattutto nel quartiere popolare di Musrara) case rubate ai rifugiati palestinesi nel 1948 e di aver consentito al negozio duty free dell’ONU di vendere prodotti delle colonie israeliane illegali, come il vino israeliano prodotto nelle Alture del Golan occupate.

Questo tipo di comportamenti scorretti, tuttavia, non è una peculiarità dell’UNRWA ed è stato denunciato in altre agenzie dell’ONU e in grandi organizzazioni umanitarie. Le rivelazioni del rapporto sono sicuramente condannabili e i responsabili non dovrebbero rimanere impuniti. Ma ciò non significa che l’UNRWA debba essere privata dei fondi o chiusa.

L’UNRWA, in quanto agenzia rivolta esclusivamente ai rifugiati palestinesi, ha uno status e una funzione particolari. Venne fondata nel 1949 per fornire assistenza ai palestinesi espulsi dalla loro patria in seguito alla creazione dello Stato di Israele. Ora opera in Cisgiordania, a Gaza, in Giordania, in Libano e in Siria, e fornisce educazione primaria e secondaria, servizi sanitari e vari progetti per infrastrutture nei campi a circa 5 milioni di palestinesi. Dà anche lavoro a 30.000 persone, per lo più palestinesi.

Il mandato all’UNRWA perché si occupi dei rifugiati viene periodicamente rinnovato in attesa dell’applicazione della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle proprie case e a ricevere un giusto indennizzo.

Per molti l’agenzia non è solo un’importante ancora di salvezza, ma anche un ente ufficiale che protegge dalle potenze che vogliono abolire il diritto dei palestinesi al ritorno.

Infatti, da quando Donald Trump ha assunto la presidenza, i tentativi di obbligare i rifugiati palestinesi a rinunciare al proprio diritto al ritorno hanno subito un’accelerazione. Gli attacchi all’UNRWA sono stati incessanti e questo rapporto fatto filtrare ha soffiato sul fuoco.

L’ex-ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley ha rapidamente commentato il rapporto affermando che questa era “esattamente la ragione per cui noi (gli USA) abbiamo smesso di finanziarla”, mentre l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha twittato l’articolo di Al Jazeera, affermando che “il modello dell’UNRWA è difettoso/insostenibile e basato sull’espansione infinita dei beneficiari.” 

Nessuna di queste affermazioni è vera: il finanziamento è stato tagliato per punire collettivamente i palestinesi e la loro dirigenza e il malfunzionamento dell’UNRWA non è peggiore di quello di qualunque altra agenzia dell’ONU.

Gli USA stanno traendo ispirazione da Israele, che, da quando è stato fondato, ha cercato di eliminare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. All’inizio di quest’anno, per esempio, il governo israeliano ha annunciato che avrebbe chiuso le scuole gestite dall’UNWRA nella Gerusalemme est occupata, che forniscono servizi a oltre 3.000 minori palestinesi, violando chiaramente la convenzione sui rifugiati del 1946. Nir Barkat, l’allora sindaco israeliano di Gerusalemme, ha sostenuto che avrebbe “messo fine alla menzogna del problema dei rifugiati palestinesi.”

Evidentemente nelle più alte sfere dell’UNRWA è all’opera una cultura sistematica di irregolarità che deve essere affrontata e contrastata. Tuttavia questo rapporto non può e non dovrebbe portare ad ulteriori tagli ai finanziamenti. Alla luce di questo rapporto sia Olanda che Svizzera hanno scorrettamente sospeso l’aiuto all’agenzia.

I milioni di rifugiati e di dipendenti palestinesi, molti dei quali stanno lottando per mantenere le proprie famiglie, non dovrebbero essere puniti collettivamente per le violazioni e l’egoismo dei massimi dirigenti dell’UNRWA, molti dei quali sono stranieri.

Chiamare a rispondere i responsabili per la cattiva gestione dell’agenzia è fondamentale, anche se molti temono che le persone potenti denunciate in questo rapporto verranno semplicemente riciclate all’interno del sistema dell’ONU, solo per continuare il proprio comportamento scorretto in un’altra agenzia.

Nel contempo l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai sette milioni di palestinesi che vivono un perpetuo esilio dalla loro patria, molti dei quali devono affrontare un’ulteriore espulsione. Sono il loro benessere ed il loro diritto al ritorno che dovrebbero essere in cima alle considerazioni dei donatori.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica sulla Palestina di Al-SHabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele approva 6.000 nuove case per coloni israeliani in Cisgiordania*

31 luglio 2018 – Al Jazeera

L’annuncio prima di una visita dell’inviato USA Jared Kushner in Israele per discutere di un piano di ‘pace’ tra israeliani e palestinesi

Israele ha approvato la costruzione di 6.000 nuove case per coloni israeliani e 700 per i palestinesi in una zona della Cisgiordania occupata su cui ha il controllo totale. L’annuncio da parte di un anonimo funzionario israeliano mercoledì è arrivato prima di una prevista visita in Israele dell’inviato degli Stati Uniti Jared Kushner per discutere di un piano della Casa Bianca per un accordo di pace israelo-palestinese.

L’approvazione riguarda l’Area C della Cisgiordania, di cui Israele controlla l’amministrazione civile e la sicurezza e dove si trovano le sue colonie. Corrisponde a più del 60% della Cisgiordania, il territorio palestinese che, in base alla cosiddetta soluzione dei due Stati, dovrebbe far parte di un futuro Stato palestinese.

