Israele vuole il “completo controllo ” della terra palestinese: il rapporto delle Nazioni Unite

Redazione Al Jazeera

7 giugno 2022-Al Jazeera

La commissione indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite afferma che Israele deve porre fine all’occupazione e cessare di violare i diritti umani dei palestinesi.

Una commissione d’inchiesta indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dopo l’assalto israeliano del 2021 alla Striscia di Gaza assediata ha affermato che Israele deve fare di più oltre che porre fine all’occupazione della terra che i leader palestinesi vogliono per un futuro Stato.

Secondo il rapporto pubblicato martedì, in cui si sollecita l’adozione di ulteriori azioni per garantire l’uguale godimento dei diritti umani per i palestinesi, “La fine dell’occupazione da sola non sarà sufficiente”

Il rapporto produce prove di come Israele “non ha intenzione di porre fine all’occupazione”.

Israele sta perseguendo il “completo controllo” su quello che il rapporto chiama Territorio Palestinese Occupato, inclusa Gerusalemme Est, conquistata da Israele nella guerra del 1967 e successivamente annessa con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il governo israeliano, ha affermato la commissione, ha “agito per alterare la demografia attraverso il mantenimento di un contesto repressivo per i palestinesi e un contesto favorevole per i coloni israeliani”.

Citando una legge israeliana che nega la cittadinanza ai palestinesi sposati con cittadini israeliani, il rapporto accusa Israele di offrire “stato civile, diritti e protezione legale diversi” ai cittadini palestinesi di Israele.

Più di 700.000 coloni israeliani ora vivono in insediamenti e avamposti in Cisgiordania e Gerusalemme est, dove risiedono più di tre milioni di palestinesi. Gli insediamenti israeliani sono complessi residenziali fortificati per soli ebrei e sono considerati illegali dal diritto internazionale.

Le principali organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno equiparato le politiche israeliane contro i palestinesi all’apartheid.

Alle radici del conflitto.

L’inchiesta e il rapporto delle Nazioni Unite hanno preso avvio dall’offensiva militare israeliana di 11 giorni nel maggio 2021 durante la quale più di 260 palestinesi a Gaza sono stati uccisi e 13 persone sono morte in Israele.

Nel maggio 2021 Hamas ha lanciato razzi contro Israele dopo che le forze israeliane avevano attaccato i fedeli palestinesi nel complesso della Moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro dell’Islam, con decine di feriti e arresti. La cosa ha fatto seguito anche alla decisione del tribunale israeliano di espellere con la forza delle famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere a Gerusalemme est.

L’ambito dell’inchiesta includeva indagini su presunte violazioni dei diritti umani prima e dopo l’assalto di Israele contro Gaza e cercava anche di indagare sulle “cause profonde” del conflitto.

Hamas ha accolto favorevolmente il rapporto e ha esortato a perseguire penalmente i leader israeliani per quelli che ha definito “crimini” contro il popolo palestinese.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese ha elogiato il rapporto e ha richiesto anche di chiamare Israele a rendere conto dei suoi atti, “in modo da mettere fine all’impunità di Israele”.

Il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha definito il rapporto “uno spreco di denaro e fatica”, niente più che una caccia alle streghe.

Israele ha boicottato l’indagine, accusandola di parzialità e vietando agli investigatori l’ingresso in Israele e nei territori palestinesi, costringendoli a raccogliere testimonianze a Ginevra e in Giordania.

Il rapporto sarà discusso al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite con sede a Ginevra la prossima settimana. Gli Stati Uniti hanno lasciato il Consiglio nel 2018 per quello che hanno descritto come un “cronico pregiudizio” contro Israele e sono rientrati completamente solo quest’anno.

La commissione, guidata dall’ex capo delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay, è la prima ad avere un mandato “permanente” dall’agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite.

I suoi sostenitori affermano che la commissione è necessaria per tenere sotto controllo le continue ingiustizie affrontate dai palestinesi durante decenni di occupazione israeliana.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Nega di essere palestinese o muori

Salman Abu Sitta 

17 marzo 2022 – Middle East Monitor

Nega di essere palestinese o muori.” Questo è il messaggio proposto ai rifugiati palestinesi dall’UNRWA [United Nations Relief and Works Agency, ossia Agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. È un messaggio incredibilmente scioccante, contrario al diritto internazionale e al mandato stesso dell’UNRWA. L’UNRWA ha ceduto al ricatto americano per conto di Israele: tagliare i fondi a meno che la Palestina scompaia dai libri e dalla memoria.

Questa è la scoperta a cui siamo arrivati dopo il primo incontro con le scuole UNRWA e, tra tutti i posti, proprio in quelle a Gaza.

A settembre dell’anno scorso la Palestine Land Society [Società Palestinese della Terra] aveva lanciato un concorso fra studenti delle scuole superiori a Gaza con il titolo “Questo è il mio villaggio.” Gli studenti dovevano scrivere un tema sulle loro origini in Palestina, fare una ricerca sulle proprie radici chiedendo a genitori e nonni dei loro villaggi di origine e di come fossero diventati rifugiati durante la Nakba (Catastrofe), come fossero arrivati nei campi dell’UNRWA e di cosa sia il loro Diritto al Ritorno. Gli studenti dovevano ottenere testimonianze autentiche dalle proprie famiglie e dai vicini, condurre la propria ricerca su altre fonti e aggiungere, se possibile, foto, mappe o ricordi familiari.

Le scuole pubbliche di Gaza hanno accolto l’idea e informato gli studenti. Le scuole dell’UNRWA, per ordine del personale straniero, hanno proibito la distribuzione dei volantini di invito dell’UNRWA.

Sfidando la proibizione, abbiamo chiesto ai volontari di distribuire i volantini agli studenti ai cancelli delle scuole. La risposta è stata straordinaria. Hanno presentato domanda 1800 studenti. Prevedibilmente la maggioranza assoluta proveniva da scuole dell’UNRWA.

Quattro dei cinque finalisti erano rifugiati e provenivano da queste scuole. Alla cerimonia di premiazione i rappresentanti dell’UNRWA non si sono presentati. Assolutamente vergognoso!

In tutte le scuole abbiamo distribuito mappe della Palestina che mostrano i villaggi svuotati dei loro abitanti e quelli esistenti nel 1948. Di nuovo le scuole dell’UNRWA le hanno rifiutate per ordini superiori.

Com’è possibile che l’UNRWA volti le spalle al proprio mandato e violi il diritto internazionale?

La risposta, timida, ma poco convincente, è stata che i donatori americani, su istruzione di Israele, avevano seguito pedestremente la compiacente Unione Europea e proibito riferimenti alla storia e alla geografia palestinesi, a città e villaggi palestinesi, alla Nakba e alla pulizia etnica per evitare il taglio dei fondi ai servizi dell’UNRWA.

Un ricatto odioso: nega di essere palestinese e o morirai di fame o i tuoi figli senza le scuole vagheranno per le strade. Far tacere la Palestina, negare i crimini di guerra della Nakba, rinnegare la propria patria, la Palestina, questo è il prezzo che si deve pagare per un po’ di cibo e la privazione di un’identità, destinati a essere per sempre dei rifugiati. Neanche George Orwell avrebbe potuto immaginare un tale scenario, né Shakespeare nel suo Mercante di Venezia.

Ciò è avvenuto in nome della “Neutralità”, in un documento intitolato Framework for Cooperation between the US and UNRWA 2021-2022 (Cooperation Framework), [Quadro di Cooperazione fra gli USA e l’UNRWA 2021-2022] che equipara vittima e carnefice.

Si sa che questo documento nella sua interezza, inclusi gli allegati, definisce gli impegni fra UNRWA e gli Stati Uniti per il 2021 e il 2022 riguardo agli interventi.

Questo Quadro non costituisce un accordo internazionale e non stabilisce alcun obbligo fra le parti giuridicamente vincolante né in base al diritto internazionale né alle leggi nazionali. L’UNRWA non ha alcuna autorità per firmarlo.

Abbiamo scritto a Philippe Lazzarine, Commissario Generale dell’UNRWA, facendoglielo notare e sottolineando come, nelle scuole dell’UNRWA si impedisca agli studenti di sapere dove siano Majdal, Faluja [due villaggi palestinesi spopolati nel 1947-49 che ora si trovano in territorio israeliano, ndtr.], Isdud [l’attuale città israeliana di Ashdod, ndtr.], di cosa sia la Nakba, della cacciata del proprio popolo e della distruzione di 500 villaggi.

