L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

L’occupazione reca danno non solo ai palestinesi, ma anche al pianeta

Edilizia sprecona, un doppio sistema stradale, viaggi rallentati dai posti di blocco e asfalto al posto di spazi aperti: la politica di Israele in Cisgiordania e a Gaza ha un costo ecologico.

Amira Hass

7 novembre 2021 – Haaretz

 

L’inquinatore numero 1 nei territori palestinesi occupati è il controllo che Israele esercita sulla terra e l’impresa di colonizzazione. Non è una citazione letterale, ma questo è lo spirito di ciò che ha detto la scorsa settimana il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh al summit sull’ambiente COP26.

La sua presenza è stata a stento menzionata sui media internazionali, per non parlare di quelli israeliani, a ulteriore dimostrazione di quanto marginale sia diventata la questione palestinese nell’agenda globale. Ma ciò non sminuisce affatto il danno all’ambiente.

Tutti gli studi e gli articoli relativi alle condizioni ambientali nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania rilevano un rapporto con la politica israeliana. Questi comprendono un dettagliato documento dell’ONU del 2020, rapporti dell’associazione giuridica palestinese Al-Haq nel corso di vari anni ed un articolo pubblicato dal gruppo di esperti palestinesi Al-Shabaka nel 2019 (“Climate change, the Occupation and a vulnerable Palestine” – “Cambiamenti climatici, occupazione e la vulnerabilità della Palestina”).

È tuttavia difficile quantificare l’impatto totale sul riscaldamento del clima delle azioni del governo e dei civili israeliani nei territori conquistati nel 1967.

La relazione della ragioneria dello Stato sulla mancata limitazione da parte di Israele delle emissioni di gas che causano l’effetto serra non menziona nemmeno i territori (occupati). E neppure analizza la spaventosa previsione dell’ONU, risalente al 2012, secondo cui la Striscia di Gaza sarebbe diventata inabitabile entro il 2020 se Israele non avesse profondamente modificato la sua politica verso l’enclave. Sono passati quasi due anni dalla “scadenza” posta dall’ONU e nulla di sostanziale è cambiato. L’ONU deve aver sottovalutato l’enorme capacità di resilienza degli abitanti di Gaza.

Tuttavia un’affermazione chiave presente nel report della Ragioneria getta luce sulla rimozione israeliana riguardo all’impatto dell’occupazione sull’inquinamento locale e globale. Così si legge: “In una situazione di conflitto o di potenziale conflitto tra i principali obiettivi dei ministeri del governo e l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas causa dell’effetto serra, i ministeri danno priorità alla promozione degli obiettivi centrali dei loro compiti ministeriali rispetto alla riduzione delle emissioni – fatta eccezione per il Ministero della Protezione Ambientale…”

Come rispecchiato nella politica dichiarata e messa in atto, gli obiettivi dei governi israeliani – compreso quello attuale – consistono nell’espandere le colonie, spingere sempre più israeliani ed ebrei della diaspora a stabilirsi in Cisgiordania, garantire il totale controllo su circa il 60% della Cisgiordania (“Area C”), perpetuare la separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, mantenere separate le popolazioni palestinese ed ebraica e abituare il mondo, come “soluzione”, alla realtà di enclave palestinesi separate e scollegate tra loro.

Un conseguente scopo non dichiarato è l’indebolimento sistematico dell’economia palestinese. Tutti questi obiettivi hanno un costo, nella forma di un danno ambientale sui generis. Eccone alcuni esempi.

Asfalto fin dove arriva lo sguardo

Parte del danno che l’occupazione sta provocando all’ecosistema si concentra nella superflua e ideologicamente motivata edificazione e costruzione di strade a spese degli spazi aperti e verdi palestinesi.

L’edificazione per gli ebrei nelle colonie si sta molto espandendo, sia per migliorare l’attrattività che per impadronirsi di quanta più terra palestinese possibile.

Nell’ottica di mantenere separate le due comunità, dei palestinesi e dei coloni, e di consolidare l’annessione de facto, Israele sta creando un sistema di doppie strade. Il principale criterio per pianificare nuove strade è soddisfare la domanda dei coloni presenti e futuri, il che significa accrescere il loro numero e accorciare i tempi di spostamento tra le colonie e Israele. I veicoli palestinesi sono indotti o costretti a viaggiare su strade secondarie, parallele e circonvallazioni. Ai palestinesi è vietato percorrere la maggior parte delle strade che collegano le colonie tra loro e con Israele, o devono percorrere strade che non li portano da nessuna parte.

Inoltre migliaia di metri quadri in Cisgiordania sono asfaltati e non rispondono ad alcuno scopo civile: “strade di sicurezza” intorno alle colonie, a spese dei terreni da pascolo e da coltivazione palestinesi, e strade asfaltate lungo la tortuosa barriera di separazione, ad uso esclusivo dei veicoli militari.

Per di più gli alberi vengono sradicati, i terreni agricoli distrutti e l’accesso ai terreni coltivati sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza è interdetto con l’apparente motivazione della sicurezza, a causa della violenza dei coloni e allo scopo di espandere le colonie e le loro infrastrutture.

Aumento delle emissioni

Inoltre le restrizioni alla mobilità e diversi divieti relativi allo sviluppo sono fattori che concorrono all’incremento delle emissioni di gas serra. Le distanze e i tempi di percorrenza tra le enclave e le sotto-enclave palestinesi – cioè dai villaggi vicini alla loro città capoluogo – aumentano a causa dei posti di blocco fissi e mobili e delle zone a cui i palestinesi è vietato l’accesso, come le colonie e i blocchi di colonie. Tempi di percorrenza più lunghi significano più consumo di carburante e maggiori emissioni.

Non solo vi è stato un generale aumento di automobili sulle strade: ingorghi di traffico sono provocati dai posti di blocco lungo le strade e agli ingressi delle città. I veicoli che vanno a passo di lumaca negli ingorghi inquinano di più di una guida continua a velocità normale. Uno studio del 2018 dell’istituto palestinese di ricerca applicata Arij ha riscontrato che in Cisgiordania ogni anno vengono sprecati 80 milioni di litri di carburante a causa degli intasamenti ai posti di blocco, delle zone chiuse alle auto palestinesi e della necessità di fare delle deviazioni. Lo studio ha stimato che questo provoca ogni anno 196.000 tonnellate in più di emissioni di CO2.

Lo studio ha anche calcolato che vengono perse 60 milioni di ore di lavoro all’anno, con un costo di 270 milioni di dollari.