Al momento non è ancora chiaro se tutte le case saranno nuove costruzioni o se alcune esistono già e stanno per ottenere un’approvazione retroattiva.

In base alle leggi internazionali le colonie sono illegali e sono i principali ostacoli per un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. Sono costruite su terra che i palestinesi considerano parte del loro futuro Stato.

Più di 600.000 israeliani vivono nelle colonie della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est occupata, che sono viste come il maggiore ostacolo per la pace tra Israele e i palestinesi. Essi vivono accanto a circa tre milioni di palestinesi.

Piano di pace

Raramente Israele concede l’approvazione alle costruzioni dei palestinesi in quella zona.

Il piano per i palestinesi – benché relativamente ridotto e ampiamente compensato dalle nuove case per israeliani – potrebbe consentire al primo ministro Banjamin Netanyahu di sostenere che sta facendo sforzi per favorire il piano di pace a lungo atteso di Kushner.

Nel 2016 il governo israeliano approvò piani di costruzione per 5.000 unità abitative per palestinesi nella zona di Qalqilia, in Cisgiordania, ma la dura opposizione di politici di destra e dirigenti dei coloni bloccarono il progetto.

Gli USA hanno lasciato intendere che potrebbero appoggiare l’annessione a Israele di alcune colonie in base a un futuro accordo di pace.

Non sono ancora stati resi noti i dettagli della visita di Kushner, ma egli ha affermato che il suo piano non farà menzione della soluzione dei due Stati perché “ciò significa una cosa per gli israeliani e un’altra per i palestinesi.”

È previsto che questa settimana Kushner visiti anche altri cinque Paesi del Medio Oriente. Secondo il quotidiano israeliano “Yediot Ahronot”, la visita anticipa un vertice per la pace tra israeliani e palestinesi che l’amministrazione Trump intende ospitare a Camp David prima delle elezioni israeliane di settembre.

*Vedi su questo stesso argomento  anche l’ articolo di Umberto De Giovannangeli

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele, gli Stati Uniti e il rompicapo della successione nell’ANP

Adnan Abu Amer

28 luglio 2019 – Al Jazeera

Gli USA e Israele vogliono estromettere dal potere il presidente Mahmoud Abbas, ma questo potrebbe non essere per loro la soluzione migliore.

Da quando a gennaio 2017 si è insediata l’amministrazione Trump, la pressione sul presidente palestinese Mahmoud Abbas perché si dimetta è salita. E’ ormai chiaro che Washington non vuole più trattare con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sotto la sua direzione.

Il principale consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, di recente ha definito la decisione di Abbas di boicottare il convegno in Bahrain, in cui è stato presentato l’aspetto economico del piano di pace, “isterica e incoerente.”

Nel frattempo anche diversi dirigenti israeliani hanno fatto capire che sperano che Abbas lasci l’incarico. Alcuni, come l’ex Ministro degli Esteri Dore Gold, sono arrivati a sostenere che entro i prossimi sei mesi gli stessi palestinesi chiederanno un cambio di leadership.

L’attuale governo israeliano ha tentato attivamente di destabilizzare l’ANP attraverso diverse misure ostili, compreso il blocco del versamento di 140 milioni di dollari di entrate fiscali destinate al pagamento mensile dei salari. Questo, insieme ai tagli degli aiuti USA, ha posto Ramallah sotto una crescente pressione finanziaria.

Mentre è evidente che i governi americano e israeliano stanno cercando di spingere Abbas sull’orlo del precipizio, il loro piano per dopo la sua caduta è come minimo piuttosto vago. Anzi, diversi soggetti all’interno dell’apparato di sicurezza israeliano hanno avvertito che una simile mossa potrebbe avere conseguenze pericolose.

La lotta per la successione

Il dibattito sulla successione per la leadership nell’Autorità Nazionale Palestinese prosegue da dieci anni. Il termine della presidenza Abbas è ufficialmente scaduto nel 2009 ed è stato provvisoriamente prorogato in quell’anno dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [che riunisce le principali fazioni della resistenza palestinese tranne Hamas, ndtr.]. Da allora la Palestina non è stata in grado di svolgere elezioni presidenziali e parlamentari a causa dei continui dissidi tra Fatah e Hamas.

L’ottantatreenne presidente palestinese ha finora fatto resistenza non solo a dare le dimissioni, ma anche a nominare un suo vice e delineare un chiaro percorso per la sua sostituzione. Ma dato che la sua salute sta peggiorando, prima o poi la questione della successione dovrà essere risolta. Le forti pressioni da parte delle manovre americane e israeliane probabilmente accelereranno il processo, mentre all’interno della Cisgiordania sta crescendo il malumore, che negli ultimi due anni ha provocato molte grandi proteste di piazza.

Ci sono parecchie figure importanti all’interno di Fatah che negli ultimi anni sono emerse come contendenti per la carica di Abbas.

Mahmoud al-Aloul, vice capo del partito [al-Fatah, ndtr.] e governatore di Nablus, è uno dei favoriti. È assai popolare tra i sostenitori di Fatah per la sua posizione anti israeliana e finora ha anche evitato di essere coinvolto in scandali per corruzione.

