Studio Fotografico Kegham: l’archivio perduto di Gaza

Un inviato dall’Egitto

17 aprile 2021 Al-Monitor

Il nipote di Kegham Djeghalian, superstite del genocidio armeno del 1915 e fondatore del primo studio fotografico di Gaza, ha recentemente organizzato una mostra con i negativi trovati tre anni fa.

Nel 2018 l’artista e studioso Kegham Djeghalian trovò tre piccole scatole rosse lasciate dal padre in un armadio del suo appartamento al Cairo. Ciascuna scatola conteneva una raccolta, apparentemente senza un filo logico comune, di negativi diversi, dagli anni Quaranta fino ai Settanta. Le foto erano state scattate da suo nonno – che si chiamava anche lui Kegham Djeghalian. Dai racconti sentiti da quando era ragazzo sapeva che era stato il più importante fotografo della Striscia di Gaza, ma non aveva mai visto le sue fotografie. Djeghalian decise di portarsi i 1.100 negativi a Parigi, dove vive, e incominciò a scansionarli e stamparli.

Lo scorso marzo Djeghalian ha curato una mostra dedicata al lascito del nonno, il primo fotografo professionista di Gaza. Il suo obiettivo era esplorare la storia visiva della Striscia di Gaza. La mostra si è svolta nell’ambito della Settimana Fotografica del Cairo, una kermesse fotografica tenutasi nel centro del Cairo.

“Questo progetto mi ha ossessionato per quasi dodici anni. Ho fatto due passi avanti e poi ne ho fatti dieci indietro,” ha raccontato Djeghalian ad Al-Monitor. “L’interesse che mi ha mosso è stato studiare Kegham senza impegnarmi in [un vero e proprio] lavoro di archivio – perché non c’è un archivio, c’è un retaggio,” ha detto.

Giovane sopravvissuto al genocidio armeno del 1915, Kegham crebbe in diverse città del Medio Oriente e quando divenne maggiorenne si trasferì in Palestina. Lì fece diversi lavori prima di sposarsi a Giaffa e di decidere di stabilirsi con la moglie a Gaza, dove fondò il suo primo studio fotografico – Foto Kegham – nel 1944. Come sottolinea Djeghalian durante la mostra, lo studio si trasformò in un’istituzione fondamentale nella società di Gaza, dove Kegham finì con l’essere comunemente riconosciuto come il padre della fotografia. Kegham morì nel 1981, dopo avere segnato la storia fotografica di Gaza per quasi quarant’anni.

“L’importanza di mio nonno – oltre ad essere stato il primo fotografo di Gaza e colui che più l’ha documentata – [è che] godeva della fiducia delle persone di Gaza. … Lo facevano entrare nelle loro case, [partecipare] ai loro matrimoni e funerali. Era diventato l’emblema del fotografo di una città,” afferma Djeghalian. “Gaza è molto chiusa. Non ci sono molti stranieri. Non è come Gerusalemme, crocevia di ogni tipo di viaggiatori e abitanti. E così, che un armeno arrivi e venga accettato così profondamente e sinceramente … vuol davvero dire molto.”“E l’aspetto interessante riguardante il periodo temporale è che lui stava lì prima del 1948. Israele non esisteva. Parliamo di Gaza sotto il mandato britannico. [Ha visto] la Gaza del 1948, la Nakba [la catastrofe, il termine con cui i palestinesi indicano la pulizia etnica ad opera dei sionisti, ndtr.] e la guerra. Poi c’è stata la fondazione di Israele. e Gaza è passata sotto il controllo egiziano. Nel 1956 Gaza venne invasa per sei mesi da Israele. Di questo c’è ampia documentazione. Poi l’Egitto. E infine nel 1967 Gaza venne occupata,” dice. “Questi sono i punti più critici nella storia moderna di Gaza, e lui li ha vissuti tutti.”

I millecento negativi che Djeghalian trovò in quelle scatole al Cairo sono soprattutto di foto degli anni ’50 e ’60, qualcuna degli anni ’40, pochissime degli anni ’70. Dapprima si accostò alle foto con una procedura da lavoro archivistico formale, prendendo i negativi per scansionarli, catalogarli, datarli, esaminando e raggruppando il materiale. Ma ben presto abbandonò l’idea di diventare il curatore di un piccolo archivio familiare.

Da quel momento, spiega Djeghalian, scelse di impegnarsi in una contrapposizione dura con le foto, in una lettura “dirompente” che ritiene generatrice di un’ambiguità che preserva l’affettivo e il nostalgico e al contempo prende atto della narrazione e del contesto disgregati in cui erano immersi Kegham e le sue foto. Decise inoltre di non restaurare i negativi al fine di mantenere un degrado che ritiene sia “bello e poetico.”

“In quanto sopravvissuto al genocidio armeno, [Kegham passò dalla] perdita di una continuità armena alla perdita della Palestina. La perdita di Gaza. La perdita dell’archivio. E la perdita dei materiali fotografici, perché i negativi si stanno deteriorando,” dice Djeghalian. “L’ambiguità conferisce qualche senso di rivelazione al [suo] lavoro e potrebbe rischiare di essere destabilizzante, e questo sentimento è costruttivo. In certo qual modo è costruttivo, e tuttavia destabilizzante,” aggiunge.

Djeghalian dice che si è rivelato impossibile ottenere accesso all’archivio di Gaza. Spiega che alla morte di Kegham la sua famiglia offrì lo studio all’apprendista Maurice, che ne preservò l’eredità finché non scomparve anche lui. Il fratello di Maurice, che non aveva alcun interesse per la fotografia, rilevò lo studio, di cui non si occupò mai, e l’archivio, che ha completamente monopolizzato e trascurato da allora, secondo Djeghalian.

Nella mostra del Cairo le opere di Kegham erano suddivise in quattro aree tematiche. Le prime due si incentravano sulla pratica professionale e l’impegno socio-politico, mostrando prima l’attività dello studio e mappandone poi le attività di documentazione fotografica di Gaza, inclusi paesaggi, matrimoni, feste, governanti egiziani, scuole e campi profughi. La terza era dedicata all’album familiare, che secondo Djeghalian può servire anche come una specie di lettura socio-geografica della Gaza del tempo. L’ultima mostrava alcune delle foto più significative di Kegham mediante una zumata fra Djeghalian al Cairo e l’attuale proprietario di buona parte dell’archivio di Kegham, a Gaza.

Come ha detto ad Al-Monitor Alia Rady, assistente curatrice della mostra, “La Striscia di Gaza non è stata documentata al pari di altre zone della Palestina. Per un certo periodo Kegham è stato il primo e l’unico fotografo di Gaza ed il suo archivio è in assoluto il più grande che abbiamo a tutt’oggi. Credo che questo archivio sia [il] racconto di un luogo che non esiste più E’ la documentazione di luoghi e persone che non esistono quasi più, ed è l’illustrazione visiva delle storie che abbiamo sentito sulla Gaza che non abbiamo mai visto.”

Rady prosegue: “L’archivio Kegham abbracciava ogni aspetto di Gaza: fotoritratti in interno, vita quotidiana, escursioni, gite al mare, picnic, paesaggi, politici, militari, campi profughi. Qualsiasi cosa accadesse a Gaza, Kegham la catturava con il suo obiettivo.”

Come riassume Djeghalian, “Questa è la storia visiva di un [luogo] che viene scarsamente documentato, e pertanto è problematico. È la storia di un Paese contestato, storia molto dirompente, problematica e contestata. In Egitto la percezione di Gaza si è costruita attraverso i dati, gli elementi visivi, le storie che ci arrivano. [Gaza] è diventata un punto nero nel Medio Oriente e nei Territori Palestinesi. L’aspetto impressionante della mostra è stato vedere che quasi tutti i visitatori sono rimasti turbati da questo impatto con la storia di un [luogo] che viene costruita in modo così negativo, perlomeno nella loro immaginazione.”

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




I rapporti fra Israele e Giordania sul punto di rottura per gli ostacoli frapposti alla visita reale alla moschea di Al-Aqsa

Osama al Sharif

16 marzo 2021 Al-Monitor

Re Abdullah II ne ha abbastanza delle provocazioni di Benyamin Netanyahu sul suo ruolo di custode della moschea di Al-Aqsa e dopo che Israele ha reso difficile la visita di suo figlio a Gerusalemme si è vendicato affossando il presunto viaggio storico del premier israeliano negli Emirati Arabi Uniti. Mentre Netanyahu combatte per la propria sopravvivenza politica alle elezioni della settimana prossima, i legami tra Giordania e Israele sono ora di nuovo al minimo.

Dopo quasi un decennio il tormentato rapporto tra il re di Giordania Abdullah II e il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu è finalmente esploso la scorsa settimana quando Amman ha affossato quella che doveva essere la visita storica del premier israeliano negli Emirati Arabi Uniti.

