Come “colonie archeologiche” stanno distruggendo case palestinesi

Mersiha Gadzo

 8 luglio 2019 – Al Jazeera

Secondo una Ong, Israele sta creando una “realtà storica immaginaria” con scavi di tunnel nella Gerusalemme est occupata.

Fayyad Abu Rmeleh, 60 anni, teme che un giorno il pavimento e il cortile della sua casa crollino. Ogni giorno, dice, dalla mattina fino al tardo pomeriggio, la famiglia sente scavare e trivellare tunnel sotto l’edificio.

Gli scavi condotti dalle autorità israeliane sono iniziati per la prima volta nel 2000, ma è stato solo cinque anni fa che loro hanno iniziato a notare danni alla casa.

“Sta mettendo in pericolo le nostre vite,” dice Abu Rmeleh ad Al Jazeera. “Se ti guardi intorno trovi nuove crepe. Non sappiamo quanti tunnel ci siano sotto la nostra casa, ma crediamo che siano almeno tre.”

I cinquanta membri della famiglia Abu Rmeleh vivono nel quartiere Wadi Hilweh di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, pubblicizzato come l’attrazione turistica della “Città di Davide”, dove secondo alcuni israeliani il re Davide biblico costruì l’“originaria città di Gerusalemme”, circa 3000 anni fa.

Sotto la loro casa le autorità israeliane hanno scavato tunnel, cercando le tracce dell’epoca del Secondo Tempio.

Nella sua casa si sono formate lunghe crepe irregolari in ogni direzione – sulle scale, vicino alle finestre in bagno e in sala, mentre in certi punti si sono staccati dal muro dei calcinacci.

Fuori di casa una crepa lunga un metro e mezzo si snoda sul terreno.

Ma la casa di suo nipote, che si trova nello stesso edificio, è stata ancora più danneggiata. All’inizio del 2018 è stato obbligato ad andarsene con la moglie e i cinque figli, in quanto il terreno ha ceduto e può a malapena sostenere i muri.

“Ho sempre paura, sono sempre preoccupato. Chiedo ai bambini di non giocare molto nel cortile o di non correre troppo, in quanto il pavimento potrebbe crollare in qualunque momento,” dice Umm Jihad, la moglie di Abu Rmeleh.

Da anni gli abitanti palestinesi di Silwan sono allarmati dai danni che le loro case hanno subito a causa degli scavi nel sottosuolo.

La scorsa settimana le autorità israeliane hanno inaugurato il tunnel scavato da poco, “il Cammino dei Pellegrini”, che si estende da Wadi Hilweh al Muro del Pianto, appena fuori dal complesso di Al Aqsa nella Città Vecchia della Gerusalemme est occupata.

Fonti ufficiali israeliane – compresi membri dell’organizzazione dei coloni “Elad”, che finanzia gli scavi e gestisce il sito – affermano che la strada era percorsa dai pellegrini ebrei verso il Secondo Tempio, che credono si trovasse dove ora c’è il complesso di Al Aqsa.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha condannato la presenza di funzionari USA all’inaugurazione, definendo l’avvenimento come parte della “ebreizzazione” di Gerusalemme.

Il consigliere della Casa Bianca Jason Greenblatt ha risposto in un tweet che la protesta è “ridicola”, aggiungendo: “Non possiamo ‘ebreizzare’ quello che la storia/archeologia mostrano. Possiamo attestarlo e voi potete smettere di fare finta che non sia vero! La pace può essere costruita solo sulla verità.”

Cattiva archeologia”

Mentre Greenblatt e membri di “Elad” sono certi che il nuovo tunnel servisse come cammino dei pellegrini verso il Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono, come ha notato in un articolo Yonathan Mizrachi, che vive a Gerusalemme.

Mizrachi, direttore dell’Ong israeliana “Emek Shaveh”, dice ad Al Jazeera che i tunnel che Israele ha scavato dentro e attorno alla Città Vecchia e a Silwan sono “problematici”.

Finora non è stato pubblicato nessun articolo accademico o scientifico sui tunnel, né è stato pubblicato alcun dato su quello che è stato scoperto. Secondo “Emek Shaveh”, riguardo al “Cammino dei Pellegrini” non ci sono certezze relative alla datazione del canale di drenaggio.

Oltretutto i tunnel sono stati scavati orizzontalmente, rompendo in pratica con il metodo di scavo verticale dalla superficie in giù accettato da un secolo, secondo Mizrachi il metodo utilizzato dagli archeologi in tutto il mondo. Le informazioni ottenute da scavi orizzontali sono quasi senza alcun valore.

“Quando scavi orizzontalmente, non puoi capire esattamente come i vari periodi si sono sviluppati nel sottosuolo, non capisci correttamente quello che trovi perché lo vedi da una sezione laterale, non dall’alto,” dice Mizrachi.

“Non è il modo di fare archeologia. Quando scavi orizzontalmente commetti fin dall’inizio un errore.” In precedenza due importanti funzionari dell’Autorità Israeliana delle Antichità, Jon Seligman e Gideon Avni, avevano criticato l’escavazione dei tunnel, affermando che, contrariamente alla prassi accettata, è “cattiva archeologia” e “le autorità non dovrebbero essere orgogliose di questi scavi.”

Realtà storica immaginaria”

L’ultima inaugurazione è emblematica del più complessivo problema: ai visitatori dei luoghi archeologici accompagnati nella Gerusalemme est occupata viene detto che gli scavi sono esclusivamente relativi alla storia ebraica, ignorando i diversi capitoli multiculturali della storia di Gerusalemme, come i periodi bizantino e omayyade.

“La gente della fondazione “Elad” ha creato una realtà storica immaginaria fondata sulle sue convinzioni religiose e sui suoi obiettivi nazionalisti piuttosto che su ritrovamenti archeologici e altre prove storiche,” ha osservato Emek Shaveh in un suo rapporto del 2017.

Per esempio, secondo Emek Shaveh presso i famosi tunnel del Muro del Pianto resti di periodi non relativi alla storia ebraica rimangono per lo più ignorati dai visitatori, nonostante gli archeologi concordino sul fatto che la maggior parte dei reperti sia successiva alla distruzione del Secondo Tempio.

In realtà la maggior parte degli scavi presso i tunnel del Muro del Pianto sono al di sotto di strati che sono totalmente musulmani, strutture dei Mamelucchi del XIV° e XV° secolo, nota Mizrachi.

Eppure quello che viene raccontato ai visitatori si concentra quasi esclusivamente sulla storia del Secondo Tempio. Uno degli spazi più vasti scavati nei tunnel del Muro del Pianto è un hammam (bagno turco) del periodo mamelucco, nel XIV° secolo.

Eppure è stato convertito in un’esposizione dell’eredità ebraica, dedicato a raccontare la storia del pellegrinaggio degli ebrei a Gerusalemme, “ignorando quindi completamente il significato storico del sito in cui si trova”, ha scritto Emek Shaveh.

Non ci sono indicazioni per fare in modo che il visitatore sappia che si tratta di una struttura mamelucca o che è stata costruita dal governatore di Damasco, Sayf al-Din Tankaz, responsabile di alcuni degli edifici più considerevoli del tempo, ha scritto Mizrachi in un articolo.

Allo stesso modo nel 2012 il governo israeliano ha deciso di progettare un Centro Biblico all’ingresso di Silwan, che avrebbe presentato storie bibliche e la loro importanza per gli israeliani.

Eppure, secondo Emek Shaveh, nessun resto significativo di periodi biblici è stato scoperto in quel luogo.

A Silwan continuano gli scavi sotto le case palestinesi per trovare prove storiche di re Davide per pubblicizzarla come la “Città di Davide”, nonostante il fatto che gli archeologi mettano in discussione le testimonianze di un regno nel X° secolo a.C.

“C’è un dibattito molto acceso tra gli archeologi su quanto avvenne a Gerusalemme nel X° secolo a.C., il periodo che intendo come l’epoca di Davide e del regno di Salomone,” dice Mizrachi.

“Le testimonianze archeologiche sono molto poche e non ci forniscono il quadro di una vera e propria città, né assolutamente di una città vasta, grande, importante.

“Ci sono stati 150 anni di scavi (alla ricerca della città di Davide), ci sono certamente ancora molte testimonianze mancanti riguardo al tempo di Davide e Salomone. Questo è sicuramente un problema.”

Colonia archeologica”

Mizrachi afferma che gli scavi del tunnel fanno “tutti parte di un progetto politico”.

“Sfortunatamente Israele sta utilizzando questi tunnel mascherati da scavi archeologici, ma in realtà ciò fa parte dell’obiettivo politico di impedire che Gerusalemme rientri in qualunque soluzione politica,” afferma Mizrachi. “Pensiamo che sia un’altra forma di colonizzazione. È una colonia senza persone, ma si tratta di una colonia archeologica. Non è meno problematica, ma persino di più, rispetto ad altre colonie.”

Riguardo alla famiglia Abu Rmeleh, pensa che la sua vita sia in pericolo ma non sa a chi rivolgersi per essere aiutata.

Oltre alle crepe che il loro edificio ha subito, nella casa del nipote hanno anche trovato un buco che porta ai tunnel.

“Lo abbiamo coperto con questo pezzo di legno e qualche pietra perché temiamo quello che potrebbe uscire da quel buco,” dice Abu Rmeleh.

In marzo l’agenzia di notizie Ma’an ha informato che a Silwan un campo giochi è crollato in seguito a 12 anni di scavi sotterranei.

“La cosa più importante nella vita di una persona è vivere in sicurezza e con stabilità. Una casa dovrebbe essere il luogo in cui ci possiamo sentire (sicuri), ma non è il nostro caso,” afferma Abu Rmeleh, aggiungendo che continueranno a vivere nell’edificio nonostante la sua fragilità.

“Questa casa vuol dire tutto per un anziano come me…Il legame tra me e la casa è come quello tra padre e figlio,” dice Abu Rmeleh.

Sull’autrice

Mersiha Gadzo è una giornalista e produttrice in rete di Al Jazeera in inglese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I rifugiati palestinesi e il ‘monologo del secolo’

Lorenzo Kamel

24 giugno 2019 – Al Jazeera

Ovvero, perché l’analogia tra l’espulsione dei palestinesi e l’‘esodo’ degli ebrei dai Paesi arabi è fuorviante

Nel 1948 circa 450 villaggi palestinesi vennero rasi al suolo dalle forze israeliane e circa 770.000 persone – compresi circa 20.000 ebrei cacciati da Hebron, Gerusalemme, Jenin e Gaza dalle milizie arabe – furono espulsi nell’arco di pochi giorni e poi venne loro negato il ritorno con la forza. Alcuni di loro fuggirono per paura, spesso dopo aver assistito al tragico destino dei loro parenti e amici.

Un caso emblematico fu l’espulsione di massa di palestinesi dalle città di Lydda e Ramle nel luglio 1948, che rappresentarono un decimo di tutto l’esodo arabo-palestinese. La maggioranza dei 50.000-70.000 palestinesi che vennero cacciati dalle due città lo furono in seguito a un ordine ufficiale di espulsione firmato dall’allora comandante della brigata Harel, Yitzhak Rabin: “Gli abitanti di Lydda,” chiarì Rabin, “devono essere espulsi rapidamente senza badare all’età.” Molte centinaia di loro morirono durante l’esodo per lo sfinimento e la disidratazione.

Oltre 70 anni dopo è diventato sempre più comune imbattersi in analogie tra i rifugiati palestinesi come quelli di Lydda e Ramle e il “simultaneo sradicamento” di ebrei che vivevano nei Paesi arabi. Il vice ministro israeliano delle Finanze Yitzhak Cohen, per esempio, ha detto che “il problema degli ebrei espulsi è uguale al problema dei rifugiati palestinesi, se non maggiore.”