Un altro candidato è Jibril Rajoub, uno dei principali leader di Fatah, presidente della Federazione Calcio palestinese ed ex capo delle forze di sicurezza preventive in Cisgiordania. È noto che ha molta influenza nell’ambito dei servizi di intelligence palestinese e gode della fiducia delle agenzie di sicurezza sia USA che israeliane.

Majed Faraj, capo del Servizio Generale di Intelligence, è un altro candidato forte alla successione di Abbas. E’ stato fidato collaboratore del presidente palestinese e ha guidato la delegazione palestinese che ha incontrato dirigenti americani, nonostante l’attuale boicottaggio dei colloqui con l’amministrazione Trump da parte dell’ANP.

Anche Saeb Erekat, segretario generale dell’OLP, è stato dato come possibile candidato. Tuttavia nel 2011 indiscrezioni note come ‘Palestinian Papers’, che hanno rivelato la volontà di Erekat di fare maggiori concessioni a Israele durante i negoziati, hanno lasciato una macchia indelebile sulla sua reputazione ed è improbabile che raccolga molto consenso popolare. Allo stesso modo Mohammed Dahlan, a lungo arcinemico di Abbas, è stato anch’egli un aspirante alla sua carica, almeno in passato. Ma le sue chances si sono recentemente ridotte a causa dei suoi stretti legami con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che attualmente sono impopolari in Palestina perché premono per la normalizzazione con Israele.

Benché tutti questi candidati (eccetto Dahlan) appoggino il boicottaggio dell’attuale amministrazione USA da parte di Abbas, la loro posizione potrebbe cambiare se uno di loro assumesse la presidenza dell’ANP. Con questa prospettiva Washington ha spinto attivamente per un cambio di leadership a Ramallah.

Il futuro dell’ANP

Se l’amministrazione Trump non è riuscita a impegnarsi direttamente con nessuno dei principali contendenti alla presidenza dell’ANP, ha invece coinvolto altre importanti figure palestinesi al di fuori della cerchia di Abbas. Negli ultimi due anni vi sono stati parecchi incontri tra dirigenti USA e vari rappresentanti dell’ élite politica e imprenditoriale palestinese.

Al tempo stesso personaggi politici che pare abbiano stretti legami con Washington, compresi l’ex Primo Ministro Salam Fayyad e l’imprenditore palestinese Adnan Majali, sono riapparsi sulla scena politica. L’anno scorso il secondo si è spinto fino a tentare di mediare un accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Prima dell’incontro in Bahrain l’amministrazione USA è riuscita a trovare un uomo d’affari palestinese disposto a saltare il fosso e a partecipare: Ashraf al-Jabari di Hebron. All’inizio di quest’anno al-Jabari, che è stato definito un “amico” dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman, ha annunciato che stava creando un partito in Cisgiordania chiamato ‘Riforma e Sviluppo’, che si contrapporrà al programma di Fatah per costituire uno Stato.

Washington probabilmente si rende conto che nessuno di questi personaggi ha una reale possibilità di succedere ad Abbas, perché è improbabile che vincano le elezioni, ma sono comunque utili per fare pressione sull’ANP. In fin dei conti, l’amministrazione Trump vuole che la leadership palestinese accetti le sue proposte di “pace” con Israele ed è scarsamente interessata a chi prenderà il potere dopo Abbas.

D’altro lato, in Israele diversi interlocutori non solo auspicano un cambio di leadership a Ramallah, ma sperano anche in un completo crollo dell’ANP. Parecchi dirigenti israeliani, attuali e del passato, hanno ripetutamente dichiarato “morti” gli accordi di Oslo ed hanno suggerito che è ora che i palestinesi accettino la sconfitta e smettano di pretendere uno Stato. Una soluzione che è stata proposta è che parti della Cisgiordania abitate da palestinesi siano connesse alla Giordania e godano di qualche forma di autonomia amministrativa.

Altri si sono spinti oltre, suggerendo che Israele cerchi di sciogliere l’ANP e stabilisca un governo palestinese a livello comunale sulla base di clan e famiglie. Questo presuppone una forma di autogoverno in cui Israele aiuti i leader locali in varie città della Cisgiordania a gestire le questioni quotidiane, come avveniva prima della creazione dell’ANP.

Mentre è sempre più chiaro che l’establishment israeliano spinge per la fine non solo dell’ANP, ma anche di ogni apparenza di Stato nei territori palestinesi occupati, alcuni, soprattutto nel settore della sicurezza, avvertono che questo potrebbe non essere la miglior soluzione per lo Stato israeliano. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz c’è il timore che, se l’ANP iniziasse a perdere il controllo sulla Cisgiordania, il coordinamento sulla sicurezza tra Israele e Ramallah potrebbe essere compromesso e altri elementi di opposizione potrebbero cercare di assumere il controllo.

Per questo motivo le agenzie di intelligence israeliane sono state solerti nel proteggere l’ANP e la presidenza di Abbas dai tentativi di indebolirli e a volte hanno paradossalmente agito contro le politiche ufficiali sia di Washington che di Tel Aviv.