Israele controlla tutte le risorse idriche del Paese, ma non considera la Striscia di Gaza come parte geografica naturale di esso, che significherebbe godere di una quota delle risorse idriche, come per esempio avviene per le comunità ebraiche nel deserto. Perciò la Striscia di Gaza deve arrangiarsi con una parte delle falde acquifere costiere all’interno dei suoi confini artificiali, che non forniscono acqua sufficiente per una popolazione di due milioni di persone. Dopo essere state sfruttate eccessivamente per 30 anni, le falde sono state inquinate da infiltrazioni saline e di acque reflue. Circa il 96% della sua acqua è considerato non potabile e deve essere depurato in impianti specifici. Tale depurazione consuma un’enorme quantità di carburante al giorno, poi l’acqua depurata viene trasportata [con autobotti ndtr.] nelle case, producendo ulteriori emissioni.

Collegare Gaza alla rete idrica nazionale israeliano (che utilizza grandi quantità delle risorse della Cisgiordania) sarebbe stato meglio sia per i palestinesi che per il clima del pianeta.

In Cisgiordania Israele raziona la quantità di acqua che i palestinesi possono estrarre e usare. A causa delle scarse quantità il flusso nelle tubazioni è debole e l’acqua non riesce a raggiungere molti quartieri e villaggi palestinesi situati ad altezze relativamente elevate. Tuttavia ancora una volta la soluzione è ad alto dispendio di carburante: trasferire l’acqua in autobotti che la fanno confluire in cisterne sui tetti e in pozzi.

Inoltre Israele rifiuta di consentire a decine di villaggi e di comunità di pastori, soprattutto nella Valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron, di collegarsi al sistema idrico. Queste comunità palestinesi impoverite devono dipendere dall’acqua trasportata da autobotti e trattori, per la quale pagano cinque volte tanto se non di più, e questo senza contare il danno recato all’ecologia.

Tendenze neoliberiste

Il controllo di Israele limita le possibilità energetiche e di sviluppo dei palestinesi in enclave isolate senza contiguità territoriale.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha incoraggiato, e continua a farlo, tendenze neoliberiste che danneggiano l’ambiente, come l’aumento dei consumi, compreso quello delle automobili. Ma la sua situazione di inferiorità e di soggiogamento rende difficile prevedere e pianificare a lungo termine,

anche attraverso aspetti che accolgano comportamenti economici di responsabilità ambientale.

Ridurre le emissioni richiede lo sviluppo del trasporto pubblico a prescindere da considerazioni di profitto. Ma, anche se l’Autorità Nazionale Palestinese non era in bancarotta, un progetto come un sistema ferroviario tra le città palestinesi è stato reso impossibile a causa della frammentazione del territorio in sacche isolate, senza nessuna autorità sulla terra circostante. Il miglioramento delle opzioni esistenti di trasporto pubblico, come autobus e minibus, richiede di finanziare le imprese private e comunali e di aumentare il salario dei conducenti, considerando i costi aggiuntivi dovuti alle attese ai posti di blocco e al dover effettuare deviazioni più lunghe; sono necessarie anche nuove linee di autobus, in grado di viaggiare per più ore.

La soluzione di ridurre i perenni ingorghi di traffico aggiungendo delle uscite dalle città (e costruendo corsie per il trasporto pubblico in ogni distretto) è difficile se non impossibile.       Ciò è dovuto alle colonie e ai loro piani di espansione, alle norme di pianificazione discriminatorie dell’Amministrazione Civile (israeliana) e alla richiesta dell’apparato di sicurezza che il numero di punti di ingresso e di uscita dalle città palestinesi sia il più limitato possibile.

Il controllo israeliano sulla terra, le risorse idriche e la pianificazione in più del 60% della Cisgiordania non consente all’ANP di razionalizzare la distribuzione dell’acqua: cioè di distribuire attraverso tubazioni l’acqua dalle aree fertili (per esempio Gerico) ad altre, come Betlemme.

Il controllo e le limitazioni alla pianificazione da parte israeliana rendono inoltre più difficile all’ANP spostare le aree industriali “sporche” fuori dalle zone residenziali ed espandere i confini urbani sulla base di considerazioni ambientaliste.

Inoltre, l’Autorità Nazionale Palestinese viene limitata nella sua possibilità di sviluppare una consapevolezza tra la popolazione riguardo alla protezione ambientale immediata e a lungo termine ed è geograficamente vincolata nella sua possibilità di applicare le leggi e le norme esistenti – per esempio per l’impedire l’interramento a scopo di lucro di rifiuti israeliani e altri generi di scorie nei terreni dei villaggi palestinesi.

La cronica debolezza finanziaria dell’ANP, il suo mancato rispetto della promessa che il processo di Oslo avrebbe portato alla fine dell’occupazione e la sua fama di essere corrotta hanno ridotto al minimo la fiducia della gente in essa. La fiducia della popolazione è essenziale quando un governo intende far crescere la consapevolezza e formulare politiche in ogni ambito, dalla delicata ma necessaria questione della riduzione della natalità, alla riduzione dell’utilizzo di pesticidi chimici, alla promozione dell’uso del trasporto pubblico. La divisione interna palestinese tra Gaza e la Cisgiordania, tra Hamas e Fatah, sviluppata e approfondita dalla politica israeliana di isolare e scollegare Gaza, limita inoltre lo sviluppo e la messa in atto di una pianificazione e progettazione a lungo termine sull’ambiente da parte palestinese.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




La Giornata della collera palestinese contro lo “Stato dei coloni”

Umberto De Giovannangeli

26 novembre 2019 Huffington Post

Negozi chiusi, come le scuole e gli uffici pubblici. Manifestazioni e scontri a Gerusalemme Est e in varie località della Cisgiordania (decine i feriti). È la “Giornata della rabbia” dei palestinesi. Una rabbia indirizzata contro le dichiarazioni del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, sulla legalità degli insediamenti palestinesi.

 

Fine dalle prime ore dell’alba, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno rafforzato la loro presenza nella Cisgiordania e lungo la barriera difensiva con la Striscia di Gaza. “Abbiamo dichiarato una Giornata della rabbia per rifiutare questa dichiarazione del segretario di Stato – afferma Wasel Abu Yousef, membro della Commissione politica dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) – Condanniamo completamente questo sforzo statunitense di legittimare gli insediamenti”.