Il 10 marzo, il principe ereditario di Giordania Hussein ha dovuto annullare all’ultimo minuto il previsto viaggio ad Al-Haram Al-Sharif (quello che Israele chiama il Monte del Tempio) di Gerusalemme Est perché Israele, secondo la Giordania, ha violato i protocolli della visita. Israele ha affermato che la cancellazione del viaggio era dovuta a controversie sugli accordi di sicurezza per proteggere il principe giordano, ma la Giordania ha negato.

L’11 marzo il ministro degli Esteri giordano Ayman Al-Safadi ha detto ai media che Israele “ha cercato di porre ostacoli per impedire l’ingresso dei gerosolimitani alla moschea”, aggiungendo: “Abbiamo concordato con Israele le modalità della visita e siamo rimasti sorpresi che all’ultimo momento Israele abbia voluto imporre nuovi accordi e cambiare l’itinerario.”

Il principe voleva visitare la moschea di Al-Aqsa per celebrare una festività sacra musulmana. Doveva anche visitare le chiese cristiane nella Città Santa. Anche per la Giordania questa sarebbe stata una visita storica: la prima di un reale giordano da quando Giordania e Israele hanno firmato un trattato di pace nel 1994. Al-Monitor ha appreso che Abdullah, che a quanto pare ne ha avuto abbastanza dei tentativi di Netanyahu di sfidare il ruolo del re di custode dei luoghi santi musulmani ad Al-Haram Al-Sharif e di provocare i giordani, era così arrabbiato che ha ordinato al governo di non concedere a Netanyahu il permesso di venire ad Amman e salire a bordo del jet privato degli Emirati Arabi Uniti che gli era stato inviato per portarlo l’11 marzo ad Abu Dhabi. Quando finalmente ore dopo l’approvazione è arrivata, il piano di Netanyahu di una breve visita ad Abu Dhabi, dove avrebbe dovuto incontrare il principe ereditario Mohammad Bin Zayed, era fallito.

Più tardi nello stesso giorno Safadi ha detto alla CNN che ad Amman erano indignati: come poteva Netanyahu – che aveva compromesso una visita religiosa e pacifica del principe ereditario alla moschea di Al-Aqsa – aspettarsi di venire in Giordania e andarsene tranquillamente via?

La calibrata risposta dei giordani ha colpito Netanyahu dove fa più male: la sua candidatura per la rielezione la prossima settimana. “Se Netanyahu pensava di poter fare un giro trionfale volando negli Emirati Arabi Uniti a celebrare lo scambio di relazioni diplomatiche tra i due paesi a scapito di Amman, ebbene ha avuto qualcos’altro”, ha detto ad Al-Monitor una fonte ben informata vicina al governo, che ha chiesto di mantenere l’anonimato.

Al centro della questione c’è il problema della custodia da parte degli hashemiti dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme Est. A dieci giorni dalla quarta elezione in due anni in Israele, Netanyahu voleva rendere quella custodia un tema elettorale per corteggiare gli elettori ebrei di estrema destra. Non sarebbe la prima volta che ha cercato di contestare il ruolo speciale della Giordania e di sfidare il re.

Per la Giordania, non esiste un caso legale o politico che Israele possa sollevare. Quel ruolo speciale è sancito nel trattato di pace del 1994 ed è stato confermato quando l’allora Segretario di Stato americano John Kerry mediò tra i due paesi nel 2014. Quell’intesa “ha ribadito l’impegno allo status quo per il complesso di Al Haram Al Sharif / Monte del Tempio”, riconoscendo nuovamente la custodia del complesso da parte della Giordania.

Ma subito dopo, Netanyahu aveva rinnegato di nuovo le sue promesse consentendo a funzionari israeliani e a gruppi ebraici estremisti di entrare nel complesso a recitarvi le preghiere. Le incursioni occasionali sono diventate regolari dal 2014 nonostante le continue proteste diplomatiche giordane. Alcuni di questi gruppi, che sostengono apertamente Netanyahu, dichiarano altrettanto apertamente di voler distruggere la Moschea di Al-Aqsa e costruire un tempio ebraico sulle sue rovine.

La custodia della Giordania non è stata smentita o contestata da altri. È stata sostenuta dalla Lega Araba, riconosciuta dall’Autorità Nazionale Palestinese e dalla comunità musulmana internazionale.

Ma il rifiuto della Giordania di accettare la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme e di riconoscere una Gerusalemme unita sotto la sovranità israeliana ha irritato Netanyahu e gli alti funzionari della Casa Bianca. Inoltre, quando Netanyahu minacciò di procedere con l’annessione unilaterale di gran parte della Cisgiordania, il re fece sapere che una tale mossa avrebbe avuto un effetto disastroso sul trattato di pace.

Non è un segreto che Abdullah abbia sempre diffidato di Netanyahu. Diverse fonti confermano che il re ha rifiutato molte proposte di incontro da parte di Netanyahu e che si è rifiutato di rispondere alle sue chiamate da quando il premier israeliano è venuto meno alla promessa di processare un diplomatico israeliano che aveva ucciso due giordani nell’ambasciata israeliana ad Amman nel 2017.

Lo scorso febbraio Abdullah ha fatto arrabbiare Netanyahu incontrando segretamente il ministro della Difesa Benny Gantz.

Gantz, rivale di Netanyahu, si è scagliato contro il suo primo ministro l’11 marzo quando ha affermato che la condotta di Netanyahu negli ultimi anni ha gravemente danneggiato le relazioni di Israele con la Giordania. Ha twittato: “La Giordania è un partner strategico di Israele. I nostri rapporti diplomatici e di difesa sono una pietra miliare nelle nostre prospettive di sicurezza nazionale.” Diversi funzionari della sicurezza israeliana hanno avvertito dei pericoli nel danneggiare i rapporti Israele-Giordania.

Con il destino politico di Netanyahu in bilico, è difficile dire dove stiano andando le relazioni con la Giordania. La fonte anonima ha confermato che la Casa Bianca di Joe Biden era a conoscenza della visita reale a Gerusalemme. Ha aggiunto che la questione del ruolo speciale della Giordania su Al-Haram Al-Sharif si presenterà di nuovo quando il re visiterà Washington nelle prossime settimane.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un tuffo nel passato visitando questo quartiere storico di Nablus

Taghreed Ali

20 febbraio 2021 – Al-Monitor

Una passeggiata per al-Yasmineh (il Gelsomino), quartiere della città vecchia di Nablus, ci porta attraverso le diverse civiltà che si sono susseguite in Palestina attraverso i secoli.

Il profumo di gelsomino accende i sensi, i vicoletti e gli edifici antichi nel quartiere al-Yasmineh, nel sudovest della città vecchia di Nablus, in Cisgiordania. La zona prende il nome dalla dolce fragranza del fiore di gelsomino qui diffuso ovunque ed è conosciuta localmente come la Piccola Damasco, a sottolineare le somiglianze con lo stile levantino e la sua architettura, prevalentemente di età mamalucca e ottomana.

Nascosta in uno degli angoli del quartiere, c’è la famosa erboristeria Breek, risalente a più di 400 anni fa. Da Breek si vendono prodotti a base di erbe, semi, spezie e autentico caffè arabo. In questo angolo di al-Yasmineh, così caro a visitatori e turisti, c’è anche un negozio di antiquariato che mette in mostra centinaia di pezzi da collezionista, come vecchie macchine da stampa e telefoni, tessuti ricamati e una varietà di collane, braccialetti e anelli palestinesi tradizionali.

Saleh Awad, direttore del Dipartimento delle Licenze e Ispezioni presso il ministero del Turismo e delle Antichità a Nablus, dice ad Al-Monitor: “Il quartiere di Al-Yasmineh è caratterizzato dalla diversità delle culture che si sono avvicendate, a partire dai romani agli imperi bizantini, dalle Crociate ai periodi mamalucco e ottomano presenti dalla metà del 17° al 18° secolo. Infatti dominano gli stili architettonici mamalucco e ottomano.”

Nella città vecchia di Nablus ci sono sette quartieri: al-Hableh, al-Yasmineh, al-Qaryoun, al-Gharb, al-Qaisariyya e al-Faqos. Essi ospitano vari monumenti archeologici e storici. Il settimo quartiere è al-Aqabeh dove si trova il più grande anfiteatro romano nei territori palestinesi. Ha un diametro di 100 metri e risale alla seconda metà del secondo secolo d.C.,” dice Awad.

Poi aggiunge: “Ci sono anche alcuni ahwash (cortili interni) e bagni pubblici, come l’Hammam al-Qadi e l’Hammam al-Hana, risalenti a più di 2000 anni fa. Quest’ultimo fu costruito nel cuore di al-Yasmineh dai samaritani. I bagni pubblici conservano il loro carattere antico e sono una delle mete più importanti per molti turisti locali, per gli arabi di Israele così come per i visitatori internazionali.”

Più di 30.000 persone vivono nella città vecchia di Nablus e occupano tutti i sette quartieri. È considerata un museo archeologico e storico a cielo aperto che ospita più di 550 monumenti e siti antichi che riflettono le culture che si sono avvicendate,” dice.

