Perché l’OLP ha sospeso il riconoscimento di Israele?

Mariam Barghouti

3 novembre 2018, Al Jazeera

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha sospeso il riconoscimento di Israele per la seconda volta in tre anni.

Il 30 ottobre, mentre stavo scorrendo le notizie sulla Palestina, ho ricevuto una telefonata da un’amica. “È il momento dell’anno”, mi ha detto con una grande risata, “in cui la nostra autoproclamata leadership decide di giocare a nascondino e di minacciare di sospendere il coordinamento sulla sicurezza con Israele.”

Il Comitato Centrale palestinese (PCC) ha annunciato di autorizzare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a sospendere il riconoscimento di Israele e il coordinamento sulla sicurezza con Tel Aviv. Ha sostenuto che le sospensioni rimarranno in vigore fino a quando Israele riconoscerà lo Stato palestinese sulla base dei confini precedenti al 1967, con Gerusalemme est come capitale.

Abbiamo riso entrambe, ma più per la tragicità della situazione che per altro. Il PCC fece lo stesso annuncio nel 2015. La ripetizione è stata davvero tragica e rivelatrice della natura di questi sforzi – che sono mere considerazioni, niente più che risibili tattiche spaventapasseri.

L’espressione “coordinamento per la sicurezza” è di per sé fuorviante. In realtà, è una strada a senso unico: l’Autorità Nazionale Palestinese collabora con Israele a spese dei palestinesi. Non c’è mai stata reciprocità. Questa cosiddetta “cooperazione” è una delle caratteristiche degli Accordi di Oslo del 1993, che sono nati morti.

La paura di Israele

Per molti versi la decisione del PCC di dichiarare – ancora una volta – che sospenderà il coordinamento sulla sicurezza e revocherà il riconoscimento di Israele non è stata una sorpresa né qualcosa di significativo.

Ciò che invece è stato davvero sorprendente rispetto all’accaduto è stata la reazione di Israele.

In seguito all’annuncio i media israeliani sono andati in fibrillazione, dimostrando quanto Israele tema ogni ipotesi di serio confronto con la Palestina. Anche una semplice affermazione da parte dell’OLP (che, come testimonia il passato, è improbabile che venga davvero messa in atto) sembra provocare un grave turbamento sul fronte politico israeliano.

Questo riflette le paure interiorizzate da Israele che i palestinesi effettivamente uniscano i loro sforzi di resistenza e e che ancora una volta alimentino un rafforzato sentimento di confronto.

Abbiamo già visto molti esempi di ciò.

L’anno scorso, quando la sedicenne Ahed Tamimi schiaffeggiò due soldati israeliani che avevano fatto irruzione del suo cortile, comparve nuovamente la stessa paura interiorizzata nei media, nella società e negli ambienti politici israeliani. Lei venne arrestata, giudicata in un tribunale militare e condannata a otto mesi di prigione insieme a sua madre Nariman.

Qualunque comportamento che in qualche modo si discosti dalla narrazione secondo cui la popolazione palestinese è compiacente e impotente, che sia una ragazzina che affronta i soldati o una leadership normalmente sottomessa che improvvisamente dichiara che potrebbe sospendere la propria collaborazione con i colonizzatori, è terrorizzante per Israele.

Ma quando l’OLP e l’Autorità Nazionale Palestinese compiono passi apparentemente coraggiosi come l’annuncio di martedì solo per tornare al momento in cui il loro potere e il loro patrimonio (acquisito attraverso corruzione, autoritarismo e clientelismo) sono nuovamente al sicuro, essi indeboliscono il piccolo punto di forza che i palestinesi hanno verso Israele.

O non riescono a vedere quanto i loro voltafaccia, le tattiche da spaventapasseri ed i falsi proclami di resistenza stiano colpendo la popolazione palestinese, oppure ne sono ben consci e semplicemente non se ne curano.

Ma c’è un aspetto ancor più sinistro nell’ultima dichiarazione del PCC. Non solo essa indebolisce la resistenza palestinese con il suo carattere indeterminato e inaffidabile, ma ha anche delle connotazioni che mettono in luce la totale condiscendenza dell’OLP e dell’ANP al sistema coloniale.

Minacciando di revocare il riconoscimento di Israele, la leadership palestinese ancora una volta ricorda al mondo che, nei fatti, accetta la legittimità di Israele. Segnala anche che continuerà a farlo finché Israele sarà così gentile da concedergli qualche briciola. Questo tipo di ipocrita contrattazione non è altro che un semaforo verde per Israele per proseguire nelle sue pratiche colonialiste, per prosperare e persistere nel suo violento saccheggio delle terre e delle risorse palestinesi e nel massacro del popolo palestinese.

Ricordiamoci che questo massacro non è soltanto memoria del passato, un evento che ha avuto luogo solamente 70 anni fa durante la Nakba [la Catastrofe, cioè l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre da parte delle milizie sioniste, ndtr.]. È tuttora in corso. Solo dal 30 marzo di quest’anno, in una sola città – Gaza – sono stati uccisi almeno 218 palestinesi.

Il fatto che questa decisione possa essere persino presa (di nuovo) mostra la decennale complicità dell’OLP nella cancellazione dei crimini di Israele. Nel suo riconoscimento e cooperazione con Israele, l’OLP ignora la crisi dei rifugiati palestinesi ed il loro diritto al ritorno a casa o ad una compensazione. Inoltre cancella del tutto migliaia di palestinesi con cittadinanza israeliana e la loro lotta per continuare a vivere sulla loro terra come cittadini di seconda classe.

Un tentativo disperato di recuperare legittimità

Se osserviamo con sufficiente attenzione l’annuncio del PCC del 2015 e quest’ultimo, vedremo che emerge chiaramente un disegno.

L’annuncio del 2015 giunse esattamente un anno dopo l’aggressione israeliana a Gaza che costò più di 2.100 vite palestinesi – e causò oltre 108.000 sfollati. Vi furono proteste in Cisgiordania contro l’ANP e la sua complicità con Israele.

L’annuncio di questa settimana è arrivato quando le proteste contro il colonialismo israeliano a Gaza sono arrivate alla 31esima settimana. Intanto l’ANP sta rapidamente perdendo legittimità e trasformando la Palestina in uno Stato di polizia agli occhi dei palestinesi e del mondo, continuando ad investire nelle forze di sicurezza per far rigare dritta la popolazione e compiacere Israele.

Ha represso brutalmente i manifestanti palestinesi che intendevano contestare le sanzioni dei loro dirigenti contro la Striscia di Gaza. Inoltre l’amministrazione Trump ha incoraggiato il governo di Israele spostando la sua ambasciata nel Paese da Tel Aviv a Gerusalemme e riconoscendo la città come capitale indivisibile di Israele.

In altri termini, entrambi gli annunci sono arrivati in un momento di instabilità per la Palestina e i palestinesi, quando la leadership palestinese stava per perdere ogni legittimità. Gli annunci, nella loro vacuità, sono tentativi disperati dell’OLP e dell’ANP di legittimarsi agli occhi dei palestinesi e della comunità internazionale come i soli adeguati tutori e rappresentanti del popolo palestinese.

La lotta dei palestinesi è stata ridotta a inchiostro e strette di mano nel 1993, e l’OLP e l’ANP non sembra possano abbandonare quella mentalità 25 anni dopo. Vogliono rimanere i leader riconosciuti della causa palestinese, a qualunque costo.

Oggi i palestinesi sono costretti a gestire i tragici risultati della vergognosa collaborazione della loro leadership, i suoi giganteschi fallimenti e le sue devastanti manovre politiche. Nonostante questo, le grida di libertà del popolo palestinese non saranno soffocate da vuote dichiarazioni e giochi politici.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese-americana che vive a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli ultimi sei mesi a Gaza sono stati come un’altra guerra

Mohammed Abu Mughaiseeb

1 Ottobre 2018 Al Jazeera

Sono un medico di Gaza e non ho mai visto niente di simile prima d’ora

Come medico che vive e lavora a Gaza da tutta la vita, pensavo di avere visto tutto. Avevo la sensazione di aver visto il massimo di ciò che Gaza può sopportare.

Ma gli ultimi sei mesi sono stati i più difficili che io ho trascorso durante i miei 15 anni di lavoro con Medici Senza Frontiere a Gaza. Eppure ho vissuto e lavorato durante tre guerre: nel 2008, 2012 e 2014.

La sofferenza e la devastazione umana che ho visto negli ultimi mesi hanno raggiunto un altro livello. L’incredibile quantità di feriti ci ha distrutto.

Non dimenticherò mai lunedì 14 maggio. Nell’arco di 24 ore le autorità sanitarie locali hanno registrato un totale di 2.271 feriti, comprese 1.359 persone colpite da proiettili veri. Quel giorno ero di turno nell’equipe chirurgica dell’ospedale Al-Aqsa, uno dei principali ospedali di Gaza.

Alle 3 del pomeriggio abbiamo iniziato a ricevere il primo ferito proveniente dalla manifestazione. In meno di quattro ore ne sono arrivati più di 300. Non avevo mai visto così tanti pazienti in vita mia.

A centinaia erano in fila per entrare in sala operatoria; i corridoi erano pieni; tutti piangevano, gridavano e sanguinavano.

Per quanto lavorassimo duramente, non riuscivamo a far fronte all’enorme numero di feriti. Era troppo. Ferito dopo ferito, la nostra equipe ha lavorato per 50 ore di seguito cercando di salvare vite.

Ci tornava alla memoria la guerra del 2014. Ma in realtà niente avrebbe potuto prepararci a ciò che abbiamo visto il 14 maggio. Ed a ciò che ancor oggi stiamo vedendo.

Ogni settimana continuano ad arrivare nuovi casi di traumatizzati, per la maggior parte giovani con ferite di arma da fuoco alle gambe con alto rischio di disabilità a vita. La massa di pazienti di MSF continua a crescere e al momento stiamo curando circa il 40% di tutti i feriti da arma da fuoco a Gaza, che sono oltre 5000.

Ma più procediamo a curare queste ferite da arma da fuoco, più constatiamo la complessità di quanto deve essere fatto. E’ difficile, dal punto di vista medico e logistico. Le strutture sanitarie a Gaza stanno cedendo sotto la forte domanda di servizi medici e i continui tagli; un’alta percentuale di pazienti necessita di interventi chirurgici specialistici di ricostruzione degli arti, il che significa molteplici interventi. Alcune di queste procedure non sono attualmente possibili a Gaza.