Questa è davvero una guerra senza precedenti contro i rifugiati e contro i palestinesi come popolo. Contrasta con il mandato dell’UNRWA, che dovrebbe essere perseguito, come stabilito dalla Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale fermo restando il paragrafo 11 della Risoluzione 194.

Va parimenti contro l’Articolo 29(1) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo. Cancellare la storia e geografia dei minori, negando o limitando le loro opportunità e diritti di conoscere i propri villaggi di origine, come siano diventati rifugiati, il loro diritto al ritorno e il motivo per cui è loro negato, viola tutti e cinque i commi dell’Articolo 29(1) della Convenzione.

Inoltre contravviene alle disposizioni contro le discriminazioni della Convenzione per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale – CERD (articoli 5(e)(v)) e, in base alla Convenzione per la Soppressione e la Punizione del Crimine di Apartheid (articolo 2(c)), è uno degli indicatori dell’apartheid. Fin dagli anni ’80 l’applicabilità ai palestinesi di entrambe le convenzioni è stata ampiamente analizzata dalla commissione ONU della Dichiarazione dei diritti umani (a cominciare dalla CERD) e più recentemente dal rapporto dell’ESCWA [Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale] e dai rapporti di ONG locali e internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e B’tselem.

Lo Statuto di Roma del 1998, la base giuridica della Corte Penale Internazionale, definisce come criminali di guerra anche i complici dei criminali di guerra. Mettere a tacere i crimini di guerra rientra fra queste violazioni. Perciò stendere un velo di silenzio sulla storia e sulla geografia palestinesi è un crimine di guerra.

Abbiamo anche scritto a Moritz Bilagher, direttore ad interim dell’’UNRWA – dipartimento Istruzione, e ad altri funzionari. Ci è stato suggerito di intitolare la mappa della Palestina da distribuire “Palestina storica.” Qui stiamo spaccando il capello in quattro. Etichettare la mappa con la dicitura “Palestina storica” annulla la distinzione fra Palestina come luogo geografico e Palestina come Stato.

La Palestina è la patria dei palestinesi da almeno 2.000 anni. Il suo popolo è conosciuto in tutto il mondo come “palestinesi”, anche nei documenti dell’UNRWA.

La Palestina come Stato è una questione politica, non sta all’UNRWA prendere una decisione in materia. Né la Palestina né Israele come Stati hanno dei confini generalmente riconosciuti, o sono riconosciuti universalmente dagli Stati membri dell’ONU.

I comitati popolari nei campi profughi hanno protestato contro questa azione con modalità che senza dubbio con il tempo si amplieranno. Un gruppo di avvocati di diritto internazionale sta mettendo a punto una memoria ufficiale sul tema che potrebbe portare a una petizione presso il Consiglio per i Diritti Umani.

Noi invitiamo tutti coloro che sono interessati a protestare contro il ricatto USA e l’asservimento dell’UNRWA.

Mandate le vostre proteste a:

UNRWA Commissioner General Philippe LazzarineLazzarini@unrwa.org

UNRWA Acting/ Head, Education Dpt, Moritz BilagherM.bilagher@unrwa.org

UNRWA Head of External Relations, Tamara AlrifaiT.alrifai@unrwa.org

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il relatore speciale delle Nazioni Unite accusa Israele di apartheid nel suo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani

Zainab Iqbal, New York

23 marzo 2022. – Middle East Eye

“Israele ha imposto alla Palestina una condizione di apartheid in un mondo post-apartheid”, afferma Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati.

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati ha presentato un rapporto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC), concludendo che la situazione in Israele e nei territori occupati si configura come apartheid.

In un rapporto di 19 pagine presentato martedì all’organismo, Michael Lynk afferma che ebrei israeliani e palestinesi vivono “sotto un unico regime che differenzia la sua distribuzione di diritti e benefici sulla base di un’identità nazionale ed etnica e che garantisce la supremazia di un gruppo a detrimento dell’altro”.

“Il sistema politico di governo radicato nel territorio palestinese occupato che conferisce a un gruppo razziale-nazionale-etnico sostanziali diritti, benefici e privilegi mentre sottopone intenzionalmente un altro gruppo a vivere dietro muri, posti di blocco e sotto un governo militare permanente… soddisfa gli standard probatori prevalenti per l’esistenza dell’apartheid”, ha aggiunto.

Lynk ha affermato che, sebbene la situazione in Israele e nei territori palestinesi occupati sia diversa da quella in Sud Africa, si tratta comunque di apartheid.

L’apartheid è un termine legale definito dal diritto internazionale che si riferisce all’oppressione sistematica da parte di un gruppo razziale su un altro.

“Nel regime di ‘apartheid’ israeliano nei territori palestinesi occupati esistono connotati specifici disumani che non venivano praticati nell’Africa meridionale, come autostrade separate, alti muri ed estesi posti di blocco, una popolazione assediata, attacchi missilistici e bombardamenti di carri armati su una popolazione civile, e l’abbandono del benessere sociale dei palestinesi nelle mani della comunità internazionale.

“Sotto gli occhi ben aperti della comunità internazionale, Israele ha imposto alla Palestina una realtà di apartheid in un mondo post-apartheid”.

Lynk dovrebbe rilasciare formalmente il suo rapporto giovedì prima di un dibattito sul punto 7 dell’agenda, il punto permanente dell’UNHRC riservato alle violazioni israeliane dei diritti umani contro palestinesi e altri arabi.

Nel rapporto l’accademico canadese afferma che Israele sta perseguendo una strategia di “frammentazione strategica del territorio palestinese in aree separate di controllo della popolazione, con Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est fisicamente divise l’una dall’altra”.

Israele usa Gaza, ha detto Lynk, come il “deposito informale di una popolazione indesiderata di due milioni di palestinesi”.

Il rilascio di migliaia di permessi di lavoro per i lavoratori palestinesi in Cisgiordania e a Gaza per lavorare in Israele equivale allo “sfruttamento del lavoro di un gruppo razziale”, afferma il rapporto.

Abbiamo bisogno di azione e responsabilità

Il mese scorso Amnesty International ha etichettato Israele come uno Stato di apartheid, diventando l’ultima associazione a unirsi a un elenco di organizzazioni per i diritti umani che hanno usato il termine per descrivere il trattamento riservato da Israele ai palestinesi.

“Le risultanze del relatore speciale sono un’importante e tempestiva integrazione al crescente consenso internazionale sul fatto che le autorità israeliane stanno commettendo un’apartheid contro il popolo palestinese”, ha affermato Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.

“Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani da anni chiamano la situazione apartheid e questo rapporto costituisce un momento fondamentale di riconoscimento della realtà vissuta da milioni di palestinesi”.

Nonostante il numero crescente di organizzazioni per i diritti umani che etichettano le politiche israeliane come equivalenti all’apartheid, gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali di Israele si sono astenuti dal fare tale tipo di dichiarazioni.

Beth Miller, principale responsabile degli affari amministrativi di Jewish Voice for Peace-Action [Voce ebraica per le azioni di pace, organizzazione statunitense che sostiene il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndtr.] ha affermato che il rapporto riprende ciò che le organizzazioni internazionali per i diritti umani stanno affermando da anni, che “Israele sta commettendo il crimine dell’apartheid”.

“Per [il presidente degli Stati Uniti Joe] Biden e il Congresso, il compito è chiaro: porre fine a tutti i finanziamenti militari statunitensi a questo violento regime di apartheid”.

NYC Solidarity with Palestine [Solidarietà di New York con la Palestina, ndtr.], un’organizzazione impegnata ad aprire ampi spazi di resistenza, ha detto a MEE: “Diamo il benvenuto a queste varie organizzazioni internazionali che finalmente dicono e confermano pubblicamente ciò che il popolo palestinese urla da anni con il sangue.

“E, detto questo, l’apartheid è solo un meccanismo e uno strumento della colonizzazione da insediamento e dell’occupazione illegale. Il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione impone responsabilità che includono la fine dell’occupazione con ogni mezzo. I doppi standard devono cessare”.

Ahmad Abuznaid, il direttore esecutivo della Campagna statunitense per i diritti dei palestinesi, ha detto a MEE che “mentre sempre più istituzioni internazionali affermano ciò che i palestinesi dicono da anni, speriamo di vedere finalmente cosa farà la comunità internazionale riguardo all’apartheid israeliano.

