“Valori condivisi”: l’Israele di Netanyahu consolida un’altra fosca alleanza con l’estrema destra europea

Editoriale di Haaretz

29 agosto 2023 – Haaretz

Mentre il ministro degli Esteri Eli Cohen è sottoposto a critiche giustificatamente feroci per aver reso pubblico un incontro segreto con la sua omologa libica, provocando disordini a Tripoli, la sua fuga a Istanbul con timori per la sua incolumità, e un’ulteriore rottura nelle relazioni con gli USA, Israele ha rafforzato un’altra dubbia amicizia, questa volta a Bucarest.

Su indicazioni di Cohen, l’ambasciatore israeliano in Romania, accompagnato dal leader dei coloni Yossi Dagan, ha incontrato il segretario del partito Alleanza per l’Unità dei Rumeni, di estrema destra, violando il boicottaggio israeliano dei contatti con un partito ultranazionalista, espansionista territoriale e filorusso che esalta il leader rumeno fascista del periodo della Seconda Guerra Mondiale Ion Antonescu, sotto il cui regime collaborazionista con il nazismo vennero uccisi 400.000 ebrei rumeni. Lo scorso anno il partito ha affermato che l’Olocausto in Romania fu una “questione di poco conto”.

Gli israeliani hanno strappato al leader dell’AUR George Simion una scialba e incompleta condanna dell’antisemitismo e della negazione dell’Olocausto. Ma la vera vittoria per il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, per la quale era disposto a vendere l’anima di Israele, è stato il pieno sostegno di Simion alle colonie israeliane in Cisgiordania.

Questo incontro fa parte di una strategia a lungo termine dei successivi governi Netanyahu: uno scambio di favori con i partiti di estrema destra europei. Israele ha legittimato i nazionalisti autoritari con ignobili primati di antisemitismo, negazionismo e fanatismo antimusulmano in cambio di un impegno a favore delle politiche israeliane.

Non c’è scarsità di partner estremisti, di Ungheria, Polonia, Italia, Francia, Svezia e ora Romania, ansiosi di ottenere un certificato israeliano di conformità. Per il partito Likud di Netanyahu, che ha costruito rapporti con tutta l’estrema destra europea, e per i coloni questa è un’occasione unica.

I termini di questa contrattazione faustiana sono espliciti: appoggiate la nostra annessione, noi ignoreremo il vostro antisemitismo; appoggiate il furto di terra delle colonie, noi sosterremo il vostro irredentismo territoriale; appoggiate il nostro attacco alla democrazia liberale, noi sosterremo il vostro fascismo e revisionismo sull’Olocausto; sostenete la nostra supremazia ebraica, e noi faremo altrettanto con la vostra supremazia cristiana.

Con l’estrema destra che sta notevolmente crescendo nei sondaggi nel continente, con elezioni decisive per il parlamento europeo il prossimo anno, così come elezioni nazionali in Austria, non c’è da sorprendersi che le comunità ebraiche locali, che sono in prima linea nell’opposizione di principio all’estrema destra, si ritrovino a chiedersi se Israele stia con loro.

Mentre il fiasco di Eli Cohen con la Libia ha fatto scalpore, questo incontro in Romania, che fa presagire la reale direzione in cui Netanyahu intende portare Israele, è passato inosservato. Il suo attacco alla democrazia, a una magistratura indipendente e a ogni valore liberale normativo, rafforzando nel contempo l’occupazione, è accompagnato dalla formazione di un asse di alleati deleteri e illiberali ma “filo-israeliani”, che si legittimano e sostengono a vicenda.

Sono passati solo 5 anni da quando l’allora presidente [della repubblica] Reuven Rivlin denunciò l’accondiscendenza di Netanyahu nei confronti dei neofascisti europei in nome dell’opportunismo politico e diplomatico.

Rivlin criticò duramente tali alleanze come “assolutamente incompatibili” con i principi israeliani. Oggi l’Israele di Netanyahu abbraccia orgogliosamente i suoi “valori condivisi” con l’estrema destra europea, e nel contempo butta nella spazzatura le comunità ebraiche e ogni residuo di dignità morale.