Gran parte della comunità internazionale considera illegali gli insediamenti, sulla base della Quarta convenzione di Ginevra, che impedisce a una potenza occupante di trasferire parte della propria popolazione civile nei territori occupati. Da parte sua, Israele non considera la Cisgiordania un territorio occupato, ma conteso a causa dell’esito della guerra del 1967, quando fu sottratta al Giordania. Mahmoud al-Aloul, vice presidente di Fatah – la maggiore delle componenti dell’Olp – citato dalla Wafa, ha attaccato l’amministrazione Usa guidata da Trump ed Israele responsabili di “molti crimini” contro il popolo palestinese. Stanno veramente sbattendo le porte in faccia al diritto internazionale e spalancando quelle dell’estremismo, del terrorismo, della violenza, della corruzione, dello spargimento di sangue – ribadisce ad HuffPost il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat – Costringono i popoli a convincersi che l’unico modo di risolvere i problemi sia attraverso la violenza e non con i mezzi pacifici”. E aggiunge: “La comunità internazionale deve prendere tutte le misure necessarie per rispondere a fare da deterrente a questo comportamento irresponsabile degli Usa che rappresenta una minaccia alla sicurezza globale e alla pace”.

Durissima è anche la presa di posizione dei partiti arabi israeliani: “Netanyahu usa l’improvvida sortita americana per riproporre una visione colonialista ed etnocentrica d’Israele – ci dice Ayman Odeh, presidente della Joint List (La Lista araba unita, 13 seggi, terza forza parlamentare, ndr), incluso dalla Rivista Time tra le 100 ‘stelle nascenti’ a livello mondale della politica – Per Netanyahu annettere la Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank, ndr) è come realizzare una missione divina, oltre che una spregiudicata manovra politica per garantirsi il sostegno dei falchi legati al movimento dei coloni. Siamo al fondamentalismo che si fa politica. E costui pretenderebbe di continuare a fare danni in un nuovo governo!”

In una nota, diffusa ieri, il Comitato esecutivo del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) riafferma “la sua opposizione alla creazione e all’espansione degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi occupati dal 1967″. In risposta alla decisione del Governo Usa, del 18 novembre scorso, di considerare “non illegali” gli insediamenti civili israeliani in Cisgiordania, il Wcc ribadisce che “tale annuncio ribalta la politica statunitense finora applicata e si pone in netta contrapposizione con quella della comunità internazionale e delle Nazioni Unite”. Il Wcc “respinge questa posizione sbagliata nella legge e contraria al perseguimento di una pace giusta sia per i palestinesi che per gli israeliani” e “riafferma il diritto dello Stato di Israele di vivere in pace e sicurezza all’interno dei confini riconosciuti dalla comunità internazionale, e allo stesso tempo riconosce e sostiene lo stesso diritto per il popolo palestinese”.

“Siamo alla legalizzazione dello ‘Stato dei coloni’, in spregio alla legalità internazionale e alle risoluzioni delle Nazioni Unite”, incalza Hanan Ashrawi, già portavoce della delegazione palestinese ai negoziati di Washington, più volte ministra palestinese.

In questo clima di odio e di rabbia che crescono le giovani generazioni palestinesi. E nella “Giornata della rabbia”, vale come testimonianza diretta di una situazione drammatica, quanto scrive su Internazionale Amira Hass, firma storica di Haaretz, la giornalista israeliana che meglio conosce, avendola raccontata da anni, la realtà palestinese: “Vivo in Cisgiordania da abbastanza tempo per capire l’odio e il disgusto dei palestinesi, che assume contorni sempre più personali man mano che si allontana la speranza di ottenere la libertà. Negli ultimi venticinque anni Israele ha fatto tutto quello che era in suo potere per dimostrare le proprie ambizioni colonialiste, sfruttando nel modo più astuto il processo di negoziazione per strappare sempre più terre ai palestinesi e per smembrare ancora di più la loro collettività. Per contrastare questa politica sono stati usati tutti i mezzi possibili: manifestazioni individuali e di massa, post su Facebook e video, lancio di pietre, ordigni esplosivi e razzi da Gaza, appelli alle star della musica statunitense affinché non si esibissero in Israele, petizioni sui giornali, concerti di raccolta fondi e votazioni all’Onu.  Tutti questi mezzi hanno fallito. Lo Stato israeliano va avanti per la sua strada. Il mondo gli permette di comportarsi come se fosse al di sopra della legge, mentre i palestinesi vengono vivisezionati per ogni parola e ogni slogan che pronunciano, per ogni colpo che sparano…”. Due pesi e due misure. La speranza di pace si spegne anche così.




Ho chiesto all’unica giornalista israeliana in Palestina di mostrarmi qualcosa di scioccante – e questo è ciò che ho visto

Robert Fisk

 a Bir Naballa, Cisgiordania

18 settembre, The Indipendent 

È la vecchia strada da Ramallah a Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate. Tutto ciò ora finisce, ovviamente, al muro

Mostrami qualcosa che mi scioccherà, ho detto ad Amira Hass. Così l’unica giornalista israeliana nella Cisgiordania palestinese – o in Palestina, se si crede ancora a una parola così in disuso – mi ha portato lungo una strada fuori Ramallah che ricordavo come un’autostrada che portava a Gerusalemme. Ma ora, appena sopra una collina, si trasforma in una strada semi-asfaltata, una serie di porte arrugginite di negozi chiusi e spazzatura. Lo stesso vecchio odore estivo di scarichi fognari si insinua su per la strada. Giace, verde e tranquillo, in uno stagno alla base del muro.

O il “Muro”. O, per scribacchini più prudenti, il “Muro di Sicurezza”. O, per anime più delicate, la “Barriera di Sicurezza”. O per penne ancora più sciatte la “Barriera”. O, se ti preoccupi davvero delle implicazioni politiche, la “Recinzione”. La Recinzione – come i familiari pali e travi di legno che si possono trovare lungo il confine di un campo. O – se vuoi davvero spaventare i direttori di televisione e far arrabbiare gli israeliani – il “Muro della Segregazione”, o persino il “Muro dell’apartheid”. Perché presto parleremo dei “Bantustan” palestinesi che si ritrovano tagliati fuori dal Muro, da strade solo per israeliani e dal vasto impero delle colonie israeliane su terra araba.

Fidati di Amira perché ti dia degli spunti. Della frase “Bantustan palestinese” è disseminata la sua irata digressione mentre mi porta in giro nelle enclave palestinesi in Cisgiordania e, dopo un’ora o due, al Muro: torreggiante otto metri sopra di noi, severo, mostruoso nella sua determinazione, ritto e serpeggiante tra blocchi di abitazioni e che si insinua in uad [letti asciutti di torrenti, ndtr.] e si ritorce indietro su se stesso finché trovi due muri uno dietro all’altro, un muro doppio ma lo stesso muro, così sono i tornanti alpini di questa creatura. Scuoti la testa per un momento quando – improvvisamente, sicuramente per via di qualche errore di calcolo – non c’è assolutamente nessun muro ma una via commerciale o una semplice collina di boscaglia e pietre. E poi il massiccio progetto colonialista degli insediamenti israeliani, tutto alberi verdi e case con il tetto rosso e strade ordinate e, sì, più muri e recinzioni di filo spinato e muri ancora più grandi. E poi la bestia vera e propria. Il Muro.