“Ora abbiamo bisogno di azione e responsabilità.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Palestina e Ucraina: un esperto di diritto internazionale parla dei doppi standard della Corte Penale Internazionale (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Romana Rubeo

7 marzo 2022 – PALESTINE CHRONICLE

Il 2 marzo la Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato che procederà immediatamente ad un’indagine sull’operazione militare russa in Ucraina. Quella che è stata denominata “invasione” dall’Occidente e “operazione militare speciale” da Mosca, ha immediatamente generato una rapida condanna e reazione internazionale. La CPI è stata in prima linea in questa reazione.

Il procuratore della CPI Karim Khan ha affermato in un intervento che l’indagine è stata richiesta da 39 Stati membri e che il suo ufficio ha già trovato una base ragionevole per ritenere che siano stati commessi crimini rientranti nell’ambito giurisdizionale della Corte e ha identificato dei casi come potenzialmente ammissibili.”

Mentre qualsiasi procedura genuina e non politicizzata volta a indagare su possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità in qualsiasi parte del mondo dovrebbe, in effetti, essere accolta favorevolmente, il doppio standard della CPI è palpabile. Tra le altre nazioni, i palestinesi e i loro sostenitori sono perplessi in considerazione dei numerosi indugi da parte della CPI nell’indagare sui crimini di guerra e contro l’umanità in Palestina, che si trova da decenni sotto l’occupazione militare israeliana.

Per comprendere meglio questo argomento ho parlato con il Dr. Triestino Mariniello, professore associato di diritto presso la Liverpool John Moores University, e membro della squadra di avvocati per le vittime di Gaza presso la Corte Penale Internazionale. Gli ho chiesto:

D. Per prima cosa, ci faccia conoscere a quale stadio si trova attualmente il procedimento della CPI sulla Palestina.

R. Il 3 marzo 2021 l’ex procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha aperto ufficialmente un’indagine, attualmente incentrata su possibili crimini di guerra, in particolare legati all’aggressione militare del 2014 a Gaza, alla Grande Marcia del Ritorno e alle colonie israeliane illegali in Cisgiordania.

Tecnicamente, il passo successivo dovrebbe essere la richiesta di mandati di arresto o di comparizione, passando quindi da una fase procedurale” a una fase processuale”, sulla base dello Statuto di Roma [trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale, ndtr.].

D. Tuttavia, finora non è successo nulla.

R. Tutto è iniziato molto prima del 2021. La situazione della Palestina è stata inizialmente portata all’attenzione della Corte nel 2009. Nel 2015, a seguito dell’aggressione israeliana alla Striscia di Gaza assediata, lo Stato di Palestina ha formalmente accettato l’autorità della Corte e ha ratificato lo Statuto di Roma. Ci sono voluti quasi sei anni (dicembre 2019) perché Bensouda dichiarasse che sussisteva “una base ragionevole per procedere ad un’indagine sulla situazione in Palestina”. La questione è stata deferita alla Camera preliminare, alla quale è stato chiesto di deliberare in merito alla giurisdizione sulla Palestina. La Camera ha emesso una decisione solo più di un anno dopo, nel febbraio 2021.

D. Come descriverebbe le differenze tra i due casi: Russia in Ucraina, Israele in Palestina? E perché nel caso russo il tribunale ha potuto agire immediatamente e senza indugi?

R. Ovviamente è difficile mettere a confronto le due situazioni.

L’Ucraina ha accettato l’autorità della CPI nel 2013 e l’ex procuratore capo della CPI Bensouda aveva già dichiarato che esisteva una base ragionevole per procedere.

Dopo l’inizio dell’operazione militare russa, l’attuale procuratore della CPI Khan ha annunciato l’apertura ufficiale delle indagini.

Avendo già ricevuto mandati da 39 Stati contraenti la CPI il suo ufficio non è tenuto a richiedere un’autorizzazione alla Camera preliminare competente. In realtà anche nella situazione della Palestina la Corte non necessitava di ulteriori autorizzazioni e la richiesta della Procura alla Camera era del tutto facoltativa.

In qualità di rappresentanti legali delle vittime, abbiamo espresso ai giudici della CPI le nostre preoccupazioni sul fatto che questa richiesta non necessaria della Procura avrebbe causato un ulteriore ritardo nell’apertura delle indagini.

Tra i 39 Stati ci sono tre paesi che si erano apertamente opposti alle indagini in ambito israelo-palestinese, ovvero Austria, Germania e Ungheria.

 Generalmente si dice che i procedimenti penali internazionali siano particolarmente lunghi. Se questo è vero nel caso della Palestina, per l’Ucraina la durata è ridotta al minimo. Lo stesso è accaduto per la situazione libica, dove la decisione di aprire un’indagine è stata presa con una rapidità senza precedenti, a soli sette giorni dal deferimento del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, ndtr.].

Tuttavia, nel caso della Palestina la quantità di prove è molto più significativa. Anche prima di avviare le indagini la Corte dispone di una quantità impressionante di prove, grazie al meticoloso lavoro della società civile palestinese, che non ha mai smesso di raccogliere prove, anche durante le guerre israeliane.

D. Lei fa parte di una squadra che difende le vittime di Gaza. Ritenete che da parte della CPI ci sia una politica di doppio standard?

R. Indagare su gravi violazioni dei diritti umani è sempre un’iniziativa lodevole. Ciò che è meno lodevole è la politica del doppio standard. La realtà dolorosa è che dopo 13 anni non abbiamo ancora un procedimento.

Per decenni i civili palestinesi hanno subito le più gravi violazioni dei loro diritti fondamentali, equivalenti a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’interesse principale delle vittime di Gaza è che l’indagine tanto attesa e tanto necessaria passi immediatamente alla fase successiva: l’identificazione dei presunti colpevoli. Per loro è davvero difficile capire quali siano gli ostacoli che gli impediscono di presentarsi in tribunale per raccontare finalmente le loro vicende e ottenere giustizia.

L’assenza fino ad ora di misure efficaci adottate dalla Corte rafforza l’opinione delle vittime di aver subito per lungo tempo una negazione della giustizia. Inoltre l’impunità concessa da tanto tempo a Israele incoraggia i responsabili a commettere nuovi crimini.

Dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina abbiamo assistito al ritorno del diritto internazionale nell’arena globale. Quello che sta accadendo ora mostra che il diritto internazionale può essere, nei fatti, uno strumento efficace, se attuato correttamente.

Le vittime palestinesi continuano a nutrire grandi speranze per le indagini della CPI, ma sono seriamente preoccupate che “la giustizia rimandata sia giustizia negata”.

D. Cosa può fare la società civile per accelerare le procedure relative alla Palestina?

È essenziale continuare a fare pressione sulla CPI anche presentando ulteriori prove che possano attestare gravi violazioni dei diritti umani in corso, equivalenti a crimini di guerra. Pensiamo, ad esempio, ai crimini di guerra commessi lo scorso maggio a Gaza, che dovrebbero essere immediatamente inseriti nell’indagine in corso.

Inoltre, la società civile dovrebbe invitare la CPI ad ampliare l’ambito delle indagini per includere altri crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità, compreso il crimine di apartheid, anche alla luce dei recenti rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani.

Il messaggio alla Corte e alla comunità internazionale deve essere chiarissimo: i palestinesi non sono vittime di serie B e continueranno a far sentire la loro voce.

Sebbene apprezziamo gli sforzi della CPI per fare luce sulla situazione ucraina, dobbiamo ribadire che altri casi non dovrebbero essere dimenticati o archiviati.

La CPI è stata creata per porre fine all’impunità di cui godono gli autori dei crimini più gravi. Dopo vent’anni, dovremmo pretendere che lo Statuto sia pienamente attuato, indipendentemente dall’origine geografica delle vittime.

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Secondo un ministero palestinese vari palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane

1 Marzo 2022 – Al Jazeera

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che una persona è stata uccisa a Beit Fajar e altre due a Jenin, nella Cisgiordania occupata.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due differenti incidenti nella Cisgiordania occupata.

Martedì il ministero ha affermato che Ammar Shafiq Abu Afifa è stato ucciso dalle “forze israeliane di occupazione che gli hanno sparato vicino alla città di Beit Fajar”.

Quando l’agenzia di notizie AFP ne ha chiesto conto, sul momento l’esercito israeliano non ha commentato.

Wafa, l’agenzia di notizie palestinese ufficiale, ha riferito che Afifa era un abitante del campo per rifugiati Al-Aroub a nord di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Secondo la polizia di frontiera israeliana e le autorità sanitarie palestinesi, martedì prima dell’alba in un’altra circostanza, dopo essere finite sotto il fuoco durante un arresto nel nord della Cisgiordania, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi.

