Nuove prove emergono della deliberata intenzione di Israele di uccidere Shireen Abu Akleh, e la famiglia presenta una denuncia alla Corte Penale Internazionale

DAVID KATTENBURG

  20 settembre 2022 ,Mondoweiss

Una nuova analisi forense dimostra che Shireen Abu Akleh è stata “deliberatamente e ripetutamente presa di mira” da un cecchino militare israeliano che prendeva “la mira con precisione e cura”.

Shireen Abu Akleh è stata “deliberatamente e ripetutamente presa di mira” da un cecchino militare israeliano lo scorso maggio mentre effettuava un reportage su un raid dell’esercito israeliano all’ingresso del campo profughi di Jenin, un cecchino che prendeva una”mira precisa e accurata”.

Questo è uno dei risultati inediti di un’indagine congiunta della britannica Forensic Architecture [gruppo di ricerca multidisciplinare che utilizza tecniche e tecnologie architettoniche per indagare su casi di violenza di Stato e violazioni dei diritti umani, guidato dall’arch. Eyal Weizman, ndt.] e del Dipartimento di Monitoraggio e Documentazione dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Al Haq, presentata questa mattina alla Corte penale internazionale nella capitale olandese L’Aia.

Questi risultati, basati in parte su filmati inediti girati sulla scena da un cameraman di Al Jazeera, sono stati esposti a un piccolo gruppo di giornalisti a seguito della presentazione di una denuncia alla CPI da parte degli avvocati della famiglia di Abu Akleh e di due giornalisti palestinesi che erano accanto a lei quel giorno.

L’attacco dei cecchini israeliani ha comportato tre distinte sequenze di spari, per un totale di sedici colpi destinati a Shireen, ai suoi colleghi e a un civile che cercava di fornire assistenza medica”, ha rivelato l’Unità Investigativa Forensic Architecture-Al Haq (FAI).

“Tutti i colpi sono stati sparati col fucile a spalla ed erano destinati a uccidere”.

Forensic Architecture, con sede presso la Goldsmiths University di Londra, è specializzata nella “ricostruzione spaziale di siti e scene di violenza di Stato”. La sua analisi della morte di Abu Akleh – descritta come un “omicidio mirato” – si basa su più video registrati da palestinesi insieme ad altre prove.

Secondo il rapporto FAI, letto da un documento scritto, “non c’erano altre persone presenti lì tra [Abu Akleh e i suoi colleghi] e il convoglio di veicoli militari al momento dell’incidente”, “nessun colpo … proveniva dalle vicinanze dei giornalisti” e “gli unici colpi sparati nei tre minuti precedenti la sparatoria di Shireen provenivano dalla posizione delle forze di occupazione israeliana”.

Il rapporto FAI di questa mattina rivela anche che, mentre tentava di fornire aiuto alla veterana giornalista di Al Jazeera, “un civile sulla scena veniva colpito da colpi di arma da fuoco ogni volta che tentava di avvicinarlesi” e “di conseguenza [le forze di occupazione israeliane] hanno deliberatamente negato assistenza medica a Shireen dopo averle sparato”.

L’analisi del campo visivo che simula ciò che il cecchino dell’IDF avrebbe visto “mostra che i giornalisti erano chiaramente identificabili come tali”, conclude la FAI.

“I colpi sono stati sparati solo quando i giornalisti e poi un civile sono entrati nel campo visivo dell’assassino delle forze di occupazione israeliane”.

Appello alla Corte Penale Internazionale

Nessuno di questi dettagli forensi è contenuto nella denuncia consegnata alla Corte Penale Internazionale questa mattina. Invece il testo di oggi, presentato da una coppia di avvocati della società britannica Doughty Chambers [gruppo di avvocati di fama internazionale con una reputazione di eccellenza, ndt.], riassume i resoconti dei testimoni oculari e fornisce argomenti legali per intraprendere un’indagine completa sull’omicidio di Abu Akleh.

“Esistono motivi ragionevoli per sospettare che siano stati commessi crimini di guerra”, nel contesto di un più ampio “attacco sistematico” ai giornalisti palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane, affermano le dichiarazioni depositate oggi alla CPI.

La denuncia di 25 pagine è stata consegnata a un membro dello staff della CPI che non si è identificato al team legale, gli avvocati di Doughty Chambers Jennifer Robinson e Tatyana Eatwell. Non erano presenti né il procuratore capo Karim Khan né il vice procuratore Nazhat Shameen Khan (che non sono parenti).