L’analogia, che in primo luogo intende eliminare il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace, è in genere presentata nei seguenti termini: a causa del “rifiuto arabo” del piano delle Nazioni Unite del 1947, scoppiò un conflitto e 770.000 palestinesi “fuggirono” da quello che oggi è Israele”; allo stesso tempo 800.000 ebrei che vivevano nei Paesi arabi dovettero affrontare un’“espulsione di massa”; quindi ci fu uno “scambio di popolazione” tra “rifugiati arabi ed ebrei.” I palestinesi dovrebbero quindi accettare questa “reciprocità” e rinunciare alle loro richieste di tornare e/o di indennizzi.

Ma questo tentativo di equivalenza morale è fuorviante. Palestinesi ed ebrei scapparono dalle proprie case in contesti diversi e i primi non possono essere accusati del destino dei secondi. La complessa storia dei rifugiati palestinesi non dovrebbe essere ridotta a una semplice analogia su basi non dimostrate.

Chi ha rifiutato cosa?

Una pletora di osservatori e studiosi ha legato l’inizio del problema dei rifugiati palestinesi, e più in generale il conflitto arabo-israeliano, al “rifiuto arabo” della partizione della Palestina da parte dell’ONU nel 1947. Mentre apparentemente questa affermazione può avere senso, la realtà di chi rifiutò cosa negli anni ’40 è più complicata di così.

Infatti, come ha evidenziato il defunto giornalista e attivista israeliano Uri Avnery, se ai palestinesi “fosse stato chiesto, probabilmente avrebbero rifiutato la partizione, dato che – secondo loro – concedeva una gran parte della loro patria storica a stranieri.” Tanto più, ha notato, “in quanto agli ebrei, che all’epoca rappresentavano un terzo della popolazione, venne destinato il 55% del territorio – ed anche lì gli arabi costituivano il 40% della popolazione.”

Ma dalla prospettiva degli arabo-palestinesi, che all’inizio del secolo costituivano circa il 90% della popolazione, il 1947-48 non segnò l’inizio della lotta, ma coincise piuttosto con il capitolo finale di una guerra che era iniziata con alcuni leader sionisti che nei primi anni del XX° secolo avevano adottato politiche e strategie di rifiuto.

L’inizio del conflitto può essere fissato al 1907, quando l’ottavo congresso sionista creò un “ufficio della Palestina” a Giaffa, sotto la direzione del leader sionista Arthur Ruppin, il cui principale obiettivo era – con le sue stesse parole – “la creazione di un contesto ebraico e di un’economia ebraica chiusi, in cui produttori, consumatori e intermediari debbano essere tutti ebrei.” In effetti il “rifiuto” era presente con particolare rilievo nella mentalità di Ruppin.

L’obiettivo di un’“economia ebraica chiusa” venne parzialmente messo in pratica dal 1904 in poi dai dirigenti della seconda e terza aliyot (ondate di immigrazione ebraica in Palestina) attraverso politiche come la kibbush ha’avoda (conquista del lavoro) e la pratica dell’ avodah ivrit (lavoro ebraico, o l’idea che solo i lavoratori ebrei dovessero lavorare terra ebraica).

Benché entrambe fossero guidate dalla necessità di maggiori opportunità di lavoro per i nuovi immigrati, diedero come risultato la creazione di un sistema di esclusione che bloccò fin dall’inizio, in primo luogo a livello ideologico, qualunque potenziale integrazione con la popolazione araba locale.

Alcuni ricercatori hanno sottolineato che allo stesso modo la popolazione araba tendeva a evitare di assumere coloni ebrei. Ciò, tuttavia, non tiene in alcun conto il fatto che gli arabi avevano solo un interesse molto limitato ad assumere una minoranza di nuovi immigrati che avevano una molto minore esperienza agricola e non parlavano la lingua utilizzata dal resto della popolazione locale. Il loro rifiuto dei lavoratori ebrei non faceva parte di una campagna politica organizzata.

Bisognerebbe anche notare che il “sistema di esclusione” e le due strutture sociali e politiche parallele che innescarono colpirono altre questioni fondamentali, quali la terra e le sue risorse.

Per esempio il Fondo Nazionale Ebraico (KKL) venne fondato con il compito di comprare terre in Palestina (riuscì a comprare i nove decimi della terra acquistata in Palestina da proprietari sionisti), mentre vietava la vendita di queste nuove aree acquisite a non ebrei.

Le aree del KKL vennero gestite in modo discriminatorio rispetto alla popolazione araba. I contadini del KKL che venivano scoperti ad assumere lavoratori non ebrei erano soggetti a multe e/o espulsioni. Tali politiche erano effettivamente allarmanti, soprattutto in considerazione dell’ obiettivo perseguito, che il futuro primo presidente dello Stato di Israele, Chaim Weizmann, sottolineò in una lettera inviata a sua moglie nel 1907: “Se i nostri capitalisti ebrei, cioè solo i capitalisti sionisti, dovessero investire i loro capitali, anche solo in parte, in Palestina, non ci sono dubbi che l’arteria vitale della Palestina – tutta la fascia costiera – sarebbe in mani ebraiche entro venticinque anni (…) L’arabo conserva il suo attaccamento primitivo alla terra, l’istinto del suolo è forte in lui, ed essendo costantemente impiegato in esso c’è il pericolo che possa sentirsi indispensabile, con un diritto morale su di esso.”

Tutto ciò conferma ulteriormente che la tendenza a collegare il “rifiuto arabo” alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi ignora buona parte della storia e non può che favorire una comprensione limitata di una questione molto più complessa.

Rapporti arabo – ebraici

Le politiche di rifiuto ebbero un effetto estremamente distruttivo sui rapporti intercomunitari in Palestina. Una serie di fonti primarie prodotte da attori locali alla fine del XIX° secolo e agli inizi del XX° confermano che prima della messa in pratica di queste politiche i rapporti tra diverse comunità erano molto meno conflittuali di quanto sia stato sostenuto di recente.

Per esempio un editoriale anonimo pubblicato sul quotidiano arabo-palestinese “Filastin” del 29 aprile 1914 asseriva: “Fino a dieci anni fa gli ebrei costituivano un elemento autoctono ottomano fraterno. Vivevano e si mescolavano liberamente in armonia con altri soggetti ed intrattenevano rapporti di lavoro, vivevano negli stessi quartieri e mandavano i propri figli nelle stesse scuole.” Queste parole, nonostante il tono apologetico, non erano lontane dalla realtà. Gli atteggiamenti mostrati da varie importanti figure e gruppi religiosi nella regione e la pressione esercitata dalla Porta [la Sublime Porta, cioè l’impero ottomano, ndtr.] in modo che gli ebrei locali potessero diventare cittadini ottomani a pieno diritto confermano – almeno come tendenza generale – tali considerazioni.

Parlando in una pubblica piazza a Beirut nella primavera del 1909, l’avvocato ebreo Shlomo Yellin affermò che “non è legittimo dividere in base alla razza: turchi, arabi, armeni ed ebrei si sono mischiati tra loro e tutti sono legati insieme.”

Lo studioso e scrittore Yaacov Yehoshua scrisse nelle sue memorie “Yaldut be-Yerushalayim ha-yashena” (Infanzia nella Gerusalemme vecchia), pubblicate nel 1965, che a Gerusalemme “c’erano complessi edilizi comuni di ebrei e musulmani. Eravamo come una famiglia (…) I nostri figli giocavano con i loro (musulmani) in cortile, e se bambini del quartiere ci davano fastidio i bambini musulmani che vivevano nel nostro complesso ci proteggevano. Erano nostri alleati.”

Nello stesso periodo, in una città religiosa per eccellenza come Gerusalemme, circa l’80% degli abitanti viveva in quartieri e strutture misti.

Tutto ciò non dovrebbe far pensare che conflitti interreligiosi e/o confessionali fossero sconosciuti. Divisioni e scontri di questo tipo possono essere documentati fin dal Medioevo. Eppure la loro natura e dimensione non erano comparabili con quelle di tempi più recenti. Cosa ancora più importante, non riflettono la storia reale di buona parte del passato della regione.

I palestinesi e l’espulsione degli ebrei

Se la questione dei rifugiati palestinesi ha poco a che vedere con il “rifiuto arabo”, lo stesso si può dire riguardo al tentativo di collegare i rifugiati palestinesi alla vittimizzazione ed espulsione delle comunità ebraiche.

Certamente migliaia di ebrei nei Paesi arabi patirono discriminazioni, oppressione, minacce e varie forme di violenza. L’esempio più noto è il “Farhud” – un pogrom del 1941 in cui oltre 180 ebrei vennero brutalmente uccisi a Baghdad. Secondo Hayyim J. Cohen, “fu l’unico evento (di questo genere) noto riguardo agli ebrei in Iraq, almeno durante il loro ultimo secolo di vita là.”

Indipendentemente dal fatto che siamo d’accordo o meno con le parole di Cohen, è comunque incontestabile che i palestinesi non furono responsabili di quanto avvenne a Baghdad o altrove in Medio Oriente. Possono anche essere arabi, ma non erano e non sono lo stesso popolo degli iracheni.

Ebrei che soffrirono discriminazioni e brutalità in alcuni Paesi arabi hanno rivendicazioni legittime, ogni forma di violenza è ugualmente inaccettabile e deve essere riconosciuta e condannata. Al contempo, va rilevato che, contrariamente ai rifugiati palestinesi, molti dei quali vennero espulsi, o scapparono per paura, una grande maggioranza degli ebrei non volle raggiungere la loro “Eretz Yisrael” (Terra di Israele).

Una personalità che spesso viene utilizzata per giustificare la presunta responsabilità dei palestinesi per le condizioni degli ebrei nei Paesi arabi è Hajj Amin al-Ḥusayni, il “Grand Mufti di Gerusalemme”. Al-Husayni era un sostenitore del primo ministro iracheno Rashid Ali al-Gaylani, che intendeva stabilire legami più forti con la Germania nazista e l’Italia. Fu all’indomani della caduta del governo di al-Gaylani che a Baghdad scoppiarono i disordini che portarono al “Farhud”.

Nel 1941 al_Husayni andò prima in Italia e poi in Germania. Due anni dopo partecipò alla formazione della “Handschar”, una divisione nazista creata in collaborazione con il comandante delle SS Heinrich Himmler, che combatté contro i partigiani comunisti in Yugoslavia e commise vari crimini contro la popolazione locale, compresi molti ebrei. Date le sue presunte credenziali islamiche, venne incaricato di reclutare musulmani bosniaci e serbi che, insieme a qualche volontario croato cattolico, formarono il nucleo centrale dell’unità.

Non c’erano palestinesi arruolati nell’”Handschar”; al contrario, circa 12.000 arabi palestinesi si unirono all’esercito britannico per combattere le potenze dell’Asse nel 1939.

A causa della sua collaborazione con il regime nazista, al-Husayni è spesso utilizzato come esempio del perché il popolo palestinese sia stato il presunto responsabile del suo tragico destino. Eppure, come hanno dimostrato studi recenti, egli [Al-Husayni] non era un legittimo rappresentante del popolo palestinese, in quanto venne semmai imposto ai palestinesi dalle autorità britanniche.

La questione dell’‘assimilazione’

L’analogia tra i rifugiati palestinesi e gli ebrei dei Paesi arabi è fuori luogo per una serie di altri aspetti. Uno dei più ovvi è la questione di come e perché i rifugiati palestinesi e gli ebrei espulsi o emigrati dai Paesi arabi sono (o non sono) stati “assimilati”. Durante e dopo la guerra del 1948, molti palestinesi vennero obbligati a scappare nei vicini Paesi arabi. Fino al recente passato, a molti di loro è stato vietato di prendere la cittadinanza e di esercitare alcune professioni. Le sofferenze dei rifugiati palestinesi sono state – e in alcuni casi sono ancora – sfruttate dalla dirigenza di quei Paesi per fini politici.

