Un palestinese in sciopero della fame: ‘Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Fayha Shalash e Ramzy Baroud

23 aprile 2019,  Al Jazeera

Ingiustizia e violenza hanno spinto molti prigionieri palestinesi a disperati e rischiosi scioperi della fame.

Uno dei tanti modi in cui Israele cerca di opprimere e controllare la popolazione palestinese è incarcerare chi guida la resistenza contro l’occupazione e il progetto coloniale di insediamento.

In Palestina un prigioniero palestinese in un carcere israeliano viene definito “aseer”, cioé recluso, perché lui o lei non è un criminale. Ciò che conduce i palestinesi nelle carceri israeliane sono atti di resistenza – dallo scrivere una poesia sulla lotta contro l’occupazione al compiere un’aggressione contro soldati israeliani nella terra palestinese occupata. Per l’occupazione israeliana, comunque, ogni atto di resistenza o provocazione palestinese è catalogato come una forma o di “terrorismo” o di “incitamento” [all’odio], che non può essere tollerata.

Attualmente ci sono 5.450 prigionieri nelle carceri israeliane, 205 dei quali sono minori e 48 donne. In base ad alcune stime, dall’occupazione israeliana di Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza nel giugno 1967, oltre 800.000 palestinesi sono stati imprigionati nelle carceri israeliane.

Superfluo dirlo, come Israele cerca di mantenere tutta la popolazione palestinese in continua miseria e oppressione, lo stesso fa nei confronti dei prigionieri palestinesi.

Nei mesi scorsi le già terribili condizioni in queste carceri sono ulteriormente peggiorate dopo che il governo israeliano ha annunciato che avrebbe adottato rigide misure nelle prigioni come tecnica di “deterrenza” – una iniziativa che in Israele è stata vista come propaganda elettorale.

“Compaiono in continuazione immagini irritanti di persone che cucinano nelle sezioni dei terroristi. Questa festa è finita”, ha detto a inizio gennaio il ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan. I suoi progetti comprendono limitazioni all’uso dell’acqua da parte dei prigionieri, il divieto di cucinare in cella e l’installazione di dispositivi di interferenza per bloccare il presunto uso di cellulari entrati di contrabbando.

Quest’ultima misura, in particolare, ha provocato l’indignazione dei prigionieri, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a gravi dolori alla testa, svenimenti e disturbi duraturi.

A fine gennaio il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) ha compiuto nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, un raid che ha provocato il ferimento di oltre 140 prigionieri palestinesi, alcuni dei quali colpiti da proiettili veri.

A fine marzo anche le prigioni di Naqab, Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel sono state oggetto di incursioni, che hanno causato molti feriti tra i prigionieri palestinesi. La rabbia è esplosa e il 7 aprile centinaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno lanciato uno sciopero della fame di massa che è terminato otto giorni dopo in seguito a un accordo tra i prigionieri palestinesi e l’IPS.

In mezzo al baccano preelettorale in Israele, questa notizia è stata ampiamente ignorata dai media internazionali, che si sono invece focalizzati sulla dichiarazione del presidente USA Donald Trump sulle Alture del Golan e sulla promessa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di annettere la Cisgiordania.

Invece per i palestinesi, la maggior parte dei quali soffre per avere un parente nelle carceri israeliane, tenuto in condizioni che violano i requisiti minimi del diritto internazionale e umanitario, questo è stato un grave motivo di preoccupazione e anche di rabbia. I palestinesi sanno che dietro ai numeri e alla propaganda israeliana che definisce questi uomini, donne e minori come “terroristi” vi sono tragiche storie umane di sofferenza e tenacia.

Una di queste storie è quella del giornalista palestinese Mohammed al-Qiq, marito della coautrice di questo articolo, Fayha Shalash.

Al-Qiq lavorava come corrispondente della rete di informazioni saudita Al-Majd, occupandosi della Cisgiordania. I suoi reportage televisivi relativi all’esecuzione da parte dell’esercito israeliano di presunti aggressori palestinesi nel corso di quella che è stata chiamata la rivolta di Al-Quds hanno ricevuto molta attenzione in tutto il Medio Oriente e gli hanno procurato molta ammirazione tra i palestinesi.

A causa del suo lavoro è stato giudicato una “minaccia” dallo Stato israeliano e nel novembre 2015 è stato arrestato. Questa è la sua storia.

Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Sabato 21 novembre 2015, un mese e mezzo dopo l’inizio della rivolta di Al- Quds, i soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa nostra. Hanno sfondato la porta d’ingresso della nostra modesta casa e sono entrati. È stata la scena più spaventosa che si possa immaginare. Nostra figlia di un anno, Lour, si è svegliata e ha incominciato a piangere. Mentre Mohammed veniva bendato e ammanettato, Lour continuava ad abbracciarlo e accarezzarlo.

Per fortuna Islam, che allora aveva tre anni, dormiva ancora. Sono felice di questo perché non volevo che vedesse suo padre portato via dai soldati in un modo così violento.

Al mattino ho dovuto dirgli che suo padre era stato portato via; mentre cercavo di spiegargli, gli tremavano le labbra e il suo viso aveva una smorfia di paura e di dolore che nessun bambino dovrebbe mai provare.

Era la quarta volta che Mohammed veniva arrestato. Il primo arresto fu nel 2003, quando è stato detenuto per un mese; poi nel 2004 è stato nuovamente arrestato e detenuto per 13 mesi e nel 2008 è stato condannato da un tribunale israeliano a 16 mesi di prigione per le sue attività politiche e per il suo impegno nel Consiglio studentesco dell’università di Birzeit.

Poi Mohammed è stato portato nel famigerato centro di detenzione Al-Jalameh per l’interrogatorio. Non gli è stato permesso di vedere un avvocato fino al ventesimo giorno di detenzione. È stato torturato fisicamente e psicologicamente e gli è stato ripetutamente chiesto di firmare una falsa confessione [in cui ammetteva] di essere impegnato in “istigazione attraverso mezzi di informazione”, cosa che ha rifiutato di fare.

Abbiamo saputo che la sua detenzione è stata prorogata diverse volte, ma non avevamo nessun’altra notizia da lui. Le nostre richieste di visita in quanto familiari sono state respinte e tutto ciò che potevamo fare era aspettare e pregare.

A inizio dicembre mi sono imbattuta in una notizia riportata online, secondo cui mio marito aveva iniziato uno sciopero della fame. Ho immediatamente telefonato all’Associazione dei Prigionieri, una Ong nata nel 1993 per sostenere i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, e per pura fortuna sono riuscita a contattare un avvocato di nome Saleh Ayoub che aveva visto Mohammed in tribunale. Mi ha detto che mio marito veniva processato a porte chiuse, il che significa che né la sua famiglia né il suo avvocato erano stati informati del processo.

Mentre Mohammed veniva riportato in cella, si è avvicinato a Ayoub ed è riuscito a dirgli queste parole: “Sono il prigioniero Mohammed al-Qiq. Dite alla mia famiglia e ai media che sto facendo uno sciopero della fame. Attualmente sono in arresto a Al-Jalameh.”

Quando ho sentito ciò, mi sono molto spaventata. Nella mia famiglia non abbiamo mai fatto questa esperienza. Non comprendevo del tutto le conseguenze di una tale decisione, ma ho deciso di appoggiare mio marito. 

Per mesi ho seguito ogni associazione per i diritti umani che potesse aiutarmi a ottenere qualche informazione sulla salute mentale e fisica di Mohammed. Gli israeliani non avevano prove contro di lui, ma continuavano a trattenerlo, nonostante la sua salute andasse peggiorando. Quando ha incominciato ad avere emorragie e a non reggersi più in piedi è stato trasferito all’ospedale del carcere di Ramleh.

A nessuno è stato permesso di visitarlo nell’ospedale del carcere, né a noi né alla Croce Rossa. Il caso di Mohammed non è l’unico, in quanto Israele consente il completo isolamento di ogni prigioniero che faccia uno sciopero della fame.

Mohammed è diventato ancor più determinato a portare avanti il suo sciopero della fame quando il tribunale israeliano lo ha condannato a sei mesi di “detenzione amministrativa”, che significa che loro non avrebbero potuto sostenere le accuse contro mio marito con alcuna prova tangibile, ma rifiutavano di liberarlo. L’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile fino a tre anni.

Per me è stata una corsa contro il tempo. Dovevo fare in modo che il mondo mi ascoltasse, ascoltasse la storia di mio marito, perché si facesse sufficiente pressione su Israele perché lo liberasse. Temevo che potesse essere troppo tardi, che Mohammed morisse prima che quel messaggio risuonasse in tutta la Palestina e nel mondo.

Dato che la sua salute continuava a peggiorare, è stato portato all’ospedale di Afouleh, dove hanno cercato di alimentarlo a forza. Lui si è rifiutato. Quando hanno tentato di alimentarlo con una flebo, si è strappato l’ago dal braccio e lo ha gettato a terra. Conosco mio marito, per lui la vita senza libertà non vale la pena di essere vissuta.

Dopo un mese di sciopero della fame Mohammed ha cominciato a vomitare bile gialla e sangue. Il dolore al ventre e alle articolazioni e le continue emicranie erano insopportabili. Nonostante tutto questo, continuavano a legarlo al letto d’ospedale. Il suo braccio destro ed entrambi i piedi erano bloccati agli angoli del letto da pesanti ferri. È stato lasciato così per tutto il tempo.

Sentivo che Mohammed stava per morire. Ho cercato di spiegare a mio figlio che suo padre rifiutava il cibo per lottare per la sua libertà. Islam continuava a ripetere: “Quando crescerò, lotterò contro l’occupazione”. Lour sentiva la mancanza del padre ma non capiva niente. Quando combattevo per la libertà del loro papà, non avevo altra scelta che stare lontana da loro per lunghi periodi. La nostra famiglia era spezzata.

Il 4 febbraio 2016 Mohammed è entrato nel 77mo giorno di sciopero della fame. In seguito alla pressione popolare ed internazionale, ma soprattutto a causa dell’irremovibile volontà di Mohammed, l’occupazione israeliana è stata costretta a sospendere l’ordine di “detenzione amministrativa”. Ma per Mohammed non era abbastanza.

Con questa mossa, l’occupazione israeliana intendeva mandare un segnale che la crisi era stata scongiurata, nel tentativo di ingannare i media e il popolo palestinese. Ma Mohammed non ne voleva sapere, voleva essere lasciato libero, perciò ha proseguito lo sciopero per altre settimane.