La denuncia di oggi è stata presentata a nome del fratello di Shireen Abu Akleh, il cinquantanovenne Anton Abu Akleh, e di due colleghi di Shireen: il giornalista palestinese Ali Samoudi, colpito alla spalla quel giorno mentre si trovava vicino ad Abu Akleh, e Shatha Hanaysha, una reporter ventinovenne per il sito web di notizie Ultra Palestine e collaboratrice di Mondoweiss, anch’ella vicino ad Abu Akleh quando il cecchino israeliano l’ha uccisa sparandole.

Samoudi, Hanaysha e la famiglia di Abu Akleh sono sostenuti dal Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, dal Centro Internazionale di Giustizia per i Palestinesi e dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti.

Tatyana Eatwell ha detto a Mondoweiss che gli avvocati sperano di essere ricevuti presso l’Ufficio del procuratore della CPI nelle “prossime settimane” per presentare prove forensi e testimonianze che portino al perseguimento dei responsabili della morte di Shireen Abu Akleh e di altri giornalisti palestinesi,.

“Stiamo offrendo loro la nostra collaborazione, al fine di assisterli in questa indagine”.

“Questo caso, e gli altri casi di giornalisti uccisi o mutilati dalle forze israeliane, rientrano esattamente nella giurisdizione della Corte e richiedono un’indagine da parte della Corte Penale Internazionale”, ha detto Tatyana Eatwell ai giornalisti riuniti alla CPI questa mattina.

“Non c’è quasi nessuna prospettiva di una qualche indagine penale su questi fatti da parte delle autorità nazionali”.

Una denuncia più ampia redatta dal team di Doughty Street Chambers, consegnata alla CPI il 16 aprile – tre settimane prima dell’uccisione di Abu Akleh – chiedeva alla CPI di indagare sul “prendere sistematicamente di mira, mutilare e uccidere giornalisti e distruggere le infrastrutture dei media in Palestina”.

Nella denuncia di aprile erano citati quattro giornalisti palestinesi. Yaser Murtaja e Ahmed Abu Hussein sono stati colpiti da cecchini israeliani nell’aprile 2018 mentre seguivano le proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Entrambi sono morti per le ferite riportate. Nedal Eshtayeh e Muath Amarneh hanno perso la vista mentre documentavano le proteste rispettivamente nel 2015 e alla fine del 2019. Tutti e quattro quando sono stati colpiti indossavano giubbotti stampa.

La denuncia di aprile e quella odierna sono state depositate ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto di Roma, che incarica il procuratore capo della CPI di avviare indagini di propria iniziativa (motu proprio) se esiste una base ragionevole per farlo. In teoria, il permesso ufficiale a procedere deve poi essere concesso dalla Camera Istruttoria della Corte.

L’ufficio del procuratore capo Karim Khan ha ammesso di aver ricevuto la denuncia di aprile, ma non ha specificato se la denuncia sarà o meno seguita da indagine, ha detto a Mondoweiss Tatyana Eatwell.

Ciò detto, entrambe le denunce sono attinenti alla più ampia indagine sulla Palestina annunciata all’inizio di marzo 2021 dall’allora procuratore capo Fatou Bensouda.

Nelle parole di Bensouda, l’indagine sulla Palestina – una delle diciassette “situazioni” attualmente oggetto di indagine da parte della CPI – interessa “tutti i fatti e le prove rilevanti per valutare se vi sia responsabilità penale individuale ai sensi dello Statuto [di Roma]”.

“L’accusa potrà ampliare o modificare l’indagine”, aveva scritto Bensouda, “solo se i casi individuati per l’accusa sono sufficientemente collegati alla situazione. In particolare, la situazione in Palestina è tale che si suppone continuino a essere commessi crimini”.

Le indagini della CPI mirano a identificare “i presunti colpevoli più efferati o quelli che si presume siano i maggiori responsabili dell’esecuzione dei crimini”.

Una cultura dell’impunità

Israele non ha identificato il cecchino israeliano che ha sparato a Shireen Abu Akleh e ferito Ali Samoudi l’11 maggio, né la loro unità o il comandante.

In seguito all’annuncio da parte del governo degli Stati Uniti dell’esame del proiettile che ha ucciso Shireen Abu Akleh, il team legale di Doughty Street ha chiesto di poter accedere a questi e ad altri risultati. Richieste simili sono state presentate al governo di Israele e all’Autorità Nazionale Palestinese. Nessuna informazione è stata fornita.