Inoltre un paragone tra i campi di rifugiati palestinesi in Libano o in Siria e i ma’abarot, i campi di assimilazione degli immigrati in Israele negli anni ’50 sarebbe fuorviante.

La ragione per cui l’ultimo ma’abara venne chiuso nel 1963 ha in parte a che vedere con la costruzione in Israele di una serie di città di sviluppo, in cui agli ebrei rifugiati è stata fornita una casa. Molti nuovi immigrati dovettero passare attraverso un penoso e violento processo di inserimento in case palestinesi vuote.

Chiunque abbia visitato Ein Hod, Musrara, Qira e qualche centinaio di altri villaggi, quartieri o città in precedenza palestinesi conosce bene le migliaia di case rimaste ancora perfettamente intatte. La maggior parte (se non tutte) sono oggi abitate da famiglie di ex-immigrati.

Quindi non dovrebbe sorprendere che molti dirigenti israeliani abbiano rifiutato il termine “rifugiati”. Come il presidente della Knesset Yisrael Yeshayahu notò nel 1975, “non siamo rifugiati. (Alcuni di noi) sono venuti in questo Paese prima che nascesse lo Stato. Avevamo aspirazioni messianiche.”

L’ex-membro della Knesset Ran Cohen è andato oltre affermando: “Devo dire questo: non sono un rifugiato (…) Sono arrivato al servizio del sionismo, a causa dell’attrazione che questa terra esercita e dell’idea di redenzione. Nessuno mi definirà un rifugiato.”

Al contrario una gran parte della popolazione palestinese ora è formata da rifugiati di seconda, terza o quarta generazione che vivono ancora nei campi.

Di fatto sono gli unici rifugiati non di competenza dell’UNHCR [agenzia Onu per i rifugiati, ndtr.] ma che invece hanno la propria agenzia (UNRWA). La ragione di ciò è radicata nel pieno riconoscimento del pesante prezzo pagato dai palestinesi per le decisioni – pienamente legittime agli occhi di alcuni, completamente o parzialmente illegali secondo altri – prese dalla comunità internazionale alla fine degli anni ’40.

In altre parole, 70 anni fa l’UNRWA venne fondata dall’assemblea generale dell’ONU come agenzia umanitaria per appoggiare quegli stessi rifugiati che avevano perso la propria casa nel 1948, qualche mese dopo il piano ONU di partizione della Palestina nel novembre 1947. Ancor oggi l’UNRWA rispecchia l’obbligo della comunità internazionale di fornire una soluzione giusta e duratura per loro.

Il ‘monologo del secolo’

“La gente (adatta) la propria memoria in modo che si adegui alla propria sofferenza,” scrisse lo storico ateniese Tucidide nella sua “Storia della guerra del Peloponneso”. Oggi questa affermazione sembra particolarmente significativa per il conflitto israelo-palestinese.

Un certo livello di accettazione reciproca delle narrazioni e traumi dell’altro, attraverso riconciliazione e empatia, è la chiave per qualunque pace duratura.

Infatti, quando cicatrici visibili e invisibili sono sfruttate per scopi politici e ideologici, non possono che preparare la strada a quello che il filosofo ebreo nato in Austria Martin Buber ha chiamato “monologo mascherato da dialogo” cioè il dialogo “in cui due o più uomini, riuniti in un luogo, parlano solo con se stessi in modo stranamente contorto e indiretto, eppure immaginano di essere sfuggiti al cruccio di dover ricorrere alle proprie risorse.”

Il cosiddetto “accordo del secolo”, i cui dettagli saranno resi noti durante la riunione economica in Bahrain il 25 giugno, è un ulteriore esempio di una lunga lista di monologhi mascherati da dialoghi.

Tutti gli indizi suggeriscono che quelli che stanno dietro all’“accordo” cercheranno di togliere di mezzo il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace. È il passato presentato come se fosse il futuro. È per questo che è destinato a fallire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Lorenzo Kamel è professore associato di storia all’università di Torino e membro anziano dell’IAI [Istituto Affari Internazionali].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un fotogiornalista palestinese rischia di essere espulso da Israele

Linah Alsaafin

1 giugno 2019 – Al Jazeera

Mustafà al-Kharouf, che vive a Gerusalemme est occupata, rischia l’espulsione in Giordania

Negli ultimi cinque mesi Mustafà al-Kharouf è stato a languire nel carcere israeliano di Givon, lontano dalla moglie Tamam e dalla figlia Asia di un anno e mezzo, ma ora rischia la deportazione in Giordania.

Il trentaduenne fotogiornalista, figlio di madre algerina e padre palestinese, ha vissuto a Gerusalemme dal 1999, quando la sua famiglia vi è tornata.

Nonostante vari tentativi negli ultimi dieci anni, gli è stato negato lo status di residente permanente, a cui avrebbe diritto, facendo quindi di lui un apolide.

Quando la famiglia di Kharouf ha raggiunto i requisiti stabiliti dalle regole per avere la residenza, Mustafà aveva 18 anni e la sua famiglia non poteva presentare per lui una richiesta di ricongiungimento familiare o di registrazione di un minore.

A gennaio Mustafà, che lavorava per l’agenzia Anadolu [agenzia di notizie turca, ndtr.], è stato arrestato dopo che il suo legale si è opposto alla decisione del ministero dell’Interno israeliano di negargli la domanda per la regolarizzazione. Ora il suo destino è nelle mani di un tribunale israeliano, che deciderà se sarà espulso in Giordania, un Paese con cui non ha nessun legame.

Per ottenere lo status legale come palestinesi in città, la famiglia di Kharouf aveva presentato richieste di ricongiungimento familiare.

Ma alla base delle complicate leggi israeliane per i residenti palestinesi di Gerusalemme – a cui vengono concessi i diritti di residenza ma non la cittadinanza israeliana – è la politica del “centro della vita”, che è stata descritta come una “pulizia etnica legalizzata”.

Questa politica, che esige dai palestinesi che vivono nella Gerusalemme est occupata di dimostrare di avere il centro della propria vita in città per conservare il proprio status giuridico, è stata criticata dai gruppi per i diritti umani in quanto discriminatoria e come prodromo dell’espulsione – una grave violazione delle leggi internazionali.

Status giuridico rifiutato dal ministero degli Interni israeliano

Adi Lustigman, l’avvocatessa di Kharouf dell’organizzazione israeliana per i diritti umani “HaMoked”, ha detto ad Al Jazeera che per anni Kharouf ha cercato di regolarizzare la propria situazione a Gerusalemme, ma senza risultati. “Ha avuto un permesso temporaneo per qualche tempo, ma per il resto si è solo arrangiato in qualche modo, come fanno molti altri abitanti di Gerusalemme, apolidi e privi di status,” ha affermato Lustigman. “Ovviamente è estremamente difficile essere una persona senza diritti, senza permesso di lavoro e senza un luogo in cui andare per essere legale.”

Dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015 Kharouf ha ottenuto un visto israeliano di lavoro B/1 per “ragioni umanitarie”. Eppure alla fine le richieste di una proroga del visto sono state rigettate dal ministero dell’Interno per “ragioni di sicurezza”.

Lustigman crede che i rifiuti del ministero riguardino il suo lavoro come fotogiornalista che documenta le violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità israeliane a Gerusalemme est occupata.

Dopo che nel 2016 si è sposato con Tamam, una palestinese di Gerusalemme, Kharouf ha presentato un’altra domanda di ricongiungimento familiare, ma è stata di nuovo rigettata nel dicembre del 2018 dal ministero dell’Interno.

Secondo Lustigman, la decisione era basata su accuse infondate secondo cui Kharouf sarebbe membro di Hamas, messa fuorilegge da Israele.

Il 21 gennaio 2019 l’avvocatessa ha presentato appello contro la decisione, ma il giorno dopo le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di Kharouf e lo hanno arrestato, e da allora è sottoposto a detenzione amministrativa – incarcerazione indefinita senza processo o accuse contro di lui. “Mio marito è la persona più ottimista che conosca, ma ora è disperato,” ha detto ad Al Jazeera Tamam, la moglie di Kharouf.

Tamam ha il permesso di visitare suo marito una volta alla settimana per un massimo di 20 minuti solo attraverso una vetrata.

Il suo stato d’animo è molto peggiorato da quando è stato arrestato,” dice la ventisettenne consulente scolastica. “Ha perso 10 chili ed è molto depresso.”

Pochi mesi fa, in aprile, il tribunale distrettuale israeliano ha rigettato l’appello di Kharouf e gli ha concesso un permesso provvisorio perché non sia espulso, in modo che possa presentare il suo caso all’Alta Corte israeliana, con il 5 maggio come scadenza. L’appello è già stato presentato, ma l’Alta Corte non ha ancora preso una decisione. Kharouf rimane esposto al rischio di essere espulso in Giordania.

Ordine di espulsione ‘illegale’

Saleh Hijazi, il capo dell’ufficio di Amnesty International a Gerusalemme, ha definito la decisione israeliana di negare la richiesta di residenza di Kharouf e di espellerlo “crudele e illegale”. “[Kharouf] deve essere rilasciato immediatamente e gli deve essere concessa la residenza permanente a Gerusalemme est in modo che possa riprendere la sua vita normale con la moglie e la figlia,” dice Hijazi.

L’arresto arbitrario e la prevista espulsione di Mustafà al-Kharouf riflettono la pluriennale politica israeliana di riduzione del numero di palestinesi residenti a Gerusalemme est, negando loro i diritti umani,” prosegue.

In seguito all’annessione illegale di Gerusalemme est da parte di Israele nel 1967, almeno 14.600 palestinesi si sono visti revocare il permesso di residenza.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra l’espulsione da un territorio occupato di persone protette è illegale. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che “la deportazione o il trasferimento [da parte del potere occupante] di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o fuori da questo territorio” costituisce un crimine di guerra.

Una persona non può essere resa apolide,” ha sostenuto in aprile con un comunicato stampa Jessica Montell, direttrice esecutiva di HaMoked. “A livello pratico, non ha senso mantenere Mustafà in ‘attesa di espulsione’ quando non c’è nessun Paese in cui Israele lo possa espellere.

L’Alta Corte di Giustizia ha riconosciuto gli abitanti di Gerusalemme est come popolazione indigena con uno status unico. Israele quindi deve rilasciare senza indugio Mustafà e concedergli lo status legale a cui ha diritto in quanto gerosolimitano.”

Tamam si è molto impegnata per consultare avvocati e vedere quello che si può fare, ma dice che la maggior parte di loro afferma che il caso di suo marito è troppo complicato ed ha rifiutato di occuparsene.

Non ho mai pensato a un progetto alternativo per noi,” dice Tamam. “Se Mustafà viene espulso in Giordania, non otterrà la residenza, per non parlare della cittadinanza. Di fatto verrà arrestato dalle autorità giordane appena attraversato il confine per tutto il tempo che ci vorrà perché controllino la sua documentazione e prendano una decisione su cosa farne di lui,” continua. Se viene espulso non sarà solo una famiglia che verrà separata. Verrà strappato a me e a mia figlia, ai suoi genitori e ai suoi suoceri.”

Lustigman afferma che mettere in evidenza il caso di Kharouf può fare la differenza per non sradicare la vita del fotogiornalista.