Awad spiega: “Il ministero del turismo e antichità, in cooperazione con il comune di Nablus e altre istituzioni come l’Associazione Taawon, stanno collaborando per preservare e rivitalizzarne la città vecchia, per riattarla e restaurarla, per promuovere il turismo. [I lavori ] includono la trasformazione di alcune vecchie fabbriche di sapone in ristoranti e un progetto del 2012 per restaurare numerose antiche case a Hosh al-Atout [parte del quartiere al-Yasmineh, ndtr.], in cooperazione con Taawon e con il sostegno del Fondo Arabo per lo sviluppo economico e sociale, con un costo totale di 1 milione e centomila dollari [poco meno di 1 milione di euro, ndtr.].”

Awad afferma che nel 2003 la municipalità di Nablus, in cooperazione con l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, ha restaurato Khan al-Wakaleh, costruito nel 1630, luogo di sosta di pellegrini e carovane di viaggiatori. È stato trasformato in un hotel per visitatori e turisti.

Vari archeologi e Abdullah Kalbouneh, l’ex direttore del dipartimento per il restauro del ministero del Turismo e Antichità, dicono ad Al-Monitor: “Al-Yasmineh, nota come ‘Piccola Damasco’, fu fondata dai romani nel 72 d.C. È un quartiere che si estende su 1.000 metri ed è stato abitato da samaritani, musulmani e cristiani. Poi, negli anni ’60, i samaritani si sono trasferiti a Jabal et-Tur (Monte Gerizim).”

La moschea Satoun è il monumento più eminente della zona e una delle più antiche di Nablus. Fu costruita durante il regno di Umar ibn al-Khattab. (Sono importanti anche) la moschea al-Khadra, l’hammam turco al-Samra, altri palazzi come quello di Abd al-Hadi, e i palazzi delle famiglie al-Kilani e al-Shalbak,” aggiunge Kalbouneh.

Inoltre c’è Hosh al-Atout, che consiste di 26 case, noto per i suoi lunghi vicoli. È stato testimone della lotta dei palestinesi durante il governo dell’ex presidente Yasser Arafat che usava tenere qua i suoi incontri segreti negli anni ’60,” dice.

Alcune case e parti della moschea al-Khadra ad al-Yasmineh furono distrutte nel 2002 durante il bombardamento israeliano, nel corso dell’invasione israeliana della Cisgiordania [operazione “Scudo protettivo” durante la Seconda Intifada, ndtr.]. Alcuni degli abitanti della zona si sono trasferiti in altre parti del governatorato di Nablus, ma dopo il suo restauro e ristrutturazione il quartiere ha visto un vero boom. Anche se è un posto dove varrebbe la pena di vivere e risiedere, essi hanno deciso di lasciarlo per andare in appartamenti più spaziosi con un’architettura moderna, specialmente quando le famiglie sono diventate più numerose,” continua.

Ahmad Chkeir, 67 anni, un abitante di al-Yasmineh, crede che “la famiglia e le relazioni sociali siano ciò che rende speciale il quartiere. Qui c’è un diwan (una sala per ricevimenti) dove si tengono tutti gli eventi e occasioni festive delle famiglie, il che dimostra i rapporti amichevoli fra gli abitanti e l’amore che condividono.

Alcune consuetudini si sono conservate: per esempio, gli abitanti celebrano il Mawlid (il compleanno del profeta Maometto) e altre festività islamiche decorando le strade e vicoletti con luminarie e organizzando festival gastronomici. Gli abitanti celebrano anche Shaabouniyeh quando, durante il mese musulmano di Shaban che precede il mese sacro del Ramadan, la famiglia del sindaco invita tutti gli uomini, donne e bambini della tribù a un banchetto. Questi eventi si tengono solo nei quartieri della città vecchia di Nablus,” afferma.

Racconta che “dopo la distruzione di decine di case del quartiere in seguito al terremoto del 1927, molte famiglie sono state costrette ad abbandonare la città vecchia per andare in altre zone più inurbate del governatorato di Nablus, aree in cui è più facile spostarsi e che sono vicine ai centri e a tutte le istituzioni vitali.” 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




A Gaza viene ristrutturata una scuola di 800 anni fa

Entsar Abu Jahal

18 gennaio 2021 – Al-Monitor

Il ministero del Turismo e delle Antichità, il Comune e il Centro Iwan per il Patrimonio Culturale di Gaza hanno lanciato un’iniziativa con alcuni attivisti per ristrutturare un’antica scuola nel centro storico di Gaza City, con lo scopo di preservare il patrimonio culturale dell’enclave e rendere consapevoli i palestinesi dell’importanza della cultura.

Gaza City, Striscia di Gaza – All’inizio di dicembre un gruppo di giovani artisti ed attivisti della Striscia di Gaza, insieme al ministero del Turismo e delle Antichità, al Comune di Gaza e al Centro Iwan per il Patrimonio Culturale, ha avviato un’iniziativa per ristrutturare la scuola Kamalaia nel centro storico di Gaza City.

L’iniziativa, denominata “Baytkom Amer” (approssimativamente traducibile con “la nostra casa sarà sempre felice”) è parte del progetto per la Cultura, l’Arte e la Partecipazione della Comunità, che promuove la conservazione del patrimonio culturale della Città Vecchia, con particolare riguardo al potenziamento del dialogo comunitario e della sensibilizzazione sull’importanza della cultura che contribuisce a questo dialogo.

Il progetto è finanziato dalla Fondazione Abdul Mohsin al-Qattan [Ong palestinese con sede a Londra, ndtr.] e dall’Agenzia Svizzera per lo Sviluppo e la Cooperazione.

Il coordinatore dell’iniziativa, Abdullah al-Razi, ha detto ad Al-Monitor che la scuola Kamalaia, che si trova nel cuore della Città Vecchia ed è stata chiusa negli anni ’70, ha circa 800 anni, in quanto risalente all’epoca dei Mamelucchi. È stata costruita con antiche pietre calcaree su un’area di 800 m2. Ha spiegato che la scuola è stata abbandonata per molto tempo e trasformata in discarica per il quartiere, mentre, data la sua collocazione strategica, da molte parti si voleva sfruttare l’edificio e trasformarlo in complesso residenziale o commerciale.

Razi ha affermato che l’iniziativa si inserisce nel quadro della conservazione del patrimonio culturale della Città Vecchia, ricca di reperti antichi e di testimonianze storiche, allo scopo di attivare il dibattito nella comunità, adottare un edificio del patrimonio culturale e rafforzare i legami comunitari. Aggiunge che l’iniziativa coinvolge un gruppo di artisti e di attivisti competenti, così come vari volontari della zona.

“La scuola Kamalaia è considerata parte del lavoro sul patrimonio architettonico abbandonato, come una fondamentale questione nazionale, e parte della responsabilità individuale e collettiva, intesa a sensibilizzare riguardo all’importanza della conservazione del patrimonio del centro storico,” ha notato.

Razi ha aggiunto che la prima fase dell’iniziativa è stata ripulire il cortile della scuola, le sue stanze e corridoi, oltre a qualche lavoro di restauro di tre aule fatiscenti e dei muri perimetrali per garantire la sicurezza dell’edificio e dei suoi futuri inquilini. Questa prima fase è praticamente completata e sarà seguita dall’avvio di attività culturali e artistiche nell’edificio della scuola.

“Abbiamo ricevuto un finanziamento di 20.000 dollari, che non sono sufficienti per ristrutturare tutta la scuola. Questa cifra è destinata a lavori di restauro e alle attività,” dice Razi.

Ha spiegato che gli interventi previsti dall’iniziativa includono incontri, laboratori tecnici, riunioni serali, mostre e campagne sul campo, nel tentativo di sensibilizzare i palestinesi riguardo al patrimonio culturale e ad edifici antichi nella Striscia di Gaza e di coinvolgerli nei processi di salvaguardia di tali monumenti.

Commentando le difficoltà del progetto, Razi ha affermato che si è trattato di una duplice sfida – una relativa ai problemi con la proprietà dell’edificio e un’altra riguardante i problemi della comunità. “Abbiamo un lungo cammino da fare per arrivare a un cambiamento culturale, artistico e storico, che può essere fatto dalla comunità attraverso questa iniziativa.”

Razi spera che il progetto, in base all’arrivo dei fondi della durata prevista di 10 mesi, sarà sostenibile dopo questo periodo grazie al patrocinio da parte di organizzazioni non governative locali e internazionali.

Hussein Odeh, capo dell’ufficio del Comune di Gaza per le pubbliche relazioni, ha detto ad Al-Monitor che riguardo alla proprietà della scuola c’è stata una discussione tra il Comune, il ministero del Turismo e delle Antichità e il ministero del Patrimonio. “Senza citare il fatto che anche alcuni abitanti ne rivendicano la proprietà. Questi problemi hanno portato all’abbandono della scuola, che è diventata una discarica di quartiere. L’iniziativa giocherà un ruolo nel mettere insieme i vari punti di vista, in quanto tutte le parti promuovono l’interesse pubblico attraverso investimenti a favore dei servizi alla comunità,” ha affermato, alludendo ai problemi di proprietà che devono ancora essere risolti.