Nel suo rapporto del febbraio 2019 al Consiglio per i Diritti Umani, la Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta sulle proteste nei Territori Palestinesi Occupati ha concluso che ci siano “ragionevoli motivi per ritenere che i cecchini israeliani avessero sparato intenzionalmente ai giornalisti, nonostante avessero chiaramente visto che erano contrassegnati come tali”.

“C’è tutta una cultura di impunità per questi atti all’interno delle forze di sicurezza israeliane. Ed è proprio per questo che è molto importante che la Corte Penale Internazionale, in quanto autorità internazionale indipendente, indaghi su questi casi”, ha detto Tatyana Eatwell a Mondoweiss poco dopo la denunzia di aprile alla CPI sua e del collega avvocato Jennifer Robinson.

Le vittime hanno diritto a questo; è ciò che stanno chiedendo, un’indagine”.

Anton Abu Akleh, il fratello maggiore di Shireen, ha parlato questa mattina con i giornalisti davanti alla sede della CPI.

“L’amministrazione Biden non è finora riuscita ad avviare un’indagine, nonostante le richieste di oltre ottanta membri del Congresso degli Stati Uniti”, ha detto Abu Akleh.

Oltre ad essere cittadina statunitense, Shireen era anche fiera di essere palestinese ed è stata uccisa a sangue freddo da un soldato israeliano. Sembra che il motivo per cui il suo caso non è diventato una priorità per il governo degli Stati Uniti è per via di chi era e da chi è stata uccisa. Non c’è mistero su cosa sia successo a Shireen. Fatta eccezione per il nome e l’identità del suo assassino… Abbiamo bisogno di un’indagine degli Stati Uniti e della CPI per far sì che Israele ne risponda… la nostra famiglia non dovrebbe dover aspettare nemmeno un giorno in più per avere giustizia”.

David Kattenburg è insegnante universitario di scienze e giornalista radiofonico/web e vive a Breda, nel Brabante settentrionale, Paesi Bassi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’iconica “Voce della Palestina” di Al Jazeera uccisa durante un raid israeliano

Ali Abunimah – 11 maggio 2022

ElectronicIntifada

Mercoledì mattina Shireen Abu Akleh , corrispondente di Al Jazeera, è stata colpita a morte da uno sparo durante un raid israeliano nella Cisgiordania occupata, provocando shock e rabbia in Palestina e in tutta la regione.

“Un crimine tragico e deliberato che viola tutte le leggi e le norme internazionali, le forze di occupazione israeliane hanno assassinato a sangue freddo la nostra corrispondente Shireen Abu Akleh”, ha affermato la rete con sede in Qatar.

Israele inizialmente ha incolpato i palestinesi della morte di Abu Akleh, ma in seguito ha ritrattato l’affermazione.

La sua morte è stata annunciata dal Ministero della Salute palestinese poco dopo la diffusione di video online che mostravano il suo corpo inerte mentre veniva caricato su un’auto e portato via.

Il sito web in lingua inglese della rete ha riferito che la corrispondente veterana “è stata colpita mercoledì da un proiettile mentre seguiva in diretta i raid israeliani nella città di Jenin ed è stata portata d’urgenza in ospedale in condizioni critiche, secondo il Ministero e i giornalisti di Al Jazeera”.

Quando è stata uccisa Abu Akleh, palestinese con cittadinanza statunitense, indossava il giubbotto della stampa e un casco. Aveva 51 anni.

Un altro giornalista, Ali Samoudi, è stato colpito alla schiena durante lo stesso scontro ed è stato riferito che si trova in condizioni stabili.

Nelle interviste rilasciate dal suo letto d’ospedale, Samoudi ha insistito sul fatto che i giornalisti fossero stati deliberatamente presi di mira dalle forze israeliane e che al momento non c’era nessuna azione di fuoco da parte dei palestinesi contro i soldati israeliani.

Samoudi ha detto che i giornalisti si trovavano in uno spazio aperto e dunque erano chiaramente visibili ai soldati. Ha detto che non c’era alcun palestinese combattente o civile nella zona, solo soldati israeliani.

“Stavamo per filmare l’operazione dell’esercito israeliano e all’improvviso ci hanno sparato senza chiederci di andarcene o interrompere le riprese”, ha detto Samoudi. “Il primo proiettile ha colpito me e il secondo proiettile ha colpito Shireen… non c’era alcuna resistenza militare palestinese sul posto”.

Anche Shatha Hanaysha, un’altra giornalista che si trovava proprio accanto ad Abu Akleh, ha affermato che non erano in corso scontri tra combattenti palestinesi ed esercito israeliano e ha affermato che i giornalisti sono stati intenzionalmente presi di mira.