Speriamo che l’opinione pubblica, l’interesse della stampa e le azioni delle Ong possano avere un certo peso ed aiutare,” sostiene l’avvocatessa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu promette “attacchi massicci” a Gaza mentre sale il numero di morti

Al Jazeera

5 maggio 2019

Nove palestinesi e tre israeliani uccisi, mentre le forze israeliane si ammassano sul confine di Gaza, alimentando il timore di un’invasione di terra.[ i dati aggiornati sono 27 palestinesi uccisi e 4 israeliani ndt]

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato “attacchi massicci” contro la Striscia di Gaza dopo un’escalation di due giorni che ha portato all’uccisione di nove palestinesi e tre israeliani.

Domenica aerei da guerra e cannoniere israeliani hanno continuato a colpire la Striscia di Gaza mentre combattenti nell’enclave assediata hanno sparato una raffica di razzi sul sud di Israele.

Un comandante di Hamas di 34 anni è stato ucciso in quello che l’esercito israeliano ha descritto come un attacco mirato. Un comunicato dell’esercito ha accusato Hamad al-Khodori di “aver trasferito grandi somme di denaro” dall’Iran alle fazioni armate di Gaza.

È stato il quinto palestinese che si dice sia stato ucciso domenica. Altre vittime palestinesi hanno incluso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, uccise sabato a Gaza.

Nella città israeliana di Ashkelon un cinquantottenne israeliano è stato ucciso dopo essere stato colpito dalle schegge per un attacco con i razzi. Altri due israeliani, gravemente feriti domenica pomeriggio in diversi attacchi con i razzi contro una fabbrica, in seguito sono morti.

Questa mattina ho dato istruzioni alle IDF (l’esercito israeliano) di continuare con massicci attacchi contro i terroristi nella Striscia di Gaza,” ha detto domenica in un comunicato Netanyahu, che ha anche l’incarico di ministro della Difesa, dopo aver consultato il gabinetto di sicurezza.

Ha detto di aver anche ordinato che “carri armati, artiglieria e forze di fanteria” rinforzino le truppe già schierate nei pressi di Gaza, un’iniziativa che suscita timori di un’invasione di terra.

Hamas è responsabile non solo per i suoi attacchi contro Israele, ma anche per quelli della Jihad Islamica, e sta pagando un prezzo molto alto per questo,” ha aggiunto Netanyahu.

Sabato a Gaza fazioni armate, altrimenti note come “Joint Operations Room” [Sala Operativa Unitaria], che include il braccio armato di Hamas e quello del Movimento della Jihad Islamica in Palestina, hanno giurato di “estendere la propria risposta” se l’esercito israeliano continua a prendere di mira la Striscia.

La nostra risposta sarà più vasta e più dolorosa nel caso in cui (Israele) estenda l’aggressione, e continueremo ad essere lo scudo protettivo del nostro popolo e della nostra terra,” ha affermato in un comunicato la Joint Operations Room.

Harry Fawcett, che informa dal lato israeliano del confine con Gaza per Al Jazeera, ha affermato che l’escalation è “tutt’altro che finita”.

È potenzialmente una grave escalation militare pericolosa e lunga,” dice. “I mezzi di informazione israeliani hanno citato importanti fonti della difesa, che hanno detto di aspettarsi che questo scontro durerà alcuni giorni.”

I media israeliani hanno informato che negli ultimi due giorni i combattenti di Gaza hanno lanciato più di 400 razzi verso città e cittadine nella parte meridionale di Israele e che il sistema antimissile israeliano Iron Dome ne ha intercettati più di 250.

L’ufficio stampa del governo a Gaza ha detto che aerei da guerra israeliani hanno condotto circa 150 raid, oltre ai bombardamenti dell’artiglieria che hanno preso di mira 200 luoghi di interesse civile nella Striscia di Gaza, compresi edifici residenziali, moschee, negozi e mezzi d’informazione.

Secondo il ministero della Salute di Gaza circa 70 palestinesi sono rimasti feriti negli attacchi.

In seguito ai raid aerei l’abitante di Gaza Um Alaa Abu Absa ha passato la domenica a raccogliere pezzi di vetro e detriti nella sua proprietà.

Ci sono stati molti bombardamenti, i vicini sono stati molto colpiti, la scena per strada era indescrivibile, la gente aveva paura, era terrorizzata e correva, e ognuno si occupava dei propri figli, nessuno era nelle condizioni di vedere gli altri,” ha detto Abu Absa.

Uno degli edifici distrutti ospitava l’ufficio dell’agenzia ufficiale di notizie dello Stato turco Anadolu a Gaza.

Chiediamo alla comunità internazionale di agire prontamente per allentare le tensioni che si sono accentuate a causa delle azioni sproporzionate di Israele nella regione,” ha affermato un comunicato del ministero degli Esteri turco.

Domenica l’esercito israeliano ha negato che Falastine Abu Arar, madre incinta di 37 anni, e la sua nipotina di 14 mesi, Siba, siano state uccise dalle forze israeliane. Ha invece incolpato un errore nel lancio di un razzo palestinese.

Sabato notte anche due palestinesi, Imad Nseir, di 22 anni, e Khaled Abu Qaleeq, di 25, sono stati uccisi da attacchi aerei israeliani.

Il gruppo della Jihad Islamica palestinese ha detto che i due uomini uccisi durante la notte di domenica, Mahmoud Issa, di 26 anni, e Fawzi Bawadi, di 23, erano membri del suo braccio armato.

Il ministero della Salute ha affermato che nel primo pomeriggio altri due palestinesi sono stati uccisi dopo che un raid aereo israeliano ha preso di mira un gruppo di persone nel quartiere orientale di Gaza City di Shujayea,. Gli uomini sono stati identificati come Bilal Mohammed al-Banna e Abdullah Abu Atta, pare entrambi sui vent’anni.

Poco dopo, in quello che i palestinesi hanno definito il primo assassinio mirato dal 2014, a Gaza City un attacco aereo israeliano ha colpito l’auto di al-Khoudary, comandante di Hamas. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti nell’attacco.

Pericolosa escalation”

Il Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha chiesto a tutte le parti di “ridurre immediatamente la tensione e di tornare alle intese degli ultimi mesi.”

Sono profondamente preoccupato di un’ennesima pericolosa escalation a Gaza e della tragica perdita di vite umane,” ha detto.

I miei pensieri e le mie preghiere vanno alle famiglie e agli amici di tutti quelli che sono stati uccisi, e auguro una rapida guarigione ai feriti.”

L’ultima crisi è arrivata dopo che venerdì altri quattro palestinesi sono rimasti uccisi in due diversi incidenti.

Due di loro sono stati colpiti a morte durante le proteste settimanali della Grande Marcia del Ritorno nei pressi del confine orientale di Gaza, mentre un raid aereo che ha preso di mira un avamposto di Hamas ha ucciso due membri del braccio armato del movimento.

L’esercito israeliano ha affermato che il raid aereo era una risposta a una sparatoria che ha ferito due suoi soldati nei pressi del confine.

Il nostro corrispondente ha detto che un attacco israeliano con un drone nei pressi di un veicolo, che ha ferito tre palestinesi, ha preceduto il lancio di una raffica di razzi.

Da quando Hamas ha preso il controllo del territorio nel 2007 Israele ed Egitto hanno mantenuto un blocco asfissiante contro Gaza.

Dopo pesanti scontri, alla fine di marzo Israele ha accettato di alleggerire il blocco in cambio di un’interruzione del lancio di razzi. Ciò ha incluso l’estensione della zona di pesca lungo le coste di Gaza, un aumento delle importazioni a Gaza e il permesso al Qatar, Stato del Golfo, di consegnare aiuti all’immiserito territorio.

Tuttavia Israele non ha rispettato gli accordi su questi temi e alla fine di aprile ha ridotto l’estensione della zona di pesca.

Varie intese rese note riguardo all’alleggerimento delle restrizioni economiche, alla creazione di lavoro e all’intenzione di aumentare la fornitura di elettricità a Gaza – non c’è stato niente del genere,” ha detto Harry Fawcett.

Circa due milioni di palestinesi vivono a Gaza, la cui economia ha sofferto per anni di blocco così come per il recente taglio agli aiuti. Secondo la Banca Mondiale la disoccupazione arriva al 52% e la povertà è dilagante.

Dal dicembre 2008 Israele ha scatenato tre offensive contro Gaza.

L’ultima guerra, nel 2014, ha gravemente danneggiato le già carenti infrastrutture di Gaza, inducendo le Nazioni Unite ad avvertire che la Striscia sarà “inabitabile” entro il 2020.

Fonte: Al Jazeera e agenzie di notizie

(traduzione di Amedeo Rossi)




Razzi sparati da Gaza il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro palestinesi

4 maggio 2019 ore 16  Al Jazeera

Incursione israeliana uccide un palestinese a Gaza nel contesto di una crisi il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro persone in due incidenti separati.

Secondo il ministero della Salute di Gaza un palestinese è rimasto ucciso durante un raid aereo israeliano nel nord della Striscia di Gaza, nel contesto di una nuova escalation tra l’esercito israeliano e i combattenti di Gaza.

Imad Nseir, di 22 anni, è stato ucciso a Beit Hanoun dopo che sabato mattina aerei da guerra israeliani hanno preso di mira varie zone nell’enclave assediata dopo che decine di razzi sono stati sparati da Gaza verso il sud di Israele.

L’ultima crisi è arrivata dopo che venerdì le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in due diversi incidenti.

Harry Fawcett, inviato di Al Jazeera da Gerusalemme, ha detto che la raffica di razzi sparati da Gaza è avvenuta dopo l’attacco nel nord della Striscia di un drone israeliano, che sabato mattina ha ferito tre persone.

Stiamo assistendo a un’altra escalation militare, la prima da quella del mese scorso in cui abbiamo visto un altro scambio di incursioni aeree e lancio di razzi da Gaza, che sembrava essere terminato con qualche speranza riguardo a una sorta di soluzione a lungo termine,” ha detto.

C’è stato un buon accordo riguardo a colloqui tra Israele e Hamas mediati dall’Egitto con un ulteriore alleggerimento della situazione da parte di Israele che probabilmente sarebbe avvenuto,” ha continuato.

Hamas dice che finora tutto quello che hanno visto è la riduzione dei controlli marittimi, che consente di pescare fino al limite di 15 miglia nautiche rispetto a 6, che ora è stato di nuovo ridotto.”

Razzi lanciati

L’esercito israeliano ha affermato che il sistema missilistico Iron Dome ha intercettato decine di razzi, aggiungendo che circa 90 razzi sono stati lanciati dalla Striscia. Ha anche detto che non ci sono notizie di vittime dal lato israeliano.

Secondo agenzie di notizie palestinesi, in seguito al lancio di razzi aerei da guerra israeliani hanno preso di mira una zona agricola a Beit Hanoun, una città del nord della Striscia, con molti raid.

Anche forze israeliane presso la barriera con Gaza hanno bombardato una serie di postazioni di osservazione a Khan Younis, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Fonti mediche ufficiali di Gaza hanno anche detto che quattro palestinesi sono rimasti feriti in uno degli attacchi israeliani.

Le sirene hanno suonato nelle città israeliane di Ashdod e Ashkelon ed è stata chiusa anche la vicina spiaggia di Zikim, situata a due chilometri a nord della Striscia di Gaza.

Non c’è stata nessuna rivendicazione immediata per il razzo lanciato da Gaza.

Secondo il “Centro Palestinese di Informazione” il portavoce di Hamas, Abdullatif Al-Qanou’, ha affermato: “La resistenza rimarrà pronta a rispondere ai crimini dell’occupazione e non le consentirà di versare il sangue del nostro popolo.”

Anche il movimento della Jihad Islamica ha rilasciato un comunicato simile, dicendo che “la resistenza sta facendo il proprio dovere di proteggere e difendere il nostro popolo,” aggiungendo che “risponderà con tutte le sue capacità militari all’aggressione (israeliana).”