La polizia di frontiera israeliana ha affermato che agenti e polizia sotto copertura sono entrati nel campo profughi di Jenin per arrestare un sospetto “ricercato per attività terroristica”.

La polizia ha affermato che “dopo l’arresto del sospetto, non appena le forze hanno lasciato la casa, è stato aperto un intenso fuoco da molteplici direzioni e le forze sotto copertura operanti sulla scena hanno risposto con una fitta sparatoria”.

La polizia ha affermato che, quando gli agenti hanno raggiunto i loro veicoli, un altro assalitore ha sparato alle forze dell’ordine “che hanno risposto con fuoco preciso”.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che due uomini sono stati uccisi nel combattimento. Wafa li ha identificati come Abdullah al-Hosari, di 22 anni e 3, di 18.

Wafa ha riferito che le truppe hanno arrestato Imad Jamal Abu al-Heija, un prigioniero che era stato liberato.

L’agenzia di notizie ha affermato che l’uccisione dei due palestinesi ha provocato a Jenin una “manifestazione imponente ed irata”.

Forza eccessiva

Le uccisioni sono avvenute a poco più di una settimana di distanza da quando un ragazzo quattordicenne, Mohammed Shehadeh, è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane nella città di Al-Khader in Cisgiordania.

Organizzazioni per i diritti umani palestinesi e internazionali hanno a lungo condannato ciò che sostengono sia un uso eccessivo della forza da parte delle forze israeliane.

B’Tselem, una organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che lo scorso anno ha registrato 77 morti palestinesi per mano delle forze israeliane. Più della metà degli uccisi non erano implicati in nessun attacco, ha aggiunto.

Il mese scorso, Amnesty International in un nuovo rapporto ha sostenuto che Israele sta mettendo in atto “il crimine di apartheid contro i palestinesi” e che deve essere ritenuto responsabile perché li tratta come un “gruppo razziale inferiore”.

Israele ha occupato la Cisgiordania e Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 in Medioriente.

Le colonie israeliane costruite nel terrritorio palestinese sono considerate illegali dal diritto internazionale. Oggi tra 600.000 e 750.000 coloni israeliani vivono in almeno 250 colonie nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il Naqab è un tassello chiave del puzzle dell’apartheid in Israele

Ahmed Abu Artema 

 23 febbraio 2022 – Electronic Intifada

Il primo febbraio Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui dichiara Israele un regime di apartheid.

Che i palestinesi vivano nella Striscia di Gaza assediata, a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania occupata o in Israele, Israele li tratta come un gruppo razziale inferiore e li priva dei loro diritti.

Il rapporto definisce la regione del Naqab meridionale (Negev) un “ottimo esempio” delle pluriennali politiche israeliane per appropriarsi di terre e risorse palestinesi a vantaggio degli ebrei israeliani.

Durante le settimane precedenti la pubblicazione del rapporto di Amnesty i beduini palestinesi nel Naqab hanno respinto rinnovati tentativi israeliani di espropriare vasti appezzamenti di terra con la scusa del “rimboschimento.”

Il mese scorso l’esercito israeliano è intervenuto pesantemente contro i manifestanti sparando pallottole di acciaio rivestite di gomma e lanciando lacrimogeni dai droni. I palestinesi feriti sono stati decine e pare che le autorità israeliane abbiano fermato oltre 80 persone.

Secondo Haaretz la polizia israeliana ha anche lanciato pallottole di acciaio con punta in spugna contro i manifestanti, ferendone cinque alla testa.

Un ragazzino palestinese che assisteva alle proteste ha perso un occhio dopo essere stato colpito dalla polizia israeliana.

Secondo Al Jazeera il Jewish National Fund  [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] e l’Israel Land Authority [Autorità Israeliana per la terra, ndtr.] stanno cercando di espropriare più di 11.000 ettari di terreni palestinesi per piantare alberi.

Ma i beduini palestinesi sanno che Israele usa da molto tempo il “rimboschimento” per impadronirsi di terre nel Naqab e altrove e per nascondere monumenti e rovine di villaggi palestinesi dopo averli distrutti e attuato la pulizia etnica.

È un metodo tipico di Israele per cancellare tutte le tracce dei suoi crimini.

Ebraizzare il Naqab

Fin dal 1948 Israele ha adottato varie politiche per “ebraizzare” il Naqab, soprattutto destinando vaste aree intorno ai villaggi beduini a riserve naturali, zone industriali e per esercitazioni militari, come notato da Amnesty.

Israele ha radunato gli abitanti beduini e li ha trasferiti con la forza in quelle che chiama “città pianificate” con conseguenze devastanti per coloro che vivono nella zona.

Nel Naqab Israele si rifiuta ancora di riconoscere 35 villaggi beduini, che di conseguenza sono privi di luce e acqua e destinati alla demolizione, sostiene Amnesty.

A dicembre le autorità israeliane di occupazione hanno demolito il villaggio beduino di al-Araqib nel nord del deserto di Naqab quasi per la duecentesima volta dal 2000.

I palestinesi l’hanno ripetutamente ricostruito solo per subirne di nuovo la demolizione con il pretesto che non è riconosciuto.

Rifiutando di concedere ai villaggi uno status ufficiale Israele limita la partecipazione politica degli abitanti beduini e li esclude dall’assistenza sanitaria e dal sistema scolastico. Ciò intende costringerli a lasciare le proprie case e villaggi, il che equivale al trasferimento coatto.

Secondo Human Rights Watch [notissima Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] fra il 2013 e il 2019 Israele ha demolito nel Naqab più di 10.000 case.

Nel 2013 la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato il cosiddetto Prawer Plan, studiato per trasferire con la forza gli abitanti di decine di villaggi palestinesi del Naqab e concentrarli in una zona segregata.

Secondo questa legge Israele trasferirà in modo coatto 70.000 beduini e i 35 villaggi non riconosciuti saranno demoliti.

Per ora le proteste popolari e la condanna di molte organizzazioni internazionali hanno costretto il governo di Israele a sospendere l’implementazione del piano.

Questi progetti sono progettati per cacciare i palestinesi dalla regione e rimpiazzarli con ebrei israeliani.

Naqab come continuazione della Nakba

Sin dalla sua fondazione nel 1948 sulle rovine di città e villaggi palestinesi, l’obiettivo strategico coloniale di Israele è il furto di terre palestinesi e il trasferimento forzato della sua popolazione nativa.

Dall’estremo nord della Galilea al sud del Naqab e ovunque nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est, Israele continua a perseguire questo obiettivo.

Mentre il mese scorso, in una notte fredda e piovosa, l’esercito israeliano attaccava i manifestanti nel Naqab, i bulldozer demolivano la casa della famiglia Salhiya nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata, lasciando la famiglia senza un tetto.

Gli abitanti del Naqab riconoscono il significato nazionale della loro causa. Le loro sofferenze sono le stesse subite dall’intero popolo palestinese.

Qualcuno ha chiamato la violenta repressione israeliana e il trasferimento coatto dei palestinesi del Naqab una versione in scala ridotta della Nakba, la pulizia etnica di circa 800.000 palestinesi per far posto a Israele nel 1948.

Il mese scorso Aden Hajjouj, attivista palestinese nel Naqab, ha detto ai media con ardore rivoluzionario: “Ci trattano come rifugiati nella nostra terra”.

Questa non è la loro terra, è la nostra. Siamo qui da prima del 1948, prima che Israele diventasse Israele.”

Identità nazionale collettiva

La definizione di apartheid di Amnesty segue quelle dell’anno scorso di B’Tselem, associazione israeliana per i diritti umani, e di Human Rights Watch.

Questi rapporti allarmano Israele perché minano la falsa immagine che cerca di presentare al mondo.

La designazione di Israele quale Stato di apartheid sposta l’attenzione da una visione limitata del conflitto nella Cisgiordania occupata e Gaza a considerare il problema come vera essenza di Israele.

Come scrive Amnesty nel suo rapporto: “Dalla sua istituzione nel 1948 Israele ha perseguito una chiara politica per stabilire e mantenere un’egemonia demografica ebraica e massimizzare il suo controllo sulla terra per avvantaggiare gli ebrei israeliani e così minimizzare il numero dei palestinesi, limitare i loro diritti e ostacolare la loro capacità di sfidare questa spoliazione.”

I palestinesi respingono uno Stato razzista

Fin dalla sua fondazione Israele ha cercato di separare il popolo palestinese e frammentarne l’identità nazionale. I cittadini palestinesi di Israele sono quelli sopravvissuti alla Nakba del 1948 e i loro discendenti che riuscirono a restare in quello che è poi diventato Israele.