In quel momento mi è stato dato il permesso di fargli visita, ma ho deciso di no, per non dare l’impressione che tutto adesso andasse bene, giocando inavvertitamente a favore della propaganda israeliana.

È stata la decisione più difficile che abbia mai dovuto prendere, stare lontana dall’uomo che amo, dal padre dei miei figli. Ma sapevo che se lui avesse visto me o i bambini si sarebbe troppo emozionato, o peggio ancora avrebbe potuto avere un crollo fisico ancor più grave. Ho mantenuto l’impegno di sostenerlo nella sua decisione fino alla fine.

A un certo punto ho pensato tra me che Mohammed non sarebbe mai più tornato e sarebbe morto in prigione.

Era così legato ai nostri figli. Li amava con tutto il cuore e cercava di passare il maggior tempo possibile con loro. Giocava con loro, li portava entrambi a passeggiare intorno alla casa o nei dintorni. Perciò quando la sua morte è diventata una reale possibilità, mi sono chiesta che cosa avrei detto loro, come avrei risposto alle loro domande quando fossero cresciuti senza un padre e come avrei potuto andare avanti senza di lui.

Quando è arrivato all’ottantesimo giorno di sciopero della fame, il suo corpo ha cominciato ad avere convulsioni. Ho saputo in seguito che questi spasmi involontari erano molto dolorosi. Ogni volta che sopraggiungevano, lui recitava la Shahada [la professione di fede nell’Islam, ndtr.] – “Non c’è altro dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” – in previsione della sua morte.

Consapevole di ciò che sembrava essere la sua inevitabile morte, Mohammed ha scritto un testamento di cui io non ero a conoscenza. Mi è crollato il mondo addosso quando ho ascoltato le parole del suo testamento lette in televisione:

“Mi piacerebbe vedere mia moglie e i miei bambini, Islam e Lour, prima di morire. Voglio solo essere sicuro che stiano bene. Vorrei anche che l’ultima preghiera per il mio corpo fosse recitata nella moschea Durra. Per favore seppellitemi nella tomba di mia madre, in modo che lei possa prendermi in braccio come faceva quando ero bambino. Se questo non si può fare, per favore seppellitemi il più vicino possibile a lei.”

Durante il suo sciopero della fame le fotografie dei bambini sono rimaste accanto al letto d’ospedale di Mohammed. “I miei bambini si ricordano di me?”, soleva chiedere a chiunque lo andasse a trovare.

Alla fine, la sua determinazione si è dimostrata più forte dell’ingiustizia dei suoi aguzzini. Il 26 febbraio 2016 è stato annunciato che era stato raggiunto un accordo tra il Comitato dei Prigionieri Palestinesi che rappresentava Mohammed e l’amministrazione penitenziaria israeliana. Mio marito sarebbe stato rilasciato il 21 maggio dello stesso anno.

Mohammed ha ottenuto la libertà dopo 94 giorni di sciopero della fame. Ha dimostrato al mondo di non essere un terrorista come sostenevano gli israeliani e di essere stato punito per aver semplicemente informato il mondo delle sofferenze del suo popolo. Grazie alla sua inflessibile resistenza le autorità militari israeliane sono state costrette a cancellare tutte le accuse contro di lui.

L’incarcerazione di Mohammed rimane un ricordo doloroso, ma anche una grande vittoria per i palestinesi di ogni luogo. Quando è entrato in carcere Mohammed pesava 99 chili; quando ha terminato lo sciopero della fame ne pesava solo 45. Il suo corpo era ridotto a pelle ed ossa. La sua struttura atletica era collassata su sé stessa, ma il suo spirito ha continuato a crescere, come se più fisicamente debole si sentisse, più diventasse forte la sua volontà.

Quando sono andata a trovarlo coi nostri figli una settimana dopo la fine del suo sciopero, non l’ho riconosciuto. Ho pensato di essere entrata nella stanza sbagliata, ma quando mi sono avvicinata ho visto i suoi begli occhi amorevoli, l’ ho abbracciato e ho pianto.

Mohammed è stato rilasciato alla data concordata, ma è stato nuovamente arrestato otto mesi dopo. Ha immediatamente iniziato un altro sciopero della fame che è durato 33 giorni.

Oggi Mohammed è libero, ma parla ancora della prigione e la nostra famiglia non ha ancora superato il trauma che abbiamo subito. Islam è preoccupato che suo padre possa essere nuovamente arrestato di notte. Gli dico di non preoccuparsi, ma io stessa sono terrorizzata da quella possibilità. Sogno il giorno in cui non avrò più paura di poter perdere mio marito.

Rivivo anche quella straziante esperienza tutte le volte che un prigioniero palestinese inizia un altro sciopero della fame. So che non è una decisione facile mettere in gioco la propria vita, rischiare tutto per ciò in cui si crede. Gli scioperi della fame non comportano solo un alto prezzo per i corpi e le menti dei prigionieri. Anche le loro famiglie e le loro comunità devono sopportare gran parte di quel pesante fardello.

Mi sento accanto a tutti loro e prego dio che tutti i nostri prigionieri vengano presto liberati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Fayha Shalash è una giornalista palestinese che vive nella città di Birzeit in Cisgiordania.

Ramzy Baroud è un giornalista noto a livello internazionale, consulente di media e scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Perché l’Europa non definisce Israele uno Stato di apartheid?

John Dugard

17 aprile 2019, Al Jazeera

Sia per le politiche adottate sia per il livello di brutalità, l’apartheid in Israele non è così diverso da quello che esisteva in Sudafrica.

L’apartheid esiste ancora ed è vivo, vegeto e prospero nella Palestina occupata.

I palestinesi lo sanno. I sudafricani lo sanno. Molti israeliani lo hanno accettato come parte del loro dibattito politico. Gli americani ci stanno facendo i conti ora con l’emergere di nuove voci nel Congresso e nelle ONG, come “Jewish Voice for Peace” [Voci Ebraiche per la Pace, associazione di ebrei statunitensi contro l’occupazione, ndt.], che non hanno paura di chiamarlo apertamente così.

Soltanto in Europa si osserva un’ostinata negazione dell’apartheid di Israele verso i palestinesi, nonostante le prove a sua conferma siano schiaccianti.

Le restrizioni da parte di Israele della libertà di movimento nel territorio occupato della Palestina sono un revival dei tanto odiati divieti di passaggio in Sudafrica, leggi che proibivano ai sudafricani neri senza permesso di stare in una città “bianca”. Le politiche di Israele sulla rimozione forzata della popolazione e la distruzione dei centri abitati assomiglia molto alla storia della ricollocazione delle persone di colore allontanate dalle aree destinate alla sola occupazione dei bianchi nel Sudafrica dell’apartheid.

Le forze dell’ordine israeliane operano brutalità e torture che vanno anche oltre le peggiori pratiche dell’apparato di sicurezza sudafricano. L’umiliazione delle persone di colore che era il fulcro dell’apartheid sudafricano è replicata fedelmente in Palestina.

La retorica razzista nel dibattito pubblico israeliano offende persino chi conosce bene il tipo di linguaggio dell’apartheid in Sudafrica. La propaganda di crudo razzismo che ha caratterizzato la recente campagna elettorale in Israele non ha precedenti neanche in Sudafrica.

Certo ci sono delle differenze, perché i due territori hanno condizioni storiche, religiose, geografiche e demografiche differenti, ma entrambi i casi rientrano nella definizione universale di apartheid. Nel diritto internazionale, l’apartheid è un tipo di regime di discriminazione razziale istituzionalizzata e legalizzata sancito dallo Stato, nonché di oppressione di un gruppo razziale egemonico sull’altro.

Sotto certi aspetti l’apartheid del Sudafrica era peggiore, mentre sotto altri è peggiore quello israeliano nella Palestina occupata. Per certo, l’applicazione dell’apartheid nella Palestina occupata da parte di Israele ha un carattere più militarista e brutale. L’apartheid in Sudafrica non ha mai imposto un blocco su una comunità nera né ha metodicamente ucciso gli oppositori come sta attualmente facendo Israele lungo la frontiera di Gaza.

Sono fatti ben noti: chiunque legga i giornali non è all’oscuro della repressione inflitta al popolo palestinese da parte dell’esercito d’occupazione israeliano e dei coloni ebrei. È noto a tutti che i differenti sistemi legali per i coloni e per i palestinesi hanno creato un regime di status legali segregati e assolutamente disuguali.

Come mai dunque l’Europa nega ostinatamente l’esistenza dell’apartheid nella Palestina occupata? Perché si continua a fare affari con Israele come se niente fosse? Perché l’Eurovision Song Contest si terrà a Tel Aviv? Perché l’Europa vende armi e intrattiene rapporti commerciali con Israele, persino con le colonie illegali? Perché mantiene rapporti culturali e accademici? Come mai Israele non è soggetta al tipo di ostracismo che fu applicato ai tempi in Sudafrica e alle istituzioni sudafricane bianche conniventi?

Come mai le sanzioni a condanna dell’apartheid in Sudafrica furono adottate dai governi europei mentre si prendono provvedimenti volti a criminalizzare il movimento nonviolento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) che cerca di assicurare pace, giustizia e uguaglianza per i palestinesi?

Ci sono tre spiegazioni per risolvere l’enigma.

Per prima cosa, in molti Stati europei le lobby filoisraeliane sono potenti esattamente quanto negli Stati Uniti, ma senza lo stesso grado di visibilità.

Il secondo fattore è il senso di colpa per l’Olocausto. Le politiche di alcuni Paesi come l’Olanda verso Israele sono ancora condizionate dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza per salvare gli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Ultimo, ma il più importante di tutti, esiste la paura di essere classificati come antisemiti. Promosso e manipolato da Israele e dalle sue lobby, il concetto di antisemitismo è stato esteso fino a includere non solo l’odio verso gli ebrei, ma anche la critica verso l’apartheid israeliano.

Nel caso del Sudafrica, il presidente PW Botha era odiato perché applicava l’apartheid, non perché era un afrikaner [comunità bianca sudafricana di origine olandese e protestante, ndt.]. Potrebbe sembrare scontato che allo stesso modo molti possano odiare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché applica l’apartheid, e non in quanto ebreo, ma questa linea di demarcazione è assai sottile in Europa, tanto da diventare pericoloso e poco saggio criticare Israele.