Nel contempo nella Cisgiordania occupata il movimento Fatah ha condannato l’escalation nella Striscia di Gaza ed ha chiesto che la comunità internazionale “contrasti l’aggressione.”

Venerdì quattro palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due diversi incidenti: due di loro sono stati colpiti a morte durante le settimanali proteste della Grande Marcia del Ritorno nei pressi della barriera israeliana a est di Gaza, mentre un attacco aereo ha preso di mira un avamposto di Hamas, uccidendo due membri del braccio armato del movimento.

L’esercito israeliano ha detto di aver colpito la base di Hamas dopo che due dei suoi soldati sono stati feriti da Gaza presso la barriera israeliana da colpi di arma da fuoco.

Un cessate il fuoco tra Israele e Hamas mediato dall’Egitto e dalle Nazioni Unite aveva portato a una relativa calma nel periodo delle elezioni politiche israeliane del 9 aprile.

Ma martedì, dopo che dal territorio è stato sparato un razzo, Israele ha ridotto il limite di pesca che impone alle imbarcazioni che operano al largo di Gaza.

L’esercito israeliano ha incolpato la Jihad Islamica del razzo, caduto nel Mediterraneo.

Giovedì Israele ha affermato che la sua aviazione ha colpito un complesso militare di Hamas, dopo che palloni aerostatici con bombe incendiarie ed esplosivi sono stati lanciati attraverso il confine.

Dopo l’attacco aereo l’esercito israeliano ha detto che due razzi sono stati lanciati da Gaza verso Israele, facendo suonare le sirene in alcune zone del sud.

Con il cessate il fuoco a rischio, giovedì una delegazione di Hamas guidata dal capo di Gaza Yahya Sinwar ha lasciato l’enclave per recarsi al Cairo per colloqui con funzionari egiziani per negoziare una tregua.

Il cessate il fuoco ha visto Israele consentire al Qatar di fornire milioni di dollari in aiuti per Gaza al fine di pagare i salari e finanziare la fornitura di combustibile e ridurre la grave carenza di elettricità.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu è attualmente impegnato in negoziati per formare un nuovo governo in seguito alle elezioni dello scorso mese, mentre dal 14 al 18 maggio Israele ospiterà a Tel Aviv la competizione canora “Eurovision”.

Da più di un anno palestinesi hanno partecipato a periodiche manifestazioni e scontri lungo il confine di Gaza, chiedendo ad Israele di alleggerire il suo asfissiante blocco dell’enclave.

Dall’inizio delle proteste nel marzo 2018 almeno 270 palestinesi, in maggioranza lungo il confine, sono stati uccisi da fuoco israeliano.

Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

Israele accusa Hamas di utilizzare le proteste come copertura per condurre attacchi e afferma che le sue azioni sono necessarie per difendere il confine e bloccare le infiltrazioni.

I risultati di un’inchiesta ONU diffusi alla fine di febbraio hanno stabilito che Israele potrebbe aver commesso crimini contro l’umanità in risposta alle proteste sul confine, in quanto i cecchini hanno “intenzionalmente” sparato a civili, compresi minorenni, a giornalisti e a un disabile.

Israele ha respinto “totalmente” il rapporto, mentre Hamas ha chiesto che Israele venga chiamato a rispondere delle sue azioni.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La riduzione della zona di pesca di Gaza è “una punizione collettiva illegale”

Maram Humaid

30 aprile 2019,  Al Jazeera

La mossa arriva pochi giorni dopo che Israele ha esteso la zona di pesca a 15 miglia nautiche come parte di un accordo di cessate il fuoco

Per i 4.000 pescatori dell’enclave la decisione da parte dell’esercito israeliano di ridurre la zona di pesca accessibile nella Striscia di Gaza assediata non è “una sorpresa”.

Non è arrivata inaspettata. L’occupazione viola sempre gli accordi che riguardano i pescatori della Striscia,” ha detto ad Al Jazeera Zakaria Bakr, capo dell’Unione dei pescatori di Gaza.

Citando un presunto attacco con i razzi, martedì l’esercito israeliano ha detto che fino a nuovo avviso la pesca a Gaza sarà consentita solo fino a 6 miglia nautiche (11 km).

L’iniziativa arriva dopo che il 1 aprile Israele ha esteso la zona fino a un massimo di 15 miglia nautiche, come parte di un cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e Hamas, il gruppo che governa la Striscia di Gaza.

Martedì in un comunicato l’esercito israeliano ha detto che la decisione è stata la risposta a un razzo lanciato dal gruppo Jihad Islamica lunedì sera, un’affermazione che il gruppo palestinese nega. “Le accuse di Israele sono parte della campagna di menzogne contro il movimento della Jihad Islamica,” ha detto ad Al Jazeera il portavoce della Jihad Islamica Mosaab al-Breim.

Fa anche parte della guerra psicologica che ha condotto a lungo contro il popolo palestinese…Il braccio armato della Jihad Islamica non ha confermato il lancio di un razzo verso l’occupazione (israeliana),” ha detto.

Bakr, dell’Unione dei pescatori, ha affermato che la decisione di Israele arriva in un momento critico e che l’accordo di cessate il fuoco non è riuscito ad alleviare l’opprimente blocco di Israele contro la Striscia.

Lo scopo dell’estensione era di migliorare l’economia di Gaza, che si basa molto sul settore ittico.

Molti pescatori hanno manifestato la propria soddisfazione per il gesto insolito, soprattutto in quanto il mese santo del Ramadan è imminente. Ma oggi, dicono, è una situazione “molto triste e difficile”.

Israele inventa sempre dei pretesti (per ridurre la zona di pesca consentita), soprattutto quando si avvicina la stagione della pesca,” dice Bakr.

Le barche nella Striscia di Gaza sono “più attive” durante la primavera che in qualunque altro periodo dell’anno, afferma, sottolineando che la mossa è una continuazione della “sistematica oppressione” di Israele contro i pescatori di Gaza, così come contro i quasi due milioni di abitanti.

Barche disperse

Oltre ai 4.000 pescatori che dipendono dal settore in quanto rappresenta una delle poche opportunità a disposizione per lavorare a Gaza, ci sono almeno altre 1.500 persone che beneficiano della vendita e dell’esportazione del pesce pescato là.

Ma le esportazioni si sono ridotte nel corso degli anni e il declino del settore della pesca a Gaza è tra le molte conseguenze della politica israeliana.

Nel 2007, in seguito alla vittoria di Hamas nelle elezioni che le hanno dato il controllo del territorio assediato, Israele ha imposto un rigido blocco terrestre, aereo e navale.

L’iniziativa ha anche ridotto l’ingresso di materie prime, lasciando la maggior parte delle barche senza le necessarie riparazioni per operare al massimo delle loro potenzialità.

Il limite sempre modificato da Israele riguardante fin dove i pescatori hanno il permesso di navigare nel Mediterraneo ha posto molte barche – e vite – in pericolo.

La barca di Omar Mounir è stata tra le 50 imbarcazioni salpate dalla costa di Gaza martedì mattina.

Questa mattina eravamo in mare, cercando di pescare come al solito,” dice a Al Jazeera il cinquantunenne.

Afferma che le barche erano arrivate al segnale delle 11 miglia nautiche quando hanno visto imbarcazioni della marina militare israeliana arrivare nella loro direzione.

Hanno sparato con cannoni ad acqua per disperdere le barche – alcune si sono rotte e altre più piccole sono affondate,” dice Mounir.

Ci hanno obbligati a girare e a tornare verso la riva, affermando che il limite era stato riportato indietro a sei miglia nautiche…Non abbiamo avuto il tempo di ritirare le nostre reti che avevamo sistemato nell’acqua.”

In base agli accordi di Oslo firmati nel 1993 Israele è obbligato a consentire di pescare fino a 20 miglia marine, ma ciò non è mai stato messo in pratica.

Israele nell’ultimo decennio ha lanciato tre grandi attacchi contro Gaza, che hanno pesantemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture della città. Durante questi attacchi la pesca è stata totalmente vietata.

I pescatori con cui Al Jazeera ha parlato hanno affermato che fare una spedizione di pesca al largo delle coste di Gaza potrebbe arrivare a costare 400 dollari.

Benché la zona consentita fosse stata estesa a 15 miglia nautiche, molti dei pescatori non hanno l’equipaggiamento adeguato o il combustibile per fare tutto il percorso.

Miriam Marmur di “Gisha”, un’organizzazione israeliana per i diritti, ha detto a Al Jazeera che l’ultima mossa israeliana costituisce “una punizione collettiva illegale”.

Israele restringe ed estende regolarmente la zona di pesca di Gaza, spesso come misura punitiva, provocando una grande incertezza e insicurezza,” dice Marmur.

Secondo lei le restrizioni israeliane contro Gaza sono state messe in atto come parte di una politica ufficiale di “guerra economica” contro la Striscia e hanno “poco” a che vedere con la sicurezza.

Dal 30 marzo 2018 i palestinesi della Striscia di Gaza hanno chiesto una fine del blocco e anche il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie sono state espulse durante la fondazione di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza almeno 6.500 manifestanti sono stati colpiti da cecchini israeliani, che hanno ucciso più di 250 persone tra cui minorenni, giornalisti e medici.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un palestinese in sciopero della fame: ‘Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Fayha Shalash e Ramzy Baroud

23 aprile 2019,  Al Jazeera

Ingiustizia e violenza hanno spinto molti prigionieri palestinesi a disperati e rischiosi scioperi della fame.

Uno dei tanti modi in cui Israele cerca di opprimere e controllare la popolazione palestinese è incarcerare chi guida la resistenza contro l’occupazione e il progetto coloniale di insediamento.

In Palestina un prigioniero palestinese in un carcere israeliano viene definito “aseer”, cioé recluso, perché lui o lei non è un criminale. Ciò che conduce i palestinesi nelle carceri israeliane sono atti di resistenza – dallo scrivere una poesia sulla lotta contro l’occupazione al compiere un’aggressione contro soldati israeliani nella terra palestinese occupata. Per l’occupazione israeliana, comunque, ogni atto di resistenza o provocazione palestinese è catalogato come una forma o di “terrorismo” o di “incitamento” [all’odio], che non può essere tollerata.

Attualmente ci sono 5.450 prigionieri nelle carceri israeliane, 205 dei quali sono minori e 48 donne. In base ad alcune stime, dall’occupazione israeliana di Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza nel giugno 1967, oltre 800.000 palestinesi sono stati imprigionati nelle carceri israeliane.

Superfluo dirlo, come Israele cerca di mantenere tutta la popolazione palestinese in continua miseria e oppressione, lo stesso fa nei confronti dei prigionieri palestinesi.

Nei mesi scorsi le già terribili condizioni in queste carceri sono ulteriormente peggiorate dopo che il governo israeliano ha annunciato che avrebbe adottato rigide misure nelle prigioni come tecnica di “deterrenza” – una iniziativa che in Israele è stata vista come propaganda elettorale.

“Compaiono in continuazione immagini irritanti di persone che cucinano nelle sezioni dei terroristi. Questa festa è finita”, ha detto a inizio gennaio il ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan. I suoi progetti comprendono limitazioni all’uso dell’acqua da parte dei prigionieri, il divieto di cucinare in cella e l’installazione di dispositivi di interferenza per bloccare il presunto uso di cellulari entrati di contrabbando.

Quest’ultima misura, in particolare, ha provocato l’indignazione dei prigionieri, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a gravi dolori alla testa, svenimenti e disturbi duraturi.

A fine gennaio il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) ha compiuto nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, un raid che ha provocato il ferimento di oltre 140 prigionieri palestinesi, alcuni dei quali colpiti da proiettili veri.