Sebbene la leadership politica israeliana e i suoi alleati USA siano felici di dichiarare morto Oslo e pensino alla dissoluzione dell’ANP, ignorano però il fatto che per decenni Tel Aviv ha tratto i maggiori benefici dalle disposizioni stabilite da questi accordi. Esse hanno di fatto indebolito la lotta palestinese, imbrigliato l’attivismo politico e reso l’ANP il principale garante della passività politica palestinese.

Se Israele e Stati Uniti riusciranno ad infrangere questo status quo con le loro politiche aggressive, ciò che avverrà dopo potrebbe non essere di loro gradimento.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche dell’università Ummah a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Irresponsabilità aziendale di TripAdvisor

Laith Abu Zeyad

28 luglio 2019 – Al Jazeera

TripAdvisor afferma di voler aiutare i rifugiati, ma trascura il proprio appoggio alle violazioni dei diritti umani.

Il 20 giugno, Giornata Mondiale per i Rifugiati, l’amministratore delegato di TripAdvisor Stephen Kaufer ha pubblicato un editoriale in cui chiedeva alle imprese di contribuire ad affrontare la crisi globale dei rifugiati e si impegnava a donare milioni di dollari alle organizzazioni umanitarie “per sostenere e aiutare i rifugiati a ricostruire la propria vita e a rivendicare il proprio futuro.”

È certamente una lodevole iniziativa, se solo non contraddicesse lo spirito di altre prassi dell’azienda. Mentre TripAdvisor ha deciso di aiutare i rifugiati in alcune parti del mondo, altrove – in particolare nei territori palestinesi occupati – contribuisce alle sofferenze della popolazione locale, che è all’origine di una delle più grandi comunità di rifugiati al mondo.

Negli ultimi 70 anni le spietate politiche israeliane di confisca della terra, colonizzazione illegale e spossessamento, accompagnate da una violenta discriminazione, hanno inflitto enormi sofferenze ai palestinesi, privandoli dei loro diritti fondamentali. Anche TripAdvisor ha avuto parte in queste continue violazioni.

Nel gennaio 2019 Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato ‘Destinazione Occupazione’, che illustra come le compagnie leader mondiali del turismo online – Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor – contribuiscano e traggano profitto dal mantenimento, sviluppo ed espansione delle colonie illegali israeliane. In base al diritto internazionale tali attività costituiscono dei crimini di guerra.

TripAdvisor è il secondo sito web (dopo Google) più visitato dai turisti stranieri che arrivano in Israele, con oltre un quarto delle persone (più di 800.000) che dicono di aver consultato il sito prima del loro arrivo per le attrazioni turistiche, le escursioni, i ristoranti, i caffè, gli hotel o gli appartamenti in affitto.

Durante la nostra campagna abbiamo chiesto a Kaufer di smettere di inserire nei propri annunci, o promuovere, proprietà, attività e attrazioni situate nelle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati. TripAdvisor ha risposto sostenendo che “ l’inserimento negli annunci su TripAdvisor di una proprietà o di un’azienda non costituisce la nostra approvazione nei confronti di quella struttura”. Eppure la compagnia trae profitto da annunci che includono quelle che si trovano in colonie illegali israeliane.

TripAdvisor e altre compagnie cercano di difendere la loro posizione sostenendo che la questione delle colonie illegali israeliane è troppo politica, per cui loro non possono prendere posizione in merito. Comprendiamo che le aziende non hanno il compito di risolvere le questioni politiche, ma hanno la responsabilità di garantire che non provochino danni o non contribuiscano a violazioni dei diritti umani.

È forse difficile per i lettori immaginare l’impatto sui diritti umani del turismo e di altre attività aziendali in Palestina, ma è molto concreto per le persone che vivono sotto occupazione israeliana. Per esempio abbiamo scoperto che TripAdvisor ha segnalato con grande evidenza, fungendo da agenzia di prenotazioni, la ‘Città di Davide’, una nota attrazione turistica situata a Silwan, un quartiere palestinese nella Gerusalemme est occupata. Il sito è gestito da un’organizzazione chiamata ‘Fondazione Elad’, che è sostenuta dal governo israeliano e lavora per aiutare i coloni israeliani a trasferirsi in quell’area.

Silwan ospita circa 33.000 palestinesi. Ora vi vivono parecchie centinaia di coloni, per di più in insediamenti rigorosamente protetti. Israele ha trasferito i suoi cittadini nel quartiere fin dagli anni ’80. Questo ha comportato numerose violazioni di diritti umani, compresi l’espulsione e il trasferimento forzati di abitanti palestinesi.

Negli ultimi 10 anni almeno 233 palestinesi sono stati espulsi da Silwan. Molto recentemente, il 10 luglio, la polizia e le forze di sicurezza israeliane hanno cacciato dalla loro casa nel quartiere una famiglia di cinque palestinesi, compresi quattro bambini.

Incoraggiando attivamente gli utenti a visitare la ‘Città di Davide’ e a fare tour guidati del luogo, TripAdvisor ha promosso l’attività di Elad e tratto profitto da ogni prenotazione fatta attraverso il sito.

Se TripAdvisor avesse condotto almeno un’elementare valutazione del rischio della propria attività nelle, o con le, colonie israeliane, avrebbe scoperto che quelle inserzioni contribuiscono a sostenere una situazione illegale che è intrinsecamente discriminatoria e viola i diritti umani dei palestinesi. È stupefacente che una compagnia multimiliardaria (che sostiene di essere il sito di viaggi più visitato al mondo, con più di 450 milioni di visitatori al mese) o non abbia posto tale doverosa attenzione riguardo alle proprie operazioni in Israele e nei territori palestinesi occupati, o lo abbia fatto, ma abbia deciso di proseguire ugualmente le proprie attività.