Ma la parte di muro a cui Amira Hass mi porta – guida turistica e analista della società israeliana, ammette, non vanno insieme – è un posto veramente miserabile. Non epico come Dante. Forse un corrispondente di guerra potrebbe descriverlo meglio. È la vecchia strada tra Ramallah e Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate, che ora finisce, ovviamente, al Muro.

“Ora, se questo non è scioccante, non so cosa lo possa essere,” dice Amira. “Questa è la distruzione della vita della gente – è la fine del mondo. Vedi qui? Andavamo dritti verso Gerusalemme. Ora non più. Questa era una via trafficata e qui puoi vedere come la gente ha investito in case con un po’ di grazia, la solidità delle case, la pietra. Guarda i cartelli in ebraico – perché questi palestinesi solevano avere molti clienti israeliani. Persino il nome ‘falegname’ è in ebraico.”

Ma quasi tutti i negozi sono chiusi, le case sprangate, erbacce e rami secchi lungo i marciapiedi rotti. I graffiti sono patetici, il sole senza pietà, il cielo così incrostato di calore che il grigio del muro a volte si fonde nel grigio pietra del cielo. “È penoso” dice Amira Hass, senza emozione. “Questo posto – ho sempre mostrato questo alla gente; sempre, sai, probabilmente un centinaio di volte ormai, e non smette mai di scioccarmi.”

Il liquame, una volta che ci fai l’abitudine, è in qualche modo adeguato. È come un posto in cui l’immaginazione si è esaurita, lasciando dietro solo uno squallido stagno, il verde sempre più luminoso perché il Muro sta acquisendo la patina del tempo.

Il silenzio non è opprimente – come potrebbe essere in un romanzo – ma richiede una risposta. Chiedo ad Amira cosa ci dice il Muro. “Penso a quello che dice a me…”, comincia. “Poiché si rende conto di non poter cacciare via i palestinesi, deve nasconderli. Deve occultarli ai nostri occhi. Qualcuno deve uscire per lavorare là per gli ebrei. E ciò è visto come se gli si facesse un favore. Gli israeliani non entrano, perché noi israeliani non abbiamo bisogno di queste zone – non ci servono – questa è spazzatura, questo è liquame. Il Muro dice quanto forte è la necessità di essere puri – e quante persone hanno preso parte a questo atto di violenza? Dicono che è a causa degli attacchi suicidi, ma l’infrastruttura giuridica e amministrativa per questa separazione esisteva da prima del Muro, per cui il Muro è una specie di manifestazione grafica o concreta o tangibile di leggi di separazione che c’erano già.”

Ed è un’israeliana che mi parla, la tenace e instancabile figlia di una madre partigiana bosniaca che dovette consegnarsi alla Gestapo e di un ebreo rumeno sopravvissuto all’Olocausto, e il cui socialismo, penso, le ha dato un coraggio forte, marxista.

Lei probabilmente non è d’accordo, ma penso a lei come a una figlia della Seconda Guerra Mondiale, anche se è nata 11 anni dopo la morte di Hitler. Suppone che le siano rimasti da 100 a 500 lettori israeliani; grazie a dio, dicono molti di noi, il suo giornale, “Haaretz”, esiste ancora.

La madre di Amira rimase colpita, lungo la strada dalla stazione del treno di Bergen Belsen nel 1944, dalle casalinghe tedesche che arrivavano per vedere la fila di prigionieri distrutti, da come le donne tedesche “stavano lì a guardare”. Amira Hass, sospetto, non starà mai lì a guardare. È cresciuta abituandosi all’odio e alla violenza del suo stesso popolo. Ma lei è realista.

“Guarda, non possiamo ignorare che per un certo periodo (il Muro) è servito alla funzione immediata della sicurezza,” dice. Ed ha ragione. La campagna palestinese di attentati suicidi è stata stroncata. Ma il Muro è stato anche una macchina per l’espansione [territoriale]; si è insinuato nelle terre arabe che non erano parte dello Stato di Israele più di quanto lo fossero le vaste colonie che ora ospitano circa 400.000 ebrei in Cisgiordania. Non ancora, in ogni caso.

Amira porta occhiali rotondi che la fanno sembrare un po’ come uno di quei dentisti che tutti abbiamo incontrato, che studiano con disappunto, cinismo e una certa demoralizzazione il terribile stato dei nostri denti. Scrive così. Ha appena finito un lungo articolo per Haaretz – sarà pubblicato tra due giorni, una feroce dissertazione sugli accordi di Oslo del 1993 che arriva quasi a provare che gli israeliani non hanno mai inteso l’accordo di “pace” come finalizzato a dare uno Stato ai palestinesi.

“La situazione dei Bantustan, riserve o enclave palestinesi,” scrive nel triste venticinquesimo anniversario degli accordi di Oslo, “è un fatto concreto… contrariamente a quello che avevano ritenuto i palestinesi, molte persone nel campo pacifista israeliano all’epoca e i Paesi europei, da nessuna parte [Oslo] stabiliva che l’obiettivo fosse la fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967.” Amira dice che ad ‘Haaretz’ “il problema è che i correttori di bozze – li chiamo i ragazzi – cambiano ogni paio di anni e ogni volta mi chiedono: ‘Come sai che Oslo non riguardava la pace?’…Ora il giornale è orgoglioso perché ha qualcuno che aveva ragione. Vent’anni fa pensavano che fossi matta.”

Il giro di Hass continua attorno a quella che definisce come “la prigione a 5 stelle”. Ci soffermiamo sulla città di Ramallah, temporanea pseudo-capitale dell’inesistente Stato palestinese. Lei immagina – lo fa spesso – che un marziano arrivi in Cisgiordania dallo spazio. Il marziano, dice, noterebbe che le case palestinesi hanno cisterne nere sul tetto – perché la loro acqua arriva razionata dall’Autorità Nazionale Palestinese – mentre le colonie ebraiche hanno un acquedotto. “Non hanno di che preoccuparsi.” Le colonie sulle colline – “così lussureggianti, così attraenti, con un’aria molto buona” – hanno tetti rossi spioventi, in stile europeo. Ora le famiglie palestinesi più ricche stanno imitando i tetti rossi dei loro occupanti.