Il presente articolo è l’editoriale del direttore di Haaretz come è stato pubblicato in Israele nei giornali in ebraico e in inglese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché l’opposizione israeliana non vuole parlare del vero obiettivo della riforma giudiziaria

Michael Schaeffer Omer-Man

21 febbraio 2023 – +972 Magazine

Politici del governo hanno esplicitamente affermato che la riforma giudiziaria riguarda l’annessione. Gli oppositori non vogliono ammetterlo perché condividono lo stesso progetto.

Quasi esattamente 10 anni fa il ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin, allora giovane stella nascente nel partito di Netanyahu, il Likud, parlò a una conferenza organizzata dal Movimento Israeliano per la Sovranità, sostenitore della totale annessione da parte di Israele dei territori palestinesi occupati. Prima di esporre un piano di quattro fasi per quello che molti hanno definito una “annessione strisciante” attraverso piccoli passi successivi nell’applicare la legge israeliana alla Cisgiordania, Levin mise in guardia il suo pubblico di ideologi.

Non ho dubbi che tra non molto riusciremo ad estendere la sovranità su tutta la Terra di Israele,” rassicurò i presenti. “È importante avere questo progetto perché a volte esso contrasta con le tattiche e i compromessi che devono essere fatti lungo il percorso. Dobbiamo attenerci a questo obiettivo in modo intelligente giorno dopo giorno, potrei persino dire talvolta con raffinatezza, per raggiungere alla fine il nostro obiettivo.”

Un anno dopo Levin parlò di nuovo alla conferenza. Oltre ai passi discreti e implacabili che aveva presentato nella sua precedente apparizione, il politico del Likud aggiunse due importanti prerequisiti per una totale annessione. Il primo, ammonì, era una lenta e paziente campagna per cambiare il modo in cui l’opinione pubblica israeliana, compresa la destra annessionista, pensava e parlava della questione palestinese dopo decenni in cui gli Accordi di Oslo e la soluzione a due Stati avevano caratterizzato il discorso.

La seconda condizione imprescindibile per l’annessione di cui parlò fu molto più audace: una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario israeliano. “Non possiamo accettare l’attuale situazione in cui il sistema giudiziario è controllato da estremisti di sinistra, una minoranza post-sionista che si auto-nomina a porte chiuse, imponendoci i suoi valori, non solo sull’(annessione), ma anche su altre questioni,” spiegò Levin. “Un cambiamento del sistema giudiziario è essenziale perché ci consentirà e ci faciliterà il fatto di intraprendere passi concreti sul terreno che rafforzino il processo di promozione della sovranità.”

Molti nella destra israeliana vedono il sistema giudiziario del Paese, che in realtà ha appoggiato e consentito l’esistenza stessa e l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati, come ostile al movimento dei coloni. Vedono gli occasionali vincoli che la Corte ha introdotto, in particolare il fatto che essa abbia bocciato una legge che avrebbe legalizzato colonie costruite su proprietà privata palestinese rubata, come il principale impedimento alla possibilità di realizzare i sogni annessionisti, che per loro sono una combinazione di imperativi messianici e ideologici.

Passano 10 anni e Levin diventa il nuovo ministro della Giustizia di Israele, accelerando una totale riforma del sistema legislativo e giudiziario del Paese, in un processo che molti all’interno di Israele definiscono un tentativo di colpo di stato. La proposta di legge ha scatenato in Israele un massiccio movimento di protesta che ha visto manifestazioni settimanali, scioperi generali, minacce di fuga di capitali e importanti personalità che invocano la disobbedienza civile.

Nonostante la crescente rivolta, lunedì notte la Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha approvato in prima lettura una legge che darebbe al governo un notevole controllo sulla commissione per la selezione dei giudici israeliani e impedirebbe alla Corte Suprema di esercitare il controllo giudiziario sulle Leggi Fondamentali del Paese. La proposta richiede altre due letture perché venga convertita in legge.

In un Paese con un ordine costituzionale caratterizzato dalle innumerevoli decisioni dei suoi leader di non prendere decisioni, la prospettiva di un risoluto governo di estrema destra che consolidi il potere e sovverta l’unico controllo istituzionale sulle sue pretese è indubbiamente terrificante. Quindi molti israeliani pensano di lottare per salvare la democrazia, le libertà e i diritti che hanno sperimentato nel loro Paese per più di 70 anni.