Anche altre compagnie di turismo digitale hanno inviato messaggi ambigui sui diritti umani. Nell’aprile 2019 Airbnb ha annunciato che, in seguito ad una class-action da parte di avvocati israeliani ,avrebbe revocato una precedente decisione di eliminare le offerte nelle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata. La compagnia ha affermato che avrebbe donato i profitti derivanti da questi annunci a “organizzazioni non-profit impegnate negli aiuti umanitari che si occupano di persone in diverse parti del mondo.”

Airbnb, come TripAdvisor, mentre cerca di mostrare preoccupazione per le popolazioni bisognose attraverso un piano di responsabilità aziendale, non può continuare ad ignorare che la sua attività con le colonie israeliane illegali è contraria alle norme fondamentali delle leggi internazionali sui diritti umani,

Nessuna somma di denaro in donazioni cancellerà il danno che stanno commettendo nei territori palestinesi occupati e sicuramente nessun profitto a breve termine dovrebbe valere il prezzo della collaborazione con crimini di guerra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Laith Abu Zeyad è responsabile delle campagne su Israele/Palestina per Amnesty International.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Inviato palestinese afferma che le demolizioni di case da parte di Israele sono un “crimine di guerra”

James Reinl

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele accusato di “palese azione di pulizia etnica ed espulsione forzata” dopo la distruzione di case palestinesi.

Nazioni Unite – Martedì l’inviato palestinese Riyad Mansour ha detto che le ultime demolizioni di case palestinesi nei pressi di una barriera di separazione nei dintorni di Gerusalemme sono state “scioccanti e strazianti” e dovrebbero essere indagate in quanto crimine di guerra.

Rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU a New York Mansour ha mostrato foto di bulldozer, della polizia e di soldati israeliani che il giorno prima hanno attaccato la comunità di Sur Baher mentre famiglie palestinesi guardavano come le loro case venivano demolite.

Nelle prime ore di lunedì un gran numero di soldati israeliani è entrato nelle case delle famiglie che vi risiedevano obbligandole a lasciare le proprie case prima di procedere a distruggerle utilizzando bulldozer militari e grandi quantità di dinamite,” ha detto Mansour.

Le scene sono state scioccanti e strazianti…questo è un palese atto di pulizia etnica e di espulsione forzata, rappresenta un crimine di guerra e deve essere totalmente condannato e perseguito in quanto tale.”

Secondo Mansour la demolizione di circa 10 edifici abitativi, la maggior parte dei quali ancora in costruzione, ha lasciato 17 persone senza casa, compresi 11 bambini. Anche altri 350 palestinesi attendono l’imminente arrivo di bulldozer davanti a casa, ha aggiunto. L’esercito israeliano considera le case, che si trovano vicino a un muro di separazione israeliano che attraversa la Cisgiordania occupata, un rischio “per la sicurezza”.

Legge e ordine”

A giugno la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza a favore dell’esercito, ponendo fine a una battaglia legale durata sette anni, ed ha fissato lunedì come termine massimo per demolire le case.

Prima dell’incontro di martedì l’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon fuori dall’aula del Consiglio ha detto ai giornalisti: “Noi crediamo nella legge e nell’ordine. Se costruisci senza permesso, la tua casa non rimarrà in piedi.”

Ciò è quanto avviene alle case degli ebrei e a quelle degli arabi…Non è piacevole. Abbiamo visto quelle foto, non è facile demolire case. Ma questa è la legge in Israele.” Israele attribuisce al muro di separazione – progettato per essere lungo 720 km quando sarà terminato – il merito di aver arginato gli attacchi suicidi dei palestinesi che hanno raggiunto un picco nei primi anni 2000.

I palestinesi accusano Israele di aver utilizzato la sicurezza come pretesto per cacciarli dalla zona come parte di tentativi di lungo termine per espandere le colonie. Ogni colonia sulla terra palestinese occupata è illegale in base alle leggi internazionali.

Rosemary DiCarlo, capo del Dipartimento per gli Affari Politici e la Pacificazione dell’ONU, ha affermato che le demolizioni violano le norme internazionali ed hanno colpito le condizioni di vita di circa 300 palestinesi del luogo.

La politica israeliana di distruzione delle proprietà palestinesi non è compatibile con i suoi obblighi in base alle leggi umanitarie internazionali e contribuisce al rischio di trasferimento forzato che minaccia molti palestinesi in Cisgiordania,” ha affermato DiCarlo.

Particolarmente eclatanti”

Parlando a nome dell’Unione Europea, l’inviata della Gran Bretagna all’ONU Karen Pierce ha detto che le demolizioni sono state “particolarmente eclatanti” in quanto sono avvenute in zone che, in base al trattato di pace del 1993 noto come accordi di Oslo, dovrebbero essere sottoposte alla giurisdizione palestinese.

Il villaggio sparso sul terrotorio di Sur Baher si trova a cavallo tra Gerusalemme est occupata e la Cisgiordania occupata. È stato preso e occupato da Israele nella guerra del 1967.