A seconda di dove si trovavano geograficamente Israele ha classificato i palestinesi con una gerarchia di identificazioni con implicazioni politiche, di sicurezza e giuridiche.

Questa separazione fu imposta dopo la firma degli accordi di Oslo fra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a metà degli anni ’90.

Sebbene gli strumenti repressivi di Israele differiscano a seconda della classificazione giuridica e geografica dei palestinesi, l’essenza della repressione è la stessa: espulsioni, trasferimenti e discriminazione razziale contro i palestinesi.

Israele sperava che tali divisioni avrebbero portato a una frattura nella coscienza nazionale palestinese contro il colonialismo.

Il governo israeliano non ha mai cercato di integrare i propri cittadini palestinesi, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese. Sebbene questi palestinesi siano ufficialmente considerati cittadini israeliani, Israele li sottopone a una persecuzione etnica e religiosa.

Successivi governi israeliani hanno approvato decine di leggi su terre, abitazioni, costruzioni, istruzione e lavoro. Queste leggi discriminano i cittadini palestinesi di Israele, li privano dei loro diritti civili, ne confiscano le terre e restringono il loro spazio pubblico.

La sistematica discriminazione razziale israeliana contro i palestinesi nel vasto territorio occupato nel 1948 ha contribuito alla crescita del patriottismo palestinese.

In parte soppresso per decenni nell’Israele odierno, esso è riapparso nel maggio 2021 quando i palestinesi hanno protestato diffusamente contro l’assalto militare israeliano contro Gaza e gli abusi di Israele a Sheikh Jarrah [quartiere palestinese di Gerusalemme est dove Israele sta cercando di cacciare gli abitanti, ndtr.].

Come dichiara Amnesty International nella sintesi del rapporto sull’apartheid: “In una dimostrazione di unità mai vista in decenni, ([i palestinesi) hanno sfidato la frammentazione e segregazione territoriale che affrontano nella loro vita quotidiana e hanno partecipato a uno sciopero generale per protestare contro la loro comune repressione da parte di Israele.”

Questa unità, dal Naqab nel sud della Galilea al nord, da Gaza alla Cisgiordania, è essenziale per allontanarsi dal modello fallito dei due Stati che non garantisce tutti i diritti dei palestinesi, e li sprona verso un’azione per uno Stato che difenda principi chiave come parità di diritti e il diritto al ritorno [dei profughi].

Ahmed Abu Artema, scrittore palestinese e attivista, è un rifugiato di Ramle [città palestinese in cui nel 1948 ci furono massicce espulsioni e che ora si trova in Israele, ndtr.].

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele guarda a un nuovo tipo di regime in Cisgiordania, ma il mondo vede l’apartheid

Shaul Arieli

22 febbraio 2022 – Haaretz

Israele non considera l’enclave né occupata né “territorio liberato”. La Cisgiordania resta quindi abbandonata a sé stessa.

All’inizio di febbraio Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che Israele mantiene un sistema di apartheid contro i palestinesi. Questo documento potrebbe rivelarsi un trailer per la commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, istituita a seguito dei combattimenti con Gaza dello scorso maggio. Il rapporto della commissione dovrebbe essere pubblicato a giugno e potrebbe affermare che Israele è uno stato di apartheid. Il governo israeliano deve eliminare questa minaccia attuando una linea politica chiara in Cisgiordania.

La politica ambigua del governo precedente sul futuro del territorio non è più accettabile per la maggior parte della comunità internazionale. Quella politica vede le cose nel seguente modo: non annetteremo [la Cisgiordania, ndtr.], ma non creeremo nemmeno uno Stato palestinese, manterremo lo status quo ma amplieremo gli insediamenti coloniali, applicheremo la legge ma non contro gli ebrei rivoltosi e gli avamposti coloniali illegali, parleremo con il presidente palestinese Mahmoud Abbas ma solo di ciò che vogliamo, manterremo Gerusalemme unita ma investiremo solo nei quartieri ebraici.

Dal 1967 Israele è impegnato in una guerra di retorica basata su una terminologia fuorviante che dichiara che i territori occupati sono territori “liberati” o “posseduti“. In tal modo Israele cerca di giustificare le sue azioni contrarie al diritto e alle risoluzioni internazionali.

I governi israeliani sono sempre stati consapevoli dello status legale della Cisgiordania. Un cablogramma top secret del ministero degli Esteri a Yitzhak Rabin del 1968, quando era ambasciatore israeliano a Washington, affermava che “la nostra linea era e rimane quella di evitare fermamente di discutere con gli stranieri della situazione nei territori sulla base degli Accordi di Ginevra… Un nostro esplicito riconoscimento dell’applicabilità degli Accordi metterebbe in luce seri problemi… riguardanti demolizioni di case, espulsioni, insediamenti coloniali e così via”.

Questa consapevolezza non ha mai impedito ai governi laburisti di intraprendere le iniziative di colonizzazione, violando il principio di temporalità previsto dalle leggi sull’occupazione [sulla base della convenzione dell’Aja del 1907 loccupazione è concepita come una situazione transitoria destinata a concludersi già nel corso del conflitto o, al più tardi, al termine delle ostilità, con il ritiro delle truppe occupanti ed il ripristino della piena sovranità dello Stato occupato ndtr.] Tali leader citavano esigenze di sicurezza e affermavano che i territori sarebbero stati “trattenuti” fino al raggiungimento di un accordo diplomatico. Come scrisse Rabin nel suo libro del 1979 Le memorie di Rabin, il governo adottò una chiara politica di sicurezza: dove colonizzare e dove no.

La Corte Suprema ha accolto l’argomento della sicurezza. “Sono consapevole del fatto che stiamo parlando di una popolazione civile… In questo contesto, accetto l’argomento del generale Orli secondo cui una presenza civile in questi punti delicati è la soluzione necessaria”, scrisse nel 1978 la giudice Miriam Ben-Porat .

Allo stesso tempo il governo ha collaborato con il movimento di insediamento nazionalista messianico [movimento dei coloni nazional-religiosi in Cisgiordania, ndtr.]. Il 27 settembre 1967, il colonnello Shlomo Gazit scrisse al capo di stato maggiore dell’esercito israeliano. La lettera si riferiva all'”avamposto di Gush Etzion”. Affermava: Per coprire le esigenze dello Stato l’avamposto dei giovani religiosi a Gush Etzion sarà registrato come avamposto militare di Nahal. Istruzioni in tal senso saranno date ai coloni”.

L’Alta Corte di Giustizia ha cercato di porre fine a questa politica menzognera nel caso Elon Moreh [colonia insediata nei dintorni di Nablus, ndtr.] del 1979, in cui ha cambiato rotta e ha stabilito che la terra palestinese di proprietà privata non può essere sequestrata per stabilire insediamenti coloniali giustificati con l’argomento di esigenze di sicurezza. La corte ha anche dato la priorità allo stato di diritto rispetto alla “promessa divina”. “Questa istanza fornisce una risposta definitiva all’argomento che cerca di interpretare la storica promessa biblica al popolo ebraico come un diritto prioritario di proprietà“, ha scritto il giudice Moshe Landoy.

Nel corso dei decenni la comunità internazionale ha rifiutato la politica israeliana, rifiuto sancito nella risoluzione 2334 delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016 in cui si afferma che gli insediamenti coloniali israeliani stabiliti nelle terre palestinesi occupate dal 1967, inclusa Gerusalemme est, non hanno valore legale e violano il diritto internazionale.

Il Consiglio di Sicurezza ha anche affrontato gli obiettivi della colonizzazione e i mezzi per raggiungerli. Nella risoluzione 2334 ha condannato tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del Territorio Palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, inclusa, tra l’altro, la costruzione e l’espansione di insediamenti coloniali, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terreni, la demolizione di case e lo sfollamento di civili palestinesi, in violazione del diritto umanitario internazionale e delle relative risoluzioni”.

Negli ultimi dieci anni il governo israeliano ha deciso di continuare le violazioni sopra elencate. Ha approvato la creazione di una nuova colonia, Amihai, e autorizzato 22 avamposti coloniali illegali. Ha ampliato la separazione tra i due sistemi giudiziari, uno per gli israeliani e uno per i palestinesi. Ha aumentato di un terzo il numero dei coloni.

Ha approvato la costruzione di migliaia di nuove unità abitative. Ha realizzato 67 fattorie e una vasta area industriale a Samaria, nel nord della Cisgiordania. Ha stanziato 13 miliardi di shekel (3,5 miliardi di euro) per la pavimentazione delle strade e ha demolito migliaia di case palestinesi.