In Europa, criticare l’apartheid in Sudafrica era una causa popolare. Il movimento anti-apartheid, che faceva pressioni per il boicottaggio delle esportazioni sudafricane, degli scambi commerciali, sportivi, artistici e accademici, era incoraggiato e non assoggettato ad alcuna restrizione. I governi imposero svariati tipi di sanzioni, incluso l’embargo. Le proteste pubbliche contro l’apartheid erano prassi comune nelle università.

Le critiche verso le politiche discriminatorie e repressive di Israele invece rischiano di essere bollate come antisemitismo, con serie conseguenze sulla carriera e la vita sociale di una persona. Conseguentemente, si vedono ben poche proteste contro l’apartheid israeliano nei campus europei e un ben più freddo sostegno al movimento BDS. Le personalità pubbliche che criticano Israele vengono attaccate in quanto antisemite, come dimostra la caccia alle streghe fatta contro i membri del partito Laburista in Gran Bretagna.

Finché gli europei non avranno il coraggio fare una distinzione tra le critiche verso Israele per il suo apartheid e il vero e proprio antisemitismo (che, ricordiamo, è l’odio verso gli ebrei), l‘apartheid continuerà a prosperare nella Palestina occupata con la complicità diretta dell’Europa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Maria Monno)




Come anche la sinistra disumanizza i Palestinesi di Gaza.

Susan Abulhawa

Al Jazeera, 13 aprile 2019

Avvolgendo gli abitanti di Gaza nell’aura di un mitico coraggio, la sinistra dimentica l’umanità dei Palestinesi.

Lungo tutto l’arco politico, dall’estrema sinistra all’estrema destra, attraversando ogni confine razziale ed etnico, quasi tutti quelli che hanno qualcosa da dire sui dimostranti di Gaza sembrano dimenticarsi il lato umano dei Palestinesi. Se viene da destra, la narrativa sarà quella dei terroristi, dei razzi e di Hamas, rinchiudendo totalmente una legittima resistenza palestinese entro l’immagine di una specie di Uomo Nero per l’immaginazione occidentale.

Da sinistra, le storie diventano materia da leggenda, descrivendo nella parte palestinese solo imperscrutabile eroismo, coraggio e “sumud”, una parola araba romanzata nella lingua inglese per descrivere l’epica determinazione palestinese.

Ai due estremi dello spettro, gli inermi Palestinesi diventano figure gigantesche, diverse dagli altri esseri umani, sia che riescano sovrumanamente a rappresentare una minaccia per dei soldati perfettamente armati e distanti parecchi campi da calcio, sia che mostrino coraggio e impavidità sovrannaturali di fronte a una morte quasi certa. Quest’ultima narrazione, che riesce a drammatizzare un’indicibile disperazione, è così attraente che persino i Palestinesi l’hanno ripresa.

Nulla da perdere

Solo pochi giorni fa guardavo il video di un giovane a cui avevano sparato alle gambe. Zoppica, cade e si rialza solo per essere colpito di nuovo dai proiettili. La scena si ripete per cinque o sei spari consecutivi, finché il giovane non si può più rialzare e gli altri arrivano per portarlo via. Il titolo e i commenti esaltavano il “giovane coraggioso” che continuava a resistere al suo oppressore malgrado fosse stato colpito più volte alle gambe.

Come madre palestinese, vedevo qualcos’altro in quell’uomo, abbastanza giovane da poter essere mio figlio. Forse era stato completamente privato di ogni speranza e gli avevano tolto la voglia di vivere una vita rinchiusa nella barbara, maligna e inventiva ferocia dell’assedio israeliano a Gaza. Un giovane che ha probabilmente conosciuto poco più che paura, disperazione, povertà e impotenza a fare qualsiasi cosa. Forse un giovane che non ha nulla da perdere, uno già derubato della sua vita legittima, che cerca, in segno di sfida, almeno un singolo momento di dignità, sapendo, e magari sperando, che quello sia l’ultimo. E forse è questo ciò che ha visto il soldato che ha sparato, e ha scelto di aggiungere il trauma di un’amputazione a un uomo già torturato che sollevava debolmente una piccola pietra senza neanche la volontà o l’energia sufficiente per lanciarla.

Forse la sua motivazione era il nazionalismo. Forse aveva la speranza di assicurare denaro alla sua famiglia se fosse stato martirizzato o ferito. Forse pensava che la sua morte potesse far avanzare la sua gente di un centimetro verso la libertà. Forse era la sola cosa che gli restava da fare. Non possiamo sapere cosa passa per la testa di uno che mette il proprio corpo tra i proiettili e la disperazione. Ma possiamo essere sicuri che le sue motivazioni sono dolorosamente umane. Non c’è nulla di divino da capire o trasformare in feticcio.

Analisi riduttive

Non c’è dubbio alcuno che ci vuole coraggio per scendere in campo contro Israeliani omicidi e carichi di odio, ma le narrazioni che permeano di mitico eroismo i Palestinesi sono nocive. Queste narrazioni propongono una irreale, quasi divina, capacità di resistere a ciò che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a sopportare, e nascondono la molto umana e fosca realtà della vita a Gaza, che ha portato a tassi di suicidio mai prima visti nella società palestinese.

Le persone di Gaza hanno differenti ragioni per prendere parte alla Grande Marcia del Ritorno, ma le analisi prevalenti sono riduttive, spesso unendo l’epico coraggio palestinese con la resistenza nonviolenta, perché l’immaginazione occidentale non può tollerare una resistenza armata, non importa quanto durevole e impietosa sia la violenza che è stata inflitta. L’eroismo connesso alle armi è esclusiva prerogativa dei soldati occidentali. L’unica resistenza moralmente valida concessa agli oppressi è, nella mente occidentale, esclusivamente nonviolenta. Questo significa che il diritto palestinese alla libertà e alla dignità svanisce nel momento in cui noi facciamo volare degli aquiloni incendiari o spariamo un razzo verso uno stato che da decenni sta massacrando la società e i corpi stessi dei Palestinesi. Vediamo le stesse reazioni negli USA, quando gli Afroamericani si sollevano e non si attengono perfettamente a una “pacifica” e “non violenta” protesta, dopo i secoli di denigrazione e marginalizzazione che hanno subito.

Certo non aiuta che persino alcuni Palestinesi rafforzino questa opinione, rigettando Hamas o riducendo qualsiasi forma di resistenza armata ad un fatto anomalo in una protesta altrimenti ideale e ordinata di un popolo oppresso straordinariamente forte e valoroso.

Gaza è un campo di sterminio

Ma bisogna dire la verità, e la verità è orribilmente sgradevole e squallida. Non c’è nulla per cui il mondo debba romanzare Gaza. Nulla da idealizzare. Gaza è un campo di sterminio. La tecnologia dello sterminio e della repressione è il maggior prodotto esportato dalla “Nazione Ebraica” e Gaza è il laboratorio umano dove l’industria israeliana delle armi collauda i suoi prodotti sui corpi, le menti e le anime dei Palestinesi. È una sventurata esistenza che non risparmia nessuno dei due milioni di prigionieri in quel campo di concentramento.

Israele ha trasformato Gaza, una volta grande città crocevia di commercio fra tre continenti, in un buco nero dei sogni. Gaza è la tomba della speranza, un inceneritore del potenziale umano, un estintore di ogni prospettiva. Le persone riescono a malapena a respirare a Gaza. Non possono lavorare, non possono partire, non possono studiare, non possono costruire, non possono guarire. Sotto ogni punto di vista, la minuscola striscia è invivibile, letteralmente inadatta alla vita. Quasi il 100% dell’acqua non è potabile. La disoccupazione giovanile è così alta che è più facile contare gli occupati, un patetico 30%. Circa  l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La maggior parte degli abitanti gode di poche ore di elettricità al giorno. Il sistema fognario è al collasso. Il sistema sanitario è giunto al suo punto di rottura e gli ospedali stanno chiudendo per mancanza di rifornimenti essenziali e di carburante, che Israele spesso impedisce di comprare o anche di ricevere in dono. Questa indicibile miseria è intenzionale. Israele l’ha progettata e realizzata. E il mondo permette che continui.

Parlare di “sumud”

Quando la nostra vita, la nostra resistenza e la nostra lotta sono inquadrate in termini leggendari, non solo si dimentica la nostra umanità, ma si diminuisce la depravazione morale del controllo israeliano su milioni di vite palestinesi. Il discorso sul “sumud” ci prepara all’insuccesso a ogni svolta. Da un lato si presuppone che i Palestinesi possano sopportare qualsiasi cosa, dall’altro si diffonde l’affermazione sottintesa che i Palestinesi meritino di essere liberi poiché sono buoni, coraggiosi, non violenti e determinati.

Ma la verità è che non siamo nulla di più, nulla di meno che umani. Collettivamente non siamo né mostri né eroi, e anche il peggiore di noi ha il diritto di vivere libero dall’occupazione straniera. Va detto e ripetuto che la lotta contro i nostri aguzzini è legittima in ogni sua forma, sia essa nonviolenta o violenta. Va detto e ripetuto che comunque noi lottiamo, la nostra resistenza è sempre autodifesa. Va detto ancora e ancora che il nostro diritto alla vita e alla dignità non è basato sulla nostra collettiva bontà, o coraggio o risolutezza. In ultima analisi, la sinistra deve smettere di raccontare in forma leggendaria i Palestinesi e guardare invece direttamente all’orrore della disperazione e dell’angoscia di Gaza che la maggior parte di chi legge, io credo, non può neanche immaginare.

Il punto di vista espresso in questo articolo è quello personale dell’autrice e non riflette necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese autrice del romanzo, best-seller internazionale, “Ogni mattina a Jenin” (2010). È anche fondatrice di Playgrounds for Palestine, una ONG che si occupa di bambini.

Traduzione di Elisabetta Valento

A cura di Assopace Palestina



Come la Grande Marcia del Ritorno ha rivitalizzato la resistenza palestinese

Ahmed Abu Artema

30 marzo 2019, Al Jazeera

La marcia che abbiamo iniziato un anno fa ha sfidato i nostri due maggiori nemici: la divisione palestinese tra fazioni e la propaganda israeliana.