Ciò che mi spaventa di più è il rischio di infezioni. L’osteomielite è un’infezione profonda dell’osso. Se non viene curata può causare la non cicatrizzazione delle ferite, con aumento del rischio di amputazione. Queste infezioni devono essere curate immediatamente, perché peggiorano in fretta se non si interviene con farmaci.

Ma l’infezione non è facile da diagnosticare ed attualmente a Gaza non ci sono strutture per analizzare campioni di ossa in modo da identificarla. MSF sta lavorando per impiantare qui un laboratorio di microbiologia, che fornisca prestazioni e formazione e sia in grado di analizzare i campioni di ossa per testare l’osteomielite. Ma una volta che riuscissimo a identificare l’infezione, la cura richiederebbe un lungo e complesso ciclo di antibiotici per ogni paziente e successivi interventi chirurgici.

Come medico viaggio per tutta la Striscia di Gaza e vedo sempre più giovani sulle stampelle con tutori esterni alle gambe o in sedia a rotelle. Sta diventando sempre più una vista normale. Molti di loro cercano di mantenere la speranza e perseverano, ma io, in quanto medico, so che il loro futuro è nero.

Una delle cose più difficili nel mio lavoro è dover parlare a pazienti, in maggioranza giovani, sapendo che potrebbero perdere le gambe in conseguenza di un proiettile che ha frantumato le loro ossa e il loro futuro. Molti di loro mi chiedono: “Sarò di nuovo in grado di camminare normalmente?”

Trovarmi davanti questa domanda è molto duro per me perché so che, a causa delle condizioni in cui lavoriamo, molti di loro non saranno più in grado di camminare normalmente. Ed è mia responsabilità dire loro che noi stiamo facendo del nostro meglio, ma che il rischio che perdano la gamba ferita è alto.

Dire una cosa simile ad un ragazzo che ha tutta la vita davanti a sé è veramente difficile. Ed è un discorso che ho dovuto fare molte volte negli ultimi mesi.

Ovviamente noi continuiamo a cercare di trovare il modo di curare queste persone nonostante le difficoltà che affrontiamo: ospedali sovraffollati e, a causa del blocco, quattro ore di corrente elettrica al giorno, carenza di combustibile, ridotte attrezzature sanitarie, mancanza di chirurghi e di medici specialistici, infermiere e medici stremati che non vengono pagati a salario pieno per mesi, restrizioni alla possibilità per pazienti che escono da Gaza di ricevere cure mediche altrove, e l’elenco può continuare.

E questo mentre la situazione socioeconomica intorno a noi continua a deteriorarsi di giorno in giorno. Adesso vediamo bambini che chiedono l’elemosina per strada – una cosa che non capitava mai uno o due anni fa.

MSF affronta enormi sfide e non possiamo farlo da soli. Ci proviamo. Insistiamo. Dobbiamo andare avanti. Per me è una questione di etica professionale. I feriti devono ricevere le cure di cui hanno bisogno.

Ora come ora, a Gaza, guardare al futuro è come guardare dentro a un tunnel buio e non sono certo di poter vedere una luce in fondo ad esso.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Mohammed Abu Mughaiseeb

Il dottor Mohammed Abu Mughaiseeb è un medico palestinese e referente medico di Medici Senza Frontiere a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Palestina: diario di un bambino dell’UNRWA

Ramzy Baroud

22 settembre 2018, Al-Jazeera

Nonostante il livello scadente della scuola ed il pane raffermo, noi palestinesi vediamo l’UNRWA come un simbolo del nostro inalienabile diritto al ritorno.

Conservare la propria dignità quando si conduce una triste esistenza in un campo profughi non è un’impresa facile. I miei genitori hanno combattuto duramente per risparmiarci le quotidiane umiliazioni che implica il vivere a Nuseirat – il più grande campo profughi di Gaza. Ma quando ho compiuto sei anni e sono entrato nella scuola elementare maschile di Nuseirat, gestita dall’UNRWA [Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.], non c’è stato scampo.

Non ero un rifugiato solo nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite, ma lo ero anche in pratica, proprio come tutti i miei compagni.

Essere un rifugiato palestinese significa vivere costantemente in un limbo – senza la possibilità di reclamare ciò che è stato perduto, l’amata patria, né di concepire un futuro alternativo ed una vita in libertà, giustizia e dignità.

Come possiamo ricostruire la nostra identità che è stata distrutta da decenni di esilio, quando i nostri potenti aguzzini hanno collegato la nostra stessa esistenza e il nostro ritorno in patria alla loro scomparsa? Nella logica israeliana la nostra semplice richiesta di attuazione del diritto al ritorno sancito a livello internazionale equivale ad un appello al “genocidio”.

In base a quella stessa logica perversa, il fatto che il mio popolo viva e si riproduca è una “minaccia demografica” ad Israele. Quando Israele ed i suoi amici nel mondo sostengono che il mio popolo è “un’invenzione”, non solo stanno cercando di annichilire la nostra identità collettiva, ma stanno giustificando nelle loro menti le continue uccisioni e mutilazioni di palestinesi, senza che alcuna considerazione morale o etica le ostacoli.

Io sono cresciuto a Gaza resistendo a questo tentativo di Israele di cancellare noi palestinesi. “Ramzy Mohammed Baroud: rifugiato palestinese”, stava stampato su ogni pezzo di carta che io ho posseduto dal giorno in cui ho aperto gli occhi.

Con un sempre crescente numero di rifugiati in uno spazio sempre più ridotto a Gaza, il nostro linguaggio corrente è stato dominato da un vocabolario a cui quattro generazioni di rifugiati sono dolorosamente abituati: soldati assassini, barriere, aerei da guerra, una costante sensazione di morte incombente, fame, coprifuoco militari, resistenza, martiri e UNRWA.

Sempre l’UNRWA. L’ United Nations Relief and Works Agency [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro] per i rifugiati palestinesi ha accompagnato la nostra via dell’esilio fin dal primo momento. Pochi mesi dopo la Nakba – la catastrofica distruzione della patria palestinese e l’esilio di circa 750.000 palestinesi nel 1948 – l’UNRWA è diventata sinonimo del nostro esodo e della nostra odissea ancora in atto.

Molto si può dire sulle circostanze sottese alla creazione dell’UNRWA da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1949, sulle sue operazioni, sull’efficienza ed efficacia del suo lavoro, che cerca di soddisfare le esigenze di cinque milioni di rifugiati.

Ma per me, per la mia famiglia e per molti palestinesi, l’UNRWA non è stata meramente un’organizzazione di soccorso o assistenza. Essere registrati come rifugiati presso l’UNRWA ci ha fornito una temporanea identità che ci ha permesso di trascorrere 70 anni di esilio, vagando senza una casa o neppure un piano per tornare in quella che è stata, per un migliaio di anni e più, la nostra storica patria palestinese.

È come se il timbro di “rifugiato” su ogni certificato che possedessimo – nascita, morte e tutto quello che vi è in mezzo – fosse una bussola, che segnava i luoghi da dove provenivamo: il mio distrutto villaggio di Beit Daras e non il campo profughi di Nuseirat; non Jabaliya, Shati’, Yarmouk [in Siria, ndtr.] o Ein El-Hilweh [in Libano, ndtr.], ma le 600 cittadine e villaggi che furono distrutti durante l’attacco sionista alla Palestina.

L’esistenza di questi villaggi può essere stata cancellata, poiché un nuovo Paese è stato costruito per intero sulle loro rovine, ma i rifugiati palestinesi sono rimasti – sono sopravvissuti ed hanno progettato il loro ritorno a casa. Lo status di rifugiato dell’UNRWA era il riconoscimento internazionale dei nostri diritti.

Sinceramente quando avevo sei anni non mi importava nulla di tutto ciò. Mi mettevo in fila a scuola come tutti gli altri bambini; tutte le mattine scandivo gli slogan di routine che ci dicevano di recitare; prendevo il mio posto dietro il decrepito banco che portava i segni di generazioni di bambini rifugiati che incidevano i loro nomi e i riferimenti a passate guerre e tragedie; e facevo tutto quello che dovevo fare per essere un bravo bambino UNRWA.

E nel primo anno, quando arrivò il primo acquazzone invernale, imparai anche a sistemare il mio banco in modo da schivare l’acqua che pioveva dal soffitto.In tutti i soffitti di tutte le aule Unrwa in cui sono stato c’erano perdite d’acqua quando pioveva.

Infatti, uno dei miei più bei ricordi della scuola è quando, in terza classe, la nostra aula fu allagata e il nostro insegnante di storia, arabo e matematica, Mohammed Diab, ci disse di sederci sopra i nostri banchi mentre lui proseguiva la lezione. Morivamo di freddo nelle nostre fruste giacchette fornite dall’UNRWA, indossate da molti altri prima di noi. Ci accalcavamo insieme eccitati mentre l’acqua invadeva il pavimento dell’aula e il professor Diab continuava a raccontare le storie della passata grandezza araba dalla Palestina all’Andalusia.

Fu in quella scuola dell’UNRWA che disegnai la mia prima bandiera palestinese e provai l’esperienza della mia prima incursione da parte dell’esercito israeliano. Mentre gli studenti, accecati dai gas lacrimogeni e dal fumo, correvano in tutte le direzioni senza sapere come raggiungere il cancello principale per scappare, ricordo che quelli della sesta classe tornarono indietro per soccorrere i bambini più piccoli. Fu allora e là che compresi che cosa significa il coraggio palestinese.

Disegnare una gran quantità di bandiere era un rituale che si ripeteva nella prima settimana di ogni anno. Non era una prassi prevista ufficialmente dall’UNRWA, poiché l’amministrazione militare israeliana di Gaza arrestava i bambini, multava pesantemente i genitori e chiudeva le scuole a causa di ciò che presumevano essere un atto illecito. Sventolare o persino possedere una bandiera palestinese era un reato a Gaza. Lo facevamo lo stesso.

A volte, nei primi giorni di scuola, un grosso camion blu si fermava nella nostra scuola, accolto dalle grida di eccitazione di centinaia di bambini. Entro poche ore ogni allievo avrebbe ricevuto diversi libri usati, due quaderni nuovi, una serie di matite, un quaderno bianco da disegno e quattro pastelli.