Le demolizioni sono parte dell’ultimo episodio della lunga disputa sul futuro di Gerusalemme, in cui risiedono più di 500.000 israeliani e 300.000 palestinesi.

L’inviato di pace degli Stati Uniti Jason Greenblatt ha affermato che i palestinesi otterranno poco ripetendo “un trito discorso” e facendo appello alle leggi internazionali o a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “pesantemente scritte”.

Il muro di Israele ha portato la sicurezza?

Al contrario, i dirigenti palestinesi dovrebbero rivedere il proprio rifiuto a impegnarsi nel tentativo di pace guidato dagli USA, che include un piano di sviluppo economico da 500 milioni di dollari per i palestinesi, la Giordania, l’Egitto e il Libano, ha detto Greenblatt.

I dirigenti palestinesi dovrebbero “mettere da parte rifiuti generalizzati di un piano che non hanno neppure visto, e mostrare la volontà di impegnarsi in buona fede, in un dialogo sensato con Israele,” ha detto al Consiglio.

Il presidente USA Donald Trump deciderà presto quando rendere pubblica la “parte politica del piano” a lungo attesa, ha aggiunto Grennblatt.

Il progetto per la pace che pensiamo di presentare non sarà ambiguo, a differenza di molte risoluzioni che sono state approvate in questa aula,” ha detto.

Fornirà dettagli sufficienti in modo che la gente possa vedere quali compromessi saranno necessari per raggiungere una soluzione realistica, durevole e complessiva di questo conflitto.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




I tribunali israeliani possono garantire la giustizia ai palestinesi?

Ben White

17 luglio 2019 – Al Jazeera

Critiche mettono in dubbio il ricorso alla Corte Suprema dopo che essa ha consentito la demolizione di edifici sotto controllo palestinese

La demolizione di edifici di proprietà di palestinesi da parte delle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est è un avvenimento frequente.

Ma a Sur Baher, un quartiere sudorientale di Gerusalemme, incombe una demolizione di massa senza precedenti, con l’approvazione della Corte Suprema israeliana.

Dieci edifici abitati o in via di costruzione, che contano decine di appartamenti, sono stati segnati per essere distrutti, dopo aver contravvenuto a un ordine militare israeliano del 2011 che proibisce la costruzione all’interno di una zona cuscinetto di 100-300 metri dal muro di separazione.

Mentre la maggior parte di Sur Baher si trova all’interno dei confini municipali della Gerusalemme est unilateralmente annessa da Israele, parte della terra della comunità è in Cisgiordania – terreno che tuttavia è finito sul lato “israeliano” del muro condannato internazionalmente che è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Lo scorso mese la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione a Sur Baher, benché gli edifici in questione siano stati costruiti su terreni destinati al controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), da cui sono stati regolarmente ottenuti permessi edilizi.

Le autorità israeliane hanno fissato la scadenza per giovedì 18 luglio.

La documentazione parla chiaro”

La decisione della Corte Suprema non corrisponde alla sua fama internazionale come difensore di diritti umani. In effetti la Corte è stata a lungo una maledizione per parte della destra israeliana, che si è lamentata di una presunta tendenza progressista e di un’interferenza giudiziaria con le leggi.

Ma Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani “B’Tselem”, dice ad Al Jazeera che per “avere una visione adeguata riguardo alla Corte Suprema, è necessario esaminare quello che ha fatto finora.

E questi dati parlano chiaro, dimostrano in modo inequivocabile come la Corte abbia costantemente respinto i ricorsi presentati dai palestinesi, mentre ha fornito il beneplacito legale a sistematiche violazioni dei diritti umani, compresi trasferimenti forzati, punizioni collettive, impunità generalizzata per le forze di sicurezza israeliane e tortura,” aggiunge.

Sawsan Zaher, vice direttrice esecutiva del centro per i diritti giuridici “Adalah”, con sede ad Haifa, è d’accordo. “Se si guarda alla Corte Suprema riguardo ai territori palestinesi occupati, nella grande maggioranza dei casi essa ha respinto ricorsi che contestavano violazioni delle leggi umanitarie internazionali, indipendentemente dal fatto che i giudici fossero conservatori o più “progressisti”, dice ad Al Jazeera.

Secondo Zaher l’approccio della Corte alle petizioni presentate da cittadini palestinesi è differenziato. “Alcune sono accolte, in genere quelle riguardanti i classici casi di discriminazione, come quelli riguardanti la destinazione dei fondi,” dice Zaher.

Ma aggiunge che la Corte usa “ogni genere di scusa e di interpretazione per giustificare il rigetto” quando si tratta di “casi che sono al centro del conflitto nazionale tra lo Stato e i cittadini palestinesi come minoranza” e dell’“esistenza di Israele come ‘Stato ebraico’”, comprese le questioni relative a “terra e demografia”.

Pianificazione discriminatoria

Ma è l’intervento – o il mancato intervento – della Corte sul sistema discriminatorio di pianificazione di Israele e sulle conseguenti demolizioni di case palestinesi che recentemente forse è stato più sotto i riflettori, anche nei casi particolarmente gravi in attesa di espulsione forzata, come nel caso del villaggio di Khan al-Ahmar.

In aprile i giudici hanno respinto un ricorso sulla demolizione di case palestinesi costruite senza permesso, chiarendo che non avrebbero discusso il sistema di pianificazione in cui tali demolizioni avvengono – ma solo se le strutture erano state costruite “legalmente” o meno.