A fine marzo anche le prigioni di Naqab, Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel sono state oggetto di incursioni, che hanno causato molti feriti tra i prigionieri palestinesi. La rabbia è esplosa e il 7 aprile centinaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno lanciato uno sciopero della fame di massa che è terminato otto giorni dopo in seguito a un accordo tra i prigionieri palestinesi e l’IPS.

In mezzo al baccano preelettorale in Israele, questa notizia è stata ampiamente ignorata dai media internazionali, che si sono invece focalizzati sulla dichiarazione del presidente USA Donald Trump sulle Alture del Golan e sulla promessa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di annettere la Cisgiordania.

Invece per i palestinesi, la maggior parte dei quali soffre per avere un parente nelle carceri israeliane, tenuto in condizioni che violano i requisiti minimi del diritto internazionale e umanitario, questo è stato un grave motivo di preoccupazione e anche di rabbia. I palestinesi sanno che dietro ai numeri e alla propaganda israeliana che definisce questi uomini, donne e minori come “terroristi” vi sono tragiche storie umane di sofferenza e tenacia.

Una di queste storie è quella del giornalista palestinese Mohammed al-Qiq, marito della coautrice di questo articolo, Fayha Shalash.

Al-Qiq lavorava come corrispondente della rete di informazioni saudita Al-Majd, occupandosi della Cisgiordania. I suoi reportage televisivi relativi all’esecuzione da parte dell’esercito israeliano di presunti aggressori palestinesi nel corso di quella che è stata chiamata la rivolta di Al-Quds hanno ricevuto molta attenzione in tutto il Medio Oriente e gli hanno procurato molta ammirazione tra i palestinesi.

A causa del suo lavoro è stato giudicato una “minaccia” dallo Stato israeliano e nel novembre 2015 è stato arrestato. Questa è la sua storia.

Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Sabato 21 novembre 2015, un mese e mezzo dopo l’inizio della rivolta di Al- Quds, i soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa nostra. Hanno sfondato la porta d’ingresso della nostra modesta casa e sono entrati. È stata la scena più spaventosa che si possa immaginare. Nostra figlia di un anno, Lour, si è svegliata e ha incominciato a piangere. Mentre Mohammed veniva bendato e ammanettato, Lour continuava ad abbracciarlo e accarezzarlo.

Per fortuna Islam, che allora aveva tre anni, dormiva ancora. Sono felice di questo perché non volevo che vedesse suo padre portato via dai soldati in un modo così violento.

Al mattino ho dovuto dirgli che suo padre era stato portato via; mentre cercavo di spiegargli, gli tremavano le labbra e il suo viso aveva una smorfia di paura e di dolore che nessun bambino dovrebbe mai provare.

Era la quarta volta che Mohammed veniva arrestato. Il primo arresto fu nel 2003, quando è stato detenuto per un mese; poi nel 2004 è stato nuovamente arrestato e detenuto per 13 mesi e nel 2008 è stato condannato da un tribunale israeliano a 16 mesi di prigione per le sue attività politiche e per il suo impegno nel Consiglio studentesco dell’università di Birzeit.

Poi Mohammed è stato portato nel famigerato centro di detenzione Al-Jalameh per l’interrogatorio. Non gli è stato permesso di vedere un avvocato fino al ventesimo giorno di detenzione. È stato torturato fisicamente e psicologicamente e gli è stato ripetutamente chiesto di firmare una falsa confessione [in cui ammetteva] di essere impegnato in “istigazione attraverso mezzi di informazione”, cosa che ha rifiutato di fare.

Abbiamo saputo che la sua detenzione è stata prorogata diverse volte, ma non avevamo nessun’altra notizia da lui. Le nostre richieste di visita in quanto familiari sono state respinte e tutto ciò che potevamo fare era aspettare e pregare.

A inizio dicembre mi sono imbattuta in una notizia riportata online, secondo cui mio marito aveva iniziato uno sciopero della fame. Ho immediatamente telefonato all’Associazione dei Prigionieri, una Ong nata nel 1993 per sostenere i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, e per pura fortuna sono riuscita a contattare un avvocato di nome Saleh Ayoub che aveva visto Mohammed in tribunale. Mi ha detto che mio marito veniva processato a porte chiuse, il che significa che né la sua famiglia né il suo avvocato erano stati informati del processo.

Mentre Mohammed veniva riportato in cella, si è avvicinato a Ayoub ed è riuscito a dirgli queste parole: “Sono il prigioniero Mohammed al-Qiq. Dite alla mia famiglia e ai media che sto facendo uno sciopero della fame. Attualmente sono in arresto a Al-Jalameh.”

Quando ho sentito ciò, mi sono molto spaventata. Nella mia famiglia non abbiamo mai fatto questa esperienza. Non comprendevo del tutto le conseguenze di una tale decisione, ma ho deciso di appoggiare mio marito. 

Per mesi ho seguito ogni associazione per i diritti umani che potesse aiutarmi a ottenere qualche informazione sulla salute mentale e fisica di Mohammed. Gli israeliani non avevano prove contro di lui, ma continuavano a trattenerlo, nonostante la sua salute andasse peggiorando. Quando ha incominciato ad avere emorragie e a non reggersi più in piedi è stato trasferito all’ospedale del carcere di Ramleh.

A nessuno è stato permesso di visitarlo nell’ospedale del carcere, né a noi né alla Croce Rossa. Il caso di Mohammed non è l’unico, in quanto Israele consente il completo isolamento di ogni prigioniero che faccia uno sciopero della fame.

Mohammed è diventato ancor più determinato a portare avanti il suo sciopero della fame quando il tribunale israeliano lo ha condannato a sei mesi di “detenzione amministrativa”, che significa che loro non avrebbero potuto sostenere le accuse contro mio marito con alcuna prova tangibile, ma rifiutavano di liberarlo. L’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile fino a tre anni.

Per me è stata una corsa contro il tempo. Dovevo fare in modo che il mondo mi ascoltasse, ascoltasse la storia di mio marito, perché si facesse sufficiente pressione su Israele perché lo liberasse. Temevo che potesse essere troppo tardi, che Mohammed morisse prima che quel messaggio risuonasse in tutta la Palestina e nel mondo.

Dato che la sua salute continuava a peggiorare, è stato portato all’ospedale di Afouleh, dove hanno cercato di alimentarlo a forza. Lui si è rifiutato. Quando hanno tentato di alimentarlo con una flebo, si è strappato l’ago dal braccio e lo ha gettato a terra. Conosco mio marito, per lui la vita senza libertà non vale la pena di essere vissuta.

Dopo un mese di sciopero della fame Mohammed ha cominciato a vomitare bile gialla e sangue. Il dolore al ventre e alle articolazioni e le continue emicranie erano insopportabili. Nonostante tutto questo, continuavano a legarlo al letto d’ospedale. Il suo braccio destro ed entrambi i piedi erano bloccati agli angoli del letto da pesanti ferri. È stato lasciato così per tutto il tempo.

Sentivo che Mohammed stava per morire. Ho cercato di spiegare a mio figlio che suo padre rifiutava il cibo per lottare per la sua libertà. Islam continuava a ripetere: “Quando crescerò, lotterò contro l’occupazione”. Lour sentiva la mancanza del padre ma non capiva niente. Quando combattevo per la libertà del loro papà, non avevo altra scelta che stare lontana da loro per lunghi periodi. La nostra famiglia era spezzata.

Il 4 febbraio 2016 Mohammed è entrato nel 77mo giorno di sciopero della fame. In seguito alla pressione popolare ed internazionale, ma soprattutto a causa dell’irremovibile volontà di Mohammed, l’occupazione israeliana è stata costretta a sospendere l’ordine di “detenzione amministrativa”. Ma per Mohammed non era abbastanza.

Con questa mossa, l’occupazione israeliana intendeva mandare un segnale che la crisi era stata scongiurata, nel tentativo di ingannare i media e il popolo palestinese. Ma Mohammed non ne voleva sapere, voleva essere lasciato libero, perciò ha proseguito lo sciopero per altre settimane.

In quel momento mi è stato dato il permesso di fargli visita, ma ho deciso di no, per non dare l’impressione che tutto adesso andasse bene, giocando inavvertitamente a favore della propaganda israeliana.

È stata la decisione più difficile che abbia mai dovuto prendere, stare lontana dall’uomo che amo, dal padre dei miei figli. Ma sapevo che se lui avesse visto me o i bambini si sarebbe troppo emozionato, o peggio ancora avrebbe potuto avere un crollo fisico ancor più grave. Ho mantenuto l’impegno di sostenerlo nella sua decisione fino alla fine.

A un certo punto ho pensato tra me che Mohammed non sarebbe mai più tornato e sarebbe morto in prigione.

Era così legato ai nostri figli. Li amava con tutto il cuore e cercava di passare il maggior tempo possibile con loro. Giocava con loro, li portava entrambi a passeggiare intorno alla casa o nei dintorni. Perciò quando la sua morte è diventata una reale possibilità, mi sono chiesta che cosa avrei detto loro, come avrei risposto alle loro domande quando fossero cresciuti senza un padre e come avrei potuto andare avanti senza di lui.

Quando è arrivato all’ottantesimo giorno di sciopero della fame, il suo corpo ha cominciato ad avere convulsioni. Ho saputo in seguito che questi spasmi involontari erano molto dolorosi. Ogni volta che sopraggiungevano, lui recitava la Shahada [la professione di fede nell’Islam, ndtr.] – “Non c’è altro dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” – in previsione della sua morte.

Consapevole di ciò che sembrava essere la sua inevitabile morte, Mohammed ha scritto un testamento di cui io non ero a conoscenza. Mi è crollato il mondo addosso quando ho ascoltato le parole del suo testamento lette in televisione:

“Mi piacerebbe vedere mia moglie e i miei bambini, Islam e Lour, prima di morire. Voglio solo essere sicuro che stiano bene. Vorrei anche che l’ultima preghiera per il mio corpo fosse recitata nella moschea Durra. Per favore seppellitemi nella tomba di mia madre, in modo che lei possa prendermi in braccio come faceva quando ero bambino. Se questo non si può fare, per favore seppellitemi il più vicino possibile a lei.”

Durante il suo sciopero della fame le fotografie dei bambini sono rimaste accanto al letto d’ospedale di Mohammed. “I miei bambini si ricordano di me?”, soleva chiedere a chiunque lo andasse a trovare.

Alla fine, la sua determinazione si è dimostrata più forte dell’ingiustizia dei suoi aguzzini. Il 26 febbraio 2016 è stato annunciato che era stato raggiunto un accordo tra il Comitato dei Prigionieri Palestinesi che rappresentava Mohammed e l’amministrazione penitenziaria israeliana. Mio marito sarebbe stato rilasciato il 21 maggio dello stesso anno.

Mohammed ha ottenuto la libertà dopo 94 giorni di sciopero della fame. Ha dimostrato al mondo di non essere un terrorista come sostenevano gli israeliani e di essere stato punito per aver semplicemente informato il mondo delle sofferenze del suo popolo. Grazie alla sua inflessibile resistenza le autorità militari israeliane sono state costrette a cancellare tutte le accuse contro di lui.

L’incarcerazione di Mohammed rimane un ricordo doloroso, ma anche una grande vittoria per i palestinesi di ogni luogo. Quando è entrato in carcere Mohammed pesava 99 chili; quando ha terminato lo sciopero della fame ne pesava solo 45. Il suo corpo era ridotto a pelle ed ossa. La sua struttura atletica era collassata su sé stessa, ma il suo spirito ha continuato a crescere, come se più fisicamente debole si sentisse, più diventasse forte la sua volontà.

Quando sono andata a trovarlo coi nostri figli una settimana dopo la fine del suo sciopero, non l’ho riconosciuto. Ho pensato di essere entrata nella stanza sbagliata, ma quando mi sono avvicinata ho visto i suoi begli occhi amorevoli, l’ ho abbracciato e ho pianto.