Il marziano di Amira Hass ricompare: “Vede una città tentacolare (Ramallah), edifici eleganti…ci sono cinema, negozi e commerci. Laggiù vede le auto. Il nostro extraterrestre dice: ‘Qual è il problema? Perché vi lamentate dell’occupazione?’ Per cui il problema è che c’è l’illusione di non essere sotto occupazione in questo spazio limitato, in un luogo in gabbia, in questa prigione a cinque stelle…I contorni, i confini sono molto chiari. Ma le persone all’interno dei confini si sono abituate a un certo tipo di normalità che adesso per loro è molto difficile lasciare.”

“Fondamentalmente sanno che se si impegnano in un’altra ondata di resistenza possono perdere persino questo – persino il poco che hanno, questa normalità… Per me una delle prove migliori che qui c’è un certo tipo di normalità sono i palestinesi con cittadinanza israeliana che ogni fine settimana vengono in questo bantustan palestinese per sfuggire al razzismo israeliano e all’arroganza che affrontano quotidianamente in Israele – e vengono qui per sfuggirvi, per trovarsi in un ambiente totalmente palestinese.”

L’analisi è severa e con una prospettiva storica. “I palestinesi sanno che questa non è l’indipendenza. Ma ora ritengono che non ne varrebbe la pena. Durante gli ultimi due o tre anni, quando qualche giovane era impegnato in attacchi all’arma bianca e c’era qualche studente che veniva qui ai posti di blocco per scontrarsi con l’esercito israeliano, si emozionavano per loro. Ma non vedevi le masse uscire per affrontare l’esercito. Ora non si tratta di paura, non è la polizia palestinese che li blocca. Adesso, con la divisione palestinese tra Hamas e Fatah, i palestinesi nel fondo della loro ‘saggezza’ politica, e con l’America – Trump – e tutto questo, [sanno che] non c’è ragione di sacrificarsi per niente.”

Lei guida, supera una base militare dove evidenzia le parole scritte – in inglese – con la bomboletta su un muro. “Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre.” Con simili parole i palestinesi non potrebbero incolpare in modo più assoluto la loro società agli occhi dell’Occidente? Ma ci sono altre scritte. In un piccolo villaggio palestinese, forse a 200 metri dalla colonia ebraica di Beit El – telecamere puntate verso l’esterno lungo la sua recinzione – [Amira] sottolinea le parole scritte con lo spray sul muro di una casa palestinese dopo che i coloni hanno fatto un’incursione nel villaggio. “Giudea e Samaria”, dice in ebraico, riferendosi alla Cisgiordania. “Verrà versato sangue.” Aisha Fara ci mostra il tetto della sua casa, dove il pannello solare è stato rotto da piccole pietre – sparate con la fionda da studenti religiosi, dice, solo tre giorni prima – e nonostante i suoi 74 anni non usa mezzi termini. Intuisco in silenzio che è nata nel 1944 nella Palestina originaria del Mandato [britannico], lo stesso anno in cui la madre di Amira è stata mandata a Bergen-Belsen.

“I ladri sono arrivati prima del tramonto,” dice Fara dei lanciatori di pietre. “Hanno bruciato per tre volte i nostri alberi. Ma i ladri non restano per sempre. E la gente spaventata tornerà alle proprie case, se dio vuole…Mi chiedi chi sono (i coloni)? Voi li avete mandati. Voi li avete tutti nelle vostre telecamere…Voglio che i porci americani lo sappiano – non siamo pellerossa!” Amira ascolta con attenzione. “Per lei la storia è una lunghissima catena di espulsioni,” dice di Aisha Fara. “Ci sono cose su cui smetti di scrivere. La solita routine.”

Ciò, penso, ha ferito Amira Hass, il modo in cui una storia giornalistica viene lasciata perdere una volta che diventa un avvenimento quotidiano. Un lancio di pietre, un incendio, un’altra colonia. E i privilegi di essere cittadino israeliano sono sempre presenti. “In certo modo, quando siamo stati bombardati, era più facile perché ero con gli altri. È una cosa che posso percepire – la paura delle bombe, ovviamente, la condivido. Ma per esempio il fatto di essere rinchiusi, è una cosa che non posso capire. Non posso comprenderlo. Per me un muro è semplicemente una cosa brutta lungo la strada per Gerusalemme. Ma per i palestinesi è dove finisce il mondo. Quando vado a Gerusalemme non posso dire ai miei vicini che ci vado – mi vergogno. Mi sento in imbarazzo… perché per loro Gerusalemme è come la luna.”

Quindi vivrà tutto il resto della sua vita tra i palestinesi della Cisgiordania, l’unica inviata israeliana dalla parte dura della storia? “Non avrei mai pensato che avrei vissuto a El-Bireh, ma ora è la città dove ho vissuto più a lungo che in qualunque altro posto,” risponde. “Non l’ho mai pianificato – ma è quello che è successo. E so che se dovesse succedere qualcosa – se me ne dovessi andare, sia perché smetto di lavorare o gli israeliani mi dicono di andarmene o me lo dicono i palestinesi, fa lo stesso, non riuscirò mai a tornare in un quartiere esclusivamente ebraico. Andrò ad Acri o ad Haifa [città israeliane, ndtr.]…Ad Haifa ci sono palestinesi.”

Quando mi appresto a tornare a Gerusalemme, sulla “luna”, ringrazio Amira Hass per il suo tour istruttivo, accademico ed anche giornalistico e – agli occhi dei suoi non-lettori israeliani – per un commento altrettanto terribile delle mail di odio che le hanno mandato. “Ho la tendenza a dire alla gente quello che non vuole sentire,” dice. A me sembra una vera giornalista. E capisco allo stesso tempo che lei non sarà mai una spettatrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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Repressione proteste a Gaza

Berretti da baseball e abiti civili: anche Hamas ha i suoi soldati in borghese

 

Questa settimana membri di Hamas hanno disperso in modo violento una manifestazione a Gaza contro la divisione politica dei palestinesi ed hanno aggredito i manifestanti che cercavano di fotografarli mentre lo facevano

Haaretz

Amira Hass

29 giugno 2018

Lunedì decine di uomini con in testa kefiah e berretti bianchi da baseball hanno fatto irruzione in una manifestazione che si svolgeva nel centro della città. Sembra l’inizio di un articolo su un’altra protesta dispersa a Ramallah dalle forze di sicurezza in borghese dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ma in realtà ciò che è successo lunedì è avvenuto a Gaza City. Era una manifestazione di poche centinaia di persone che chiedevano la fine della divisione politica tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania e la revoca delle misure punitive che il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha imposto a Gaza.