Ma ciò sollecita una domanda cruciale: perché il latente obiettivo ideologico e politico che promuove questa riforma dell’intero sistema di governo israeliano da parte dell’estrema destra, cioè l’annessione unilaterale dei territori occupati, è così assente dal discorso pubblico e dalle proteste nelle piazze?

Non è un progetto degli estremisti

Non c’è bisogno di vedere i video di 10 anni fa su YouTube per capire l’ossessione fanatica che la destra israeliana ha riguardo all’annessione. Solo qualche anno fa, in un governo non diverso da quello di oggi, Netanyahu disse che entro breve avrebbe ufficialmente annesso vaste aree della Cisgiordania occupata, un piano poi congelato in cambio della normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, seguiti dal Bahrein, dal Marocco e dal Sudan.

In seguito a quel disastro per la destra annessionista, nel 2020 l’allora presidente della Knesset Yariv Levin, insieme all’attuale ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, fondò il “Comitato per la Terra di Israele”. Pur mettendo in guardia i suoi sodali ideologici che come presidente della Knesset avrebbe dovuto parlare in “termini istituzionali”, durante il primo incontro Levin rassicurò i suoi alleati del comitato che avrebbe comunque lavorato per procedere verso l’annessione. “La sovranità su tutta la terra di Israele,” affermò, “è l’irrevocabile diritto del popolo ebraico. È nostro dovere, e non una questione di scelta, realizzarlo.”

È importante analizzare la leadership di Levin a favore dell’annessione per due ragioni. La prima è che egli si trova ora nella posizione di mettere le basi giuridiche per la sua realizzazione. La seconda è che i progetti annessionisti di questo governo, sia all’interno di Israele che a livello internazionale, tendono ad essere liquidati come un progetto di politici e partiti dei coloni estremisti che sono arrivati al governo e grazie ai quali Netanyahu è stato in grado di riprendere il potere dopo quattro elezioni inconcludenti e un breve periodo all’opposizione.

Il Comitato per la Terra di Israele, che Levin ha co-fondato per portare avanti strategie legislative e alleanze trasversali tra i partiti finalizzate all’annessione, è sempre stato dominato dal Likud. Nella 23esima Knesset, quando il comitato è stato fondato, i parlamentari del Likud rappresentavano il 44% dei membri, più di metà degli eletti del partito. Da allora nella 24esima Knesset, sciolta lo scorso novembre, l’87% dei deputati del Likud faceva parte del comitato ed essi rappresentavano il 57% di esso. Pochi anni prima il comitato centrale del Likud aveva votato per sostenere l’annessione come parte del proprio programma.

Nonostante la loro esplicita agenda, nel più vasto dibattito pubblico Netanyahu e il Likud sono percepiti come intenzionati a riformare il sistema di governo israeliano per ragioni diverse, di megalomania e corruzione. Il primo ministro, si afferma, attualmente è sotto processo per corruzione, la principale ragione citata dai suoi alleati storici per abbandonarlo, e l’unico modo per lui di garantirsi di non finire in galera è attraverso il controllo del potere giudiziario. All’interno di questa narrazione la riforma governativa è stata definita semplicemente come un abuso di potere, benché con conseguenze di vasta portata per l’economia, la posizione diplomatica, i diritti civili e per una delle linee di faglia più spinose di Israele: i rapporti tra Stato e religione.

Generalmente si attribuisce ai partiti più piccoli e radicali dell’ultimo governo Netanyahu, guidati da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, l’uso della riforma giudiziaria per raggiungere finalmente il loro sogno di annessione, sfrenata espansione delle colonie ed espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Per gran parte dell’opposizione essi sono tutt’al più degli opportunisti che hanno individuato il momento in cui le loro fantasie messianiche convergono con gli interessi personali di Netanyahu e in cui finalmente hanno influenza perché senza di loro il governo crollerebbe.

Di conseguenza la lotta per salvare la democrazia israeliana dipinge la propria distopia in parallelo con la caduta nell’autoritarismo vista in Ungheria e in Polonia nello scorso decennio. Quindi bloccare l’“orbanizzazione” di Israele è diventata una sorta di parola d’ordine dell’opposizione.