Quelli abbastanza fortunati da possedere i pastelli verdi, rossi e neri li avrebbero condivisi con gli altri, in modo che tutti correvamo a disegnare il maggior numero possibile di bandiere palestinesi.

I soldati israeliani sapevano sempre in anticipo della nostra azione di ribellione collettiva e ci aspettavano come avvoltoi nelle strade. Molti bambini UNRWA venivano ammanettati e trascinati nelle “tende” militari – un enorme accampamento dell’esercito che separava Nuseirat dal campo profughi di Buraij – mentre molti invocavano piangendo i genitori e supplicavano pietà a dio.

Una volta ho gettato la mia borsa in un cespuglio di spine per sfuggire alla furia dei soldati israeliani. Recuperarla è stato come essere punto contemporaneamente da un centinaio di aghi.

Gli israeliani ci terrorizzavano anche con i loro continui raid nelle scuole dell’UNRWA. Migliaia di bambini e ragazzi furono uccisi e feriti in quel modo, soprattutto durante la prima intifada palestinese del 1987. Spesso le nostre proteste iniziavano nelle scuole UNRWA ed era in quelle stesse scuole che ci incontravamo per consolarci l’un l’altro per il ferimento e il martirio dei nostri compagni di scuola.

No, la guerra di Israele non prendeva di mira l’UNRWA in quanto organo dell’ONU, ma in quanto organizzazione che ci consentiva di mantenere la nostra identità di rifugiati con diritti inalienabili, che chiedono giustizia e ritorno alle nostre case. L’UNRWA alimentava in noi la speranza che un giorno ci saremmo liberati di ciò che doveva essere un’identità temporanea, per riprenderci la nostra vera identità, tornando ad essere nuovamente noi stessi, il popolo palestinese, un’antica Nazione che è esistita per secoli prima di Israele.

È in gran parte a causa di queste esperienze che l’UNRWA è una parte essenziale della mia identità come rifugiato palestinese. Questa intrinseca relazione non è fondata sui servizi che l’UNRWA fornisce o non fornisce, ma piuttosto sui principi politici e giuridici su cui si basa la sua esistenza.

Quando entrai nella scuola dell’UNRWA ottenni anche la mia prima tessera alimentare. La usavo raramente alla “tu’meh” (letteralmente “alimentazione”) – il centro alimentare dell’UNRWA nel nostro campo profughi. Fin da molto piccolo detestavo quell’esperienza. Non ci tenevo a una fettina di pane secco, mezzo uovo e mezza mela. Stare in coda in quella lunga fila di bambini poveri alla ‘tu’meh’ – un posto che puzzava di migliaia di uova sode – non era mai un’ esperienza piacevole.

Qualche settimana dopo diedi di nascosto la mia tessera alimentare ad un altro compagno povero, un ragazzo beduino che si chiamava Hamdan, la cui famiglia non aveva ottenuto lo status di rifugiati. Non fu un gesto virtuoso da parte mia; il cibo dell’UNRWA era semplicemente disgustoso.

Si, nonostante i tetti della scuola che perdono acqua ed il pane raffermo, l’UNRWA è stata e rimane fondamentale ed insostituibile. Per quanto riguarda Israele, i rifugiati dovevano essere “imprecisati” – in effetti, era quello il termine preciso scritto sul mio lasciapassare emesso da Israele nello spazio riservato alla nazionalità. I fondatori di Israele preconizzavano un futuro in cui i rifugiati palestinesi alla fine sarebbero svaniti, scomparendo all’interno della vasta popolazione del Medio Oriente. Settant’anni dopo, gli israeliani si cullano ancora in quella stessa illusione.

Ora, con l’aiuto dell’amministrazione USA di Donald Trump ostile ai palestinesi, stanno programmando campagne ancor più sinistre per far sì che i rifugiati palestinesi svaniscano, attraverso la distruzione dell’UNRWA e la ridefinizione dello status di rifugiati di milioni di palestinesi. Negando all’UNRWA gli stanziamenti di cui ha urgente bisogno, Washington intende imporre una nuova realtà, in cui né i diritti umani né il diritto internazionale o l’etica contano qualcosa.

Che cosa ne sarà dei rifugiati palestinesi sembra non avere importanza per Trump, per il suo genero e consigliere Jared Kushner e per gli altri dirigenti USA. Gli americani stanno ora a guardare con insolenza, sperando che la loro cinica strategia costringa alla fine in ginocchio i palestinesi, in modo che si sottomettano definitivamente ai dictat del governo israeliano.

Gli israeliani vogliono che i palestinesi rinuncino al loro diritto al ritorno per raggiungere la “pace”. La “visione” condivisa tra israeliani e americani per i palestinesi significa sostanzialmente l’imposizione dell’apartheid. Il mio popolo non l’accetterà mai.

L’ultima follia di USA e Israele si dimostrerà vana. In passato, le successive amministrazioni USA hanno fatto tutto quel che potevano per sostenere Israele e punire gli intransigenti palestinesi. Tuttavia il diritto al ritorno è rimasto la forza trainante dietro la resistenza palestinese, come ha dimostrato all’inizio di quest’anno la ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza.

Tutto il denaro che c’è nei forzieri di Washington non estirperà mai ciò che ora è una fede profondamente radicata nei cuori e nelle menti di milioni di rifugiati in tutta la Palestina, nel Medio Oriente e nel mondo.

Molti anni dopo essere entrato nel sistema educativo dell’UNRWA, ancora mi identifico con il bambino UNRWA che sono stato. Mi chiedo che cosa ne sia stato del mio vecchio banco nella mia prima aula della scuola. È crollato sotto il peso degli anni e delle successive guerre?

Se esiste ancora, spero davvero che i miei scarabocchi ci siano ancora. Ho inciso una mappa della Palestina storica, l’ho circondata di una corona di fiori e vi ho scritto sotto: Ramzy Baroud. Palestina. Libertà. Giustizia. Resistenza. Raed Muanis. Raed era un mio amico, vicino di casa e anche lui bambino UNRWA, ucciso dai soldati israeliani che lo avevano visto correre con una piccola bandiera palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, esperto di media, scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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L’UNRWA e il tentativo di Trump di cancellare il popolo palestinese

Neve Gordon

3 settembre 2018, Al Jazeera

Tagliando i finanziamenti all’UNRWA, Trump vuole eliminare la richiesta palestinese del diritto al ritorno

Il presidente Donald Trump sembra divertirsi a fare esperimenti sugli esseri umani.

Prima è arrivata la separazione di bambini dai loro genitori. Nel maggio 2018 Trump ha ordinato alla “United States Immigration and Customs Enforcement Agency” [“Agenzia USA per il Controllo dell’Immigrazione e le Dogane”] (ICE) di incarcerare nelle prigioni federali tutti gli adulti catturati mentre cercavano di attraversare il confine, trasferendo i loro figli a famiglie affidatarie o in centri di detenzione. La maggior parte di questi bambini è stata tenuta in quelle che sono sostanzialmente delle gabbie, e ad alcuni sono stati somministrati persino psicofarmaci senza il consenso dei genitori.

Il presupposto è che dolore, angoscia e sofferenza modificano il comportamento umano e che traumatizzare un gran numero di bambini e di loro genitori serve a scoraggiare altre persone, persino quelle che fuggono da zone di conflitto in cui la loro vita è in pericolo, dal cercare di entrare negli USA. Il punto di vista etico è che il fine giustifica i mezzi, anche se i mezzi includono politiche crudeli e disumane.

Ora ecco l’ultimo esperimento di Trump, questa volta con l’istruzione, le cure mediche e la fame. Adottando un discorso distorto, questo esperimento è presentato come parte di un innovativo piano di pace israelo-palestinese.

L’idea è di interrompere qualunque finanziamento alla United Nations Relief Works Agency [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione, ndtr.] (UNRWA), che negli ultimi 70 anni ha fornito un aiuto indispensabile a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Siria e in Giordania.

Il portavoce dell’UNRWA, Chris Gunness, ha chiaramente precisato le ripercussioni di simili iniziative: “A scanso di equivoci,” ha affermato, “questa decisione probabilmente avrà un impatto devastante sulla vita di 526.000 minori che ricevono quotidianamente un’istruzione dall’UNRWA; su 3,5 milioni di malati che si recano alle nostre strutture mediche per ricevere cure; a 1,7 milioni di persone in condizioni di insicurezza alimentare che ricevono assistenza da noi, e decine di migliaia di donne, bambini e disabili rifugiati in condizioni di vulnerabilità che si rivolgono a noi.”

Certamente, se la riduzione dei finanziamenti non verrà coperta da altri Paesi, la decisione di Trump avrà effetti devastanti sulle vite di milioni di palestinesi.

Questo esperimento sembra avere due diversi – anche se in relazione uno con l’altro – obiettivi.

Primo, a quanto pare Trump vuole verificare se una politica di distruzione e un intervento antiumanitario possono essere utilizzati come strumento di pacificazione in questo annoso conflitto.

Ciò rappresenta un’inversione delle parti rispetto al paradigma di Oslo, in cui l’Unione Europea e altri attori internazionali hanno deciso di investire centinaia di milioni di dollari ogni anno sui progetti di costruzione di uno Stato palestinese. Benché l’obiettivo di Oslo possa non essere mai stato la creazione di uno Stato palestinese indipendente, si pensava ancora che la vita dei palestinesi avesse un certo valore.

A quanto pare, l’idea che caratterizzava gli accordi di pace del 1993 era di trasferire il controllo di un certo numero di istituzioni e politiche – come quelle relative all’educazione, alla salute e alla sicurezza alimentare – ai palestinesi per liberare Israele dalla responsabilità di gestire la vita quotidiana della popolazione che aveva colonizzato. E, mentre Israele abbandonava le proprie responsabilità sul popolo palestinese, continuava a conservare il controllo sulla maggior parte della sua terra.

Al contrario l’attuale idea di Trump è semplicemente di imporre un “processo di pace” distruggendo tutte le istituzioni che gli Stati moderni utilizzano per gestire la propria popolazione, portando al contempo gli abitanti sull’orlo della morte sociale.