“Come parte dell’iniziativa è stato firmato un protocollo d’intesa con la municipalità, in cui provvediamo ad ogni servizio necessario come la pulizia, lo sgombero della spazzatura, l’allacciamento al servizio idrico e il coordinamento con la compagnia elettrica per fornire energia alla scuola,” ha affermato Odeh. “Il gruppo di lavoro ha un piano per il riciclaggio dei rifiuti ambientali, per cui abbiamo aperto loro i depositi comunali.”

Jamal Abu Raida, direttore del Dipartimento delle Antichità e del Patrimonio storico del ministero del Turismo e delle Antichità a Gaza, ha detto ad Al-Monitor che il gruppo di lavoro ha firmato un protocollo d’intesa con il ministero per tenere laboratori e seminari educativi e artistici nella scuola, nel tentativo di sensibilizzare i cittadini sull’importanza delle antichità come parte del patrimonio culturale dei palestinesi.

“Il ministero accoglie positivamente ogni iniziativa della comunità riguardante il restauro di monumenti e resti storici, sempre che ciò venga fatto con la supervisione del ministero e non pregiudichi le caratteristiche del monumento,” ha affermato.

Abu Raida ha sottolineato che il blocco israeliano contro la Striscia di Gaza, in atto dal 2006, ha influenzato negativamente i progetti di restauro e la conservazione di luoghi archeologici nell’enclave costiera, soprattutto perché questi lavori richiedono notevoli somme di denaro che il governo non può fornire. Ha spiegato che per simili progetti il ministero si basa su finanziamenti internazionali.

“Il governo non può destinare un bilancio stimato a milioni di dollari per il restauro di siti archeologici, in quanto per ora questa non è una priorità a causa della difficile situazione finanziaria,” ha aggiunto Abu Raida.

Ahmad al-Astal, direttore del Centro Iwan, ha detto ad Al-Monitor di aver realizzato lavori di restauro solo nelle parti pericolanti della scuola per poter ricevere in sicurezza visitatori e tenervi eventi. Ha affermato che l’iniziativa intende far rivivere questo antico monumento per ottenere finalmente il finanziamento necessario per restaurarlo interamente, notando che a questo scopo è stato preparato un progetto da presentare a donatori internazionali.

“Il finanziamento è la parte più complessa dell’iniziativa, in quanto è difficile convincere i donatori a causa della divisione tra i palestinesi. Per non parlare delle sfide per educare la comunità riguardo all’importanza di preservare il patrimonio culturale. Stiamo lavorando con le autorità coinvolte e competenti per distribuire istruzioni e regolamenti sulla protezione di reperti antichi a Gaza,” ha sottolineato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Operai palestinesi scioperano in una zona industriale della Cisgiordania

Danny Zaken

14 gennaio 2021 – Al-Monitor

Gli operai palestinesi della Yamit stanno scioperando per ottenere il loro primo consistente aumento salariale in decenni.

La storia delle fabbriche israeliane nelle zone industriali in Cisgiordania in cui vige un’ambiguità legale ha risvolti economici e politici e la crisi da coronavirus ne ha evidenziato le dinamiche nel momento in cui i palestinesi lottano per l’uguaglianza salariare con gli israeliani.

Ogni giorno entrano in Israele circa 80.000 lavoratori palestinesi. Stando ai dati dell’Amministrazione Civile israeliana, un dipartimento del Ministero della Difesa [israeliano] che tiene i collegamenti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane, i lavoratori hanno un salario mensile in media di 6.000 shekel [circa €1.500]. Ciò equivale all’incirca al salario minimo per gli israeliani, ma corrisponde a circa quattro volte la media nei territori palestinesi. Altri 30.000 palestinesi lavorano in Cisgiordania, principalmente nelle zone industriali adiacenti alle colonie israeliane. Alcune migliaia sono occupati nell’edilizia. Secondo l’Amministrazione Civile, i salari dei palestinesi che lavorano nelle colonie in Cisgiordania sono solo leggermente inferiori a quelli dei palestinesi che lavorano in Israele, con una media di circa 5.500 shekel [€1.400] al mese. Hanno anche diritto a condizioni e sussidi previsti dalla legge israeliana come pensioni, malattia e vacanze retribuite.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile ha detto ad Al-Monitor che nel 2019 i redditi di questi 120.000 lavoratori sono ammontati a più di un quarto del totale delle entrate in Cisgiordania. Quest’anno la cifra è persino maggiore a causa della pandemia che ha devastato l’economia palestinese. Dato che Israele dipende in buona misura dalla forza-lavoro palestinese, soprattutto nell’edilizia, persino durante il picco delle ondate dell’infezione i lavoratori che altrimenti avrebbero dovuto essere in lockdown hanno avuto il permesso di entrare in Israele.

Nel 2007 la Corte Suprema ha deliberato che la legge israeliana si applica ai palestinesi impiegati in Israele e nelle colonie della Cisgiordania. Nove giudici hanno deciso all’unanimità che la nazionalità non poteva essere usata come scusa dai datori di lavoro per offrire loro condizioni che differissero da quelle della controparte israeliana.

La decisione si applica a tutti i palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie. Comunque non vale nella zona industriale di Nitzanei Shalom, che negli anni ’90, subito dopo la firma degli accordi di Oslo, fu costruita vicino alla città palestinese di Tulkarem e lungo la barriera di separazione. La Yamit, che costruisce filtri dell’acqua per uso agricolo e casalingo, si trova in questa zona industriale e perciò non è soggetta alla legge israeliana in generale.

La fabbrica impiega 80 palestinesi che guadagnano mensilmente fra i 5.000 e i 6.000 shekel (1.260-1.500 €). Alcuni vi lavorano da vent’anni o più e ora che hanno una considerevole esperienza professionale vogliono un aumento. Si sono persino organizzati come un sindacato con Maan, l’organizzazione sindacale israeliana.

I negoziati con la fabbrica sono iniziati l’anno scorso, ma, a causa del coronavirus, si sono trascinati per mesi. Alla fine Ofer Talmi, il proprietario, li ha informati che non avrebbe potuto soddisfare le loro richieste a causa della crisi economica conseguente al COVID-19. Ma i lavoratori si sono rifiutati di cedere. Il 31 dicembre 2020 sono scesi in sciopero. Sorpreso, Talmi ha mandato una email di protesta al capo di Maan, Assaf Adiv, dicendo che lui aveva soddisfatto tutti gli obblighi di legge verso i propri lavoratori. Poi ha aggiunto: “La terra di Israele appartiene al popolo ebraico. Quindi non voglio avere dei lavoratori palestinesi con legami di alcun tipo con lo Stato di Israele.” Furiosi per la risposta, gli scioperanti hanno passato la mail ai media palestinesi e israeliani.

Halil Shihab, uno degli scioperanti, dice: “Noi abbiamo lavorato per anni pagati con il minimo salariale. Noi siamo specializzati e prendiamo il minimo. Adesso lui dice che non vuole dare ai suoi dipendenti nemmeno le condizioni di base perché sono arabi, non certo perché non può permetterselo.”

Rendendosi conto dell’enormità del suo errore, Talmi ha diffuso una lettera in arabo in cui si scusava con i suoi lavoratori e li metteva in guardia che se lo sciopero fosse continuato sarebbe stato costretto a chiudere. Ha promesso a ognuno di loro 1.000 shekel [€ 253] se fossero ritornati al lavoro e ha detto che avrebbe ripreso i negoziati sui salari. “Voglio scusarmi e ritrattare quello che ho scritto nella mia mail precedente sul diritto alla Terra di Israele. L’ho scritta in un momento di estrema pressione. … Per me è molto duro vedere chiusi i cancelli della nostra fabbrica perché potrebbe avere serie conseguenze per tutte le nostre vite. Attraversiamo un periodo difficile e lo sciopero ci danneggia tutti. Mette in pericolo la nostra stessa esistenza.”

Secondo i dirigenti della fabbrica, Adiv aveva condiviso la prima lettera con organizzazioni antiisraeliane come il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, che l’ha usata per attaccare Israele. I suoi motivi, loro dicono, erano totalmente politici. Nel frattempo il proprietario della fabbrica dice ad Al-Monitor: “Yamit ha impiegato lavoratori palestinesi per oltre 35 anni. Opera in accordo con la legge e garantisce a tutti vari diritti e indennità, inclusi una paga migliore, pensioni, indennità per malattia e indennizzi. Assaf Adiv di Maan sta usando cinicamente questo momento difficile, sapendo che Yamit, come tante altre fabbriche e industrie in Israele e in tutto il mondo, sta affrontando enormi difficoltà a causa del coronavirus. Questo tentativo di interferire, apparentemente a favore di una o l’altra ideologia, causa un danno enorme a relazioni che altrimenti funzionavano bene, con una effettiva coesistenza che per anni è stata il marchio distintivo di questa fabbrica. ”

Adiv nega le accuse. In una conversazione con Al-Monitor afferma che tutto quello che voleva era ottenere migliori condizioni lavorative per dipendenti con anzianità. Se Talmi avesse dichiarato la sua disponibilità ad aumentare i salari alla fine della crisi, l’intera situazione si sarebbe risolta. Adiv ha anche affermato che nel corso degli anni Talmi, non avendo mai pagato i contribuiti al fondo pensioni dei lavoratori, ha risparmiato milioni.