Nell’ultimo decennio, Israele ha anche ulteriormente violato il suo principale obbligo ai sensi del diritto internazionale: garantire il ripristino dell’ordine pubblico. In primo luogo, ha creato 135 avamposti coloniali, illegali anche secondo la legge israeliana. Li ha collegati al sistema stradale e alla rete elettrica. E negli ultimi anni, con il termine fuorviante “giovani colonie”, ha cercato di regolamentare il loro status e le loro infrastrutture attraverso leggi antidemocratiche.

In secondo luogo, il governo non ha intrapreso le azioni necessarie nei confronti dei rivoltosi ebrei che commettono violenze contro palestinesi, israeliani, soldati israeliani e polizia israeliana. Gli ordini del ministro della pubblica sicurezza alle IDF [forze di di difesa israeliane: l’esercito israeliano, ndtr.], i cui soldati sono stati presenti alla maggior parte di questi incidenti, non vengono eseguiti. Il ministro ha affermato che le IDF devono “agire per mantenere la sicurezza e l’ordine in Giudea e Samaria [nomi israeliani di due regioni rispettivamente a sud e a nord di Gerusalemme; conquistate da Israele nella guerra del 1967, sono considerate dall’ONU e dalla Corte internazionale di giustizia territori occupati, ndtr.] esercitando l’autorità assegnata alle IDF ai sensi della legge, in cooperazione e in coordinamento con la polizia israeliana”.

Secondo la visione dell’attuale governo, che si è impegnato ad effettuare dei cambiamenti, la Cisgiordania non è un territorio occupato. La prova di ciò può essere vista nelle sue azioni in violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni. Non è interessato a stabilire il futuro della Cisgiordania attraverso dei negoziati. Non considera la Cisgiordania un “territorio occupato”, in quanto viola il principio della temporalità espandendo le colonie. Il governo non considera la Cisgiordania neppure un “territorio liberato”, in quanto negli Accordi di Abramo si è impegnato a non annetterla.

Lo status della Cisgiordania è quindi quello di un territorio abbandonato i cui abitanti palestinesi sono discriminati. L’Autorità Nazionale Palestinese non può far rispettare la legge e l’ordine nella maggior parte delle aree della Cisgiordania, poiché ha autorità solo sul 40% del territorio, che è diviso in non meno di 169 isole separate. Nell’Area C, controllata da Israele, ci sono due sistemi giudiziari: uno per gli israeliani e uno per i palestinesi.

Il mondo chiama questo apartheid. Non solo Israele non applica le leggi sull’occupazione militare, ma ignora anche le proprie leggi e le risoluzioni del governo. Permette a una minoranza radicale di determinare il carattere dello Stato e la sua immagine nel mondo. La Startup Nation [dal titolo di un libro del 2009 sulla crescita economica di Israele, ndtr.] sta cercando di inventare una nuova start up, a quanto pare, sotto forma di un nuovo regime. Ma a differenza dell’alta tecnologia e dell’agricoltura, il mondo non è realmente interessato a questa “innovazione” e la considera semplicemente apartheid.

Il fatto che Israele appartenga alla famiglia delle nazioni, impedendone così un’emarginazione, ha un’importanza senza precedenti. Dovremmo ricordare al primo ministro Naftali Bennett – che crede che il mondo si “abituerà” a tutti i capricci di Israele – ciò che il primo ministro David Ben-Gurion disse ad Haaretz il 2 ottobre 1959.

Chiunque creda che oggi si possano risolvere semplicemente attraverso la forza militare questioni di ordine storico tra le nazioni non sa in quale mondo viviamo… Ogni questione locale oggi diventa internazionale, quindi il nostro rapporto con le nazioni del mondo è non meno importante della nostra forza militare”.

L’ultimo libro del dottor Shaul Arieli è l’opera in lingua ebraica del 2021 “12 miti israeliani sul conflitto israelo-palestinese”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il New York Times continua a tacere sul rapporto sull'”apartheid” di Amnesty

James North

18 Febbraio 2022-Mondoweiss

Il rapporto sull’apartheid di Amnesty viene oscurato perché il New York Times rifiuta di darne notizia.

Bret Stephens, l’editorialista filo-israeliano del New York Times, è in un dilemma lacerante. Stephens, che ha vissuto in Israele e diretto il quotidiano di destra Jerusalem Post, non perde occasione di correre in difesa di questo paese. Quindi quando Amnesty International ha pubblicato il suo rapporto del 1° febbraio che accusa Israele di essere caratterizzato da “apartheid” Stephens deve aver acceso il suo computer per rispondere.

Ma poi deve essersi fermato e aver pensato che, in realtà, il modo migliore in cui il Times poteva parare il colpo di Amnesty era fingere che il rapporto di Amnesty con le prove dell’apartheid non fosse mai comparso. Quindi, sebbene dal 1° febbraio abbia pubblicato due editoriali, non ha detto nulla. Probabilmente stringe i denti per la frustrazione.

Ma Stephens non è solo. Il New York Times non ha ancora pubblicato una sola parola sul fondamentale rapporto di Amnesty. Sono passati 18 giorni e ancora non è apparso nulla sul giornale di un rapporto che politici, il Dipartimento di Stato e molti gruppi ebraici hanno fatto il possibile e l’impossibile per condannare.

La cosa stupefacente è che il New York Times continua a fare affidamento su Amnesty International per informazioni sulle violazioni dei diritti umani in altri paesi, purché non siano Israele/Palestina.

Fino ad ora in questo mese i giornalisti del Times hanno citato Amnesty in tre diversi articoli, dopo aver fatto affidamento sulle notizie fornite dall’organizzazione sette volte a gennaio. I giornalisti del Times hanno citato Amnesty nove volte a dicembre. Ciò significa quasi una volta ogni tre giorni.

Thomas Friedman è un altro editorialista del Times, supposto esperto del Medio Oriente, che ha tenuto la bocca ben tappata sul verdetto di apartheid di Amnesty, ma il suo silenzio lascia meno sorpresi. Questo sito ha già notato come Friedman abbia l’abitudine di nascondersi quando le notizie da Israele/Palestina non sono buone.

La cancellazione delle notizie da parte del New York Times è ancora più importante di quanto non sarebbe stato un paio di decenni fa. All’epoca, un certo numero di giornali regionali statunitensi gestiva uffici esteri, che fornivano canali alternativi di informazione. Oggi la maggior parte di essi ha chiuso. La copertura televisiva delle notizie dall’estero, sia in rete che via cavo, è ridicolmente inadeguata o inesistente. (La National Public Radio, che vanta all’infinito la qualità dei suoi programmi di notizie, ha pubblicato un solo pezzo sull’apartheid di Israele sul suo sito web. Nelle trasmissioni radiotelevisive i suoi annunciatori non hanno detto una parola.)

Il Times stabilisce la programmazione, almeno negli Stati Uniti. Se il giornale avesse pubblicato anche un solo articolo di cronaca o di opinione, il rapporto di Amnesty non sarebbe stato oscurato.

A quanto pare un giornalista del Times ha cercato di accennare alle notizie di Amnesty. Patrick Kingsley, il capo dell’ufficio di Gerusalemme, ha fatto un valido rapporto sulla violenza dei “coloni” israeliani in Cisgiordania. Entrambi gli schieramenti gli richiedevano di includere anche resoconti di attacchi palestinesi ai coloni, ma infine ha aggiunto questa frase straordinaria:

I coloni beneficiano di un sistema legale a due livelli in cui i coloni che commettono violenza sono raramente puniti, mentre i sospetti palestinesi sono spesso arrestati e perseguiti dai tribunali militari.

Questo era il luogo ideale per presentare il rapporto di Amnesty. Quello che Kingsley ha descritto – “un sistema legale a due livelli” – è un esempio da manuale di “apartheid”. Ma non è venuto fuori nulla. Kingsley è come un membro dell’Unione degli scrittori sovietici dopo il mite disgelo dei primi anni ’60. Gli è permesso accennare alla verità, purché rimanga vago e indiretto.

Intanto possiamo simpatizzare con Bret Stephens. È seduto su uno dei filoni di notizie più preziosi al mondo, ma non può dire una parola sul suo argomento prediletto.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il discorso dell’ambasciatrice israeliana a Cambridge è stato interrotto quando gli studenti hanno inscenato un sit-in

Areeb Ullah

8 febbraio 2022 – Middle East Eye

In precedenza Tzipi Hotovely aveva descritto la Nakba come una “menzogna araba” e si era opposta alle rivendicazioni palestinesi sulla Cisgiordania

Impugnando le bandiere della Palestina e cantando “Palestina libera”più di 100 studenti dell’Università di Cambridge hanno manifestato contro l’ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, Tzipi Hotovely, della quale era previsto un discorso martedì alla Cambridge Union

Hotovely, che ha servito come ministro delle colonie sotto l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ha parlato alla Cambridge Union mentre all’esterno imperversavano le proteste contro l’ambasciatrice.