Pertanto non è un caso che nello stesso momento in cui Trump taglia ogni finanziamento all’UNRWA, egli abbia anche deciso di ridurre l’aiuto all’Autorità Nazionale Palestinese. La strategia è chiara: i palestinesi devono essere prima ridotti a quello che il politologo italiano Giorgio Agamben ha definito “nuda vita” per obbligarli ad accettare il “grande accordo” che il presidente Trump intende offrire loro.

Il secondo obiettivo dell’esperimento è cancellare la condizione di rifugiati dei palestinesi.

È importante ricordare che l’UNRWA è stata costituita per assistere i 700.000 rifugiati palestinesi dopo la creazione di Israele nel 1948. Che questi palestinesi fossero fuggiti o fossero stati espulsi con la forza dalle loro città e villaggi può essere un punto in discussione, ma non c’è alcun dubbio che, dopo che la guerra era finita, Israele abbia rifiutato di consentire ai palestinesi di tornare alle loro case, violando quindi l’articolo 11 della risoluzione 194 delle Nazioni Unite. È così che Israele ha creato il problema dei rifugiati.

Oggi i discendenti di quei rifugiati sono oltre 5 milioni e si è sempre dato per scontato che il loro status sarebbe stato risolto con la creazione di uno Stato palestinese. Dato che è estremamente improbabile che uno Stato palestinese vitale sia una componente dell’”accordo di pace” di Trump, la strategia ora si adopera per eliminare la grande maggioranza dei rifugiati palestinesi come dato storico e contemporaneo.

Ripetendo l’accusa del primo ministro Benjamin Netanyahu di “falsi” rifugiati palestinesi che minacciano lo Stato di Israele perpetuando il diritto al ritorno, Trump sta attualmente affermando che solo le persone nate e che hanno effettivamente vissuto nella Palestina mandataria [cioè governata dagli inglesi, ndtr.] prima della guerra del 1948 – gente che ora ha più di 70 anni – possono essere considerate rifugiate. I loro figli e nipoti no.

Anche qui la logica è chiara. Se viene bloccato il finanziamento all’agenzia che si occupa di milioni di rifugiati, allora essi non saranno più considerati tali, spianando così la strada ad un accordo nei termini decisi da Israele. Bloccare i finanziamenti USA, in altri termini, intende semplicemente avvalorare la folle realtà della post-verità che è diventata il marchio di fabbrica di Trump: in questo caso, che i rifugiati non siano rifugiati.

Mentre nel mondo degli affari di Trump il concetto che i diritti di proprietà possano essere abrogati dopo una generazione sembrerebbe una maledizione, in realtà, attaccare crudelmente gli oppressi collima perfettamente con il suo modus operandi. La sua visione del mondo forse viene espressa al meglio in un recente tweet postato dal suo alleato Netanyahu:

I deboli crollano, vengono massacrati e cancellati dalla storia mentre i forti, nel bene o nel male, sopravvivono. I forti sono rispettati, ci si allea con i forti, e alla fine con i forti si fa la pace.”

Dalla Cambogia alla Cina e fino all’Europa, il XX^ secolo ha mostrato la sua parte di esperimenti sugli esseri umani, tutti con conseguenze atroci. Sfortunatamente, Trump non ha studiato la storia. Ce la sta mettendo tutta per presentare la sua introduzione di nuovi esperimenti come la ricerca di un accordo di pace, ma, come ha scritto recentemente Gideon Levy su “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], in realtà si tratta di una dichiarazione di guerra contro il popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Sull’autore:

Neve Gordon ha conseguito una borsa di studio “Marie Curie” ed è professore di Diritto Internazionale alla Queen Mary University di Londra.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Gli Stati Uniti cessano di finanziare l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi

Al-Jazeera e agenzie di stampa

1 settembre 2018 Al-Jazeera

La decisione dell’amministrazione Trump è stata duramente criticata in quanto “palese attacco” contro i palestinesi che già affrontano una situazione drammatica.

Alcuni funzionari palestinesi hanno duramente criticato la decisione degli Stati Uniti di bloccare i finanziamenti all’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente, definendola un “plateale attacco” contro il popolo palestinese.

I commenti sono arrivati venerdì poco dopo che il governo degli Stati Uniti, uno dei principali alleati di Israele, ha annunciato che avrebbe interrotto i suoi finanziamenti all’Agenzia Umanitaria delle Nazioni Unite per il soccorso (UNRWA) [che si occupa esclusivamente dei rifugiati palestinesi, ndtr.] dopo aver definito l’organizzazione “un’impresa irrimediabilmente viziata “.

In una dichiarazione, la portavoce del Dipartimento di Stato americano Heather Nauert ha dichiarato che “è assolutamente insostenibile che gli aventi diritto ai benefici dell’UNRWA siano in continuo e infinito aumento e [l’agenzia] è in crisi da molti anni.”

“L’amministrazione [Trump] ha esaminato attentamente il problema e ha stabilito che gli Stati Uniti non verseranno ulteriori contributi all’UNRWA”, ha affermato Nauert.

La decisione è arrivata una settimana dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato il taglio di oltre 200 milioni di dollari agli aiuti economici per i palestinesi.

“Le due successive decisioni americane rappresentano un flagrante attacco contro il popolo palestinese e una sfida alle risoluzioni delle Nazioni Unite”, ha detto ieri il portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese Nabil Abu Rdainah all’agenzia di stampa Reuters.

“Tale punizione non riuscirà a cambiare il fatto che gli Stati Uniti non hanno più un ruolo nella regione e non sono parte della soluzione”.

Rob Reynolds di Al Jazeera, riferendo da Washington DC, ha detto che la decisione degli Stati Uniti “potrebbe peggiorare considerevolmente una situazione già terribile in alcune parti dei territori palestinesi, specialmente a Gaza”.

“Loro (gli Stati Uniti) si stanno giustificando per lo più con il fatto che i finanziamenti sono mal gestiti e la stessa agenzia spreca denaro ed è inefficiente”, ha detto Reynolds.

“La cosa è parte integrante, insieme al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, di un tentativo da parte dell’amministrazione Trump di determinare alcuni cambiamenti radicali e cercare di ridefinire la situazione in Medio Oriente”.

L’UNRWA fu fondata nel 1949 dopo che 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case da miliziani sionisti che preparavano la fondazione dello stato di Israele.

Attualmente fornisce servizi a cinque milioni di rifugiati palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, nonché in Giordania, Libano e Siria.

Sotto l’amministrazione di Donald Trump, il governo degli Stati Uniti aveva già ridotto il budget alle attività dell’UNRWA nei territori palestinesi occupati da 365 milioni di dollari a soli 65 milioni, provocando licenziamenti e il passaggio di molti dipendenti e collaboratori palestinesi a tempo pieno dell’agenzia a contratti part-time.

Alla fine di giugno, l’ONU aveva chiesto agli stati membri di colmare il problematico buco nel finanziamento causato dai tagli del governo degli Stati Uniti.

“La situazione dei palestinesi è segnata da grande ansia e incertezza, in primo luogo perché i rifugiati palestinesi non vedono all’orizzonte una soluzione alla loro situazione “, ha detto Pierre Krahenbuhl, direttore dell’UNRWA a una conferenza dell’ONU.

All’inizio di questa settimana, l’UNRWA ha segnalato che se Washington avesse approvato il taglio dei finanziamenti, ciò avrebbe probabilmente comportato una maggiore instabilità nella regione.

“Ci si deve porre la domanda: come diventerà il Medio Oriente se le persone più vulnerabili in quella regione non dovessero più ricevere servizi dall’organizzazione umanitaria delle Nazioni Unite”, ha detto il portavoce dell’agenzia Chris Gunness all’Agenzia [turca] Anadolu.

Il governo degli Stati Uniti sta anche spingendo per una riduzione del numero di rifugiati palestinesi da cinque milioni a cinquecentomila, e considera [rifugiati] solo quelli che sono stati direttamente espulsi dalle proprie case settant’anni fa.

Di conseguenza, milioni di loro figli e nipoti saranno esclusi.

( Traduzione di Luciana Galliano )




Ahed Tamimi e la forza delle donne palestinesi

Ramzy Baroud

23 agosto 2018, Al Jazeera

Lamia, Reem, Shaima e Dwlat sono donne palestinesi forti proprio come Ahed, ma le loro storie sono state ignorate.

Ahed Tamimi, la diciassettenne militante palestinese del villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, è un’icona di una giovane generazione ribelle di palestinesi che ha dimostrato di non tollerare le continue violazioni israeliane dei loro diritti e della loro libertà. Dopo aver passato otto mesi in prigione per aver affrontato i soldati dell’occupazione israeliana nel cortile di casa sua, Ahed è uscita ancor più forte e più determinata a trasmettere al mondo le sofferenze e le lotte del suo popolo.

“Il potere è del popolo ed il popolo saprà decidere il proprio destino e il proprio futuro e lo può fare”, ha detto, rivolgendosi alla folla di sostenitori e giornalisti dopo il suo rilascio.

La storia di Ahed ha ricevuto una sproporzionata attenzione da parte delle agenzie di comunicazione internazionali, che invece hanno spesso ignorato il coraggio e la sofferenza di tante ragazze e donne palestinesi che da molti anni vivono sotto l’occupazione e l’assedio militare di Israele.

Cosciente di questo, la madre di Ahed, Nariman, ha detto: “Sinceramente, è stato probabilmente l’aspetto di Ahed che ha provocato questa solidarietà internazionale, e questo è un fatto razzista, perché molti minori palestinesi sono nella situazione di Ahed, ma non sono stati trattati allo stesso modo.”

C’è molto di vero in questa affermazione. Quando le donne palestinesi non sono invisibili nell’informazione dei media occidentali, vengono dipinte come sventurate vittime di circostanze al di là del loro controllo – l’occupazione militare della loro terra e l’“arretratezza” della loro stessa società patriarcale. Difficilmente vengono viste come promotrici di cambiamento; al massimo, sono presentate come intrappolate in un “conflitto” in cui non giocano alcun ruolo attivo.

L’invisibilità delle donne arabe e musulmane nei media occidentali ha radici in una lunga storia di colonialismo, pieno di errate convinzioni e rappresentazioni razziste. Nel caso palestinese, queste errate rappresentazioni pregiudicano l’urgenza politica ed umanitaria della drammatica condizione delle donne palestinesi e del popolo palestinese nel suo complesso.