“Eravamo quattro giornalisti, tutti indossavamo giubbotti, tutti indossavamo caschi”, ha detto Hanaysha ad Al Jazeera. “L’esercito di occupazione [israeliano] non ha smesso di sparare neanche quando si è accasciata. Non potevo nemmeno allungare il braccio per tirarla via a causa degli spari. Era evidente che l’esercito sparava per uccidere”.

Al Jazeera ha trasmesso il video di una persona con indosso un giubbotto antiproiettile con la scritta “Press” e un elmetto che giaceva immobile a terra, affermando che si tratta della scena finale dell’omicidio di Abu Akleh.

Si può vedere un’altra persona con indosso lo stesso abbigliamento accovacciata nelle vicinanze, mentre i palestinesi si avvicinano per prestare assistenza.

Israele si rimangia il tentativo di incolpare i palestinesi

Israele ha ammesso che i suoi soldati erano entrati nel campo profughi di Jenin alla ricerca di quelli che definisce “sospetti terroristi”.

I raid quasi quotidiani delle forze di occupazione israeliane in tutta la Cisgiordania provocano regolarmente feriti e morti tra i palestinesi.

Ma Tel Aviv è subito passata all’offensiva, negando la responsabilità per la morte di Abu Akleh.

Il primo ministro Naftali Bennett ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: “Sembra probabile che dei palestinesi armati – che al momento stavano sparando indiscriminatamente – siano i responsabili della sfortunata morte della giornalista”.

Secondo il giornalista israeliano Barak Ravid, Bennett ha basato la sua affermazione su un video girato da palestinesi e condiviso sui social media.

Nel video si sente una voce che dice in arabo: “Hanno colpito un soldato, è sdraiato a terra”.

Il Ministero degli Esteri israeliano ha condiviso un’altra clip che mostra un uomo in uno stretto vicolo che spara con un’arma automatica. Il Ministero ha ribadito l’affermazione secondo cui i palestinesi “sparando indiscriminatamente avrebbero probabilmente colpito” Abu Akleh.

I sottotitoli nel video del Ministero degli Esteri non corrispondono al suo audio, e sembrano presi dal video condiviso da Ravid.

L’esercito israeliano ha condiviso lo stesso video.

Niente nei due video sembra collegato alla morte di Abu Akleh. L’obiettivo immediato di Israele sembra essere stato quello di sollevare abbastanza polvere da evitare titoli compromettenti e seminare dubbi su ciò che era realmente successo.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha detto che il suo operatore sul campo a Jenin “ha documentato il luogo esatto in cui ha sparato il palestinese armato ripreso nel video diffuso dall’esercito israeliano, così come il luogo esatto in cui è stata uccisa la giornalista Shireen Abu Akleh. “

In base a questa indagine, il gruppo ha concluso che il video degli “spari palestinesi diffuso dall’esercito israeliano non può essere quello dello sparo che ha ucciso la giornalista Shireen Abu Akleh”.

Israele ha una lunga storia di utilizzo di video e immagini false o dati fuori contesto per eludere la responsabilità delle proprie azioni.

Israele in seguito ha ritirato le accuse contro i palestinesi, e il capo dell’esercito Aviv Kohavi ha affermato: “Al momento non è possibile determinare da quali proiettili sia stata uccisa Abu Akleh”.

Kohavi ha detto che l’esercito israeliano aprirà un’indagine interna per “chiarire i fatti e presentarli in toto il prima possibile”.

Nel frattempo Itamar Ben-Gvir, un deputato israeliano di estrema destra noto per aver elogiato la violenza contro i palestinesi, ha giustificato l’omicidio di Abu Akleh.

“Quando a Jenin i terroristi sparano sui nostri soldati, loro devono rispondere al fuoco con la massima forza, anche se nella zona ci sono ‘giornalisti’ di Al Jazeera che spesso stanno deliberatamente in mezzo alla battaglia e disturbano i soldati”, ha twittato Ben-Gvir.

“Secondo quanto riferito, è finita nel fuoco dei terroristi”, ha anche affermato Ben-Gvir, “E comunque pieno appoggio agli eroici soldati dell’esercito israeliano”.

Gli Stati Uniti chiedono un’indagine

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Thomas Nides si è detto “molto triste nell’apprendere della morte della giornalista americana e palestinese” Abu Akleh.

“Incoraggio un’indagine approfondita sulle circostanze della sua morte e del ferimento di almeno un altro giornalista oggi a Jenin”, ha aggiunto Nides.