Ali, un altro operaio, parla con Al-Monitor del conflitto. Chiedendo di non citare il suo cognome, dice: “Sono disposto a perdonare Ofer Talmi, ma lui deve capire che ci meritiamo di più. Se vuole veramente sostenere la coesistenza, che ci faccia vedere come. Poi noi lo aiuteremo a far uscire la fabbrica dalla crisi.” In questo caso il modello della zona industriale potrebbe sopravvivere. Altrimenti potrebbe trovarsi in serio pericolo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il rivale di Abbas, Dahlan, coordina l’aiuto degli EAU a Gaza mentre si avvicinano le elezioni palestinesi

Rasha Abou Jalal

15 gennaio 2021 – Al-Monitor

Gli Emirati Arabi Uniti hanno inviato un nuovo carico di aiuti sanitari alla Striscia di Gaza, il secondo in un mese, per aiutare ad affrontare la crisi da coronavirus, sollevando interrogativi sul ruolo di Mohammede Dahlan, leader espulso da Fatah e acerrimo nemico del presidente Mahmoud Abbas.

Gaza City, Striscia di Gaza – Il 10 gennaio un impianto per la produzione di ossigeno liquido per curare casi gravi che soffrono di problemi respiratori a causa del coronavirus ha raggiunto la Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. L’impianto per la produzione di ossigeno, il più grande di Gaza, è giunto come parte di un invio di medicinali offerti al ministero della Sanità dell’enclave assediata.

Il convoglio ha raggiunto Gaza grazie all’impegno della Corrente Democratica Riformista, guidata da Mohammed Dahlan, espulso da Fatah, che vive negli Emirati Arabi Uniti (EAU). Dahlan è il principale avversario politico del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

L’arrivo del convoglio nella Striscia di Gaza coincide con l’imminente annuncio di un decreto presidenziale di Abbas per fissare la data delle elezioni politiche palestinesi. L’aiuto sembra essere parte dei tentativi di Dahlan di rafforzare la sua popolarità in vista delle elezioni.

Il convoglio degli EAU comprendeva una grande quantità di equipaggiamenti sanitari per affrontare la crisi da coronavirus, tra cui 30 ventilatori, 2.000 tamponi, 12.000 camici e 10 bombole d’ossigeno.

Ghazi Hamad, dirigente di Hamas e sottosegretario del ministero per gli Affari Sociali, ha accolto il convoglio al valico di Rafah alla presenza di vari dirigenti della Corrente Democratica Riformista.

In una conferenza stampa tenutasi per accogliere il convoglio, Hamad ha ringraziato gli EAU per la loro assistenza medica di supporto alle autorità sanitarie nell’affrontare l’epidemia da coronavirus nella Striscia di Gaza, una delle aree più popolate al mondo, con più di 2 milioni di persone che vivono in una zona di 365 km2.

Ha anche ringraziato la Corrente Democratica Riformista del suo contributo per l’arrivo degli aiuti alla Striscia di Gaza.

Il 25 novembre 2020 il ministero della Sanità di Gaza ha avvertito che nell’Ospedale Europeo del sud di Gaza l’ossigeno liquido stava finendo.

Secondo le ultime statistiche del ministero della Sanità pubblicate il 12 gennaio a Gaza i morti per coronavirus hanno raggiunto i 453, e 211 casi hanno richiesto l’ospedalizzazione, di cui 112 pazienti hanno bisogno di respirazione forzata.

Il convoglio degli EAU è il secondo a Gaza in un mese: lo Stato del Golfo ha già inviato un carico di aiuti sanitari il 17 dicembre 2020.

Ashraf Gomaa, un dirigente della Corrente Democratica Riformista, ha detto ad Al-Monitor: “Il recente invio degli EAU è stato effettuato in risposta ad una richiesta di aiuto del ministero della Sanità a causa della scarsità di ossigeno liquido. Il convoglio migliorerà la situazione sanitaria nella Striscia di Gaza mentre cresce giornalmente il numero di casi di coronavirus.”

Gomaa ha affermato che finora gli EAU hanno donato a Gaza 130 ventilatori, quando nella Striscia di Gaza ne erano disponibili solo 100.

Ha evidenziato che Dahlan è impegnato in colloqui con politici degli EAU per la fornitura di vaccini contro il coronavirus e li ha offerti come aiuto gratuito immediato per la Striscia di Gaza.

Il 21 maggio 2020 l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha rifiutato di accettare gli aiuti sanitari degli EAU contro il coronavirus inviati in Cisgiordania attraverso Israele, a causa dei tentativi di quel periodo degli EAU rivolti a normalizzare i rapporti con Israele. Il 13 agosto questa normalizzazione è stata ufficializzata.

Mahmoud al-Aloul, vice capo di Fatah, ha detto ad Al-Monitor: “Ogni aiuto inviato ai palestinesi attraverso la normalizzazione con Israele e senza coordinamento con l’ANP è considerato ambiguo e viene respinto.”

Egli ha notato che gli EAU stanno sfruttando l’epidemia da coronavirus nei territori palestinesi per raggiungere obiettivi politici, soprattutto per placare la rabbia palestinese riguardo all’accordo di normalizzazione degli EAU con Israele e per ripulire l’immagine di Dahlan agli occhi dei palestinesi.

Aloul ha affermato: “La candidatura di Dahlan alle elezioni palestinesi è assolutamente respinta, dato che un tribunale palestinese lo ha accusato di delitti relativi alla corruzione e al furto di denaro pubblico, ed egli è un latitante (che si è rifugiato) negli EAU.”

Il membro dell’ufficio politico di Hamas Mousa Abu Marzouk ha detto ad Al-Monitor: “Accogliamo con favore qualunque aiuto umanitario che ci giunga attraverso ogni Stato e non rifiuteremo ogni forma di assistenza per ragioni politiche.”

Lo ha sorpreso che l’ANP non abbia accettato aiuto sanitario a causa della normalizzazione tra gli EAU e Israele.

Ha aggiunto: “L’ANP porta avanti il coordinamento per la sicurezza con Israele che sta occupando i territori palestinesi, poi rifiuta di accettare aiuti dagli EAU perché hanno normalizzato i rapporti con Israele. È una bizzarra contraddizione.”

Abu Marzouk ha affermato che l’aumento dell’aiuto degli EAU ai palestinesi arriva mentre si stanno avvicinando le elezioni palestinesi. Sostiene: “Penso che Dahlan voglia assolutamente partecipare alle elezioni palestinesi e a noi non importa la sua candidatura. La gente stabilirà la popolarità e l’influenza politica di Dahlan in futuro attraverso le elezioni.”

Talal Okal, giornalista del quotidiano palestinese Al-Ayyam [secondo quotidiano palestinese, vicino all’ANP, ndtr.], ha dichiarato ad Al-Monitor che il recente invio di aiuti degli EAU e le imminenti elezioni generali sono legati: “Gli EAU vogliono rafforzare la popolarità di Dahlan in ambienti palestinesi per designarlo a rimpiazzare Abbas, che non ha fatto un passo avanti nel processo di pace,” ha affermato.

Ha sottolineato che Dahlan, appoggiato dagli EAU, gode del sostegno degli Stati Uniti e di altri Paesi arabi, come l’Egitto.

Ahmad Awad, professore di scienze politiche all’università Al-Quds di Abu Dis [nei pressi di Gerusalemme est, ndtr.] ha detto ad Al-Monitor: “Dahlan farà di tutto per candidarsi alle imminenti elezioni, dato che è la sua unica speranza di tornare nell’arena politica palestinese.”

Ha aggiunto: “Ma Dahlan non è molto popolare tra i palestinesi, soprattutto in Cisgiordania. È ricercato dalla giustizia palestinese. Penso che il suo ritorno non sarà facile.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ci sono gli Emirati dietro la decisione israeliana di concedere ai palestinesi l’accesso alla valle del Giordano?

Rasha Abou Jalal

31 dicembre 2020 – Al Monitor

Per la prima volta in 46 anni Israele ha permesso ai palestinesi di entrare nella valle di al-Qa’oun nel nord della valle del Giordano per coltivare la propria terra. Nonostante l’Autorità Nazionale Palestinese abbia dichiarato che ciò dipende dalla messa in pratica di una sentenza, Al-Monitor ha ricevuto informazioni secondo cui invece la ragione che ha portato a questa azione sarebbe l’intesa Emirati-Israele.

GAZA CITY, Striscia di Gaza — Il 28 dicembre, per la prima volta dopo 46 anni, Israele ha aperto il  cancello di sicurezza che separa la valle di al-Qa’oun, nel nord della valle del Giordano, dal villaggio palestinese di Bardala, permettendo agli agricoltori palestinesi di coltivare la propria terra, ottemperando a una sentenza della magistratura israeliana.