In realtà le donne palestinesi sono difficilmente mere spettatrici nella persecuzione e nella resistenza dei palestinesi e, a prescindere dal loro orientamento politico, dalla loro religione o residenza, meritano di essere rese visibili e comprese nel più ampio contesto dell’occupazione israeliana della Palestina.

Ciò che segue sono le brevi storie di quattro forti donne di Gaza che, nonostante la loro lotta ed il loro coraggio, rimangono invisibili nei media. Allevano bambini, insegnano musica, partecipano alle proteste alla barriera tra Gaza e Israele, subiscono la perdita dei loro cari e ferite e resistono di fronte ad una dura vita sotto l’assedio.

Tornerò ad unirmi alla Grande Marcia del Ritorno’ – Lamia Ahmed Hussein, 37 anni, Khan Younis

Quando il marito di Lamia, Ghazi Abu Mustafa, il 27 luglio è stato ucciso da un cecchino israeliano alla barriera di separazione tra Gaza e Israele, lei stava lavorando sul campo come volontaria paramedica.

Lamia è la maggiore di nove sorelle e fratelli. La sua famiglia, che ora risiede nella città di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, è originaria della cittadina di B’ir Al-Saba’a nella Palestina storica e, come milioni di palestinesi a Gaza e altrove, è ora in esilio permanente.

La fede di Lamia nel suo diritto a tornare nella casa della sua famiglia in Palestina è ciò che l’ ha motivata ad unirsi alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, in cui ricorreva anche “il Giorno della Terra”.

La sua decisione è stata appoggiata con forza da suo marito Ghazi, di 43 anni, che si è unito alla Marcia proprio il primo giorno. Lamia si è offerta come volontaria paramedica, aiutando centinaia di feriti palestinesi ogni venerdì. Conosceva molto bene quanto importante potesse essere il suo ruolo per quei coraggiosi dimostranti e per le loro famiglie. In passato, suo marito è stato ferito diverse volte negli scontri coi soldati israeliani.

Il suo primo ferimento, che gli tolse la vista all’occhio sinistro, avvenne durante la mobilitazione ampiamente non-violenta contro l’occupazione israeliana (1987-1993), nota come la prima Intifada. Nella Marcia del Ritorno è stato colpito più volte e, con Lamia al suo fianco, è ritornato alla barriera zoppicando, per essere accanto al suo popolo.

Lamia e Ghazi hanno affrontato insieme le loro sfide, hanno cresciuto una famiglia nella impoverita Gaza ed hanno protestato uno accanto all’altra quando la marcia di Gaza ha coinvolto l’intera comunità, sia uomini che donne, come non era mai avvenuto prima.

A luglio Ghazi è stato colpito a morte. È morto mentre Lamia stava salvando la vita di un altro dimostrante gravemente ferito, Nahid Qadeh.

Lamia era distrutta, ma non spezzata. Una vita di difficoltà e sofferenze le ha insegnato la forza e la resilienza. “Una barca impegnata ad aiutare gli altri non affonderà mai”, le ha detto Ghazi un giorno mentre si univano ad una grande folla di manifestanti alla barriera.

Madre di sei figli, rimasta vedova, ha tutte le intenzioni di riprendere il suo lavoro alla barriera.

“Niente farà vacillare la mia fede nel mio diritto al ritorno”, dice, una lezione che insegna continuamente ai suoi figli.

Benché il futuro di Gaza rimanga fosco, la determinazione di Lamia ad ottenere giustizia – per la sua famiglia, per il suo popolo e per sé stessa – rimane indistruttibile.

Non smetterò di cantare’ – Reem Anbar, 28 anni, Gaza City

Reem ha trovato la sua vocazione durante la guerra di Israele contro Gaza nell’estate del 2014. Avrebbe portato il suo ‘oud’ [il liuto arabo, ndtr.] ogni giorno dalla sua casa al Centro culturale Sa’id Al-Mashal, dove avrebbe trascorso ore a suonare per gli impauriti bambini e le loro famiglie, che vi avevano trovato rifugio dagli incessanti bombardamenti.

Per anni Reem ha tentato di lasciare Gaza in cerca di un posto dove sviluppare la sua passione per la musica presso un autorevole istituto artistico. Ma la sua richiesta di uscire è stata ripetutamente respinta da Israele. Ci sono migliaia di studenti come Reem che non hanno potuto usufruire di opportunità educative al di fuori di Gaza per la stessa ragione.

Reem suona l’‘oud’ da quando era piccola. Era il suo compagno, soprattutto nelle lunghe notti dei bombardamenti israeliani. Ogni volta che le bombe cominciavano a cadere, Reem prendeva il suo strumento ed entrava in un magico mondo in cui le note ed i ritmi avrebbero sconfitto il caos assoluto fuori dalla sua finestra.

Quando Israele ha scatenato l’attacco del 2014 contro Gaza, Reem ha invitato altre persone nel suo mondo musicale. Ha suonato per i bambini traumatizzati nel centro culturale, che cantavano mentre le bombe israeliane cadevano sulle loro case. Quando la guerra è finita Reem ha continuato il suo lavoro, aiutando i bambini feriti e resi disabili durante la guerra, nel centro stesso ed altrove. Insieme ad altri giovani artisti ha composto pezzi musicali per loro e ha allestito spettacoli per aiutare questi bambini a superare il trauma e favorire la loro integrazione nella società.

Alla fine del 2017 Reem è finalmente riuscita a lasciare Gaza per intraprendere l’istruzione superiore in Europa. Il 9 agosto 2018 ha appreso col cuore a pezzi che Israele aveva bombardato il Centro Culturale Sa’id Al-Mashal, che è andato completamente distrutto.

Reem intende tornare a Gaza quando avrà completato il suo percorso educativo. Vuole ottenere una laurea magistrale in terapia della musica, per poter contribuire a risanare una generazione di bambini segnata dalla guerra e dall’assedio.

“Vogliono farci smettere di cantare”, dice. “Ma accadrà il contrario. La Palestina sarà sempre un luogo di arte, storia e ‘sumud’ – tenacia. Lo giuro, terremo i nostri concerti nelle strade, se necessario.”

Sconfiggerò il cancro’ – Shaima Tayseer Ibrahim al-Shamali, 19 anni, Rafah

Shaima può a stento parlare. Il suo tumore al cervello ha colpito la sua mobilità e la sua capacità di esprimersi. Eppure è decisa a conseguire la laurea in Educazione di base all’università aperta Al-Quds di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

La sofferenza che affronta questa diciannovenne è straordinaria, anche per gli standard della povera e isolata Gaza. È la maggiore di cinque figli in una famiglia che è caduta in povertà in seguito all’assedio israeliano. Suo padre è pensionato e la famiglia ha dovuto lottare, ma ciononostante Shaima è determinata a poter studiare.

Doveva sposarsi dopo la laurea all’università. La speranza ha ancora modo di insediarsi nei cuori dei palestinesi di Gaza e Shaima sperava in un futuro migliore per sé e per la sua famiglia.

Ma il 12 marzo è cambiato tutto.

Quel giorno a Shaima è stato diagnosticato un tumore aggressivo al cervello. Appena prima della sua prima operazione all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme il 4 aprile, il suo ragazzo ha rotto il fidanzamento.

L’operazione ha lasciato a Shaima una paralisi parziale. Parla e si muove con grande difficoltà. Ma vi erano notizie peggiori; ulteriori analisi in un ospedale di Gaza hanno rilevato che il tumore non era stato del tutto rimosso e doveva essere asportato velocemente, prima che si espandesse di più.

A peggiorare la situazione, il 12 agosto il ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che non sarebbe più stato in grado di curare i malati di cancro nell’enclave assediata da Israele.

Shaima sta ora lottando per la sua vita mentre aspetta il permesso israeliano di passare il checkpoint di Beit Hanoun (chiamato da Israele valico di Erez) verso la Cisgiordania, attraverso Israele, per un’operazione urgente.

Molti abitanti di Gaza sono morti in quel modo, nell’attesa di un pezzo di carta, un permesso, che non è mai arrivato. Shaima comunque continua a sperare, mentre tutta la sua famiglia prega costantemente che la loro figlia maggiore vinca la sua battaglia contro il cancro e riprenda i suoi studi universitari.

Difenderò la mia famiglia e il mio popolo’ – Dwlat Fawzi Younis, 33 anni, Beit Hanoun

Dwlat si occupa di una famiglia di 11 persone, compresi i suoi nipoti e suo padre gravemente malato. Ha dovuto diventare capofamiglia quando suo padre, a 55 anni, è stato colpito da insufficienza renale ed è stato impossibilitato a lavorare.

Deve provvedere a tutta la famiglia con il denaro che guadagna come parrucchiera. I suoi fratelli e sorelle sono tutti disoccupati. Aiuta anche loro, tutte le volte che può.

Dwlat è una combattente; è sempre stata così. Forse è stata la sua esperienza del 3 novembre del 2006 a rafforzare la sua determinazione. Un soldato israeliano le ha sparato mentre stava manifestando con un gruppo di donne contro l’attacco israeliano e la distruzione della storica moschea Umm Al-Nasr a Beit Hanoun. Quel giorno sono state uccise due donne. Dwlat è stata colpita da una pallottola al bacino, ma è sopravvissuta.

Dopo mesi di cure è guarita ed ha ripreso la sua lotta quotidiana. Inoltre non ha mai perso occasione per alzare la voce in solidarietà con il suo popolo durante le proteste.

Il 14 maggio 2018, quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente trasferito la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, 60 dimostranti palestinesi sono stati uccisi e circa 3000 feriti presso la barriera tra Israele e Gaza. Dwlat è stata colpita alla coscia destra, il proiettile ha trapassato l’osso ed ha tagliato un’arteria.

Da allora la sua salute è peggiorata velocemente ed ora non è in grado di lavorare. Ma Israele non ha ancora approvato la sua richiesta di essere trasferita all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme per esservi curata.

Eppure Dwlat sostiene che continuerà ad essere un membro attivo ed efficiente della comunità di Gaza – per amore della sua famiglia e del suo popolo, anche se questo significa andare alle proteste alla barriera di Gaza con le stampelle.