La “Union”, un club privato ​​per il quale i partecipanti devono pagare, ha ospitato l’evento nonostante le critiche di una serie di organizzazioni studentesche.

I manifestanti stazionavano fuori dall’edificio della “Union”, dove i partecipanti erano in coda per entrare. Gli organizzatori hanno vietato ai partecipanti di portare borse all’evento e hanno proibito loro di registrare il discorso.

Quando l’evento è iniziato, i manifestanti si sono spostati sul retro dell’edificio, dove era parcheggiato il convoglio dell’ambasciatrice, e hanno bloccato l’ingresso del parcheggio.

I manifestanti hanno portato tamburi e cartelli mentre gridavano slogan tramite un altoparlante come “Palestina libera” e “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Fonti all’interno della “Union” che hanno assistito al discorso hanno riportato a Middle East Eye che il discorso della Hotovely è stato interrotto a causa del rumore proveniente dalle proteste.

I manifestanti hanno quindi organizzato un sit-in e bloccato l’ingresso del parcheggio dove sostava il convoglio dell’ambasciatrice israeliana, mentre la polizia armata di taser cercava di sgomberare i manifestanti.

Opposizione

Gli organizzatori della protesta alla fine hanno ceduto e hanno interrotto il loro sit-in dopo che era stato loro riportato che la protesta era riuscita a interrompere il discorso dell’ambasciatrice.

Hotovely è stata successivamente nascosta da un ombrello e impacchettata nella sua macchina mentre i manifestanti sono rimasti fuori a cantare “vergognati” e “Palestina libera”.

Un portavoce della Cambridge University Palestine Society, che ha voluto rimanere anonimo, ha affermato che la protesta è stata organizzata in opposizione al “sistema” rappresentato da Hotovely.

“Hotovely rappresenta e sostiene un apparato statale che diverse organizzazioni hanno accusato di praticare l’apartheid e crimini contro l’umanità “, ha detto il portavoce a MEE.

Pensiamo che a chiunque rappresenti uno Stato impegnato in pratiche illegali e abusi dei diritti umani non dovrebbe essere dato uno spazio nella nostra città e università. Questa protesta non riguarda solo la condanna di Hotovely come singola persona e per ciò che ha detto, ma vuole rappresentare rifiuto delle pratiche in cui si impegna e rappresenta, come mobilitazioni violente dei coloni contro i palestinesi, le pratiche illegali e le violazioni dei diritti umani”.

‘Solidarietà ebraica’

Anche Chaya Kasif, una studentessa ebrea dell’Università di Cambridge, ha partecipato alla protesta pro-Palestina di martedì contro Hotovely.

Tenendo un cartello che diceva: “Solidarietà ebraica da Gadigal [in Australia] a Gaza”, Kasif ha descritto la sua presenza alla protesta come un’opportunità per mostrare sostegno ai palestinesi.

Il discorso di Hotovely arriva dopo che Amnesty International ha pubblicato un rapporto lungamente atteso che accusa Israele di praticare l’apartheid nei territori palestinesi e in Israele.

L’anno scorso, centinaia di studenti hanno protestato contro la presenza di Hotovely alla London School of Economics, dove ha tenuto una conferenza sul conflitto israelo-palestinese.

Hotovely ha fatto notizia a livello nazionale quando è stato pubblicato online il filmato di lei mentre veniva accompagnata di corsa alla sua macchina mentre gli attivisti studenteschi protestavano contro la sua presenza nel campus.

L’ambasciatrice ha accusato gli studenti di antisemitismo, ma gli studenti hanno risposto affermando che la loro protesta non era razzista.

Da quando è diventata ambasciatrice in UK Hotovely ha cercato la polemica.

Nel 2020, durante un evento ospitato dal consiglio dei rappresentanti degli ebrei britannici [Il Board of Deputies of British Jewish è la più grande organizzazione comunitaria ebraica nel Regno Unito, ndtr.], Hotovely ha affermato che la Nakba, l’espropriazione di massa e l’espulsione dei palestinesi dalle loro case durante la fondazione di Israele, è una “menzogna araba”

Si è anche opposta a qualsiasi pretesa palestinese sulla Cisgiordania, a Gaza o a Gerusalemme est, ha sostenuto l’espansione delle colonie israeliane e si è opposta ai matrimoni misti di ebrei e palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Diritto Internazionale: Amnesty International analizza a fondo l’apartheid di Israele

Jean Stern

1 febbraio 2022 – Orient XXI

L’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International attacca il crudele sistema di dominazione sulla popolazione palestinese che sia in Israele, nei territori occupati, a Gaza o rifugiata. Questo importante punto di svolta di Amnesty, che invoca il deferimento alla Corte Penale Internazionale, è un duro colpo per il governo israeliano. Orient XXI ha letto il rapporto in anteprima.

Il primo scossone è avvenuto nel 2020, quando l’organizzazione israeliana di giuristi Yesh Din ha utilizzato il termine “apartheid” per definire un sistema che si auto-proclama democratico e che, fino ad ora, è riuscito ad evitare un’analisi politica oggettiva. Dato che la vicinanza rende lucidi, un’altra ong israeliana, B’Tselem, nel 2021 è andata oltre, sostenendo che è tempo di dire “no all’apartheid dalle rive del Giordano al Mediterraneo”. Le due Ong sono state seguite dall’aprile 2021 da Human Rights Watch (HRW). Tuttavia l’organizzazione parla di apartheid solo per i territori occupati e Gaza, facendo un distinguo riguardo alle discriminazioni specifiche dei palestinesi israeliani. Il rapporto pubblicato da Amnesty International martedì 1 febbraio 2022, e di cui Orient XXI ha avuto l’anteprima, va molto oltre e utilizza il termine “apartheid” per tutti i palestinesi qualunque sia il loro luogo di residenza e il loro status.

Per la prima volta Amnesty International (AI), una delle più importanti organizzazioni mondiali in difesa dei diritti umani e anche una delle più caute nella scelta delle parole per definire le situazioni, in un rapporto pubblicato martedì primo febbraio 2022 e che dovrebbe provocare accese discussioni ritiene che “l’apartheid israeliano contro la popolazione palestinese è un sistema crudele di dominazione e un crimine contro l’umanità.” Il documento inoltre farà epoca, poiché tratta senza distinzione la situazione delle e dei palestinesi “che vivono in Israele e nei territori palestinesi occupati (TPO) così come rifugiate/i e profughe/i in altri Paesi.

Questo rifiuto di dividere i palestinesi in frammenti, di ritenere che i loro interessi avrebbero finito con il differenziarsi in base al loro luogo di residenza, è una rivoluzione notevole nel linguaggio della comunità umanitario-diplomatica internazionale. Si ispira agli argomenti di lunga data dei numerosi palestinesi (e di molti altri) sull’unità di un popolo frammentato dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948.

Riportare indietro l’orologio

Questo corposo materiale descrive l’oppressione israeliana e i meccanismi di dominazione dei palestinesi. Decine di interviste, centinaia di documenti analizzati soprattutto relativamente al periodo 2017-2021, mesi di elaborazione in totale segreto: il rapporto di Amnesty porta con sé un importante cambiamento politico. Offre anche una quantità considerevole di informazioni sulla situazione che vivono i palestinesi, che siano a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, ad Haifa… e risale spesso alle origini dello Stato di Israele per comprendere meglio le radici di una politica la cui continuità era già stata messa in luce negli ultimi anni da molti storici di ogni origine. Anche lì Amnesty riporta indietro l’orologio. “Sta succedendo l’esatto contrario di quello che immaginavano,” mi disse in modo premonitore nella primavera del 2016 Yuli Novak, direttrice generale di Breaking The Silence, un’organizzazione israeliana di veterani dell’esercito israeliano che raccoglie le testimonianze sulle vessazioni commesse nei territori occupati dai soldati.

I rapporti di Breaking The Silence, così come quelli di altre Ong israeliane e palestinesi, hanno d‘altra parte alimentato il lavoro dei ricercatori di Amnesty International, ottenendo finalmente l’eco che meritavano.