Il 30 marzo 2018 ho assistito a una cosa che non dimenticherò mai. Ho visto decine di migliaia di persone con diverse affiliazioni politiche e posizioni ideologiche, stare tutte dalla stessa parte, alzare la bandiera palestinese e cartelli con i nomi dei villaggi e delle città da cui Israele li ha cacciati.

Quel giorno le divisioni tra palestinesi sono scomparse e la gente è andata insieme a rivendicare i propri inalienabili diritti.

La Grande Marcia del Ritorno ha aperto un capitolo nuovo nella lotta palestinese per la libertà. Ha dato al popolo palestinese una nuova opportunità per ribellarsi collettivamente contro l’occupazione israeliana.

Da allora abbiamo pagato un prezzo durissimo per la nostra resistenza pacifica.

Circa 266 palestinesi sono stati uccisi e più di 6.557 sono stati feriti da proiettili veri; 124 hanno avuto un arto amputato.

Ma abbiamo perseverato. Ogni venerdì migliaia di noi, donne e uomini, giovani e anziani, hanno continuato ad affluire verso la barriera di confine con Israele per chiedere il nostro diritto sancito dalle leggi di tornare alla nostra patria e hanno dimostrato che non accetteranno una morte lenta all’interno delle mura della prigione della Striscia di Gaza.

La Grande Marcia del Ritorno ha riacceso il nostro spirito di resistenza, ci ha dato potere, ci ha resi più forti e più uniti.

Quando, più di un anno fa, io e i miei amici per la prima volta abbiamo iniziato a discutere dell’idea di una marcia non mi sarei mai aspettato che avremmo ottenuto così tanto.

L’idea ci è venuta in un momento in cui la resistenza popolare in Palestina stava subendo una notevole crisi. Dalla fine della Seconda Intifada nel 2005 ci sono state proteste sporadiche, ma non movimenti di massa spontanei.

Invece molte fazioni politiche hanno occupato le piazze con manifestazioni pianificate, convocando i propri membri e sostenitori. Questo attivismo organizzato in base a tendenze politiche ha ridotto molti palestinesi a spettatori passivi e li ha tenuti lontani.

Ciò è stato molto deprimente per la causa nazionale, perché ha reso il movimento di resistenza una questione di fazioni. Dato che l’occupazione prende di mira il popolo palestinese come un tutto unico e non solo una specifica fazione politica, la lotta nazionale può avere successo solo se coinvolge ogni singolo palestinese.

Inoltre le guerre israeliane contro Gaza nel 2008, 2012 e 2014 hanno spostato i riflettori sulle fazioni armate e lontano dalla resistenza popolare. Questi scontri militari hanno anche consentito a Israele di raddoppiare i suoi tentativi di giustificare l’uso eccessivo della forza contro la popolazione palestinese con il pretesto di proteggersi dagli attacchi di gruppi armati.

Di conseguenza l’attenzione internazionale si è allontanata dalle violazioni dei diritti da parte di Israele e si è concentrata sulle sue pretese di sicurezza. Questo ha ulteriormente escluso il palestinese comune e le sue rivendicazioni per la fine dell’occupazione e per il diritto al ritorno.

Ma tutto questo è cambiato con la Grande Marcia del Ritorno.

Ciò che l’ha distinta dalle proteste e scontri del recente passato non è stata solo la sua natura popolare e pacifica, ma anche il modo in cui è stata concepita. L’idea della marcia è venuta ai giovani di Gaza – i miei amici ed io abbiamo preso l’iniziativa e diffuso l’idea sulle reti sociali. I palestinesi comuni l’hanno discussa e hanno contribuito a farla maturare e a trasformarla in qualcosa che potesse essere adottata da tutti i componenti della società palestinese.

La Grande Marcia del Ritorno, in quanto idea concepita dal popolo, è riuscita ad attraversare tutte le differenze tra le fazioni e a costruire un fronte unitario. Ha intercettato l’energia del popolo palestinese che non trova spazio nelle attività delle fazioni tradizionali.

Singole persone e famiglie senza alcuna affiliazione politica, che nel passato sentivano che non avrebbero potuto trovare un posto in molte altre proteste, hanno partecipato attivamente a questa marcia. Anche organizzazioni della società civile e attivisti si sono uniti, come anche alcune associazioni di clan.

La Grande Marcia del Ritorno ha attirato anche molti giovani disillusi e depoliticizzati a causa della condizione disastrosa della politica interna palestinese ed ha riacceso il loro spirito di resistenza. Ha contribuito al fatto che una nuova generazione di palestinesi abbia abbracciato la lotta palestinese per il diritto al ritorno.

La marcia – con la sua ispirazione popolare e la sua natura pacifica – è riuscita anche a minare i tentativi israeliani di presentare Gaza come una “questione di sicurezza”. Le continue proteste sono state fonte di disappunto, fastidio e imbarazzo per l’occupazione israeliana.

La violenta risposta di Israele alla Grande Marcia del Ritorno ha dimostrato che non vuole che i palestinesi adottino l’opzione pacifista. Timoroso che la nostra resistenza pacifica possa danneggiare i suoi tentativi propagandistici che ci dipingono come aggressori, Israele ha scelto di attaccare manifestanti che non rappresentavano un pericolo diretto per il suo popolo. E mentre i suoi soldati uccidevano, mutilavano e facevano tacere i dimostranti pacifici, lo Stato israeliano ha cercato di gettare la colpa dello spargimento di sangue sulle vittime.

Tuttavia questa volta gli occupanti non hanno avuto successo. Questa marcia ha contribuito al fatto che sempre più persone nel mondo vedano la nostra tragedia e ascoltino le nostre richieste di libertà e dignità. La Grande Marcia del Ritorno ha ridato credibilità al concetto di lotta pacifista. Se la resistenza armata si scontra contro l’occupazione con le pallottole, la lotta non violenta vi si oppone con il potere delle parole e con la giustizia della propria causa.

Israele può avere la forza militare, ma è eticamente debole. Ha espulso un popolo, occupato la sua terra e continua fino ad oggi a conculcarne la libertà e la dignità. Quindi in questa lotta i palestinesi sono naturalmente dalla parte moralmente giusta e le loro proteste pacifiche sferrano a Israele i colpi più duri di qualunque altra arma.

Un anno dopo l’inizio della nostra marcia provo un misto di tristezza e di determinazione. Per queste manifestazioni pacifiche abbiamo pagato con le vite e i corpi di molti palestinesi. Ad ogni singola pallottola israeliana che ha colpito uno dei manifestanti i nostri lutti e le nostre sofferenze come popolo si sono moltiplicati. Tuttavia non ci siamo arresi per 70 anni e non abbiamo intenzione di farlo ora.

La Grande Marcia del Ritorno è la risposta di una Nazione orgogliosa a decenni di occupazione, aggressione e furto. Prendendo questa posizione pacifista, stiamo annunciando al mondo che, nonostante i tentativi israeliani di spazzarci via, stiamo ancora resistendo forti e uniti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista e attivista per la pace palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Il nostro popolo non cederà’: Gaza celebra l’anniversario delle proteste

Rana Shubair e Maram Humaid

30 marzo 2019, Al Jazeera

Quattro persone uccise, centinaia ferite dalle forze israeliane che utilizzano proiettili veri e gas lacrimogeni contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno

Decine di migliaia di palestinesi si sono radunati alla barriera tra Israele e Gaza per celebrare il primo anniversario delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, affrontando i carri armati e le truppe israeliane ammassati lungo il perimetro fortificato.

Secondo fonti del ministero della Salute di Gaza, sabato le forze israeliane hanno impiegato proiettili veri, pallottole rivestite di gomma e gas lacrimogeni contro i manifestanti, uccidendo tre diciassettenni e ferendo almeno 207 persone.

Tamer Aby el-Khair è stato colpito al petto ad est di Khan Younis nel sud di Gaza ed è morto in ospedale, ha comunicato il ministero. Il secondo ragazzo, Adham Amara, è deceduto dopo essere stato colpito al volto ad est di Gaza City.

Il terzo, Belal al-Najjar, secondo funzionari di Gaza è stato ucciso da un colpo di fucile israeliano. Un quarto palestinese, identificato come il ventenne Mohamed Jihad Saad, è stato ucciso durante una protesta nella notte precedente alla manifestazione principale.

I palestinesi chiedono il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie furono espulse con la forza durante la creazione di Israele nel 1948. Chiedono anche la fine dell’assedio israeliano ed egiziano a Gaza che dura da 12 anni.

Marceremo verso il confine anche se moriremo”, ha detto Yusef Ziyada, di 21 anni, con il volto dipinto coi colori della bandiera palestinese. “Non ce ne andremo. Ritorneremo nella nostra terra.” Nonostante la forte pioggia, circa 40.000 persone si sono radunate nella zona di confine, ha detto l’esercito israeliano.

[Ashraf Amra/Anadolu]

La maggior parte dei manifestanti si è tenuta lontana dalla barriera, ma alcuni hanno lanciato pietre e ordigni esplosivi verso la struttura e hanno incendiato copertoni, ha dichiarato l’esercito, aggiungendo di aver reagito con “mezzi antisommossa e spari, conformemente alle procedure operative standard.”

Descrivendo la marcia come “del tutto pacifica”, Mohammed Ridwan, un manifestante di 34 anni che lavora in un gruppo di esperti a Gaza, ha detto a Al Jazeera che l’enorme affluenza di sabato è stata “una chiara dimostrazione che il nostro popolo non tornerà indietro fino a che non otterrà i propri legittimi diritti.”

Bahaa Abu Shammal, un attivista ventiseienne, ha detto che si trovava nel luogo della protesta “a grande distanza dalla barriera di separazione”, eppure è stato quasi “soffocato dai gas lacrimogeni israeliani”.

Ha detto ad Al Jazeera: “Dobbiamo rompere il brutale assedio che stiamo subendo. Vogliamo tornare nelle nostre terre occupate.”

Minori uccisi’

L’anno scorso la barriera è stata teatro di proteste di massa e di una grande carneficina in cui sono stati uccisi più di 260 palestinesi, soprattutto dal fuoco di cecchini. Secondo il ministero della Salute di Gaza circa altri 7000 sono stati colpiti e feriti.

L’associazione per i diritti Save the Children ha dichiarato che tra gli uccisi vi sono 50 minori. Altri 21 adolescenti hanno avuto le gambe amputate e molti altri sono stati resi disabili permanenti, ha detto il direttore regionale dell’associazione, Jeremy Stoner.