In realtà, Ahed, Lamia, Reem, Shaima e Dwlat incarnano lo straordinario spirito e coraggio di ogni donna palestinese che vive sotto l’occupazione e l’assedio di Israele in Cisgiordania e a Gaza. Resistono e persistono, nonostante l’enorme prezzo che pagano, e continuano la lotta delle generazioni di coraggiose donne palestinesi che le hanno precedute.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato internazionalmente, consulente in materia di mezzi di comunicazione e scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I drusi e la legge sullo Stato Nazione

Yara Hawari

16 agosto 2018, Al Jazeera

Questa legge dimostra che non importa quanto cooperi – se non sei ebreo, questo Stato non è per te

L’approvazione lo scorso mese della legge sullo Stato-Nazione, che afferma il carattere ebraico dello Stato israeliano e riduce l’importanza della lingua araba, ha riacceso un dibattito tra i cittadini palestinesi di Israele, soprattutto in merito alla loro situazione precaria all’interno dello Stato. In particolare ha suscitato un’intensa discussione nella comunità dei drusi palestinesi in Israele, oltre a provocare una serie di dimissioni da parte di ufficiali drusi che prestano servizio nell’esercito israeliano. Il 4 agosto 50.000 drusi si sono riuniti contro la legge in piazza Rabin a Tel Aviv sventolando sia bandiere israeliane che druse. L’immagine della piazza invasa dalla bandiera drusa multicolore e da quella israeliana una vicino all’altra evidenzia la diversa relazione che la comunità drusa ha con Israele rispetto a quella degli altri cittadini palestinesi.

In seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la dirigenza sionista cercò di dividere la comunità palestinese sopravvissuta [alla pulizia etnica, ndtr.] attraverso la nozione di particolarismo – in altre parole, mettendo in evidenza differenze religiose e tradizionali al suo interno. I sionisti concentrarono la loro attenzione sulla comunità drusa di lingua araba (la religione drusa si è sviluppata dall’Islam ismailita [corrente dell’Islam sciita, ndtr.] e i suoi membri sono concentrati in Libano, Siria e Palestina).

Già nel 1948 alcuni drusi vennero reclutati dall’Haganà [principale milizia sionista, ndtr.], – una cosa all’epoca negata agli altri palestinesi – con la promessa di consentirgli di fare il raccolto agricolo nelle loro terre. Nel 1956 i dirigenti drusi accettarono un accordo di coscrizione obbligatoria nell’esercito israeliano in cambio della protezione della comunità in quanto minoranza.

Tutt’altro che d’accordo, molti villaggi drusi protestarono contro la coscrizione e contro la collaborazione dei loro dirigenti con il regime sionista. Tuttavia, nel corso del tempo, la maggioranza della comunità venne cooptata e inserita a forza all’interno del regime sionista, contribuendo a conservare il mosaico culturale israeliano di facciata. Eppure ironicamente continuarono ad essere privati delle loro terre e gli vennero negate le stesse infrastrutture e servizi a disposizione delle loro controparti ebraiche. Infatti, dalla nascita di Israele, i drusi hanno perso oltre tre quarti della loro terra a favore dello Stato e allo stesso tempo gli è stato vietato il permesso di costruire, provocando una situazione di sovraffollamento e strangolamento simile a quella degli altri palestinesi in Israele.

Questa vicenda di continue discriminazioni e la storia dei drusi che si rifiutano e resistono è spesso stata marginalizzata dalla narrazione egemonica. Più di recente, nel 2013 è stato formato un gruppo di giovani drusi chiamato “Urfod” (“rifiuto” in arabo) che ha promosso il rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito israeliano e una campagna per abolire la coscrizione obbligatoria. Formatosi nel villaggio druso di Rameh, in Galilea, “Urfod” sta iniziando a sfidare la narrazione egemonica della collaborazione dei drusi con il regime sionista mettendo in evidenza la resistenza attuale e passata dei drusi. Il villaggio di Rameh è anche il luogo d’origine di uno dei più famosi e prolifici poeti palestinesi, Samih al-Qassim, un palestinese druso. La sua poetica si concentra sulla resistenza e sull’amore per la Palestina. Sia gli attivisti di Urfod che Samih al-Qassim rappresentano un monito che non c’è niente di naturale o intrinseco nella collaborazione dei drusi con Israele – al contrario, è stata e continua ad essere una dei molti metodi utilizzati per disintegrare la società palestinese.

Tuttavia questa rinnovata e diffusa indignazione nel corso delle ultime settimane all’interno della comunità drusa nei confronti di questa legge non riflette necessariamente un incremento del rifiuto dei drusi. La legge è stata vista come uno schiaffo morale per una comunità “leale” piuttosto che la consacrazione di una supremazia ebraica già in atto. I timori per una “nuova” situazione in un’era di cittadinanza di serie B ha portato i dirigenti drusi, compreso il capo spirituale, lo sceicco Muwafaq Tarif, a incontrarsi con Netanyahu per discutere la prosecuzione della protezione dei drusi come minoranza. Nell’incontro Netanyahu ha anche espresso la speranza che la manifestazione dei drusi, organizzata in risposta alla legge, venisse annullata. Benché Tarif e Netanyahu abbiano raggiunto un accordo, il comizio ha avuto ugualmente luogo. Lungi dall’essere critico nei confronti di Israele o mettere in discussione la collaborazione dei drusi con lo Stato, ha ospitato oratori dell’esercito che hanno insistito sulla fedeltà dei drusi e hanno descritto la legge come un insulto piuttosto che come parte di una legislazione intesa a sostenere le reali caratteristiche razziste dello Stato.

Questo tentativo di cooptare le minoranze è stato a lungo una strategia per distruggere e frammentare la società palestinese. Le promesse di integrazione e di opportunità economiche e sociali non sono state mantenute, come dimostrato dal fatto che i drusi palestinesi continuano a essere vittime di discriminazione, marginalizzazione ed esclusione. Infatti una delle maggiori tragedie è come Israele sia riuscito a dividere il popolo palestinese ed abbia creato gruppi minoritari che lottano per le briciole della tavola del padrone. Se non altro questa legge dimostra che non importa quanto cooperi o collabori – se non sei ebreo, questo Stato non è per te.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele si è finalmente rivelato come Stato etno-religioso

Haidar Eid

22 luglio 2018, Al-Jazeera

L’unica cosa che rimane da fare ai palestinesi è lottare per uno Stato democratico e laico.

In Palestina stiamo affrontando una situazione complicata: abbiamo un progetto di colonialismo di insediamento che nega di esserlo, sostiene di essere una democrazia ed abbiamo le sue vittime, la cui persecuzione è stata ignorata per decenni e la cui lotta di liberazione nazionale è stata diffamata.

I colonizzatori sono riusciti a manipolare la narrazione su quello che sta avvenendo, riscrivendo la storia e occultando i propri crimini. Molti Paesi al mondo hanno creduto alle loro menzogne e adottato un atteggiamento “neutrale”, sostenendo di avere una posizione “equilibrata”.

Cosa c’è di equilibrato, quando una parte possiede uno degli eserciti più avanzati al mondo, finanziato e rifornito da una superpotenza alleata, e l’altra è stata abbandonata sia da alleati che da sostenitori e si può basare solo sulla determinazione e sulla forza del proprio popolo?

Ma queste professioni di “neutralità” ed “equidistanza” non sono più sostenibili. Israele ha smesso di giocare al gioco della finta democrazia e si è dimostrato per quello che è veramente: uno Stato di apartheid. Il 19 luglio la Knesset [parlamento] israeliana ha approvato la cosiddetta “legge per lo Stato-Nazione”, che dichiara Israele “la patria del popolo ebraico”. Ora è ufficialmente uno Stato esclusivamente etno-religioso.

Smascherare lo Stato etno-religioso di Israele

Per noi palestinesi questa legge ribadisce quello che è scontato, ossia che l’ideologia sionista è intrinsecamente razzista e antidemocratica.

L’obiettivo politico del sionismo era determinare artificialmente un cambiamento demografico in Palestina, rendendo maggioranza la minoritaria popolazione ebraica (che nel 1914 costituiva solo il 7,6% della popolazione) per mezzo di una massiccia immigrazione ebraica, la costruzione di insediamenti e l’espulsione dei palestinesi.

Inevitabilmente l’espropriazione di terre venne accompagnata dalla violazione dei diritti della maggioranza palestinese. I sionisti hanno sempre guardato ai palestinesi come invisibili, se non assenti, o piuttosto “presenti assenti” [definizione israeliana di una parte dei palestinesi rimasti o tornati nel territorio del nuovo Stato, ndtr.]. L’identità di quanti rimasero all’interno dei confini di quello che era diventato Israele venne cancellata con il termine “arabo-israeliani” e i loro diritti vennero negati da una miriade di leggi (di cui la “Legge per lo Stato-Nazione” è solo l’ultima riproposizione).

Ciò è dovuto al fatto che, contrariamente al pensiero liberale moderno, in Israele la cittadinanza e la nazionalità sono concetti separati, indipendenti. In altre parole, Israele non è lo Stato dei suoi cittadini, ma lo Stato del popolo ebraico. Quindi i palestinesi in Israele hanno passaporto israeliano ma non hanno gli stessi diritti dei cittadini ebrei.

Con la nuova “Legge per lo Stato-Nazione”, i palestinesi in Israele ora sono considerati “immigrati nativi” o stranieri nella loro stessa patria, perché Israele viene definito da questa legge “la patria storica del popolo ebraico”, ovvero non lo Stato di tutti i suoi cittadini. Questo è il risultato diretto del sionismo e della sua ideologia razzista.

È anche il risultato diretto del prevalere di opinioni antidemocratiche tra gli ebrei israeliani. La contraddizione tra ideali professati e comportamenti concreti, che è stato il meccanismo del cambiamento politico in molti luoghi nel mondo, non esiste in Israele perché nella società israeliana la fede democratica o la democrazia civica sono assenti.

Nella cultura politica e nella prassi israeliane non c’è un impegno per l’uguaglianza di tutti i cittadini. E non c’è tradizione di libertà civili in Israele perché una simile tradizione è incompatibile con il sionismo.

Quindi si può comprendere l’opposizione dell’establishment alle richieste per la creazione di un unico Stato per palestinesi ed ebrei, uno Stato democratico e laico governato con elezioni parlamentari e il governo della maggioranza nella Palestina storica. Questa idea è stata categoricamente rifiutata dalla società degli ebrei israeliani perché significherebbe di fatto la fine del sionismo.