In un rapporto di quest’anno sulla “responsabilità” della Corte Suprema per la “spoliazione dei palestinesi”, B’Tselem ha affermato che, per quanto a sua conoscenza, “non c’è stato neppure un singolo caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro la demolizione delle loro case.”

Per Dalia Qumsieh, un’esperta consulente giuridica dell’Ong per i diritti dei palestinesi “Al-Haq”, il caso di Sur Baher “dimostra uno schema costante della Corte (Suprema) che si rifiuta di prendere le distanze dai progetti del governo e accoglie persino ogni sua richiesta: “In generale la Corte non mette in discussione la legalità di politiche o misure in sé,” dice ad Al Jazeera. “Al contrario, si concentra su dettagli tecnico-legali che riguardano la messa in pratica di tali politiche.

Il massimo risultato che si può ottenere essendo palestinese con una causa nel sistema israeliano non può andare oltre le tutele minime, ora ancora più difficili da ottenere,” aggiunge.

Altri dicono che persino quelle “tutele minime” sono minacciate.

“La composizione della Corte Suprema è cambiata,” afferma Zaher, indicando le nomine giudiziarie del 2017 fatte dall’allora ministra della Giustizia Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

“Oggi la critica dei conservatori alla Corte è cambiata: invece di accuse riguardo a un approccio “progressista” verso le richieste della minoranza araba, la destra sta criticando persino la facoltà della Corte di discutere della costituzionalità delle leggi,” aggiunge Zaher, descrivendo come negativa la parabola della Corte.

Complicità nel rafforzamento

Secondo Qumsieh, mentre la Corte “non è mai stata un vero luogo in cui è stata fatta giustizia per i palestinesi,” gli ultimi anni hanno visto “gravi sviluppi riguardanti il lavoro della Corte”, e in particolare lo “legame sempre più stretto” tra essa e il governo israeliano.

“Questo legame è passato dal fare pressione sui ricorrenti palestinesi perché accettino i progetti dell’esercito israeliano a dettare effettivamente al governo quello che deve fare per legalizzare politiche illegali,” aggiunge, citando il caso della revoca della residenza a Gerusalemme a politici affiliati ad Hamas. Per qualcuno, come El-Ad di B’Tselem, la situazione dell’attività giurisprudenziale della Corte significa che “la domanda è: per quale fine realistico si avvia una causa davanti ad essa?”

Per avvocati e gruppi per i diritti umani, palestinesi e israeliani, il vantaggio di impegnarsi in un giudizio con la Corte Suprema rimane una questione aperta.

“La Corte non ha mai sinceramente messo in discussione nessuna delle principali politiche che tengono in piedi l’occupazione,” afferma Qumsieh, “fino a diventarne un pilastro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La “crisi ambientale” di Israele è colpa sua

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

7 luglio 2019 – Al Jazeera

La distruzione da parte di Israele dell’ambiente nei territori palestinesi ora minaccia le vite israeliane.

La crescente crisi umanitaria di Gaza viene finalmente percepita in Israele come un problema pressante che richiede un’azione “chiara ed immediata”. Tuttavia non è l’impatto della crisi sulla popolazione di Gaza che desta l’allarme a Tel Aviv, ma il potenziale danno ambientale che la perdurante povertà di Gaza può causare ad Israele.

Il 3 giugno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele.”

Ci si aspetterebbe che qualunque rapporto sulla situazione ambientale a Gaza si concentrasse sul fatto che quasi due milioni di palestinesi nella Striscia vivono in condizioni disumane a causa del blocco israeliano che dura ininterrottamente da 12 anni e dei continui attacchi militari devastanti, che rendono l’area “inabitabile entro il 2020” [secondo un documento ONU del 2015, ndtr.].

Invece il rapporto presuppone che gli abitanti del luogo siano gli unici responsabili dell’imminente catastrofe ambientale a Gaza, che sta minacciando la sicurezza e il benessere dei cittadini israeliani. Anche il giornale israeliano Haaretz, che ha pubblicato un rapporto dettagliato sulla presentazione, ha trattato la questione come problema di sicurezza nazionale.

Ma ciò che adesso Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. L’occupazione, la colonizzazione, lo spossessamento e l’aggressione contro la Palestina e i palestinesi hanno provocato un tale danno ambientale che ora anche l’occupante israeliano ne sta soffrendo.

Inquinare Gaza

In questo momento la situazione ambientale a Gaza è certo tragica, ma non sono i palestinesi che l’ hanno causata. Né la “rapida crescita della popolazione”, né l’incuria o l’ignoranza degli abitanti locali ne sono le cause principali. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni hanno documentato dettagliatamente come e perché il principale colpevole sia Israele, i suoi violenti attacchi a Gaza ed il suo spietato assedio.

Consideriamo la questione delle acque reflue non trattate che finiscono in mare, che causano problemi agli israeliani che vanno al mare e agli impianti di desalinizzazione. Il motivo per cui le acque reflue vengono smaltite in questo modo “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio.