Mohammed è stato rilasciato alla data concordata, ma è stato nuovamente arrestato otto mesi dopo. Ha immediatamente iniziato un altro sciopero della fame che è durato 33 giorni.

Oggi Mohammed è libero, ma parla ancora della prigione e la nostra famiglia non ha ancora superato il trauma che abbiamo subito. Islam è preoccupato che suo padre possa essere nuovamente arrestato di notte. Gli dico di non preoccuparsi, ma io stessa sono terrorizzata da quella possibilità. Sogno il giorno in cui non avrò più paura di poter perdere mio marito.

Rivivo anche quella straziante esperienza tutte le volte che un prigioniero palestinese inizia un altro sciopero della fame. So che non è una decisione facile mettere in gioco la propria vita, rischiare tutto per ciò in cui si crede. Gli scioperi della fame non comportano solo un alto prezzo per i corpi e le menti dei prigionieri. Anche le loro famiglie e le loro comunità devono sopportare gran parte di quel pesante fardello.

Mi sento accanto a tutti loro e prego dio che tutti i nostri prigionieri vengano presto liberati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Fayha Shalash è una giornalista palestinese che vive nella città di Birzeit in Cisgiordania.

Ramzy Baroud è un giornalista noto a livello internazionale, consulente di media e scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Perché l’Europa non definisce Israele uno Stato di apartheid?

John Dugard

17 aprile 2019, Al Jazeera

Sia per le politiche adottate sia per il livello di brutalità, l’apartheid in Israele non è così diverso da quello che esisteva in Sudafrica.

L’apartheid esiste ancora ed è vivo, vegeto e prospero nella Palestina occupata.

I palestinesi lo sanno. I sudafricani lo sanno. Molti israeliani lo hanno accettato come parte del loro dibattito politico. Gli americani ci stanno facendo i conti ora con l’emergere di nuove voci nel Congresso e nelle ONG, come “Jewish Voice for Peace” [Voci Ebraiche per la Pace, associazione di ebrei statunitensi contro l’occupazione, ndt.], che non hanno paura di chiamarlo apertamente così.

Soltanto in Europa si osserva un’ostinata negazione dell’apartheid di Israele verso i palestinesi, nonostante le prove a sua conferma siano schiaccianti.

Le restrizioni da parte di Israele della libertà di movimento nel territorio occupato della Palestina sono un revival dei tanto odiati divieti di passaggio in Sudafrica, leggi che proibivano ai sudafricani neri senza permesso di stare in una città “bianca”. Le politiche di Israele sulla rimozione forzata della popolazione e la distruzione dei centri abitati assomiglia molto alla storia della ricollocazione delle persone di colore allontanate dalle aree destinate alla sola occupazione dei bianchi nel Sudafrica dell’apartheid.

Le forze dell’ordine israeliane operano brutalità e torture che vanno anche oltre le peggiori pratiche dell’apparato di sicurezza sudafricano. L’umiliazione delle persone di colore che era il fulcro dell’apartheid sudafricano è replicata fedelmente in Palestina.

La retorica razzista nel dibattito pubblico israeliano offende persino chi conosce bene il tipo di linguaggio dell’apartheid in Sudafrica. La propaganda di crudo razzismo che ha caratterizzato la recente campagna elettorale in Israele non ha precedenti neanche in Sudafrica.

Certo ci sono delle differenze, perché i due territori hanno condizioni storiche, religiose, geografiche e demografiche differenti, ma entrambi i casi rientrano nella definizione universale di apartheid. Nel diritto internazionale, l’apartheid è un tipo di regime di discriminazione razziale istituzionalizzata e legalizzata sancito dallo Stato, nonché di oppressione di un gruppo razziale egemonico sull’altro.

Sotto certi aspetti l’apartheid del Sudafrica era peggiore, mentre sotto altri è peggiore quello israeliano nella Palestina occupata. Per certo, l’applicazione dell’apartheid nella Palestina occupata da parte di Israele ha un carattere più militarista e brutale. L’apartheid in Sudafrica non ha mai imposto un blocco su una comunità nera né ha metodicamente ucciso gli oppositori come sta attualmente facendo Israele lungo la frontiera di Gaza.

Sono fatti ben noti: chiunque legga i giornali non è all’oscuro della repressione inflitta al popolo palestinese da parte dell’esercito d’occupazione israeliano e dei coloni ebrei. È noto a tutti che i differenti sistemi legali per i coloni e per i palestinesi hanno creato un regime di status legali segregati e assolutamente disuguali.

Come mai dunque l’Europa nega ostinatamente l’esistenza dell’apartheid nella Palestina occupata? Perché si continua a fare affari con Israele come se niente fosse? Perché l’Eurovision Song Contest si terrà a Tel Aviv? Perché l’Europa vende armi e intrattiene rapporti commerciali con Israele, persino con le colonie illegali? Perché mantiene rapporti culturali e accademici? Come mai Israele non è soggetta al tipo di ostracismo che fu applicato ai tempi in Sudafrica e alle istituzioni sudafricane bianche conniventi?

Come mai le sanzioni a condanna dell’apartheid in Sudafrica furono adottate dai governi europei mentre si prendono provvedimenti volti a criminalizzare il movimento nonviolento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) che cerca di assicurare pace, giustizia e uguaglianza per i palestinesi?

Ci sono tre spiegazioni per risolvere l’enigma.

Per prima cosa, in molti Stati europei le lobby filoisraeliane sono potenti esattamente quanto negli Stati Uniti, ma senza lo stesso grado di visibilità.

Il secondo fattore è il senso di colpa per l’Olocausto. Le politiche di alcuni Paesi come l’Olanda verso Israele sono ancora condizionate dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza per salvare gli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Ultimo, ma il più importante di tutti, esiste la paura di essere classificati come antisemiti. Promosso e manipolato da Israele e dalle sue lobby, il concetto di antisemitismo è stato esteso fino a includere non solo l’odio verso gli ebrei, ma anche la critica verso l’apartheid israeliano.

Nel caso del Sudafrica, il presidente PW Botha era odiato perché applicava l’apartheid, non perché era un afrikaner [comunità bianca sudafricana di origine olandese e protestante, ndt.]. Potrebbe sembrare scontato che allo stesso modo molti possano odiare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché applica l’apartheid, e non in quanto ebreo, ma questa linea di demarcazione è assai sottile in Europa, tanto da diventare pericoloso e poco saggio criticare Israele.

In Europa, criticare l’apartheid in Sudafrica era una causa popolare. Il movimento anti-apartheid, che faceva pressioni per il boicottaggio delle esportazioni sudafricane, degli scambi commerciali, sportivi, artistici e accademici, era incoraggiato e non assoggettato ad alcuna restrizione. I governi imposero svariati tipi di sanzioni, incluso l’embargo. Le proteste pubbliche contro l’apartheid erano prassi comune nelle università.

Le critiche verso le politiche discriminatorie e repressive di Israele invece rischiano di essere bollate come antisemitismo, con serie conseguenze sulla carriera e la vita sociale di una persona. Conseguentemente, si vedono ben poche proteste contro l’apartheid israeliano nei campus europei e un ben più freddo sostegno al movimento BDS. Le personalità pubbliche che criticano Israele vengono attaccate in quanto antisemite, come dimostra la caccia alle streghe fatta contro i membri del partito Laburista in Gran Bretagna.

Finché gli europei non avranno il coraggio fare una distinzione tra le critiche verso Israele per il suo apartheid e il vero e proprio antisemitismo (che, ricordiamo, è l’odio verso gli ebrei), l‘apartheid continuerà a prosperare nella Palestina occupata con la complicità diretta dell’Europa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Maria Monno)




Come anche la sinistra disumanizza i Palestinesi di Gaza.

Susan Abulhawa

Al Jazeera, 13 aprile 2019

Avvolgendo gli abitanti di Gaza nell’aura di un mitico coraggio, la sinistra dimentica l’umanità dei Palestinesi.

Lungo tutto l’arco politico, dall’estrema sinistra all’estrema destra, attraversando ogni confine razziale ed etnico, quasi tutti quelli che hanno qualcosa da dire sui dimostranti di Gaza sembrano dimenticarsi il lato umano dei Palestinesi. Se viene da destra, la narrativa sarà quella dei terroristi, dei razzi e di Hamas, rinchiudendo totalmente una legittima resistenza palestinese entro l’immagine di una specie di Uomo Nero per l’immaginazione occidentale.

Da sinistra, le storie diventano materia da leggenda, descrivendo nella parte palestinese solo imperscrutabile eroismo, coraggio e “sumud”, una parola araba romanzata nella lingua inglese per descrivere l’epica determinazione palestinese.

Ai due estremi dello spettro, gli inermi Palestinesi diventano figure gigantesche, diverse dagli altri esseri umani, sia che riescano sovrumanamente a rappresentare una minaccia per dei soldati perfettamente armati e distanti parecchi campi da calcio, sia che mostrino coraggio e impavidità sovrannaturali di fronte a una morte quasi certa. Quest’ultima narrazione, che riesce a drammatizzare un’indicibile disperazione, è così attraente che persino i Palestinesi l’hanno ripresa.

Nulla da perdere

Solo pochi giorni fa guardavo il video di un giovane a cui avevano sparato alle gambe. Zoppica, cade e si rialza solo per essere colpito di nuovo dai proiettili. La scena si ripete per cinque o sei spari consecutivi, finché il giovane non si può più rialzare e gli altri arrivano per portarlo via. Il titolo e i commenti esaltavano il “giovane coraggioso” che continuava a resistere al suo oppressore malgrado fosse stato colpito più volte alle gambe.

Come madre palestinese, vedevo qualcos’altro in quell’uomo, abbastanza giovane da poter essere mio figlio. Forse era stato completamente privato di ogni speranza e gli avevano tolto la voglia di vivere una vita rinchiusa nella barbara, maligna e inventiva ferocia dell’assedio israeliano a Gaza. Un giovane che ha probabilmente conosciuto poco più che paura, disperazione, povertà e impotenza a fare qualsiasi cosa. Forse un giovane che non ha nulla da perdere, uno già derubato della sua vita legittima, che cerca, in segno di sfida, almeno un singolo momento di dignità, sapendo, e magari sperando, che quello sia l’ultimo. E forse è questo ciò che ha visto il soldato che ha sparato, e ha scelto di aggiungere il trauma di un’amputazione a un uomo già torturato che sollevava debolmente una piccola pietra senza neanche la volontà o l’energia sufficiente per lanciarla.

Forse la sua motivazione era il nazionalismo. Forse aveva la speranza di assicurare denaro alla sua famiglia se fosse stato martirizzato o ferito. Forse pensava che la sua morte potesse far avanzare la sua gente di un centimetro verso la libertà. Forse era la sola cosa che gli restava da fare. Non possiamo sapere cosa passa per la testa di uno che mette il proprio corpo tra i proiettili e la disperazione. Ma possiamo essere sicuri che le sue motivazioni sono dolorosamente umane. Non c’è nulla di divino da capire o trasformare in feticcio.

Analisi riduttive

Non c’è dubbio alcuno che ci vuole coraggio per scendere in campo contro Israeliani omicidi e carichi di odio, ma le narrazioni che permeano di mitico eroismo i Palestinesi sono nocive. Queste narrazioni propongono una irreale, quasi divina, capacità di resistere a ciò che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a sopportare, e nascondono la molto umana e fosca realtà della vita a Gaza, che ha portato a tassi di suicidio mai prima visti nella società palestinese.