Giovedì, esprimendo profonda preoccupazione per la morte dei ragazzini palestinesi, Stoner ha detto: “Temiamo che oggi altri minorenni potrebbero essere feriti o uccisi.”

La tregua tra Hamas e Israele

L’anniversario della Grande Marcia del Ritorno cade a pochi giorni di distanza da un grave scoppio di violenze tra Israele e Hamas, che governa Gaza. L’Egitto ha cercato di mediare tra le due parti nel tentativo di frenare le violenze ed evitare il tipo di risposta letale da parte dell’esercito israeliano che ha accompagnato le precedenti proteste.

Harry Fawcett di Al Jazeera, citando il giornale al-Risalah legato a Hamas, ha detto che l’organizzazione ha raggiunto un accordo con Israele per ridurre le tensioni nella Striscia di Gaza.

Secondo il giornale al-Risalah, le concessioni israeliane comprendono l’aumento del finanziamento del Qatar da 15 a 40 milioni di dollari al mese per il pagamento dei salari; l’estensione della zona di pesca da 9 a 12 miglia nautiche; l’incremento della fornitura di elettricità da Israele a Gaza; l’approvazione di un importante progetto di desalinizzazione”, ha detto Fawcett, che scrive da una zona a est di Gaza City.

In cambio, Israele ha chiesto lo stop al lancio di razzi, come quello che lunedì ha distrutto la casa di una famiglia a nord di Tel Aviv, ferendo sette persone e scatenando una nuova escalation.”

Abdullatif al-Kanoo, un portavoce di Hamas, ha confermato questo accordo, dicendo che i mediatori egiziani “sono riusciti ad ottenere l’approvazione” di Israele all’alleggerimento delle restrizioni sul lavoro, la pesca, l’elettricità e gli aiuti dal Qatar.

Nei prossimi giorni verrà stabilito un calendario per l’attuazione di quanto è stato concordato”, ha detto ad Al-Jazeera.

Nel frattempo, alla vigilia delle proteste per l’anniversario, gli organizzatori hanno diffuso istruzioni ai manifestanti invitandoli a tenersi a distanza di sicurezza dai fucili israeliani, a seguire le indicazioni degli organizzatori sul campo, ad astenersi da azioni aggressive e a non bruciare copertoni, una mossa considerata un segnale che l’accordo mediato dall’Egitto potrebbe essere rispettato.

I funzionari della sicurezza di Hamas sul luogo della protesta sono stati visti indossare per la prima volta uniformi militari, mentre raccoglievano le gomme e le portavano via.

Sembra che siano qui per rafforzare l’accordo, per assicurare che nessuno dia fuoco a queste gomme”, ha detto Fawcett.

Israele, che ha inviato altre truppe e carri armati al confine, vuole anche la fine dei lanci degli aquiloni incendiari e la garanzia di calma vicino alla barriera.

Non vi è stato alcun commento da parte israeliana al presunto accordo.

Tra quanti anni le nostre vite saranno migliori?

Le proteste della Grande Marcia del Ritorno sono iniziate il 30 marzo dell’anno scorso dopo che le associazioni della società civile a Gaza hanno chiamato ad un’azione contro il durissimo assedio di 12 anni contro l’enclave.

Le agenzie umanitarie accusano l’assedio di aver impoverito Gaza, dove i tassi di povertà e di disoccupazione sono alti. Secondo le Nazioni Unite più del 90% dell’acqua non è potabile, mentre i due milioni di abitanti di Gaza ricevono meno di 12 ore di elettricità al giorno.

Il 30 marzo segna anche il Giorno della Terra – la commemorazione annuale della morte nel 1976 di sei palestinesi che protestavano contro la confisca della loro terra per costruire comunità ebraiche.

Entro un anno finirò la scuola. Mio padre è disoccupato, per cui non potrò andare all’università. Chi ne è responsabile? Israele”, ha detto il manifestante Mohammed Ali, di 16 anni. “Non so quanti anni ci vorranno prima che le nostre vite migliorino, ma continueremo (le proteste) fino a quando ci saranno l’occupazione e l’assedio”, ha detto all’agenzia di stampa Reuters. L’uso di forza letale da parte di Israele contro i manifestanti è stato censurato dalle Nazioni Unite e dalle associazioni per i diritti.

Un’indagine dell’ONU ha riscontrato che, mentre alcuni dimostranti hanno usato la violenza, la grande maggioranza era disarmata e pacifica. Essa afferma che le forze israeliane potrebbero essere incolpate di crimini di guerra per l’uso eccessivo della forza.

Tutti gli israeliani devono sapere che, se sarà necessaria una campagna [militare] complessiva, noi la condurremo con forza e in sicurezza e dopo aver esaurito tutte le altre opzioni”, ha detto Netanyahu. Anche Hamas è sotto pressione politica interna.

All’inizio del mese, invece di andare al confine, i manifestanti sono scesi in piazza contro gli aumenti dei prezzi e delle tasse. Le forze di sicurezza di Hamas hanno represso le manifestazioni con pestaggi e arresti.

Al centro di queste proteste c’era lo stesso senso di frustrazione che da un anno ha spinto migliaia di persone sul confine, settimana dopo settimana.

Rana Shubair e Maram Humaid hanno contribuito al reportage da Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La polizia israeliana aggredisce i fedeli e chiude il complesso di Al-Aqsa

12 marzo 2019, Al-Jazeera

Sono scoppiati disordini dopo che la polizia israeliana ha affermato che era stata lanciata una bomba incendiaria contro la sua postazione all’interno dell’area sacra

Una fonte ufficiale palestinese ha detto che forze israeliane hanno chiuso tutte le entrate nel conflittuale complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata, tra continui scontri con fedeli palestinesi. “Decine di soldati israeliani hanno fatto irruzione nel complesso di Al-Aqsa e aggredito alcune personalità religiose,” ha detto martedì in un comunicato Firas al-Dibs, portavoce dell’Autorità delle Dotazioni Religiose di Gerusalemme, un ente diretto dalla Giordania incaricato della supervisione dei luoghi musulmani e cristiani della città.

Secondo al-Dibs, il direttore della moschea di Al-Aqsa Omar Kiswani e Sheikh Wasef al-Bakri, il giudice supremo dei tribunali islamici di Gerusalemme attualmente in carica, sono stati tra le persone aggredite dalla polizia israeliana. Ha affermato che poliziotti che brandivano bastoni hanno attaccato decine di fedeli musulmani nei pressi della moschea di Omar [o Cupola della Roccia, ndt.], nel complesso di Al-Aqsa.

“Almeno cinque palestinesi sono stati fermati prima di essere arrestati per ulteriori accertamenti,” ha detto al-Dibs.

Informando da Gerusalemme est occupata, Harry Fawcett di Al Jazeera ha affermato che la polizia israeliana sostiene che “una bottiglia molotov è stata lanciata verso un edificio della polizia” all’interno del complesso.

“Abbiamo sentito fonti palestinesi all’interno del luogo sostenere che invece potrebbero essere stati fuochi d’artificio. Quello che è avvenuto in seguito sono stati scontri piuttosto prevedibili tra le forze di sicurezza israeliane e fedeli palestinesi,” ha detto Fawcett, aggiungendo che sono state chiuse porte all’interno della Città Vecchia.

Secondo l’ong palestinese “Ir Amim” [organizzazione israeliana che sostiene la convivenza tra ebrei e palestinesi a Gerusalemme, ndt.] almeno 10 palestinesi sono rimasti feriti durante gli scontri, dopo di che tutti i fedeli sono stati obbligati ad uscire dal sito.

Martedì “Ir Amim” ha scritto in un comunicato che “la polizia ha risposto con una forza eccessiva, buttando violentemente a terra una donna e spingendo con aggressività altre persone.”

“La risposta eccessivamente dura da parte della polizia israeliana può essere interpretata come una sfacciata affermazione dell’autorità israeliana sul complesso. Svuotare Al-Aqsa, chiuderne le porte e limitare l’accesso a tre importanti ingressi della Città Vecchia trasmette un chiaro messaggio di controllo unilaterale di Israele.”

L’ong ha avvertito che l’uso eccessivo della forza per minacciare lo status quo porterà a un ulteriore incremento delle tensioni nel sito.

Mentre la presidenza palestinese ha condannato l’escalation nel conflittuale luogo religioso, le autorità israeliane non hanno ancora fatto commenti.

Un comunicato pubblicato dall’agenzia di notizie palestinese WAFA dice che il presidente palestinese Mahmoud Abbas sta mantenendo “intensi contatti” con tutte le parti interessate nella speranza di disinnescare la situazione.

Abbas ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire ed ha accusato la polizia israeliana e i coloni di “violare sistematicamente la sacralità della moschea e di provocare la sensibilità dei musulmani.”

Lo scorso mese nella Gerusalemme occupata è montata la tensione quando la polizia israeliana ha chiuso la porta Al-Rahma del complesso di Al-Aqsa, situata nei pressi del muro orientale della Città vecchia, scatenando manifestazioni palestinesi.

Nelle settimane seguenti le autorità israeliane hanno vietato a decine di palestinesi, compresi funzionari religiosi, di entrare ad Al-Aqsa, il terzo luogo più sacro per l’Islam.

“Quella che era già una situazione tesa in seguito a una lotta di tre settimane per quest’area all’interno del complesso della moschea di Al-Aqsa, con questo ultimo incidente è ora precipitata,” ha detto Fawcett.

Israele ha occupato Gerusalemme est, dove si trova il complesso di Al-Aqsa, durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ha annesso tutta la città nel 1980 con un’iniziativa che non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come Israele è stato assolto per le violazioni dei diritti delle donne palestinesi

Yara Hawari

8 marzo 2019, Al Jazeera

Dagli accordi di Oslo sono stati fatti sistematici tentativi di de-politicizzare l’attivismo per i diritti delle donne in Palestina

Benché la Giornata Internazionale della Donna abbia le proprie radici nei movimenti di base rivoluzionari e anti-capitalisti delle donne, nel Sud del mondo la sua celebrazione è appannaggio di settori dell’ONU e delle Ong. L’occasione è spesso sfruttata per rafforzare certe narrazioni di sviluppo dei diritti delle donne e per raccogliere fondi per i progetti.