L’ultima volta che gli abitanti del villaggio di Bardala erano andati nelle loro terre fu nel 1974. Dopo è stato loro impedito di accedere all’area a seguito di una decisione dell’esercito israeliano che la considerava “una zona militare chiusa.”

La terra fu concessa ai coloni [israeliani] per coltivarla e trarne guadagni.

Comunque, recentemente si è concluso un accordo fra palestinesi e israeliani per aprire e ripristinare una strada fra il villaggio di Bardala e la valle di al-Qa’oun e concedere l’accesso ai contadini palestinesi.

Tawfiq Jabareen, un avvocato che nella causa delle terre della valle di al-Qa’oun ha rappresentato presso i tribunali israeliani la Colonization and Wall Resistance Commission [Commissione contro la colonizzazione e la resistenza al muro] e i municipi locali, ha detto ad Al-Monitor che, “nel 2015 i palestinesi avevano presentato un’istanza alla magistratura israeliana per riottenere l’accesso alle terre. Nel settembre 2017 siamo riusciti ad ottenere dalla Corte Suprema israeliana una sentenza che richiedeva la cacciata dei coloni e la restituzione della terra ai proprietari palestinesi.”

Ha poi aggiunto che la sentenza non è mai stata implementata.

La pressione politica e diplomatica esercitata dall’Autorità Nazionale Palestinese su Israele ha poi costretto quest’ultimo ad applicare la sentenza,” ha detto.

Così sono stati restituiti circa 1380 dunum (138 ettari) nella valle di ​​al-Qa’oun di proprietà di circa 300 famiglie palestinesi.

Nella valle del Giordano vivono 65.000 palestinesi in 34 località e 13.000 coloni sparsi in 38 insediamenti.

Bassam Sawafta, un contadino che alla guida del suo trattore stava andando ad arare nella valle di al-Qa’oun, ha detto ad Al-Monitor: “Mio padre sognava di riottenere la sua terra qui, ma è morto anni prima che il suo sogno si realizzasse. Oggi lo realizzo io, coltivando questa terra.”

Ha detto che Israele ha permesso l’ingresso a 20 contadini per lavorare dalle 10 del mattino alle 3 del pomeriggio.

Sawafta ha affermato che i palestinesi hanno bisogno di un permesso israeliano ogni volta che vogliono andare sulle loro proprietà, dato che si trovano in una zona militare israeliana.

Moataz Bisharat, il funzionario palestinese incaricato dell’ANP del caso delle colonie israeliane nella valle del Giordano, ha detto ad Al-Monitor, “L’ANP sta per implementare una serie di progetti mirati a fornire assistenza agli agricoltori della zona.”

Ha aggiunto: “La restituzione della valle è un colpo per i coloni, che per anni si sono appropriati delle risorse delle terre. Porta anche alla luce la lentezza delle istituzioni giudiziarie israeliane quando si tratta di applicare le decisioni riguardanti le colonie a spese dei palestinesi.”

Bisharat ha detto che l’ANP intende far ricorso ai tribunali israeliani per chiedere i danni per i proprietari di terreni nella valle di al-Qa’oun privati dell’uso delle loro proprietà per anni.

Anche se i funzionari palestinesi hanno detto che la restituzione delle terre ai proprietari deriva da pressioni diplomatiche dell’ANP, un leader di spicco della Democratic Reformist Current [corrente riformista democratica, ndtr.] ha detto ad Al-Monitor, a condizione di restare anonimo, che, “la restituzione di questa valle ai proprietari palestinesi è avvenuta dopo un accordo Emirati-Israele.” La corrente è capeggiata da Mohammed Dahlan che fu espulso da Fatah e risiede negli Emirati Arabi Uniti.

Quest’anno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ripetutamente annunciato la sua intenzione di annettere tutta la valle del Giordano.

Il 13 agosto gli EAU hanno annunciato un accordo di normalizzazione con Israele dopo che quest’ultimo si era dichiarato d’accordo sulla sospensione dei suoi piani di annessione di vaste parti della Cisgiordania e della valle del Giordano.

L’accordo di normalizzazione ha scatenato l’ira dell’ANP che, il giorno stesso, ha richiamato il proprio ambasciatore negli EAU. Comunque, il 17 novembre l’ANP ha annunciato il ripristino del coordinamento per la sicurezza con Israele e il ritorno dell’ambasciatore.

Il leader della Democratic Reformist Current ha aggiunto: “La politica degli EAU in relazione al conflitto Palestina-Israele ha bloccato uno dei progetti israeliani più pericolosi contro i palestinesi, cioè l’annessione della valle del Giordano, oltre ad altre vaste aree della Cisgiordania, che sarebbero finite sotto la sovranità israeliana entrando in futuro all’interno dei suoi confini.” Ha detto che l’accordo EAU–Israele porterà presto alla restituzione ai palestinesi di altre terre nella valle del Giordano.

Ahmed Rafiq Awad, docente di media e scienze politiche presso l’università di Al-Quds, ha detto ad Al-Monitor che Israele ha permesso agli agricoltori palestinesi l’accesso alle terre per promuovere gli accordi di normalizzazione con altri Paesi Arabi.

Ha aggiunto: “La valle fu confiscata nel 1974 e la sua restituzione ai palestinesi, in seguito all’annuncio dell’accordo di normalizzazione EAU-Israele in cambio della sospensione del piano di annessione, trasmette il messaggio a palestinesi e arabi che la normalizzazione sarà nell’interesse dei palestinesi.”

Ha affermato che altre decisioni israeliane che mirano a facilitare la vita dei palestinesi o a ripristinare parte dei diritti a loro sottratti in Cisgiordania tranquillizzerebbero l’opinione pubblica palestinese e la collera a livello ufficiale verso gli EAU e gli altri Paesi che hanno concluso o concluderanno in futuro accordi di normalizzazione con Israele.

Awad ha detto che Netanyahu preferirebbe concludere altri accordi con Paesi arabi piuttosto che annettere la valle del Giordano e parti della Cisgiordania.

Netanyahu crede che ogni futuro accordo di pace con i palestinesi risulterebbe più facile in seguito ad accordi di pace con influenti Paesi arabi della regione,” ha detto Awad.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nonostante lo stigma sociale, le donne di Gaza si danno alla boxe

Ruwaida Amer

4 dicembre 2020 – Al Monitor

Nella Striscia di Gaza, nonostante la condanna religiosa e patriarcale che colpisce le attività sportive al femminile, parecchie donne e ragazze sono entrate in una squadra di pugilato per amore di questo sport.

Nella Striscia di Gaza l’opinione pubblica pensa che praticare la boxe istighi poi le donne a essere violente con i mariti e le ha ripetutamente attaccate cercando di farle smettere.

Ma, nonostante gli ostacoli, le donne hanno lottato per il loro diritto a boxare in una società che continua a dar prova di essere prima di tutto patriarcale con i suoi continui veti alla femminile nello sport e in altri campi, cercando così di ridurre il loro ruolo al matrimonio e alla casa. 

Tuttavia ci sono quelli che sostengono le donne e il loro diritto a vivere come vogliono, ma senza intaccare tradizioni e norme.

Malak Mosleh, 15 anni, si è innamorata dello sport da piccola guardando parecchi allenamenti e vittorie di Muhammad Ali. Finalmente, dopo vari tentativi di trovare una squadra a Gaza, e con il sostegno della sua famiglia, ha avuto l’opportunità di realizzare il suo sogno.

Dice ad Al-Monitor: “Era da tanto che volevo boxare, ma qui non potevo. Lo sport era solo per maschi, cosa che mi faceva arrabbiare. Dopo tutto è una disciplina per il corpo e l’anima, quindi perché dovrebbe essere vietata alle donne? Mi sono stupita quando il capitano Osama ha annunciato un programma di allenamenti per ragazze. Ho cominciato sette mesi fa e deciso di andare fino in fondo (per partecipare ai campionati arabi di pugilato juniores in Kuwait), nonostante quello che la società ne avrebbe detto.”

Osama Ayob, 36 anni, l’allenatore del team femminile di Gaza, dopo un tour in vari Paesi europei e arabi, ha deciso di creare una squadra a proprie spese, senza il sostegno di nessuno.

Agli inizi del 2020, sulla sua pagina Facebook ha annunciato il lancio di un programma di allenamenti per donne. All’inizio erano in 10, ma adesso si è arrivati a 45 partecipanti fra i sette e i venticinque anni.

Ayob ha detto ad Al-Monitor: “Per me è stato difficile formare una squadra di ragazze perché è stata la prima a Gaza e ci è voluto uno sforzo personale, senza il sostegno di nessuno. C’è stata una forte affluenza di ragazze e veramente vorrei che l’atteggiamento ostile verso di loro cambiasse. Mi sono preso la responsabilità di proteggerle e temprarle contro i commenti offensivi che le demoralizzano e frenano il loro desiderio di praticare questo sport.”