Il tono gentile contrasta con la reazione dei funzionari statunitensi quando a marzo in Ucraina è stato ucciso il regista americano Brent Renaud.

Sebbene le circostanze dell’omicidio di Renaud non fossero chiare, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price aveva immediatamente denunciato quello che definiva un “raccapricciante esempio delle azioni indiscriminate del Cremlino”.

A febbraio, il Dipartimento di Stato aveva chiesto a Israele di condurre una “approfondita indagine penale” dopo che il mese precedente i soldati israeliani avevano attaccato Omar Assad, un anziano palestinese americano, lasciandolo senza vita.

Alla richiesta degli Stati Uniti di indagare sull’omicidio di Assad ha fatto seguito una rapida indagine interna israeliana che si era conclusa con un lieve rimprovero ai tre soldati coinvolti.

Washington, che fornisce a Israele miliardi di dollari di armi ogni anno, non ha mai dato seguito alle sue richieste con sanzioni che sanciscano la responsabilità di Israele.

Sistema di insabbiamento

“Non credo che l’abbiamo uccisa noi”, ha detto Ran Kochav, portavoce dell’esercito israeliano, all’emittente pubblica Kan.

Abbiamo proposto ai palestinesi di aprire una rapida indagine congiunta. Se l’abbiamo davvero uccisa, ci assumeremo la responsabilità, ma non sembra sia così”.

Va detto che le indagini interne di Israele nascondono sistematicamente i crimini dei soldati dell’occupazione contro i palestinesi.

Nel 2016, B’Tselem ha annunciato che avrebbe smesso di collaborare alle indagini militari israeliane, che ha definito un “sistema di insabbiamento”.

L’autorevole associazione israeliana per i diritti umani ha aggiunto che 25 anni di denunce infruttuose a nome dei palestinesi “ci hanno portato alla consapevolezza che non ha più senso perseguire la giustizia e difendere i diritti umani lavorando con un sistema la cui vera funzione consiste nella capacità di continuare a coprire con successo atti illegali e proteggere i colpevoli”.

Continui attacchi ai giornalisti

Alla notizia della sua morte molti utenti dei social media hanno pianto l’omicidio di Abu Akleh come il mettere a tacere la “Voce della Palestina”.

Abu Akleh lavorava ad Al Jazeera dal 1997. I suoi reportage sono noti a decine di milioni di persone in tutto il mondo arabo. Era molto rispettata tra i colleghi palestinesi e internazionali.

Nonostante ora neghi la propria responsabilità, Israele ha una lunga storia di ferimenti e uccisioni di giornalisti e operatori dei media.

Le forze israeliane hanno attaccato i giornalisti che seguivano la Grande Marcia del Ritorno, le proteste di massa disarmate a Gaza iniziate nel 2018.

Due giornalisti, Yaser Murtaja e Ahmad Abu Hussein, sono stati uccisi e altre decine sono stati feriti.

Durante la campagna di bombardamenti su Gaza l’anno scorso, Israele ha deliberatamente preso di mira gli edifici che ospitavano quasi tutti gli uffici dei media locali e internazionali.

Israele, che si vanta dell’abilità della sua intelligence, ha in seguito assurdamente affermato di non avere idea che nell’edificio fossero ospitate le principali organizzazioni dei media mondiali.

Quasi un anno fa, gli aerei da guerra israeliani hanno raso al suolo un edificio che ospitava gli uffici dell’Associated Press e di Al Jazeera.

Israele ha affermato che l’edificio era in uso all’intelligence militare di Hamas, ma non ha mai offerto alcuna prova.

Un raid aereo israeliano ha ucciso anche il giornalista Yousif Abu Hussein, 32 anni, nel suo appartamento a Gaza City. Era un popolare giornalista della radio Voice of Al-Aqsa.

Reporter senza frontiere lo scorso maggio ha dichiarato di “condannare l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i giornalisti, che in nessun caso dovrebbero essere trattati come parti del conflitto armato”.

E il mese scorso la Corte penale internazionale ha ricevuto una denuncia per presunti crimini di guerra contro giornalisti commessi dalle forze di occupazione israeliane.

Per la Federazione internazionale dei giornalisti la denuncia riguarda l’aver preso ” sistematicamente di mira” quattro operatori dei media palestinesi “uccisi o mutilati dai cecchini israeliani mentre seguivano le manifestazioni a Gaza”,.

Ali Abunimah è co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], appena uscito da Haymarket Books e di  One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Un solo paese: una proposta coraggiosa per por fine all’impasse israelo-palestinese].

Tamara Nassar ha contribuito alla ricerca.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)