In Palestina quest’anno le agenzie ONU, varie organizzazioni internazionali e Ong locali hanno lanciato una campagna durata una settimana chiamata “I miei diritti, il nostro potere”, intesa a “sensibilizzare sui diritti umani fondamentali delle donne” e in particolare sulla violenza domestica. Si è concentrata su cinque aree di interesse: il diritto ad una vita senza violenza, il diritto ad avere giustizia, il diritto a chiedere aiuto, il diritto a pari opportunità e il diritto alla libertà di scelta.

Tuttavia nel messaggio della campagna gli organizzatori hanno fatto una palese omissione: non hanno menzionato l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza come il principale fattore che contribuisce alle violazioni dei diritti commesse contro le donne palestinesi. Le parole “occupazione” o “Israele” non si trovano da nessuna parte nel comunicato stampa e nei materiali della campagna.

Quindi, dovremmo credere che le donne palestinesi siano in grado di ottenere giustizia e una vita libera dalla violenza nel contesto di un continuo progetto israeliano di pulizia etnica e di cancellazione di una cultura?

Chiaramente questa omissione non è un errore o una svista, ma riflette piuttosto una tendenza evidente nel discorso della comunità internazionale di aiuti e donatori che parla di “problemi” e “barriere” nel campo dei diritti delle donne come se tutto ciò avvenisse in un vuoto politico.

In Palestina questa tendenza si è acuita dopo gli accordi di pace di Oslo, che sono serviti da catalizzatore della de-politicizzazione della Palestina. Venticinque anni fa Oslo introdusse una nuova cornice per la “pace” e la “costruzione dello Stato”, che non solo ha danneggiato il progetto di liberazione dei palestinesi, ma ha anche innescato una fondamentale trasformazione della società civile palestinese.

In base a questa nuova cornice, l’aiuto internazionale è stato convogliato in Palestina e utilizzato per de-politicizzare sistematicamente la società civile, rendendola dipendente da finanziamenti esterni e obbligandola a seguire l’agenda dei donatori stranieri.

Mentre questo processo di “ong-izzazione” ha smobilitato molti gruppi all’interno della società palestinese, le donne sono risultate particolarmente colpite. Anche le tendenze patriarcali all’interno delle istituzioni palestinesi hanno contribuito al processo di esclusione delle donne dalla sfera pubblica, compresa quella politica.

La de-politicizzazione delle donne è particolarmente evidente nell’uso del lessico successivo a Oslo sui diritti delle donne in Palestina. Le agenzie ONU e altre organizzazioni internazionali hanno intenzionalmente attribuito una definizione limitata a molti dei concetti riguardanti i diritti umani e l’attivismo. Un esempio è il termine “empowerment” [emancipazione, autoaffermazione, ndt.], che in apparenza sembra rivoluzionario, ma nel contesto dei progetti guidati dalle Ong e nel dibattito pubblico è quasi sempre limitato alla sfera socio-economica.

In pratica, il settore delle Ong non parla mai di emancipazione politica delle donne palestinesi, che potrebbe rafforzare la loro capacità di resistere alla violenza di genere e colonialista israeliana.

Dalla sua fondazione nel 1948 il regime israeliano ha costantemente e sistematicamente utilizzato l’oppressione di genere contro le donne palestinesi, in particolare contro quelle attive in politica.

La sua strategia include maltrattamenti, minacce di violenza e incarcerazione – quest’ultima è il modo più efficace di punire la politicizzazione.

Le donne palestinesi che sfidano attivamente l’occupazione israeliana e rifiutano di essere cooptate dal sistema politico ufficiale palestinese creato agli accordi di Oslo, come la deputata Khalida Jarrar [membro del parlamento dell’ANP e del gruppo della resistenza marxista FPLP, ndt.], che è stata in carcere per 20 mesi senza processo, e la poetessa Dareen Tartour, condannata a cinque mesi di prigione per aver scritto una poesia, sono presto diventate bersagli delle forze di sicurezza israeliane.

Gli interrogatori da parte di soldati o forze di sicurezza israeliani spesso includono molestie sessuali o minacce di violenza sessuale per fare pressione sulle donne e ragazze affinché firmino confessioni o diano informazioni.

Lo scorso anno un video filtrato clandestinamente ha mostrato l’adolescente palestinese Ahed Tamimi, arrestata per aver preso a schiaffi un soldato israeliano, sottoposta a maltrattamenti durante un interrogatorio.

Sfortunatamente le violazioni dei diritti delle donne palestinesi sono state accettate come una cosa della vita e quelli che dovrebbero garantire che questi diritti vengano rispettati sono diventati complici proprio delle loro violazioni.

Mentre le donne palestinesi dovrebbero essere messe nelle condizioni di combattere il patriarcato interno, soprattutto nella sfera privata, è indubitabile che la violenza di genere è intrinsecamente legata al regime israeliano che controlla la maggior parte degli aspetti della vita palestinese.

La comprensione del ruolo distruttivo che il colonialismo di insediamento israeliano gioca nelle vite delle donne palestinesi non assolve comunque la società palestinese nel suo complesso per il suo ruolo nell’oppressione delle donne.

L’incapacità a riconoscere come le strutture del potere colonialista e patriarcale si sovrappongano e siano al contempo complici nella persecuzione di donne e uomini palestinesi ha notevolmente limitato il progresso dei diritti delle donne in Palestina. In questo contesto faremmo bene a ricordarci che il femminismo radicale è stato fondato da donne di colore che hanno imposto una comprensione articolata e ricca di sfumature dell’oppressione femminile che è insita nel colonialismo, nelle strutture della gerarchia razziale, nella classe e nel capitalismo. È solo con questa consapevolezza in mente che possiamo sperare di smantellare l’oppressione delle donne in Palestina e nel resto del mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La strategia di Trump in Medio Oriente è destinata a fallire

Joe Macaron

28 febbraio 2019, Al Jazeera

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran sarà un disastro per gli USA e per i loro alleati arabi

Appena una settimana dopo aver partecipato a Varsavia all’inizio di questo mese a quella che è stata universalmente vista come una conferenza contro l’Iran, Jared Kushner, consigliere del presidente USA Donald Trump, ha intrapreso un viaggio diplomatico speciale in Medio Oriente per promuovere e cercare finanziamenti per il suo piano di pace per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Com’era prevedibile, nel suo giro nella regione ha portato con sé il rappresentante speciale USA per l’Iran Brian Hook.

L’incontro di Varsavia e il viaggio di Kushner in Medio Oriente riflettono quello che sembra essere un pilastro fondamentale della politica estera dell’amministrazione Trump, che lega il molto atteso “accordo del secolo” alla formazione di un’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran.

La Casa Bianca si aspetta che gli arabi firmino l’accordo di Kushner, normalizzino le relazioni con gli israeliani e lavorino con loro contro l’Iran. Questa è la ragione per cui, mentre molti hanno considerato un fallimento la conferenza di Varsavia, in quanto non ha convinto gli alleati europei a sostenere appieno le politiche USA contro il regime iraniano, l’amministrazione Trump l’ha vista come un successo, in quanto ha riunito allo stesso tavolo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e rappresentanti di vari Paesi arabi.

Tuttavia questa strategia piuttosto miope di politica estera per il Medio Oriente ignora importanti realtà sul terreno ed è, di conseguenza, destinata a fallire.

Un Iran spavaldo

Da quando nel gennaio 2017 è arrivato alla Casa Bianca, Trump ha fatto in modo di distruggere sistematicamente la politica messa a punto dal suo predecessore nei confronti dell’Iran.

Il presidente Barack Obama pensava che gli USA non dovessero scontrarsi con l’Iran per conto degli alleati arabi e ha cercato di coinvolgere l’Iran. La sua amministrazione ha accentuato la pressione attraverso sanzioni internazionali e al contempo ha spinto per il dialogo.

Tra il 2014 e il 2016 gli USA e l’Iran hanno tacitamente lavorato insieme per lottare contro la comune minaccia dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL o ISIS), appoggiando i governi in Iraq e in Libano mentre evitavano uno scontro in Siria. Il tentativo di coinvolgimento dell’Iran è culminato con il “Joint Comprehensive Plan of Action” [Piano Complessivo Comune di Azione] (JCPOA), che ovviamente non era gradito a Israele e all’Arabia Saudita.

Dopo che Trump ha preso il potere, si è ritirato dallo JCPOA ed ha di nuovo imposto pesanti sanzioni all’Iran, cercando di far pressione su Teheran perché faccia concessioni sul programma di missili balistici e sulle sue attività regionali. Ma finora l’escalation ha solo reso l’Iran più spavaldo.

Il regime iraniano ha ripetutamente chiarito che non ha intenzione di negoziare a queste condizioni. Recentemente il leader supremo iraniano Ali Khamenei ha affermato che per il suo regime parlare con gli USA nell’attuale contesto è come “andare in ginocchio davanti al nemico”.

Nonostante l’escalation dell’amministrazione Trump contro l’Iran, le regole di condotta dell’era Obama rimangono in vigore in Iraq, Siria e Libano, dove gli USA continuano ad evitare uno scontro diretto con le forze iraniane e i loro alleati.

Tuttavia a Teheran l’attuale guerra psicologica sta alimentando la paranoia, il che incrementa il rischio di un errore di calcolo. Se Washington e Teheran continuano a spingersi troppo oltre, i loro alleati ne pagheranno le conseguenze.

Un regime iraniano messo all’angolo potrebbe facilmente diventare un ostacolo per le politiche Usa in Medio Oriente. Potrebbe motivare le sue risorse a Gaza ad agire contro Israele o forzare la mano del governo iracheno o libanese per prendere l’iniziativa contro interessi USA.

Attività sovversive iraniane possono non solo indebolire gli alleati USA nella regione, ma anche sabotare i tentativi statunitensi di far progredire i colloqui tra palestinesi e israeliani.

Un traballante tentativo di normalizzazione tra arabi e israeliani

Trump ha anche rovesciato la tradizionale politica USA riguardo al processo di pace israelo-palestinese. La sua amministrazione ora sta spingendo per rompere un principio base della politica araba, che lega la normalizzazione con Israele a un equo accordo israelo-palestinese che riconosca uno Stato palestinese sostenibile, preveda un ritiro di Israele sui confini del 1967 e definisca lo status di Gerusalemme. Gli alleati arabi degli USA vogliono un accordo che rispetti queste esigenze fondamentali; in patria sarebbe difficile far accettare qualunque cosa meno di questo.