Mosleh afferma: “Il pugilato non ha nulla a che vedere con la violenza. È uno strumento di autodifesa e serve per il corpo. Io non sto ad aspettare qualcun altro per proteggermi da un attacco in strada o da qualche altra parte perché so farlo da sola. I miei familiari mi danno il sostegno maggiore e mi hanno detto che l’Islam non vieta gli sport e mi hanno incoraggiata a non lasciare che quello che dice la gente ostacoli il mio sogno. Mi rassicurano che non sto facendo nulla di proibito dalla religione o di contrario alla decenza.”

Rima Abu Rahme, 22 anni, di Gaza City ha avuto molti problemi quando si è fatta delle foto con la sorella Rita, 20 anni, mentre boxavano con le loro amiche per poi postarle sui social. Per la prima volta si è resa conto di quanto la società sia severa e rancorosa verso le donne che fanno sport.

Dice ad Al-Monitor, “Seguo [sui social] Gigi Hadid (modella americana-palestinese) che pratica questo sport. Ho parlato con il capitano Osama e abbiamo effettivamente iniziato fino a quando le nostre foto durante gli allenamenti sono diventate virali. Eravamo spaventate dei commenti della gente e qualcuno ha minacciato di farci smettere e a questo fine ha fatto pressioni sull’allenatore.”

Questo duro attacco sui social riflette l’opinione di molti che questo è uno sport riservato ai maschi e che le ragazze non dovrebbero praticarlo. Molte hanno smesso dopo le minacce di alcuni utenti dei social a loro e all’allenatore, arrivando anche a bullizzarli e insultarli.

Abu Rahme descrive il pugilato dicendo: “All’inizio sentivamo fatica e dolori in tutto il corpo, ma poi ci siamo rese conto che dopo ogni esercizio diventavamo sempre più forti e che stavamo bene psicologicamente. Io sono laureata in lingue e devo fare degli stage in varie istituzioni. La fatica psicologica scompare dopo aver tirato pugni per un’ora.”

Ayob dice: “Molte ragazze si sentono psicologicamente oppresse e devono affrontare problemi nella società. Per loro la boxe è un modo per ridurre la pressione, ma la loro paura estrema della società le costringe ad allenarsi senza attirare troppo l’attenzione. È un loro diritto, con tutti i commenti negativi che minacciano di impedire alle ragazze di far pugilato a Gaza. Io lavoro assiduamente per superare tutti gli ostacoli e continuare ad allenarmi.”

Farah Abu Qomsan, 15 anni, di Gaza City, ha cominciato con il pugilato perché le piaceva tantissimo e per un forte desiderio di realizzare il suo sogno: vincere il primo campionato di boxe per ragazze a Gaza [il 20 novembre]. Fa parte del team di Ayob da sette mesi e si allena tre giorni la settimana per migliorare le sue prestazioni e raggiungere il livello che le consenta di partecipare a incontri internazionali.

Parla con Al-Monitor del suo amore per il pugilato: “La mia ammirazione per le performance di [Mike] Tyson, un pugile di fama mondiale, mi ha spinta a dedicarmi a questo sport che ho scoperto a Gaza. Mi alleno per proteggermi, nel caso mi trovassi in pericolo mentre cammino per strada e in previsione di qualsiasi situazione che mi si presentasse nella mia vita. Non ha niente a che fare con la violenza contro gli uomini.”

Ayob sta lavorando duro con la sua squadra per partecipare ai campionati arabi di pugilato juniores in Kuwait alla fine di febbraio 2021. Ha già selezionato sette ragazze, ma ha ancora bisogno del sostegno ufficiale per i biglietti aerei e altre spese di viaggio. Questa sarebbe la prima volta che delle ragazze di Gaza partecipano al campionato come squadra nazionale palestinese.

Nel frattempo, durante i primi mesi dopo la creazione del team, la pandemia ha intralciato gli allenamenti. Ayob afferma: “Non ho potuto finire di preparare ragazze a causa del coronavirus. Ma l’allenamento continua e mi concentro nel rendere più forti le ragazze e nell’adottare delle misure preventive per la loro sicurezza e quella delle loro famiglie.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




La tecnologia israeliana scopre un tunnel d’attacco a Gaza e mette Hamas a dura prova

Ben Caspit

23 ottobre 2020 – AL-MONITOR

L’esercito israeliano sa che la scoperta di un grosso tunnel terroristico di Hamas non significa che l’organizzazione abbandonerà i suoi tentativi di attaccare Israele.

*Nota redazionale: nell’articolo di Ben Caspit sono riportate alcune affermazioni che non condividiamo anche se il contenuto è interessante e degno di essere pubblicato.

Questa settimana è iniziata con una intensa attività militare israeliana lungo tutta la barriera di confine con la Striscia di Gaza, caratterizzata da un ammassamento di truppe, dispiegamento di carri armati Merkava Mark 4 e allestimento di punti di raduno e di stazionamento provvisori. Le IDF [forze armate israeliane, ndtr.] hanno anche chiuso le strade al traffico civile e hanno ordinato ai lavoratori agricoli di stare lontano dai campi lungo il confine. Chiaramente qualcosa era in corso sotto terra, anche se una calma carica di tensione aleggiava sopra. Il 20 ottobre, il segreto è stato svelato con l’annuncio da parte delle IDF che avevano identificato un tunnel di attacco di Hamas scavato da Gaza che si estendeva per alcune decine di metri in Israele. “Un tunnel terroristico molto, molto importante”, come è stato definito il giorno dopo dal tenente generale delle IDF Aviv Kochavi.

Il tunnel non è solo importante e di natura strategica, è anche il primo risultato conosciuto della massiccia barriera sotterranea che Israele ha scavato lungo il confine di Gaza fino a una profondità di diverse decine di metri. La “barriera”, come viene definita, è un’innovazione israeliana unica e altamente complessa progettata per porre fine all’arma dei tunnel strategici sviluppata e utilizzata da Hamas negli ultimi anni, dopo essersi resa conto che non sarebbe stata in grado di prevalere contro le IDF sulla terra, nell’aria o sul mare. Con la recente realizzazione quasi completa della barriera, Hamas è stata privata anche di questo teatro militare sotterraneo.

Il nuovo tunnel è stato scoperto dalla sofisticata tecnologia dei sensori montati sulla barriera in profondità nel sottosuolo. Il muro – del costo di centinaia di milioni di dollari – è dotato di strumenti tecnologici capaci di rilevare movimenti, perforazioni e qualsiasi tipo di lavoro svolto sotto terra. Il tunnel sembra essere stato rilevato il 18 ottobre. Il giorno successivo, è stata introdotta una potente attrezzatura di perforazione ed è stato trovato il tunnel che attraversava il confine e si avvicinava molto alla barriera costruita sul lato israeliano. “Il tunnel più importante che abbiamo visto fino ad oggi, sia in termini di profondità che di infrastrutture”, ha detto sotto anonimato ad Al-Monitor una fonte militare israeliana di alto livello.

Le IDF hanno rifiutato di rivelare ulteriori dettagli, ma si ritiene che Hamas abbia investito pesantemente in un tunnel più profondo e più ampio di quelli scavati in precedenza, dotandolo di elettricità, linee telefoniche e altri strumenti che lo hanno trasformato in un’arma strategica con un potenziale particolarmente letale, adatto all’invio di terroristi in Israele per organizzare attacchi e rapimenti. Hamas ha impiegato per lo scavo del tunnel dozzine di operai che hanno lavorato in gran segreto con turni di 24 ore su 24, 7 giorni su 7. “Il danno ad Hamas derivante dalla scoperta di questo tunnel è notevole”, ha detto in anonimato ad Al-Monitor un’importante fonte della sicurezza israeliana. “Denaro, energia, lavoro e tempo che avrebbero potuto essere investiti nella cura degli abitanti impoveriti di Gaza”.

Israele e Hamas stanno ora giocando al gatto con il topo. Hamas non ha rinunciato del tutto all’idea del tunnel, ma ha iniziato a predisporre delle alternative, come alianti che esplodono, velivoli Buckeye a motore per parapendio e altri mezzi per attraversare la recinzione che Israele ha costruito sulla terra lungo il confine.

Contemporaneamente Hamas continua a esaminare i punti deboli e i limiti della barriera. “Cercheranno di scavare in profondità dove pensano che la barriera non arrivi”, ha riferito ad Al-Monitor un alto ufficiale delle IDF in incognito. Tuttavia questo tipo di risposta non appare ovvia. In effetti scavare così in profondità sarebbe probabilmente estremamente difficile – per non dire un’impresa impossibile, data la posizione della falda acquifera costiera, il bacino idrico più importante di Israele situato nella regione a una profondità relativamente bassa.

Tuttavia, entrambe le parti si rendono conto che la barriera, proprio come il sistema antimissile Iron Dome, fornisce a Israele una difesa efficace ma non infallibile. Proprio come gli intercettori Iron Dome non possono garantire che tutti i missili lanciati da Gaza contro Israele siano deviati, così la barriera non è un ostacolo totalmente impenetrabile. I palestinesi continueranno a cercare modi per aggirarlo, soprattutto perché non hanno altra scelta.