Ciò che sta succedendo è semplicemente che il potere di persuasione di Israele (e dei suoi numerosi alleati di ogni latitudine e di ogni continente, da Los Angeles a Dubai) non è riuscito a soffocare le voci dissidenti, in primo luogo in Palestina, ma anche in Israele, tra gli ebrei come tra gli arabi. Al contrario, riprendono la parola. Con questo nuovo impegno molto convinto di AI l’uso del termine apartheid a proposito di Israele non sarà più soggetto a un fuoco di bombardamento, anche se forse è meglio non farsi illusioni, soprattutto in Francia. In ogni caso Amnesty propone un notevole salto in avanti sulla scena mondiale.

Un crimine contro l’umanità

Il suo rapporto di 211 pagine fitte analizza le detenzioni amministrative, l’esproprio di proprietà fondiarie e immobiliari, gli omicidi illegali, i trasferimenti forzati, le restrizioni agli spostamenti, gli ostacoli all’educazione. Si fonda su numerosi esempi documentati, in varie parti del Paese, nella Valle del Giordano, a Gaza. Raccoglie molte informazioni, il che ha permesso all’organizzazione di dedicarsi a un minuzioso inventario del sistema messo in atto da Israele. Si tratta di identificare altrettanti “fattori costitutivi” di un sistema di apartheid ai sensi del diritto internazionale. Per Amnesty “questo sistema viene perpetuato dalle violazioni che costituiscono il crimine contro l’umanità di apartheid come definito nello Statuto di Roma e nella Convenzione sull’apartheid.” Agnès Callamard, dal 2021 nuova segretaria generale dell’organizzazione di difesa dei diritti umani, chiarisce la questione:

“Il nostro rapporto svela la vera dimensione del regime di apartheid di Israele. Che sia nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme est, a Hebron o in Israele, la popolazione palestinese è trattata come un gruppo razziale inferiore ed è sistematicamente privata dei suoi diritti.”

Amnesty International “invita la Corte Penale Internazionale (CPI) a prendere in considerazione la definizione di crimine di apartheid nel quadro della sua attuale inchiesta nei TPO e chiede a tutti gli Stati di esercitare la competenza universale per portare davanti alla giustizia i responsabili dei crimini di apartheid.

Un sistema in vigore dal 1948

Il rapporto specifica ciò che Amnesty intende per “sistema di apartheid” e su questo punto specifico vale la pena citarlo per esteso:

“Il sistema di apartheid è nato con la creazione di Israele nel maggio 1948 ed è stato costruito e mantenuto per decenni dai governi israeliani che si sono succeduti su tutto il territorio da loro controllato, indipendentemente dal partito politico al potere all’epoca. Israele ha sottoposto diversi gruppi di palestinesi a differenti insiemi di leggi, di politiche e di pratiche discriminatorie e di esclusione in momenti diversi, in seguito alle conquiste territoriali realizzate prima nel 1948, poi nel 1967, quando annetté Gerusalemme est e occupato il resto della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nel corso dei decenni le preoccupazioni demografiche e geopolitiche israeliane hanno plasmato le politiche nei confronti dei palestinesi in ognuno di questi contesti territoriali.

Anche se il sistema di apartheid di Israele si manifesta in modi diversi nelle differenti zone sotto il suo controllo effettivo, esso ha sempre lo stesso obiettivo di opprimere e dominare i palestinesi a favore degli ebrei israeliani, che sono privilegiati dal diritto civile israeliano qualunque sia il loro luogo di residenza. È concepito per conservare una schiacciante maggioranza ebraica che abbia accesso e abbia a disposizione il massimo di territorio e di terre acquisite o controllate, limitando nel contempo il diritto dei palestinesi a contestare la spoliazione delle proprie terre e dei propri beni. Questo sistema è stato applicato ovunque Israele abbia esercitato un controllo effettivo su territori e terre o sull’esercizio dei diritti dei palestinesi. Si concretizza nel diritto, in politica e nella prassi e si riflette nei discorsi dello Stato dalla sua creazione fino ad oggi.”

Discriminazione razziale e cittadinanza di serie B

Il rapporto insiste ovviamente sulle discriminazioni globali di un sistema la cui geometria variabile non è in fondo che un fattore di adeguamento.

Le guerre del 1947-49 e del 1967, l’attuale regime militare di Israele nei TPO e la creazione dei regimi giuridici e amministrativi differenti sul territorio hanno isolato le comunità palestinesi e le hanno separate dalla popolazione ebraica israeliana. Il popolo palestinese è stato frammentato geograficamente e politicamente e vive diversi livelli di discriminazione in base al suo status e al suo luogo di residenza.

Attualmente i cittadini palestinesi di Israele hanno più diritti e libertà dei loro omologhi dei TPO, e del resto la vita quotidiana dei palestinesi non si è dimostrata molto diversa che vivano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania. Le ricerche di Amnesty International mostrano tuttavia che l’insieme della popolazione palestinese è soggetta a un solo e identico sistema. Il trattamento dei palestinesi da parte di Israele in tutti i territori risponde allo stesso obiettivo: privilegiare gli ebrei israeliani nella distribuzione delle terre e delle risorse e ridurre al minimo la presenza della popolazione palestinese e il suo accesso alle terre.

Un solo e unico sistema, fondato secondo AI sulla discriminazione razziale e su status di cittadini di serie B. Questa svalutazione si accompagna ovviamente alla spoliazione, e il rapporto torna sulla “messa in atto di crudeli espropriazioni fondiarie su vasta scala contro la popolazione palestinese,” e sulla demolizione “dal 1948” di centinaia di case ed edifici palestinesi. Evoca anche le famiglie dei quartieri palestinesi di Gerusalemme est vessate dai coloni che si appropriano delle loro abitazioni “con il totale sostegno del governo israeliano.

Amnesty chiede a tutti i Paesi che intrattengono buoni rapporti con Israele “tra cui alcuni Paesi arabi e africani” di non sostenere più un sistema di apartheid. Per uscire da questo “sistema”, ormai documentato da Amnesty, “la reazione internazionale di fronte all’apartheid non deve più limitarsi a condanne generiche e a scappatoie. È necessario aggredire le radici del sistema, altrimenti le popolazioni palestinesi e israeliane resteranno imprigionate nel ciclo senza fine di violenze che ha annientato tante vite,” conclude Agnès Callamard.

La mia identificazione con questa storia è finita”

Con un’altra storia e attraverso altre vie Yuli Novak è arrivata alla stessa conclusione di Agnès Callamard. Oggi quarantenne, nel 2017 ha lasciato il suo incarico a Breaking The Silence per fare un viaggio con varie destinazioni, dall’Islanda al Sudafrica. Lì ha incontrato gente che aveva lottato contro l’apartheid, cercato di comprendere “le paure” degli uni e degli altri. Ma ha capito soprattutto l’apartheid nel suo stesso Paese. “La sua struttura politica era destinata fin dall’inizio a preservare una maggioranza ebraica, e in questo senso è stata antidemocratica. La mia identificazione con questa storia è finita,” continua Yuli Novak in un lungo ritratto pubblicato il 28 gennaio 2022 dal quotidiano progressista [israeliano] Haaretz.

In un libro che ha da poco pubblicato, Yuli Novak descrive parecchi anni infernali, di vessazioni quotidiane, la delusione di scoprire che un impiegato di Breaking The Silence era un agente dello Shin Bet, il servizio di spionaggio interno [israeliano, ndtr.]. Prima ha pensato che “quel tipo un po’ strano, un po’ solitario, commovente” sapeva tutto di lei, dei suoi piccoli “pettegolezzi”, prima di capire che la democrazia si dissolveva davanti ai suoi occhi. Allora ha compreso che il contratto con il suo Paese era per così dire “condizionato: finché obbedivo. Nel momento in cui qualcosa non gli andava bene, il sistema si rivoltava contro di me. Mi dicevano: ‘Se tu sei contro l’occupazione e pensi che si debba manifestare riguardo alla situazione a Gaza, allora non sei una di noi.

Prende atto del fatto che parlare di apartheid riguardo a Israele non è che un dato di fatto. E se ciò diventa psicologicamente e politicamente doloroso da sopportare per molti israeliani, lo è ancora di più e da molto più tempo per milioni di palestinesi. Per gli uni come per gli altri il sostegno internazionale, se fa il suo ritorno in forze senza insensatezze, sarà il benvenuto.

Jean Stern

Ex-giornalista di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Nel 2012 ha pubblicato Les Patrons de la presse nationale, tous mauvais [I proprietari della stampa nazionale, tutti cattivi], La Fabrique; per le edizioni Libertalia nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)