I dirigenti arabi continuano a sentirsi a disagio riguardo a una normalizzazione ufficiale con Israele, dato che l’opinione pubblica araba rimane sensibile all’idea che flirtino con Israele. Se i dirigenti arabi appoggiassero un accordo tra palestinesi e israeliani percepito come sbagliato potrebbero facilmente scoppiare rivolte popolari in tutto il mondo arabo.

Riconoscendo questo pericolo, il re saudita Salman ha recentemente ripreso da suo figlio, il principe Mohammed bin Salman, il dossier sulla Palestina e riproposto la posizione tradizionale di Ryad sulla questione palestinese. Questa posizione è stata espressa il 13 febbraio in un’intervista con il Canale 13 israeliano dall’ex-capo dell’intelligence saudita, il principe Turki bin Faisal al-Saud, che ha lasciato intendere che l’Arabia Saudita sta aspettando a braccia aperte Israele se e quando farà un giusto accordo con i palestinesi.

L’altro rischio che i leader arabi devono affrontare nell’intraprendere una normalizzazione prematura con Israele è che in cambio l’amministrazione Trump potrebbe non volere andare al di là delle parole e delle sanzioni per tenere a bada l’Iran nella regione.

Una palude palestinese

Tuttavia la questione palestinese rimane la sfida fondamentale per la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la costruzione di una coalizione contro l’Iran.

Jared Kushner ha imbastito un accordo di pace che dovrebbe essere reso pubblico in aprile dopo le elezioni politiche israeliane. Il cosiddetto “accordo del secolo” è probabilmente il primo tentativo di risolvere il conflitto di cui la parte palestinese non è stata informata o resa partecipe.

Ciò che è interessante in questo piano è il suo approccio alla politica palestinese. Dopo che Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, la politica dell’amministrazione Bush è stata di punire la Striscia bloccando ogni aiuto e al contempo assistere l’Autorità Nazionale Palestinese per mostrare come la Cisgiordania poteva prosperare rispettando le norme internazionali ed accettando negoziati con Israele.

Trump sta invertendo questo approccio, punendo l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania per aver rifiutato di accettare l’“accordo del secolo” dopo che lui ha spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.

Nel contempo la Casa Bianca sta corteggiando Hamas con finanziamenti per importanti progetti economici a Gaza, che, come l’atteggiamento dell’amministrazione Bush, incoraggiano le divisioni palestinesi invece di rafforzarne l’unità.

Trump ha bisogno di un fronte palestinese unito che approvi il piano di pace che suo genero sta proponendo, ma sia Fatah che Hamas hanno puntato sulla divisione tra Cisgiordania e Gaza e vedono la possibile riunificazione in base all’accordo come dannosa per i propri interessi.

Benché non tutte le condizioni dell’accordo siano state ancora divulgate, i dettagli già noti al pubblico indicano che non rispetteranno l’interesse superiore dei palestinesi.

Il 25 febbraio, in un’intervista per la rete televisiva Sky News Arabia degli Emirati, Kushner ha dichiarato: “Se puoi eliminare il confine e avere pace e meno timori del terrorismo, potresti avere un flusso più libero di prodotti, di persone, e ciò creerebbe molte opportunità.”

Ciò che questa dichiarazione criptica significa è che la debole economia palestinese verrà ancora più integrata in quella israeliana, rendendo i palestinesi ancora più dipendenti dallo Stato di Israele, che continuerà ad avere il totale controllo sulla sicurezza, e di conseguenza la possibilità di reprimere il dissenso politico palestinese.

Quindi Trump sta legando la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la deterrenza contro l’Iran a un accordo tra palestinesi e israeliani in termini che istituzionalizzerebbero il controllo israeliano sui territori palestinesi e avrebbe conseguenze disastrose per i palestinesi.

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana probabilmente creerà in futuro problemi ai dirigenti arabi. Potrebbe compromettere la deterrenza nei confronti di Teheran, rafforzando la popolarità del regime iraniano nella regione e delegittimando ulteriormente i già deboli regimi arabi.

In questo senso la strategia dell’amministrazione Trump di legare un accordo israelo-palestinese sbagliato a un’alleanza tra arabi e israeliani come deterrente nei confronti dell’Iran pregiudica questi due obiettivi USA in Medio Oriente e potrebbe persino ritorcersi contro gli alleati e gli interessi USA nella regione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Joe Macaron

Joe Macaron è borsista presso il Centro Arabo di Washington DC [centro di ricerca USA sui Paesi arabi, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Amira Hass: perchè “La fabbrica del consenso” di Chomsky è ancora importante

Al-Jazeera – 22 dicembre 2018

La giornalista israeliana che informa su Gaza e sulla Cisgiordania condivide le sue idee su “La fabbrica del consenso” di Chomsky

Listening Post [“Postazione d’ascolto”, programma della rete televisiva Al-Jazeera] ha intervistato la giornalista israeliana Amira Hass sulla sua opinione riguardo al libro di Noam Chomsky “La fabbrica del consenso”. Hass ha passato buona parte della sua carriera professionale vivendo ed informando da Gaza e dalla Cisgiordania –una dei pochissimi giornalisti israeliani ad averlo fatto. Qui di seguito la trascrizione completa della nostra intervista con lei.

The Listening Post: “La popolazione in generale non sa cosa stia avvenendo e non sa neppure cosa non sa.” Questa è la sintesi concisa di Noam Chomsky sulla comprensione dell’opinione pubblica in generale riguardo a quali decisioni vengano prese in suo nome. Quanto le sembra vero questo oggi?

Amira Hass: È un’affermazione molto umanistica e ottimistica, la convinzione che la gente voglia avere accesso alle informazioni e con l’accesso alle informazioni possa agire, possa cambiare. Posso dire che questo tipo di approccio ha guidato molte persone come me.

In ebraico le parole comprensione, informazione e consapevolezza hanno tutte la stessa radice. È così che ho iniziato a lavorare a Gaza all’inizio degli anni ’90 ed ho scritto di Gaza, pensando che l’opinione pubblica israeliana non sapesse niente dell’occupazione e di cosa ciò significasse, della vita dei gazawi.

Mi aspettavo che i miei reportage raggiungessero altri e cambiassero la consapevolezza. Ho scoperto molto presto che non era così.

Lo stesso Noam Chomsky ha detto che quando scrive delle politiche di Israele si basa in buona misura su informazioni pubblicate dalla stampa israeliana, che non ha mai effettivamente informato sulla gravità delle politiche israeliane e della repressione.

Fino agli accordi di Oslo in Israele c’era una certa visibilità persino nei media più importanti. Ma ciò non ha cambiato la consapevolezza della gente. Ed è molto peggio oggi, quando nell’era di internet abbiamo una grande quantità di mezzi di comunicazione. Queste informazioni sono in circolazione – da parte di attivisti, organizzazioni per i diritti umani -, è tutto alla luce del sole. Ma la gente non le va a leggere. Vi hanno accesso ma scelgono di non andarle a vedere.

The Listening Post: “Chomsky ha sostenuto che normalmente i giornalisti non sono tenuti sotto controllo attraverso interventi dall’alto, ma dalla “selezione di personale che pensa quello che deve e dall’interiorizzazione, da parte dei redattori e dei giornalisti sul campo, delle priorità e delle definizioni di quello su cui vale la pena informare che sia conforme alla politica istituzionale.” Nella sua esperienza, come succede questo quando si informa sull’occupazione israeliana?

Hass: Ciò è quanto percepisce chi scrive. Ogni giornalista capisce molto rapidamente che c’è una serie di filtri mentre scrivi il tuo articolo. Possono essere problemi molto innocui come la lunghezza, il tempo, le scadenze. Hai a disposizione 300 parole. No, 400.

Ma qualcuno decide quante parole avrai per ogni argomento. Qualcuno deciderà se sarà in prima pagina o da qualche parte in fondo al giornale. O alla fine delle notizie lette alla radio o alla televisione.

Quindi, chi decide sulla gerarchia delle notizie? Cos’è importante? Cosa non lo è? Chi decide cosa sia giornalismo investigativo e cosa non lo sia?

Molto spesso mi rendo conto che se hai un’informazione ufficiale, quello viene chiamato giornalismo investigativo. Ma se tu in realtà hai informazioni direttamente dalla gente – diciamo sui pericoli di inquinamento dell’acqua a Gaza – ciò non è visto come qualcosa di serio come quando [la notizia] arriva da una fonte ufficiale.

The Listening Post: “La censura è in buona misura auto-censura” – gli inviati accettano e interiorizzano i limiti imposti dal mercato e dal potere esercitato su di loro. Ci parli di quando si è resa conto che ciò era vero e come questa consapevolezza ha influito su di lei, l’ha ispirata, l’ha frustrata.

Hass: In Israele i giornalisti non vivono ancora soggetti a una censura di Stato. C’è una censura militare ma quella non ha mai seriamente influito sul mio lavoro. Ma c’è la socializzazione. Lo si vede nei principali mezzi di comunicazione israeliani che dedicano sempre meno spazio e attenzione alla situazione dell’occupazione.

Ciò è andato peggiorando dagli accordi di Oslo. Hanno consentito alla gente di pensare che l’occupazione non esistesse. ‘Oh, ora hanno gli accordi. C’è un governo palestinese. Non c’è occupazione. Di fatto, c’è solo il terrorismo palestinese contro di noi.’ Perciò le persone hanno ancor meno interesse ad accedere a informazioni disponibili e la maggior parte dei mass media israeliani ascolta il pubblico, dà ascolto al loro desiderio di non sapere.

The Listening Post: Nel suo libro Chomsky afferma che “la ragione dell’esistenza dei mezzi di informazione è inculcare e difendere l’agenda economica, sociale e politica di gruppi privilegiati che dominano la società nazionale e lo Stato,” e lo fanno attraverso la selezione degli argomenti, la definizione dei problemi, il filtro delle informazioni e mantenendo la discussione all’interno “dei confini del consentito” nei media. Ci può parlare dello scontro con i “confini del consentito” nel contesto in cui lavora?

Hass: Sono fortunata per aver lavorato in un giornale israeliano il cui editore e proprietario è liberale nel vero senso della parola ed è anche decisamente contrario all’occupazione israeliana. Perciò ho la libertà che penso che non hanno i miei colleghi che informano su questo in altri giornali e in altri mezzi di comunicazione, che potrebbero anche essere contrari alle politiche israeliane.