I manifestanti, come anche giornalisti e associazioni per i diritti umani, sono convinti che dietro alle violenze per interrompere la manifestazione vi fosse il governo de facto di Gaza; in altri termini, Hamas. Ma Hamas e il ministero dell’Interno di Gaza, controllato da Hamas, negano ogni coinvolgimento.

Siti di informazione riferiscono che l’iniziativa della manifestazione proveniva dalla commissione per i prigionieri di Fatah.

Ad uno sguardo superficiale, sembra che questi manifestanti intendessero “rispondere” alle manifestazioni in Cisgiordania contrapponendosi alla divisione politica – la situazione di due governi palestinesi paralleli. A Gaza la richiesta di porre fine alla divisione è uno slogan che viene attribuito soprattutto ai sostenitori di Fatah e agli oppositori di Hamas, in quanto implica il ripristino del controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese su Gaza.

Ma gli ex prigionieri in Israele di tutti i movimenti palestinesi hanno contribuito ad organizzare la protesta a Gaza. Inoltre, uno dei partecipanti alla manifestazione non era altri che Tawfiq Abu Naim, il capo delle forze di sicurezza nella Striscia.

Abu Naim è sopravvissuto ad un attentato alla sua vita in ottobre, attribuito sia allo Stato Islamico che ad Israele. Nel 1989 è stato incriminato in Israele per aver partecipato alla fondazione dell’ala militare di Hamas e per l’uccisione di palestinesi sospettati di collaborare con Israele. È stato condannato all’ergastolo e poi rilasciato nell’ambito dello scambio di prigionieri con Gilad Shalit nel 2011.

Secondo un comunicato stampa di Hamas, alcuni prigionieri di Hamas rilasciati hanno aiutato ad organizzare la manifestazione e Abu Naim avrebbe dovuto parlare durante la protesta, ma il suo discorso è stato annullato a causa dell’opposizione di alcuni manifestanti. Comunque il messaggio era chiaro. Dopotutto, non ha senso che ex detenuti di Hamas, che hanno contribuito ad organizzare la manifestazione, siano responsabili della sua violenta repressione. Loro, ed in particolare quelli rilasciati in cambio di Shalit, sono stati tra i primi danneggiati dalle misure punitive a Gaza da parte di Abbas.

Circa un anno fa Abbas ha sospeso i loro sussidi mensili e – nonostante le proteste e le promesse – questi pagamenti devono ancora essere ripristinati. Nella società palestinese i sussidi mensili sono considerati un adeguato compenso per il sacrificio dei militanti [che lottano] contro l’occupazione e delle loro famiglie; in special modo quando questi militanti dopo il loro rilascio non hanno ottenuto un lavoro ufficiale con un salario.

Violenta parodia

Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, con sede a Gaza City, gli individui con i berretti bianchi da baseball sono comparsi subito dopo l’inizio della protesta. Alcuni sono usciti da una moschea lì vicino. Portavano cartelli e gridavano: “Il popolo vuole che Abbas se ne vada” – un’eco degli slogan del Cairo nel gennaio 2011, quando era presidente Hosni Mubarak [si riferisce alle proteste di piazza Tahrir e alla cacciata di Mubarak, ndtr.].

Sembra una parodia della repressione della manifestazione a Ramallah del mercoledì precedente, in cui dei giovani che indossavano berretti da baseball di Fatah hanno attaccato i manifestanti.

Una parodia molto violenta.  I manifestanti hanno rifiutato la richiesta degli organizzatori di “di gridare slogan unitari.” Sono scoppiati scontri e poi, come scritto nel rapporto del Centro Palestinese per i Diritti Umani, agenti di sicurezza in borghese ed alcuni degli uomini coi berretti bianchi da baseball hanno distrutto il palco ed aggredito alcuni partecipanti.

Chiunque cercasse di fotografare o filmare ciò che stava succedendo veniva aggredito dagli agenti in borghese e costretto a cancellare le fotografie. “Quando ho filmato gli attacchi, circa quattro uomini in abiti civili mi si sono avvicinati e mi hanno ordinato di dargli il mio telefonino”, ha detto un attivista di un gruppo per i diritti umani.

“Mi sono rifiutato e allora altri due tipi sono venuti verso di me con dei bastoni in mano. Li ho seminati e sono andato verso un gruppo di civili che poi si sono rivelati essere membri delle forze di sicurezza; si sono qualificati come tali”, ha aggiunto.

“Io mi sono presentato a loro come membro di un gruppo per i diritti umani che ha il diritto di filmare. Ma questo non gli ha impedito di minacciarmi che mi avrebbero arrestato, mi hanno spintonato, ammanettato e hanno preso il mio cellulare.”

Il telefonino è stato restituito dopo che sono state cancellate le fotografie.

Barbe e pistole

Anche un giornalista di una trasmittente radiofonica palestinese ha detto che agenti in borghese gli hanno strappato il telefonino mentre stava filmando gli avvenimenti. Ha detto ad un ricercatore sul campo del Centro Palestinese per i Diritti Umani che la maggior parte degli individui che sono intervenuti nella manifestazione aveva la barba; secondo lui erano chiaramente militanti di Hamas.

Ha identificato i membri delle forze di sicurezza tra i dimostranti dalle pistole che nascondevano e dalle loro radio. Alcuni manifestanti hanno risposto a quelli che intervenivano con grida di “Con l’anima e il sangue ti redimeremo, Abbas.”

Il giornalista ha detto che un alto comandante delle forze di sicurezza di Hamas – che dalle riprese che non sono state cancellate risulta essere Abu Naim – è andato sul palco ed ha dichiarato che nessun membro delle forze di sicurezza era tra gli aggressori. Ma i manifestanti gli hanno gridato che non era vero: la piazza era piena di uomini delle forze di sicurezza. Il comandante se ne è andato e poi sono scoppiati gli scontri, ha detto il giornalista.

Le condanne da parte delle organizzazioni palestinesi, dell’associazione della stampa e dei portavoce di Fatah e dell’ANP in Cisgiordania non si sono fatte attendere. Il ministero dell’Interno di Gaza ha ripetutamente asserito che non solo non era coinvolto negli eventi, ma che aveva dato la sua approvazione alla manifestazione. Come ha detto Hamas in una dichiarazione, gli scontri sono scoppiati tra i manifestanti a causa della forte tensione a Gaza e dell’oppressione patita dalla popolazione.