Dopo che le IDF hanno individuato il tunnel e iniziato a esaminarlo, sia Hamas che Israele hanno precisato che il fatto non avrebbe compromesso i tentativi in corso di organizzare un cessate il fuoco a lungo termine tra le parti e mantenere la calma preservata negli ultimi mesi lungo il confine. Queste dichiarazioni si sono volatilizzate davanti a due razzi lanciati da Gaza verso la città di Ashkelon nella tarda giornata del 22 ottobre. Uno è stato intercettato dall’Iron Dome, l’altro è caduto su una zona disabitata. Qualche ora dopo l’aviazione israeliana ha bombardato obiettivi di Hamas a Gaza, in quello che è diventato un ciclo quasi di routine di lanci occasionali di razzi e rappresaglie. Tuttavia entrambe le parti sanno che se anche un solo razzo attraversasse lo scudo dell’intercettore e provocasse vittime israeliane, tutti gli accordi salterebbero.

Nel frattempo, anche se indirettamente negozia con Israele un cessate il fuoco, Hamas continua ad armarsi. Israele continua a seguire con grande preoccupazione i tentativi dell’organizzazione di migliorare la propria capacità militare nonostante sia isolata e sotto assedio sia da parte di Israele che dell’Egitto. “È proprio questo fatto che incoraggia gli ingegneri di Hamas a continuare a provare”, ha detto ad Al-Monitor un’altra importante fonte di sicurezza israeliana anonima. “A differenza di Hezbollah, che ottiene tutto pronto dall’Iran, Hamas non ha queste possibilità e deve prendere la via difficile”. Israele sta monitorando da vicino i nuovi test missilistici di Hamas lungo la costa di Gaza e i continui tentativi del gruppo islamista di ottenere capacità navali e sviluppare esplosivi evoluti in grado di violare la barriera di confine.

Allo stesso tempo, le IDF continuano a sostenere pienamente gli sforzi per migliorare l’economia di Gaza e sviluppare progetti di infrastrutture civili. Sostengono inoltre un incremento del numero di abitanti di Gaza autorizzati a lavorare in Israele nel tentativo di affrontare la dilagante disoccupazione dell’enclave, anche se devono affrontare un difficile dilemma sul consentire al Qatar di continuare a fornire ad Hamas massicce forniture di denaro per garantirne la sopravvivenza. “Sappiamo che parte del cemento che va a Gaza [per l’edilizia civile] viene utilizzato per costruire tunnel”, ha detto la seconda fonte della sicurezza israeliana. “Ancora non abbiamo su questo un controllo adeguato. Sappiamo che il tunnel scoperto questa settimana non è l’ultimo, ma speriamo che il miglioramento economico nella Striscia di Gaza migliori la stabilità. Le persone che lavorano per vivere, non scavano tunnel”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Netanyahu scagionato per lo scandalo dei sottomarini

Ben Caspit

16 ottobre 2020 – Al Monitor

Adesso che il procuratore generale ha deciso di non indagare su di lui né per lo scandalo dei sottomarini né per quello della compravendita di azioni, il primo ministro Benjamin Netanyahu può tirare un sospiro di sollievo.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu può star tranquillo, dato che il procuratore generale Avichai Mandelblit ha annunciato il 15 ottobre che non ordinerà un’indagine penale per la compravendita di azioni, spiegando ancora una volta il motivo per cui non lo incriminerà per il caso dei sottomarini.

Il primo episodio si riferisce all’acquisto di azioni che gli ha fruttato un considerevole guadagno in seguito alla loro vendita al miliardario americano Nathan Milikowsky, suo cugino. Il secondo riguarda l’acquisto di sottomarini e navi da guerra dall’acciaieria tedesca Thyssenkrupp.  

I due scandali continuano a perseguitare Netanyahu e hanno fatto emergere un movimento di protesta contro la sua condotta e la sua permanenza al potere. Una petizione presentata alla Corte Suprema include dichiarazioni da parte di ex ufficiali di alto grado della difesa. Il 15 ottobre, Benny Gantz, principale alleato di Netanyahu nel governo e ministro della Difesa, ha annunciato che stava prendendo in considerazione la nomina di una commissione di inchiesta all’interno del ministero della Difesa per andare a fondo sullo scandalo dei sottomarini acquistati per oltre un miliardo dall’azienda tedesca. Gantz, lui stesso un ex capo di stato maggiore dell’esercito, che nelle ultime tre campagne elettorali ha usato la vicenda per provocare Netanyahu adesso sta cercando di approfittarne per forzare il primo ministro a presentare e approvare il bilancio dello Stato e a nominare un procuratore generale e il capo della polizia.

La storia potrebbe rivelarsi la più rischiosa per Netanyahu, per cui le conseguenze politiche potrebbero essere enormi. I tre atti di accusa che il procuratore generale Mandelblit ha depositato contro Netanyahu nel gennaio 2020, incluso uno per corruzione, non hanno intaccato il sostegno fra i suoi seguaci, indifferenti alle accuse di regali illeciti e tentativi di controllare i media israeliani. Però quella dei sottomarini è tutta un’altra storia. Netanyahu sapeva che se lui o i suoi collaboratori fossero stati accusati di ricavare un guadagno personale da un appalto militare persino i suoi più ardenti sostenitori l’avrebbero abbandonato.

Per sua fortuna, Mandelblit l’ha scagionato, dicendo fin dall’inizio delle indagini che non era un sospettato, persino quando la polizia raccomandava di incriminare alcuni dei suoi collaboratori e parenti.

Netanyahu deve aver tirato un sospiro di sollievo, allora e di nuovo questa settimana, ma non può comunque rilassarsi. Molti israeliani si sentono traditi e l’ondata di proteste è culminata questa settimana quando dal nord e sud di Israele è arrivato a Gerusalemme un lungo corteo di auto e camion recanti modelli di sottomarini di cartone. Il Movimento per la Qualità al Governo in Israele ha presentato una petizione all’Alta Corte chiedendo che Netanyahu sia interrogato sul caso che coinvolge anche l’accordo israeliano con la Germania per vendere sottomarini all’Egitto. Sono state anche presentate decine di dichiarazioni scioccanti da parte di alti ufficiali dell’establishment della difesa. Generali della riserva, ufficiali di alto grado e tutti quelli che sono coinvolti nell’acquisto hanno descritto nei dettagli le pesanti pressioni esercitate dall’ufficio del primo ministro per acquistare direttamente dalla Thyssenkrupp anche grandi motovedette, senza fare una gara d’appalto internazionale.

La Corte Suprema deciderà questo mese. Il 15 ottobre Mandelblit ha presentato la sua risposta al ricorso spiegando perché Netanyahu non sia stato messo sotto accusa. Mandelblit ha anche annunciato che non indagherà sull’acquisto di 600.000 dollari di azioni della SeaDrift, un’azienda siderurgica controllata da Milikowsky (che sembra fornisca anche alcuni prodotti alla Thyssenkrupp). Netanyahu ha venduto le azioni con un guadagno enorme nonostante le performance in caduta dell’azienda.

Mandelblit ha ammesso che Netanyahu ha notevolmente beneficiato da questa transazione, ma ha anche dichiarato che non c’erano prove sufficienti per un’inchiesta penale. Ha concluso che Netanyahu non era a conoscenza del conflitto di interesse e che la vendita costituisse un vantaggio illecito.

Queste decisioni hanno suscitato le dure critiche degli oppositori di Netanyahu, ma anche enorme soddisfazione fra i suoi sostenitori. Mandelblit è anche lui al centro di un nuovo scandalo scoppiato questa settimana a causa di registrazioni segrete di sue conversazioni di alcuni anni fa con Efi Nave, il potente capo dell’Ordine degli avvocati israeliano, poi costretto a dimettersi e incriminato per frode e millantato credito.

Negli ultimi mesi i sostenitori di Netanyahu hanno condotto una campagna concertata contro la credibilità di Mandelblit per provare che le accuse avevano una motivazione politica o che era stato ricattato dall’ex pubblico ministero Shai Nitzan per incastrare Netanyahu. Anche se tutte queste teorie complottiste sono maldestre, destabilizzano ancor più Israele. Il pubblico ministero è al centro della tempesta perfetta, metà degli israeliani sono convinti che ha incastrato Netanyahu per farlo cadere e l’altra metà pensa che in realtà sia in combutta con Netanyahu e il suo seguito, come prova la sua decisione di questa settimana di non indagare e di far decadere le accuse perché non sufficienti per mandarlo in galera.

Molti degli accoliti di Netanyahu concordano che la sua era è più vicina alla fine che a un nuovo inizio. È già chiaro che quando lui uscirà dalla scena politica, lo Stato dovrà ricostruire le istituzioni che lui ha mandato in rovina.

Per ora sul fronte “sottomarini” Netanyahu può star tranquillo. Se fosse stato incriminato il suo nome sarebbe stato disonorato per sempre come traditore e la sua memoria infangata. Se riuscirà a prenderne le distanze potrà continuare a combattere per un posto nella storia e anche per la sua poltrona come primo ministro, a cui non ha intenzione di rinunciare.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)