Le persone di Gaza hanno differenti ragioni per prendere parte alla Grande Marcia del Ritorno, ma le analisi prevalenti sono riduttive, spesso unendo l’epico coraggio palestinese con la resistenza nonviolenta, perché l’immaginazione occidentale non può tollerare una resistenza armata, non importa quanto durevole e impietosa sia la violenza che è stata inflitta. L’eroismo connesso alle armi è esclusiva prerogativa dei soldati occidentali. L’unica resistenza moralmente valida concessa agli oppressi è, nella mente occidentale, esclusivamente nonviolenta. Questo significa che il diritto palestinese alla libertà e alla dignità svanisce nel momento in cui noi facciamo volare degli aquiloni incendiari o spariamo un razzo verso uno stato che da decenni sta massacrando la società e i corpi stessi dei Palestinesi. Vediamo le stesse reazioni negli USA, quando gli Afroamericani si sollevano e non si attengono perfettamente a una “pacifica” e “non violenta” protesta, dopo i secoli di denigrazione e marginalizzazione che hanno subito.

Certo non aiuta che persino alcuni Palestinesi rafforzino questa opinione, rigettando Hamas o riducendo qualsiasi forma di resistenza armata ad un fatto anomalo in una protesta altrimenti ideale e ordinata di un popolo oppresso straordinariamente forte e valoroso.

Gaza è un campo di sterminio

Ma bisogna dire la verità, e la verità è orribilmente sgradevole e squallida. Non c’è nulla per cui il mondo debba romanzare Gaza. Nulla da idealizzare. Gaza è un campo di sterminio. La tecnologia dello sterminio e della repressione è il maggior prodotto esportato dalla “Nazione Ebraica” e Gaza è il laboratorio umano dove l’industria israeliana delle armi collauda i suoi prodotti sui corpi, le menti e le anime dei Palestinesi. È una sventurata esistenza che non risparmia nessuno dei due milioni di prigionieri in quel campo di concentramento.

Israele ha trasformato Gaza, una volta grande città crocevia di commercio fra tre continenti, in un buco nero dei sogni. Gaza è la tomba della speranza, un inceneritore del potenziale umano, un estintore di ogni prospettiva. Le persone riescono a malapena a respirare a Gaza. Non possono lavorare, non possono partire, non possono studiare, non possono costruire, non possono guarire. Sotto ogni punto di vista, la minuscola striscia è invivibile, letteralmente inadatta alla vita. Quasi il 100% dell’acqua non è potabile. La disoccupazione giovanile è così alta che è più facile contare gli occupati, un patetico 30%. Circa  l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La maggior parte degli abitanti gode di poche ore di elettricità al giorno. Il sistema fognario è al collasso. Il sistema sanitario è giunto al suo punto di rottura e gli ospedali stanno chiudendo per mancanza di rifornimenti essenziali e di carburante, che Israele spesso impedisce di comprare o anche di ricevere in dono. Questa indicibile miseria è intenzionale. Israele l’ha progettata e realizzata. E il mondo permette che continui.

Parlare di “sumud”

Quando la nostra vita, la nostra resistenza e la nostra lotta sono inquadrate in termini leggendari, non solo si dimentica la nostra umanità, ma si diminuisce la depravazione morale del controllo israeliano su milioni di vite palestinesi. Il discorso sul “sumud” ci prepara all’insuccesso a ogni svolta. Da un lato si presuppone che i Palestinesi possano sopportare qualsiasi cosa, dall’altro si diffonde l’affermazione sottintesa che i Palestinesi meritino di essere liberi poiché sono buoni, coraggiosi, non violenti e determinati.

Ma la verità è che non siamo nulla di più, nulla di meno che umani. Collettivamente non siamo né mostri né eroi, e anche il peggiore di noi ha il diritto di vivere libero dall’occupazione straniera. Va detto e ripetuto che la lotta contro i nostri aguzzini è legittima in ogni sua forma, sia essa nonviolenta o violenta. Va detto e ripetuto che comunque noi lottiamo, la nostra resistenza è sempre autodifesa. Va detto ancora e ancora che il nostro diritto alla vita e alla dignità non è basato sulla nostra collettiva bontà, o coraggio o risolutezza. In ultima analisi, la sinistra deve smettere di raccontare in forma leggendaria i Palestinesi e guardare invece direttamente all’orrore della disperazione e dell’angoscia di Gaza che la maggior parte di chi legge, io credo, non può neanche immaginare.

Il punto di vista espresso in questo articolo è quello personale dell’autrice e non riflette necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese autrice del romanzo, best-seller internazionale, “Ogni mattina a Jenin” (2010). È anche fondatrice di Playgrounds for Palestine, una ONG che si occupa di bambini.

Traduzione di Elisabetta Valento

A cura di Assopace Palestina



Come la Grande Marcia del Ritorno ha rivitalizzato la resistenza palestinese

Ahmed Abu Artema

30 marzo 2019, Al Jazeera

La marcia che abbiamo iniziato un anno fa ha sfidato i nostri due maggiori nemici: la divisione palestinese tra fazioni e la propaganda israeliana.

Il 30 marzo 2018 ho assistito a una cosa che non dimenticherò mai. Ho visto decine di migliaia di persone con diverse affiliazioni politiche e posizioni ideologiche, stare tutte dalla stessa parte, alzare la bandiera palestinese e cartelli con i nomi dei villaggi e delle città da cui Israele li ha cacciati.

Quel giorno le divisioni tra palestinesi sono scomparse e la gente è andata insieme a rivendicare i propri inalienabili diritti.

La Grande Marcia del Ritorno ha aperto un capitolo nuovo nella lotta palestinese per la libertà. Ha dato al popolo palestinese una nuova opportunità per ribellarsi collettivamente contro l’occupazione israeliana.

Da allora abbiamo pagato un prezzo durissimo per la nostra resistenza pacifica.

Circa 266 palestinesi sono stati uccisi e più di 6.557 sono stati feriti da proiettili veri; 124 hanno avuto un arto amputato.

Ma abbiamo perseverato. Ogni venerdì migliaia di noi, donne e uomini, giovani e anziani, hanno continuato ad affluire verso la barriera di confine con Israele per chiedere il nostro diritto sancito dalle leggi di tornare alla nostra patria e hanno dimostrato che non accetteranno una morte lenta all’interno delle mura della prigione della Striscia di Gaza.

La Grande Marcia del Ritorno ha riacceso il nostro spirito di resistenza, ci ha dato potere, ci ha resi più forti e più uniti.

Quando, più di un anno fa, io e i miei amici per la prima volta abbiamo iniziato a discutere dell’idea di una marcia non mi sarei mai aspettato che avremmo ottenuto così tanto.

L’idea ci è venuta in un momento in cui la resistenza popolare in Palestina stava subendo una notevole crisi. Dalla fine della Seconda Intifada nel 2005 ci sono state proteste sporadiche, ma non movimenti di massa spontanei.

Invece molte fazioni politiche hanno occupato le piazze con manifestazioni pianificate, convocando i propri membri e sostenitori. Questo attivismo organizzato in base a tendenze politiche ha ridotto molti palestinesi a spettatori passivi e li ha tenuti lontani.

Ciò è stato molto deprimente per la causa nazionale, perché ha reso il movimento di resistenza una questione di fazioni. Dato che l’occupazione prende di mira il popolo palestinese come un tutto unico e non solo una specifica fazione politica, la lotta nazionale può avere successo solo se coinvolge ogni singolo palestinese.

Inoltre le guerre israeliane contro Gaza nel 2008, 2012 e 2014 hanno spostato i riflettori sulle fazioni armate e lontano dalla resistenza popolare. Questi scontri militari hanno anche consentito a Israele di raddoppiare i suoi tentativi di giustificare l’uso eccessivo della forza contro la popolazione palestinese con il pretesto di proteggersi dagli attacchi di gruppi armati.

Di conseguenza l’attenzione internazionale si è allontanata dalle violazioni dei diritti da parte di Israele e si è concentrata sulle sue pretese di sicurezza. Questo ha ulteriormente escluso il palestinese comune e le sue rivendicazioni per la fine dell’occupazione e per il diritto al ritorno.

Ma tutto questo è cambiato con la Grande Marcia del Ritorno.

Ciò che l’ha distinta dalle proteste e scontri del recente passato non è stata solo la sua natura popolare e pacifica, ma anche il modo in cui è stata concepita. L’idea della marcia è venuta ai giovani di Gaza – i miei amici ed io abbiamo preso l’iniziativa e diffuso l’idea sulle reti sociali. I palestinesi comuni l’hanno discussa e hanno contribuito a farla maturare e a trasformarla in qualcosa che potesse essere adottata da tutti i componenti della società palestinese.

La Grande Marcia del Ritorno, in quanto idea concepita dal popolo, è riuscita ad attraversare tutte le differenze tra le fazioni e a costruire un fronte unitario. Ha intercettato l’energia del popolo palestinese che non trova spazio nelle attività delle fazioni tradizionali.

Singole persone e famiglie senza alcuna affiliazione politica, che nel passato sentivano che non avrebbero potuto trovare un posto in molte altre proteste, hanno partecipato attivamente a questa marcia. Anche organizzazioni della società civile e attivisti si sono uniti, come anche alcune associazioni di clan.

La Grande Marcia del Ritorno ha attirato anche molti giovani disillusi e depoliticizzati a causa della condizione disastrosa della politica interna palestinese ed ha riacceso il loro spirito di resistenza. Ha contribuito al fatto che una nuova generazione di palestinesi abbia abbracciato la lotta palestinese per il diritto al ritorno.

La marcia – con la sua ispirazione popolare e la sua natura pacifica – è riuscita anche a minare i tentativi israeliani di presentare Gaza come una “questione di sicurezza”. Le continue proteste sono state fonte di disappunto, fastidio e imbarazzo per l’occupazione israeliana.

La violenta risposta di Israele alla Grande Marcia del Ritorno ha dimostrato che non vuole che i palestinesi adottino l’opzione pacifista. Timoroso che la nostra resistenza pacifica possa danneggiare i suoi tentativi propagandistici che ci dipingono come aggressori, Israele ha scelto di attaccare manifestanti che non rappresentavano un pericolo diretto per il suo popolo. E mentre i suoi soldati uccidevano, mutilavano e facevano tacere i dimostranti pacifici, lo Stato israeliano ha cercato di gettare la colpa dello spargimento di sangue sulle vittime.

Tuttavia questa volta gli occupanti non hanno avuto successo. Questa marcia ha contribuito al fatto che sempre più persone nel mondo vedano la nostra tragedia e ascoltino le nostre richieste di libertà e dignità. La Grande Marcia del Ritorno ha ridato credibilità al concetto di lotta pacifista. Se la resistenza armata si scontra contro l’occupazione con le pallottole, la lotta non violenta vi si oppone con il potere delle parole e con la giustizia della propria causa.

Israele può avere la forza militare, ma è eticamente debole. Ha espulso un popolo, occupato la sua terra e continua fino ad oggi a conculcarne la libertà e la dignità. Quindi in questa lotta i palestinesi sono naturalmente dalla parte moralmente giusta e le loro proteste pacifiche sferrano a Israele i colpi più duri di qualunque altra arma.

Un anno dopo l’inizio della nostra marcia provo un misto di tristezza e di determinazione. Per queste manifestazioni pacifiche abbiamo pagato con le vite e i corpi di molti palestinesi. Ad ogni singola pallottola israeliana che ha colpito uno dei manifestanti i nostri lutti e le nostre sofferenze come popolo si sono moltiplicati. Tuttavia non ci siamo arresi per 70 anni e non abbiamo intenzione di farlo ora.

La Grande Marcia del Ritorno è la risposta di una Nazione orgogliosa a decenni di occupazione, aggressione e furto. Prendendo questa posizione pacifista, stiamo annunciando al mondo che, nonostante i tentativi israeliani di spazzarci via, stiamo ancora resistendo forti e uniti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista e attivista per la pace palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)