Le acque reflue non trattate sono parte della più ampia crisi idrica di Gaza. Come correttamente sottolinea il rapporto, gli abitanti di Gaza fanno uso eccessivo della falda acquifera sotto la Striscia, che è divenuta sempre più inquinata da acqua di mare e prodotti chimici e che costituisce l’unica fonte di acqua pulita per gli abitanti a causa della separazione non voluta dalla Cisgiordania.

La ragione per cui i palestinesi di Gaza non sono in grado di creare un adeguato sistema di gestione dell’acqua ancora una volta non è una loro responsabilità. Israele ha ripetutamente bombardato le infrastrutture idriche, comprese le tubature dell’acqua, i pozzi e altre strutture, e l’estenuante assedio israeliano ha impedito alle autorità locali di ripararle e di costruire un impianto di desalinizzazione.

Il problema dell’acqua a Gaza non è soltanto una seccatura per gli israeliani, ma una potenziale causa di epidemie per i palestinesi. Secondo il Ministero della Sanità palestinese sono già raddoppiate le patologie diarroiche, raggiungendo livelli epidemici, mentre anche la salmonella e la febbre tifoidea stanno aumentando.

Poi c’è il problema dell’immondizia, che i palestinesi bruciano e quindi “inquinano l’aria israeliana”. Come ha evidenziato l’accademico dell’università di Cambridge Ramy Salemdeeb, Gaza non ha potuto sviluppare un’adeguata gestione dei rifiuti a causa delle restrizioni economiche dovute all’assedio israeliano e di una “limitata disponibilità di terra” per via del suo isolamento dal resto dei territori palestinesi occupati.

Ciò che il rapporto israeliano non menziona è che, oltre ai problemi delle acque di scarico e dei rifiuti, Gaza soffre anche di una serie di altri danni ambientali, che di nuovo sono legati all’occupazione israeliana e all’aggressione contro i palestinesi.

L’esercito israeliano spruzza sistematicamente erbicidi sui terreni coltivabili palestinesi vicino alla barriera di separazione tra il territorio assediato e Israele. Il più delle volte il prodotto chimico utilizzato è il glifosato, che è provato essere cancerogeno. Secondo la Croce Rossa queste attività non solo danneggiano i raccolti palestinesi, ma contaminano il suolo e l’acqua.

Anche i ripetuti attacchi israeliani con pesanti bombardamenti sulla Striscia hanno contribuito all’inquinamento. Vi sono prove che l’esercito israeliano abbia usato nei suoi attacchi a Gaza uranio impoverito e fosforo bianco, che non solo provocano danni immediati alla popolazione civile, ma costituiscono una fonte di rischio per la salute per molto tempo dopo che il bombardamento è terminato.

Inoltre le armi usate nelle operazioni militari israeliane hanno contaminato l’ambiente di Gaza con metalli pesanti come tungsteno, mercurio, cobalto, bario e cadmio, che notoriamente causano cancro, malformazioni congenite, infertilità, ecc.

Colonialismo e devastazione ambientale

Che Israele, che è orgoglioso perché avrebbe “fatto fiorire il deserto”, sia il responsabile di un gravissimo disastro ambientale in quello stesso “deserto”, non sorprende molto. Posto che si tratta di un progetto di colonialismo di insediamento, il supersfruttamento della terra colonizzata a scapito dell’ambiente e della popolazione locale è parte intrinseca del suo modus operandi.

Certamente, tutta la terra che Israele ha preso ed occupato ha subito in un modo o nell’altro un degrado ambientale, e i suoi effetti dannosi vengono opportunamente scaricati sulla terra, sui villaggi e sulle città palestinesi.

L’aggressiva prassi israeliana di costruzione di insediamenti non solo ha sradicato, segregato e spossessato centinaia di migliaia di palestinesi, ma ha anche danneggiato l’ambiente. Ha causato un eccessivo consumo di acqua, che non solo ha significativamente ridotto l’accesso all’acqua per i palestinesi, spingendo alcuni a parlare di “apartheid dell’acqua”, ma ha anche impoverito le risorse idriche in generale.

L’uso aggressivo di acqua per l’agricoltura – per lo più da parte di coloni illegali in Cisgiordania – ha causato l’impoverimento delle falde acquifere ed una drastica riduzione dei livelli del lago di Tiberiade e del fiume Giordano.

Israele inquina la terra palestinese anche utilizzandola letteralmente come discarica. È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni palestinesi.

Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente senza alcun riguardo per la salute dei palestinesi che vivono nelle vicinanze.

Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi. Questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Tutte queste attività che danneggiano l’ambiente in cui vive il popolo palestinese si vanno accumulando nel tempo. Oggi mettono a rischio le vite dei palestinesi, ma domani minacceranno anche le vite degli israeliani.

Se Israele continua a trattare la questione come “un problema di sicurezza” non lo risolverà mai, perché alla sua base vi è la logica distruttiva di un’impresa coloniale che cerca di sfruttare sia la terra che la popolazione senza riguardo per la natura ed il benessere degli esseri umani.

In altri termini, Israele non otterrà mai la sicurezza – dell’ambiente o di altro – finché continuerà ad opprimere i palestinesi, ad occupare la loro terra e a devastare l’ambiente. L’aria, l’acqua e l’ambiente israeliano nel suo complesso non saranno mai immuni dai disastri perpetrati da Israele nella Palestina occupata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, consulente dei media, scrittore.

Romana Rubeo è una scrittrice e traduttrice freelance che vive in Italia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)