Forse il ministero dell’Interno e Hamas sono stati talmente sofisticati da irrompere nella manifestazione senza rivendicare di averla repressa? Se il ministero dell’Interno era così favorevole alla protesta, come mai non ha fermato le persone che l’hanno aggredita? Oppure era davvero un’iniziativa personale di teste calde che per caso erano membri di Hamas?

Secondo alcuni partecipanti, gli uomini con i berretti da baseball, mentre attaccavano i manifestanti, gridavano: “Abbasso la laicità”. Pesanti accuse contro la laicità (quasi un sinonimo di “eresia”) venivano lanciate contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in generale, e soprattutto contro i gruppi di sinistra, ma anche contro Fatah, anche se molti dei suoi più importanti dirigenti sono credenti.

I manifestanti di mercoledì a Betlemme erano per lo più di sinistra; una settimana dopo la famosa protesta a Ramallah hanno sfidato l’ANP e si sono uniti alla richiesta di togliere le sanzioni a Gaza.

Questa volta la polizia palestinese ha evitato di interrompere la manifestazione, si è limitata a mantenere l’ordine, ha offerto acqua fresca ai manifestanti e li ha lasciati gridare i loro slogan.

Secondo le notizie di siti di informazione palestinesi, i manifestanti hanno elogiato Mohammed Def, il capo dell’ala militare di Hamas, hanno chiesto la fine della cooperazione sulla sicurezza con Israele ed hanno gridato slogan sprezzanti verso la lotta nonviolenta e a favore della ripresa della lotta armata.

Simili slogan si sentono abitualmente nelle manifestazioni di piccoli gruppi di giovani che si identificano con la sinistra – “dei laici”, per usare le parole di quelli che hanno interrotto la manifestazione di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Farsi una canna nella base militare in Israele

Farsi una canna nella base militare in Israele

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di totalmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone

Haaretz

Amira Hass |

26 giugno 2018

Il consumo di cannabis tra i soldati israeliani (sia nell’esercito che in servizio di leva) è in aumento. Secondo un articolo del quotidiano Yediot Ahronoth [quotidiano di centro, uno dei più letti in Israele, ndtr.] , basato su un’indagine dell’Autorità anti droga di qualche mese fa,  nel 2017 non meno del 54% delle truppe ne faceva uso.

Come dovremmo interpretare l’aumento dell’uso di marijuana e hashish tra i soldati? Forse tutti i discorsi sulla legalizzazione lo hanno agevolato? Si tratta di una politica più flessibile di repressione e punizione dei fumatori nell’esercito? L’articolo di Yedioth non prende in esame le motivazioni del maggior uso, perciò dobbiamo basarci su ipotesi.

Il giornalista, Amir Shouan, ha parlato con soldati di entrambi i sessi in diverse unità ed ha appreso che ci sono anche comandanti che si drogano e comandanti che sanno quali tra i loro soldati fanno uso di cannabis. E ci sono soldati che guadagnano soldi facili utilizzando applicazioni per vendere hashish. Gli spacciatori fanno persino sconti ai soldati.

L’uso di droga non si limita ai periodi di licenza. “In molte unità, alcune delle quali operative e riservate, fumare cannabis è diventato un fatto diffusopersino all’interno delle stesse basi”, scrive Shouan.

L’istinto immediato è trovare una spiegazione positiva al fenomeno. I soldati, per quanto giovani e programmati, si rendono conto che quello che stanno facendo è male: irrompere nelle case; svegliare i bambini nel cuore della notte puntandogli contro i fucili; sparare agli abitanti di quella prigione che è Gaza, che siano manifestanti, pescatori, pastori o agricoltori; proteggere le demolizioni delle case e dei serbatoi d’acqua della gente; o rimanere passivi in base agli ordini mentre ebrei mascherati attaccano pastori e contadini palestinesi.

Una sorta di conferma di questa interpretazione viene da una soldatessa di nome Shira, che ha detto a Shouan di soffrire di turbe emotive a causa del suo servizio militare. “E allora la sola cosa che ti aiuta è  drogarti. La cannabis ti aiuta a rilassarti, a sopportare il dolore – mentale e fisico – e i pensieri. E quando lo fai con un’altra persona, quando c’è qualcuno che ti è complice nel reato, per un momento dimentichi tutti i tuoi problemi.”

Yuval, un soldato in prima linea, spiega perché i soldati si drogano: “E’ un modo gradevole, divertente, per sopportare la situazione. A volte molte cose non hanno senso, ordini noiosi o tutte quelle cose che dobbiamo fare e con cui non siamo d’accordo. Quando sei fatto, ti butti tutto alle spalle. Dici ‘tutto bene, fantastico.”

I pensieri, il dissenso: Bertolt Brecht scrisse una poesia ottimista nel 1938, intitolata “Generale, il tuo carro armato…”: “Generale, l’uomo può fare di tutto / può volare e può uccidere / ma ha un difetto / può pensare.”

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di essenzialmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone che si oppongono al governo da dittatura militare che è loro imposto. Forse la droga li aiuta a coprire l’ipocrisia. I soldati sono dipinti come i difensori del popolo, mentre sanno che la loro missione è assicurare la tranquillità e l’espansione dell’impresa di colonizzazione.

L’interpretazione ottimistica suggerisce che i soldati sperimentano in ogni istante il contrasto tra la pretesa moralità di Israele e ciò che in realtà si richiede loro di fare. Sballarsi attenua piacevolmente la vergogna. Il crescente uso di cannabis deriva da un diffuso senso di colpa.

L’interpretazione pessimistica ci ricorda che siamo molto lontani dal 1938, e che Brecht si sbagliava. I soldati pensano che i loro generali abbiano ragione. Si identificano con il loro ruolo e la loro missione, ed anche con Israele. Cercano solo un modo per migliorare le proprie prestazioni.

Uno dei danni emotivi attribuiti all’uso della cannabis è l’aumento dell’aggressività. In un esercito come il nostro, che deve continuamente ricordare a chi è assoggettato che il suo giusto ed eterno posto è in basso, l’aggressività personale non è un difetto. Fa parte dello schema di lavoro.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Le sei cose che mostrano le truppe palestinesi nel reprimere le proteste a Ramallah

Haaretz

Amira Hass

18 giugno 2018,

La violenta repressione, mercoledì scorso, da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di una manifestazione di protesta contro le politiche restrittive dell’ANP nei confronti di Gaza dimostra:

  1. Che l’ANP ed il partito alla sua guida, Fatah, non intendono tenere elezioni parlamentari

Chiunque abbia interesse a svolgere libere elezioni non reprime brutalmente una piccola manifestazione con modi che coniugano i metodi dell’occupazione israeliana con quelli delle forze di sicurezza siriane ed egiziane. Chiunque voglia vincere le elezioni non ricorre a metodi che repellono alla maggioranza della propria popolazione, allontanandola ancor più dalla sua dirigenza non eletta.