E, dato che Israele si trasforma concretamente in uno Stato esclusivamente etno-religioso, dobbiamo porre delle domande scomode: ciò significa che anche l’Islam, il Cristianesimo, l’Induismo etc. possono essere la base di Stati moderni? E se noi insistiamo ancora che la religione dovrebbe essere separata dallo Stato, dov’è l’indignazione internazionale? Perché i principali mezzi di comunicazione non sono ossessionati dallo Stato ebraico allo stesso modo in cui lo sono dello “Stato islamico”? In cosa Israele è diverso dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che intendeva costruire uno Stato solo per i musulmani attraverso la violenza e la spoliazione?

La lotta contro l’apartheid è in corso

L’approvazione della “Legge sullo Stato-Nazione” dovrebbe eliminare qualunque dubbio che ci possa ancora essere tra gli osservatori “neutrali” che Israele è, di fatto, uno Stato dell’apartheid.

Proprio come il Sudafrica dell’apartheid diede la cittadinanza ai sudafricani bianchi e relegò i neri in “bantustan indipendenti” [enclave con limitato autogoverno della popolazione nera, ndtr.], il sionismo concede a tutti gli ebrei il diritto di cittadinanza nello Stato di Israele, mentre nega la cittadinanza ai palestinesi – i suoi originari abitanti.

Mentre il Sudafrica dell’apartheid utilizzava la razza per determinare la cittadinanza, lo Stato di Israele utilizza l’identità religiosa per definire la cittadinanza. Proprio come l’apartheid sudafricano emanò leggi che criminalizzavano la libertà di movimento dei neri sulla loro terra ancestrale, Israele controlla ogni aspetto della vita dei palestinesi attraverso le strutture di un’occupazione militare fatta di posti di blocco, strade e colonie solo per gli ebrei e il Muro, insieme a una rete di norme giuridiche.

I paralleli tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid sono infiniti. E probabilmente l’unica significativa differenza tra i due è che Israele, con un’impunità senza precedenti, non paga mai per i suoi delitti, come messo in rilievo dagli ultimi crimini di guerra a Gaza.

Cosa rimane al popolo palestinese dopo l’approvazione di questa legge palesemente razzista? Bene, non siamo sicuramente tanto sciocchi da aspettarci qualcosa dalla cosiddetta “comunità internazionale”. Anni di “negoziati” hanno creato solo bantustan in Cisgiordania e un campo di concentramento a Gaza. I palestinesi fanno ancora le spese di attacchi spietati da parte delle truppe razziste israeliane nascoste nei loro elicotteri ed F16 costruiti negli USA.

Quello che gli inviati USA nella regione hanno cercato di fare è arrivare ad una “soluzione” in linea con le condizioni di Israele, ignorando risoluzioni del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU] e leggi internazionali. Né l’attuale amministrazione USA di destra né la codarda UE hanno un piano equo su come risolvere la crisi in Palestina.

L’unica cosa su cui noi palestinesi possiamo contare è la forza della gente, proprio come i sudafricani hanno fatto quando, attraverso una lunga campagna globale, hanno obbligato i governi a boicottare il loro regime di apartheid.

Continueremo ad estendere il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) e a marciare verso la barriera a Gaza finché porremo fine a questa follia. Continueremo anche a lavorare a un modello alternativo, democratico e laico, che garantisca uguaglianza e abolisca apartheid, bantustan e separazione in tutta la Palestina. Non abbandoneremo la lotta.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al-Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

Mersiha Gadzo e Anas Jnena

18 giugno 2018, Al-Jazeera

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che Israele ha concesso solo a un terzo dei dimostranti feriti il permesso di attraversare il checkpoint di Erez per essere curati

 

Il solo modo in cui ora a Sari al-Shubaki può comunicare è aprire e chiudere le palpebre.

La mattina del 14 marzo un cecchino israeliano l’ha colpito al collo con un proiettile durante le manifestazioni a Gaza. Da allora, il ventiduenne è paralizzato. Un frammento del proiettile è rimasto fra la spalla e il collo.

Nell’ultimo mese è rimasto ricoverato in condizioni critiche nel reparto di cure intensive dell’ospedale Al Shifa della città di Gaza.

Da allora, la famiglia sta aspettando che Israele gli conceda un permesso per uscire attraverso il checkpoint di Erez a nord di Gaza, che i palestinesi chiamano Beit Hanoun, per essere curato.

Il giorno successivo a quello in cui Sari è stato colpito, i medici hanno detto che l’avrebbero trasferito in Egitto per le cure, ma la speciale ambulanza ICU necessaria per spostarlo non è mai arrivata come era stato invece promesso, dice Dawud al-Shubaki, suo padre.

“Non so se è la verità o se è perché lo considerano un caso senza speranza. Mi sembra che abbiano dei casi prioritari, visto che ci sono così tanti feriti” dice Dawuf ad Al Jazeera dall’[ospedale] Al Shifa.

Senza altra possibilità, Dawuf ha continuato a protestare nel cortile dell’ospedale per far conoscere le condizioni del figlio e ricevere aiuto.

“C’è ancora speranza. È cosciente. Ci hanno detto dall’ospedale S. Giuseppe di Gerusalemme che sarebbero pronti ad accoglierlo, ma quanto tempo ci vorrà? Il ferito che era nel letto vicino a lui è morto ieri”, dice Dawuf.

“Faccio appello a chiunque abbia ancora un cuore misericordioso perché faccia sì che mio figlio riceva le cure di cui ha bisogno. Non possiamo pensare di perderlo. Se muore sarà una catastrofe per tutta la famiglia” dice Dawuf, scoppiando in lacrime.

Dall’inizio delle manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’esercito di Israele ha ucciso per lo meno 129 palestinesi dell’enclave costiera assediata, e ha ferito più di 13000 persone.

In mancanza di risorse adeguate per provvedere alle cure necessarie ai pazienti, i dottori dell’impoverita Striscia di Gaza normalmente derivano i malati agli ospedali di Israele, della Cisgiordania e qualche volta della Giordania.

Ma per andarci i pazienti hanno bisogno di un permesso rilasciato da Israele, che spesso lo rifiuta senza spiegazioni o ci mette troppo tempo a concederlo per condizioni sanitarie urgenti.

L’altra possibilità è di uscire attraverso la frontiera sud di Rafah per essere curati in Egitto, ma la cosa è spesso dilazionata.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), al 3 giugno è stato concesso a 12 feriti su 22 di attraversare Rafah per essere curati in Egitto.

A causa del blocco israelo-egiziano che dura da 11 anni, i malati a Gaza affrontano da tempo ostacoli per lasciare Gaza e sottoporsi a cure indispensabili, cosa che ha causato a molti una lenta morte, ma i dimostranti feriti affrontano ora ostacoli anche più stringenti per attraversare Erez.

Secondo un nuovo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della SAlute, dall’inizio del movimento della Marcia del Grande Ritorno solo un terzo dei palestinesi feriti durante le manifestazioni ha avuto dalle autorità israeliane un permesso di uscita.

Al 3 giugno, dei 66 manifestanti feriti che hanno presentato domanda per essere trasferiti attraverso Erez, solo 22 sono stati approvati – rispetto a un tasso di approvazione del 60% nel primo trimestre del 2018.

Trentatré, cioè il 50%, hanno ricevuto un rifiuto – una percentuale significativamente più bassa rispetto all’8% del primo trimestre 2018.

I restanti pazienti stanno ancora aspettando, e intanto due di loro sono morti.

“È stato deciso che sarà rifiutata senza appello ogni richiesta di ingresso in Israele a scopo medico inoltrata da un terrorista attivo o da un dimostrante che abbia preso parte ai fatti violenti avvenuti vicino alla barriera”, ha commentato in una mail ad Al Jazeera un portavoce del COGAT, l’ente amministrativo dell’occupazione militare di Israele.

‘Una politica punitiva e vendicativa’

Secondo Adalah – il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba -, il rifiuto di Israele di evacuare i manifestanti feriti corrisponde ad una forma di punizione.

Prima del 15 aprile, a nessuno dei feriti durante le proteste della Marcia del Grande Ritorno è stato concesso il permesso di attraversare Erez per le cure.

Il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e Adalah hanno dovuto fare ricorso alla Corte Suprema di Israele perché i malati palestinesi potessero essere trasferiti attraverso Erez.

Il 16 aprile, tre giudici della Corte Suprema israeliana hanno unanimemente deciso che fosse consentito a Yousef Kronz, ventenne, ferito da un proiettile dell’esercito israeliano, di lasciare Gaza per cure mediche urgenti a Ramallah, per salvare la gamba rimasta.

Adalah riferisce che, a causa del ritardo imposto dall’esercito israeliano e dal tribunale riguardo alla sua iniziale richiesta di trasferimento inoltrata più di due settimane prima, Kronz ha già subito l’amputazione di una gamba.

La Corte ha deciso che Kronz non costituiva alcuna minaccia e che la sua condizione sanitaria rappresenta “un totale cambiamento nella sua vita”.

“Dalla nostra esperienza nel caso Kronz, l’esercito israeliano cerca di implementare una politica punitiva e vendicativa nel rifiutare ai residenti di Gaza accesso a trattamenti medici salvavita in Cisgiordania solo perché hanno partecipato ad una manifestazione” ha detto Mati Milstein, coordinatore per i media internazionali di Adalah.

“Di fatto, durante le udienze del tribunale, rappresentanti del governo hanno detto chiaramente che il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha deciso di impedire il trasferimento per trattamenti medici urgenti dei gazawi feriti che abbiano partecipato alle proteste e alle manifestazioni pacifiche – anche a rischio di un’amputazione.”

Secondo le leggi umanitarie internazionali, come forza d’occupazione Israele è obbligato ad assicurare ai palestinesi accesso alle cure e a garantire strutture mediche, ospedali e servizi nei territori occupati.

Tuttavia, per la delegazione di Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI) che ha visitato Gaza in aprile, lavorare nei migliori ospedali disponibili in città è stato come tornare indietro di diversi decenni.

Dr. Jamal Hijazi, del Centro Medico Shaare Tzedek di Gerusalemme, ha spiegato che non ci sono antibiotici, e i malati se li devono portare. Non ci sono nemmeno disinfettanti e lo staff medico usa al loro posto una soluzione salina, aumentando la probabilità di infezioni.