Credo che, venendo dalla sinistra, dalla mia famiglia, dal mio contesto, mi sono abituata ad essere respinta. Ma ho insistito e sono anche fortunata perché c’è una comunità molto importante, non molto grande ma molto decisa, di attivisti anche israeliani contro l’occupazione e contro le politiche israeliane in generale, politiche israeliane colonialiste – forse questo è un termine migliore di occupazione.

The Listening Post: Sono passati trent’anni dalla pubblicazione di “La fabbrica del consenso”. Perché oggi è ancora importante?

Hass: Sono importanti, il libro ed il concetto sono importanti perché offrono ad ogni giornalista una sorta di faro. Sono importanti perché vediamo come nel corso degli anni i magnati hanno preso sempre più il controllo di sempre più mezzi di comunicazione, di imprese e piattaforme mediatiche.

Notizie che sono considerate degne di essere stampate non sono necessariamente quelle che sono positive per la gente e per l’opinione pubblica. Perciò il libro fa appello allo scetticismo delle persone e ciò è sempre importante. Tuttavia, come ho detto prima, oggi il problema è che la gente non è interessata a quello che non serve immediatamente ai suoi interessi. E questa è una constatazione molto triste.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I palestinesi lottano contro lo sfratto dalle case di Silwan, Gerusalemme est

Mersiha Gadzo

7 dicembre 2018 Al Jazeera

L’occupazione di Batan al-Hawa a Gerusalemme Est da parte dei coloni è “il più esteso processo di espulsione” degli ultimi anni

Batan al-Hawa, Gerusalemme est occupata – Nel corso degli anni, i coloni israeliani hanno continuato ad offrire milioni di dollari a Zuheir Rajabi e ai suoi vicini per le loro modeste case accatastate sul pendio di Silwan a Batan al-Hawa, un quartiere nella Gerusalemme Est occupata.

Le case si trovano in quello che è noto come il Bacino Storico della Città Vecchia, in prossimità della sacra Moschea di Al-Aqsa, ciò che le rende possedimenti preziosi.

Un colono ebreo una volta offrì a Rajabi un assegno in bianco per la sua casa, chiedendogli di scrivere qualsiasi cifra volesse, da 3 a 30 milioni di shekel (da 800.000 a 8 milioni di dollari).

Ma per Rajabi e gli 700 altri residenti del quartiere – ora minacciati di sfratto – nessuna somma di denaro basterebbe a farli lasciare le loro case.

“Pensavano che in 30 giorni le persone avrebbero abbandonato le loro case”, ha detto Rajabi, dal terrazzo sul tetto del Centro di Comunità del quartiere, che domina la valle.

“La gente qui è molto semplice; hanno una cosa sola, l’onore. Non ci importa di vivere in povertà o in un ambiente malsano, non possiamo sopportare di perdere il nostro onore”, ha detto Rajabi, che è anche il portavoce del comitato Batan al-Hawa.

Gran parte dei residenti di Batan al-Hawa vi abita da oltre 70 anni, molti dopo essere stati espulsi dalle loro ataviche case quando si stava costituendo Israele.

I residenti ora affrontano un’altra espulsione, da parte dell’associazione di coloni ebrei Ateret Cohanim, che sta cercando di lanciare quella che Ir Amim, una ONG israeliana, definisce come la più grande occupazione di quartieri palestinesi a Gerusalemme Est da quando Israele l’ha occupata nella guerra arabo-israeliana del 1967.

La giudaizzazione di Gerusalemme Est

Ateret Cohanim, che ha come obiettivo la giudaizzazione di Gerusalemme est, sostiene che le case di Batan al-Hawa furono costruite su un terreno di proprietà del ‘Jewish Benvenisti Trust’ [cartello religioso ebraico, ndtr.] nel XIX secolo, che lo adibiva all’insediamento in zona degli ebrei yemeniti.

Nel 2002, il Ministero della Giustizia israeliano ha emesso un atto di proprietà del terreno, circa 5,5 dunams (1,4 acri), a favore del Benvenisti Trust, senza informarne i residenti. A quel punto, Ateret Cohanim ha assunto il controllo del Trust.

L’atto è stato utilizzato come fondamento per gli avvisi di sfratto ai residenti, come quello ricevuto dalla famiglia Rajabi nel 2015, che disponeva che le sette famiglie che abitano in quella casa se ne andassero.

Nel giugno di quest’anno, oltre un centinaio di residenti palestinesi in lotta contro gli sfratti ha presentato una petizione, sostenendo che il Trust Benvenisti possedeva solo gli edifici e non il terreno su cui si trovavano.

Dal momento che da allora gli edifici originali erano stati distrutti e ricostruiti, il Trust non poteva rivendicare la terra, sostenevano i residenti.

Lo stesso mese, il governo israeliano ha ammesso che il Ministero della Giustizia non aveva indagato sul Trust prima di emettere l’atto di proprietà.

Tuttavia, il mese scorso l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto l’appello dei residenti di annullare la decisione del 2002, consentendo in effetti ad Ateret Cohanim di proseguire con l’occupazione di Batan al-Hawa.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha detto che la sentenza della Corte ha spianato la via alla pulizia etnica dei palestinesi di Silwan.

“La sentenza dimostra, ancora una volta, che l’Alta Corte israeliana dà il suo beneplacito a quasi tutte le violazioni dei diritti dei palestinesi da parte delle autorità israeliane”.

La “piovra” di Gerusalemme est

Ad oggi, Ateret Cohanim ha sfrattato 17 famiglie e possiede sei edifici nell’area.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, il 45% di tutte le famiglie palestinesi minacciate di sfratto a Gerusalemme Est vive a Batan al-Hawa.

B’Tselem lo ha definito “il più esteso processo di espulsione” in città degli ultimi anni.

Rajabi ha detto che suo padre ha comprato il loro appezzamento di terra nel 1966 dopo che erano stati espulsi dai quartieri ebraici della Città Vecchia, senza alcun risarcimento.

“Sono nato qui, sono cresciuto qui, mi sono sposato qui, ho vissuto qui tutta la mia vita”, ha detto.

Amareggiato dalla sentenza della Corte, ha detto che la società israeliana si sta spostando verso la “estrema destra”.

Rajabi paragona Ateret Cohanim a una piovra i cui tentacoli stanno attanagliando la Città Vecchia e Silwan.

“Ateret Cohanim è un’organizzazione potente, non solo politicamente. Ha anche soldi”, ha detto Rajabi.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, l’organizzazione usa diverse tattiche per costringere i palestinesi a vendere le loro proprietà, tra cui minacce a carattere sessuale e ricatti di vario tipo – come minacciare di rendere pubblica una vendita concordata in segreto così che il venditore, temendo per la propria vita, sarebbe costretto ad abbassare significativamente il prezzo per evitare l’ira della propria comunità.

[L’ONG israeliana] Ir Amim dice che il governo israeliano è stato direttamente coinvolto nell’agevolare gli insediamenti privati illegali nella città vecchia e nei quartieri palestinesi circostanti.

“Il governo ha agito tramite il Custode Generale e il Registro dei Trust (entrambi sotto il Ministero della Giustizia) per agevolare il sequestro di Batan al-Hawa, aumentando il budget per la sicurezza del 119 % per il periodo 2009-2016 in modo da garantire la protezione degli estremisti ebrei che si insediano nel cuore dei quartieri palestinesi a Gerusalemme Est”, ha affermato la ONG.

Consolidare il controllo ebraico

Secondo un rapporto di Ir Amim, l’obiettivo politico di gruppi come Ateret Cohanim è consolidare il controllo ebraico a Gerusalemme Est e contrastare la soluzione dei due stati.

Yacoub al-Rajabi, membro del comitato di Batan al-Hawa, ha affermato che i coloni stanno cercando di acquistare la sua casa dal 2003.

Un anno e mezzo fa, Ateret Cohanim gli ha offerto 2 milioni di dollari per vendere la sua casa e abbandonare la causa in tribunale, ma senza risultato.

“Se ci sfrattano dalle nostre case, costruiremo tende vicino alle case, non andremo da nessuna parte, ci rifiutiamo di andare altrove, rifiutiamo di essere trasferiti [per la terza volta]”, ha detto Yacoub.

Ha descritto il quartiere come una prigione dove i residenti si sentono intrappolati e sono regolarmente attaccati da coloni, polizia, esercito e istituzioni governative israeliane per spingerli ad andarsene.

Dice che, ad ogni festa ebraica, i residenti non possono lasciare le loro case e per ordine militare i bambini non possono andare a scuola.

“Non abbiamo altro che la nostra risolutezza. Cercheremo di difendere noi stessi e i nostri diritti … Abbiamo la proprietà di questa terra ed è nostra per legge”, ha detto.

L’ufficio di Rajabi si trova nel Centro della comunità costruito per i bambini – l’unico posto nel quartiere dove i bambini possano giocare in sicurezza. In un angolo del suo ufficio, uno schermo mostra i filmati dalle telecamere a circuito chiuso installate all’esterno.

Dall’altra parte della strada, una decina di telecamere controllano la sua casa. Le ha fatte installare per documentare gli attacchi dei coloni o delle autorità israeliane, dopo che suo padre è morto per l’inalazione di gas lacrimogeni sparati dalla polizia.

Rajabi afferma che le telecamere sono state estremamente utili a smentire le false affermazioni dei coloni e delle autorità israeliane.

Il destino delle loro case è ora presso la Pretura di Gerusalemme, che deve decidere se il Trust Benvenisti possiede solo gli edifici o anche la terra.

Ma Yacoub ha detto che c’è poca speranza che la giustizia possa essere difesa dai tribunali israeliani.

“Persino durante l’udienza la stessa giudice ha detto che ci sono alcuni problemi legali nel verdetto del tribunale”, ha detto Yacoub, aggiungendo che i residenti cercheranno con tutti i mezzi di rimanere nelle loro case, anche portando il caso alla Corte Penale Internazionale.

“Questa [sentenza del tribunale] non ci spezzerà, continueremo a lottare per i nostri diritti, continueremo a lottare per la nostra proprietà sulla terra e sulle nostre case”, ha affermato.

(traduzione di Luciana Galliano)