2.     Che il movimento di Fatah si aggrappa con tutte le sue forze al misero potere che gli deriva dal gestire l’ANP sotto il feroce regime militare israeliano.

Altrimenti si sarebbe pubblicamente e immediatamente dissociato dal modo in cui le agenzie di sicurezza palestinesi hanno strumentalizzato i giovani identificati come membri di Fatah. (Si è detto che almeno alcuni provenivano dal campo profughi Jalazun, come Rami Younes, che scrive sui siti web israeliani Sihah Mekomit e +972. Younes ha partecipato alla manifestazione di mercoledì sera e ne ha riferito agghiaccianti dettagli).

3. Che la paura del presidente palestinese Mahmoud Abbas all’interno del movimento Fatah è molto forte

Ci sono membri di Fatah contrari alla repressione della manifestazione che chiedeva la revoca delle misure punitive imposte da Abbas a Gaza, pur condividendo le critiche rivolte ai manifestanti (per esempio, che minimizzano la responsabilità di Hamas per la situazione a Gaza e il suo sottrarsi ai propri obblighi verso la popolazione civile della Striscia). Questi oppositori all’interno di Fatah restano in silenzio per paura di perdere i loro salari o di essere probabilmente estromessi dalle istituzioni di Fatah, in cui si sentono a casa propria.

4. Che l’ANP è capace di programmare ed organizzare quando vuole farlo, diversamente dall’impressione che hanno gli impiegati nei suoi ministeri

Là regna il caos, la mancanza di pianificazione e organizzazione e lo scarso coordinamento, oltre a una buona dose di apatia.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita in modo straordinario a mettere insieme il lavoro di molte delle proprie istituzioni per scoraggiare potenziali manifestanti dal farsi vedere, e poi a reprimere e punire quelli che non si erano lasciati intimorire. Queste istituzioni includono il governo dell’ANP, l’ufficio del presidente, le forze di sicurezza ufficiali e anche poliziotti in borghese – attivisti di Fatah o qualcuno che finge di esserlo. Tutti hanno lavorato all’unisono come in un macchinario ben oliato.

Sono stati tutti preceduti da redattori, artisti grafici e tipografie che hanno preparato poster giganti appesi in piazza Manara a Ramallah, inneggianti all’ANP ed al suo sostegno finanziario alla Striscia di Gaza, affermando al contempo che la radice del disastro di Gaza sia stata il “colpo di stato” di Hamas (con riferimento alla presa in carico da parte di Hamas delle agenzie di sicurezza nella Striscia di Gaza nel 2007, in seguito alla vittoria del movimento nelle elezioni parlamentari). I poster contenevano anche una propaganda di bassa lega sul fatto che i manifestanti fossero dipendenti di ONG rimpinguate da denaro estero e lavorassero per un progetto straniero.

Martedì scorso il governo palestinese ha condannato le proteste che si erano già svolte prima di mercoledì sera, sostenendo che spostavano l’attenzione dalla responsabilità dell’occupazione israeliana e di Hamas per la situazione a Gaza. La sera stessa è stata diffusa una dichiarazione pubblica secondo cui, su consiglio del consulente di Abbas per gli affari locali, è stato deciso che le manifestazioni e le proteste sarebbero state vietate fino alla fine del Ramadan e della festa di tre giorni di Id al-Fitr, che è iniziata giovedì notte, per evitare di disturbare le festività e lo shopping festivo.

Quelli che hanno sfidato il divieto si sono scontrati con un forte e variegato contingente di forze di sicurezza palestinesi. Nello stesso momento in cui le forze hanno cominciato a lanciare gas lacrimogeni e granate stordenti, e le squadracce in borghese hanno iniziato a confiscare macchine fotografiche e ad aggredire e arrestare manifestanti, sia uomini che donne, a Nablus si stava svolgendo una manifestazione a sostegno di Abbas. Ma nessuno ha disperso quella manifestazione.

5. Che lo status quo è molto apprezzato dall’ANP

L’accordo di Taba del 1995 con Israele vieta ai servizi di sicurezza palestinesi di operare nell’area B della Cisgiordania – la parte ufficialmente sotto controllo militare israeliano e controllo civile palestinese ( in base agli accordi di Oslo, ndtr.) – a meno che ciò sia concordato con Israele. Gli vieta anche di operare nell’area C, che è sotto il totale controllo militare e civile israeliano. Centinaia di migliaia di palestinesi vivono nelle aree B e C, dove si trovano esposti alla violenza dei coloni ebrei e della polizia ed esercito israeliani. L’accordo di Taba è scaduto 19 anni fa, ma l’ANP continua ad osservarlo e non dispiega le proprie forze di sicurezza per difendere fisicamente il suo stesso popolo. Se lo facesse, chissà quali ritorsioni farebbe Israele, forse cancellerebbe le concessioni alla libertà di movimento di cui godono gli alti dirigenti, oppure i permessi di commercio e di estrazione che loro ed i loro parenti hanno ottenuto.

6. Che il governo palestinese aveva ragione a dire che la protesta spostava l’attenzione dall’occupazione

Questo articolo si occupa della violenta repressione della protesta, invece di dedicarsi al fatto che Israele ha prorogato di altri quattro mesi la detenzione amministrativa della deputata palestinese Khalida Jarrar, che è già stata in prigione un anno senza processo. Non stiamo scrivendo dell’ordine di demolizione emesso per la casa di Latifa Abu Hamid nel campo profughi di Al-Amari. Uno dei suoi figli è sospettato dell’uccisione di un soldato dell’unità Duvdevan, che faceva parte delle forze che hanno attaccato il campo circa un mese fa. Israele non riconosce il diritto dei civili palestinesi a difendersi dalle incursioni armate israeliane. Ancor prima che il figlio compaia davanti ad un tribunale militare, tutta la sua famiglia viene punita.

Provate ad immaginare che cosa accadrà nel piccolo e affollato campo quando l’esercito israeliano vi entrerà con i bulldozer e i carri armati. E chi sarà assente? Le forze di sicurezza palestinesi, quelle stesse che sono state addestrate in Russia e Giordania, Egitto e Romania e dall’FBI e dalle polizie europee e che hanno disperso con la violenza una pacifica protesta in piazza Al-Manara a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)