PHRI ha riferito che lo staff medico usa più volte i prodotti usa-e-getta, come pure i medicinali scaduti. Mancano anche materiali fondamentali come garza, morfina, punti di sutura chirurgici, anestetici e tutori per fratture alle gambe.

“I feriti non sono curati adeguatamente, e qualcuno paga con la vita”, ha detto PHRI nell’ultimo rapporto, in riferimento al pesante bilancio di vittime del 14 maggio.

“Costretti a frugare fra i resti delle scorte mediche e dei medicinali, su qualsiasi cosa riescano a mettere le mani, i medici si sentono come nullatenenti che chiedano l’elemosina.”

Non c’è altro da fare che aspettare

Il paramedico Mazen Jabreel Hasna è stato sottoposto a sei operazioni chirurgiche per salvare la sua gamba destra dopo che è stato colpito da un proiettile a frammentazione nell’area di Malaka a Gaza.

I medici hanno detto che avrebbero trasferito il trentatreenne in Egitto o in Giordania per un’operazione chirurgica, ma questo non è ancora successo. Aspettando il permesso, ha paura che le arterie artificiali che i medici hanno usato per salvargli la gamba possano presto esplodere o guastarsi, visto che non sono della misura giusta.

“Ora sono in attesa e se Dio vorrà, potrò farlo prima che qualcosa vada storto”, dice Hasna.

Anche Omar al-Housh, di 25 anni, sta aspettando il permesso di lasciare Gaza per operarsi. Il dolore è continuo, dice. “Giorno e notte.”

Passa tutto il tempo a letto, incapace anche di usare le stampelle e tiene la gamba ferita sotto un lenzuolo; non ha il coraggio di guardarla da quando il 14 maggio un cecchino israeliano l’ha colpita con un proiettile a frammentazione.

Il fratello mostra foto della gamba colpita di Omar – una profonda ferita va dall’anca alla caviglia, muscoli e tessuti completamente esposti.

Quando è arrivato Omar l’ospedale ha chiesto urgentemente donazioni di sangue. Ha ricevuto più di 60 unità di sangue a causa delle vene e dei vasi danneggiati e ha subito tre operazioni per salvargli la gamba.

Omar ha detto che il giorno dopo esser stato colpito gli è stato negato il trasferimento in Egitto.

Attualmente è sulla lista d’attesa per operarsi in Giordania, poiché in punti di sutura usati per cucire le sue vene e i vasi sanguigni danneggiati non sono del tipo giusto e la frattura delle ossa è parzialmente scomposta.

Sta aspettando il permesso dalle autorità israeliane e giordane, ma gli è stato già più volte rifiutato l’ingresso.

“Ci vuole tanto tempo e ho paura che mi rifiuteranno ancora una volta l’ingresso in Israele o in Giordania”, dice Omar.

“I medici hanno fatto un’operazione d’urgenza, temporanea, per evitare che la mia ferita peggiorasse. Voglio poter camminare di nuovo” dice Omar, aggiungendo che la sua pena è diventata anche mentale, poiché soffre di incubi e flashback.

Omar ha lavorato occasionalmente con il fratello come pescatore, ma lui e la sua famiglia non possono pagare le medicazioni e gli analgesici, ciò che aggrava il problema.

“Tutti i giorni ha bisogno di analgesici e iniezioni, altrimenti sveglia tutto il vicinato con le sue urla, ma io non posso permettermeli”, dice il padre Younis al-Housh, insegnante.

“L’altro giorno mi ha chiesto di non prendergli le iniezioni e i medicinali perché si sente di peso. Vedete come è diventata dura la vita qui? Ma ciò che ora è importante è che vogliamo che sia curato fuori di qui e possa camminare.”

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele potrebbe rioccupare Gaza, scatenare un altro massiccio attacco militare, oppure togliere l’assedio.

Al Jazeera

Di Adnan Abu Amer

20 giugno 2018

Quando i palestinesi hanno indetto la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, Israele ha intuito un’opportunità di scontro. Ha cominciato ad abbattere a fucilate un manifestante disarmato dopo l’altro, sparando nel contempo a tutto volume la versione propagandistica sul fatto che questi palestinesi costituivano una ‘minaccia’ alla sua sicurezza e che quindi aveva il “diritto di difendersi”.

Ad oggi i soldati israeliani hanno ucciso oltre 120 manifestanti palestinesi pacifici. Ma gli israeliani non si sono fermati qui.

Dato che l’opinione pubblica internazionale si stava volgendo pericolosamente contro di loro, le forze di occupazione israeliane hanno incominciato a reagire alle manifestazioni pacifiche prendendo di mira i gruppi della resistenza armata a Gaza, bombardando le loro aree di esercitazione, i depositi di armi, i tunnel e le infrastrutture logistiche, ed assassinando anche parecchi dei loro membri.

L’esercito israeliano non ha giustificazioni per questi attacchi; ha voluto semplicemente stabilire una nuova situazione di fatto sul terreno: la resistenza pacifica verrà affrontata con la forza bruta ed ogni escalation porterà ad un più esteso attacco militare.

Dopo qualche discussione, da Gaza è stata lanciata una risposta militare. Molti all’interno dei gruppi della resistenza armata erano convinti che Israele non avrebbe potuto imporre questa nuova  situazione sul terreno e che si doveva dimostrare che ci sarebbe stata una reazione ai suoi attacchi militari.

Ciò che questo episodio dimostra, tuttavia, è che è sempre più difficile per Israele mantenere lo status quo. La sua strategia, secondo cui “Gaza non vivrà e non morirà”, non sembra più funzionare. Esso teme che i palestinesi non si accontenteranno più di piccole concessioni e aggiustamenti.

Ed è in questo contesto che Israele sembra trovarsi di fronte a tre opzioni riguardo a Gaza: la rioccupazione, un’altra guerra o la fine dell’assedio.

Rioccupazione

Ci sono state alcune voci dell’estrema destra nel governo israeliano, nell’esercito e nell’elite intellettuale che hanno auspicato la rioccupazione di Gaza. Ritengono che stabilire nuovamente il controllo militare sulla Striscia potrebbe rimuovere la minaccia che essa costituisce.

Chiedono di occupare l’intera Striscia con truppe sul terreno e operare un radicale smantellamento dei gruppi armati di Gaza. Dopo che ciò sarà avvenuto, Gaza dovrebbe presumibilmente essere consegnata ad una parte terza, come l’Autorità Nazionale Palestinese o un organismo internazionale, che si occupi ed amministri i bisogni umanitari della popolazione.

Coloro che perorano questa soluzione sanno benissimo che stanno prevedendo un sanguinoso disastro. Israele troverà senza dubbio una forte resistenza a Gaza, che causerà decine, se non centinaia, di morti tra i soldati israeliani. Non c’è niente di più doloroso per Israele del ritorno dei suoi soldati dal campo di battaglia in neri sacchi per cadaveri.

Se rioccuperà la Striscia, lo Stato di Israele dovrà fornire livelli minimi di cibo, acqua ed elettricità alla popolazione economicamente sfinita. Ciò imporrebbe un notevole peso sul bilancio statale.

Il numero di vittime che una simile operazione militare causerebbe alla popolazione civile di Gaza  rappresenterebbe per la narrazione israeliana una catastrofe sul piano internazionale. L’indignazione internazionale per i crimini israeliani sta aumentando di giorno in giorno ed alla fine raggiungerà un punto di rottura.

È importante ricordare che questa opzione non è molto apprezzata nelle sfere decisionali di Tel Aviv, sia all’interno del governo che dell’esercito o dell’intelligence, poiché si rendono semplicemente conto di quanto esorbitante sarebbe il prezzo che dovrebbero pagare.

Un nuovo attacco militare

Questa opzione di un nuovo importante attacco militare a Gaza è popolare tra i personaggi politici e militari influenti in Israele, in quanto viene vista come meno onerosa rispetto ad una rioccupazione. Sembra corrispondere all’impellente necessità di trovare un nuovo deterrente contro Hamas dopo i suoi recenti lanci di razzi sugli insediamenti israeliani vicini a Gaza.

Israele si è abituato a scatenare un attacco a Gaza ogni pochi anni, all’interno della sua politica del  “falciare l’erba”. Ogni volta che le risorse di Hamas – sia umane che logistiche – crescono, sorge la necessità di eliminarle con attacchi aerei o uccisioni sul campo che ripristinino la deterrenza di Israele per qualche altro anno.

Dopo le diverse operazioni che Israele ha scatenato tra il 2006 e il 2014, potrebbe ben essere in procinto di scatenarne un’altra. Nonostante la loro convinzione che questa opzione sia urgentemente necessaria, i generali di alto grado sono dubbiosi in proposito perché sanno che nel corso degli ultimi quattro anni i gruppi armati palestinesi hanno ricostituito le loro risorse e addestrato le loro fila.

Una guerra a Gaza non sarebbe una scampagnata, ma loro la vedono come un male necessario o una “guerra senza altra scelta”.

Togliere l’assedio

Questa opzione vedrebbe Israele togliere l’assedio alla Striscia di Gaza sul piano economico ed amministrativo. Implicherebbe anche la costruzione di un porto o di un aeroporto sotto stretto controllo di sicurezza israeliano e con garanzie internazionali.

Questa opzione porrebbe sulle spalle di Israele l’onere di sostenere i due milioni di abitanti di Gaza, ma le sue implicazioni strategiche portano la leadership israeliana ad evitarla. Essa renderebbe possibile la creazione di un’entità palestinese con caratteristiche simili ad uno Stato, senza che debba fornire ad Israele le consuete “garanzie di obbedienza”, come avviene per la Cisgiordania.

Inoltre non vi sarebbero sufficienti garanzie che Hamas non tragga vantaggio da queste nuove strutture portuali per far entrare armi che potrebbero sovvertire lo status quo militare.

Poiché la situazione sul terreno a Gaza si modifica e le minacce di Israele contro i palestinesi aumentano, tutte e tre le opzioni sono possibili. Israele farà i suoi accurati calcoli per ognuna di esse, ma alla fine saranno gli sviluppi sul terreno a determinare quale strada prenderanno gli eventi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Il dottor Adnan Abu Amer è direttore del Dipartimento di Scienze Politiche all’università palestinese Ummah di Gaza

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)