Un ethos colonialista unificante

La ragione di questa dissonanza tra la narrazione dell’opposizione e il vero progetto del Likud è duplice. Primo, perché in parte è vera: in effetti Netanyahu ha bisogno di questi alleati di coalizione proprio per la sua stessa sopravvivenza politica e la sua libertà personale. La seconda ragione si riduce al fatto che l’opposizione israeliana e Netanyahu condividono la stessa ideologia, il sionismo, il cui fondamento è la convinzione che dio abbia dato la Terra di Israele al popolo ebraico, che gli ebrei abbiano il diritto di stanziarsi su ogni parte di quella terra e che la sopravvivenza del popolo ebraico dipenda dalla estrinsecazione fisica e politica di tale dottrina.

L’unica seria sfida a questo progetto, il fallito processo di Oslo che prevedeva la partizione e diversi livelli di limitata autonomia palestinese, non ha mai contrastato la fondamentale convinzione sionista che tutta la Terra di Israele sia del popolo ebraico. Quello su cui leader come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon dissentivano riguardava il compromesso strategico, non l’ideologia. Loro e gli israeliani che ne seguivano i rispettivi percorsi non hanno mai visto la rinuncia alla piena applicazione di quello che è noto come sionismo massimalista o espansionista come una sua negazione.

Questo caposaldo del sionismo è la ragione per cui Rabin, Sharon, Shimon Peres, Ehud Olmert, Tzipi Livni e qualunque altro importante politico israeliano che ha proposto o inteso fare concessioni territoriali non si è mai sognato di rinunciare a tutte le colonie israeliane al di là della Linea Verde. A un decennio dall’ultimo processo di pace credibile, in Israele il sostegno persino a una limitata concessione territoriale è praticamente sparito.

A prescindere dalla sua veridicità storica, l’idea della sinistra israeliana di terra in cambio di pace è stata screditata dalla maggioranza degli israeliani sionisti come un errore comprovato. Persino quei partiti politici che ancora sostengono una soluzione a due Stati, anche solo in teoria, hanno interiorizzato da molto tempo l’inutilità di perseguirla. Un recente sondaggio ha rilevato che il sostegno degli ebrei israeliani a un regime di apartheid permanente, in cui Israele controlli tutto il territorio dal fiume Giordano al Mediterraneo ma non conceda pari diritti ai palestinesi, è raddoppiato negli ultimi due anni dal 15 al 29%. Nello stesso periodo il numero di ebrei israeliani che appoggiano i due Stati è sceso dal 43 al 34 %.

Cosa ancora più grave, una significativa sezione trasversale di quanti protestano contro il piano Netanyahu-Levin-Smotrich-Ben Gvir, e stanno anche avvertendo di un possibile spargimento di sangue nelle piazze, condivide il latente insieme di principi ideologici e obiettivi politici che il quel progetto intende raggiungere.

Per alcuni israeliani l’opposizione è personale: aborrono l’idea che governi il loro Paese qualcuno sotto processo per corruzione. Per altri, come Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista laico, ndt.] e molti israeliani laici preoccupati dalle imposizioni religiose, si tratta dell’alleanza di Netanyahu con partiti religiosi ebraici. Per quanti sono più vicini al centro-sinistra, le differenze riguardano il prezzo per il vissuto ebraico democratico e quasi liberale di Israele.

Molti economisti e importanti uomini d’affari sono semplicemente terrorizzati dai previsti danni per l’economia israeliana derivanti dall’erosione dello stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.

Il problema con la “democrazia israeliana”

Dato che queste differenze non sono ideologiche, praticamente nessuno sta facendo i conti con la dissonanza tra la propria concezione della democrazia israeliana che starebbe cercando di salvare e l’intrinsecamente antidemocratico e illiberale regime di apartheid su cui la “sovranità ebraica” si è sempre fondata.

Il centro e buona parte della destra israeliani si oppongono all’annessione a breve termine della Cisgiordania perché pensano che in base alle attuali circostanze lo status quo di una “temporanea” occupazione militare di più di 55 anni sia più prudente dal punto di vista strategico. Secondo loro cancellare formalmente la distinzione tra i territori occupati e il vero e proprio territorio riconosciuto di Israele renderebbe troppo difficile convincere il mondo che Israele non è un regime di apartheid in cui a metà della popolazione, palestinese, vengono negati fondamentali diritti democratici, civili e umani.

Tale dissonanza risulta evidente se si considera che l’opposizione al piano di Netanyahu non sta offrendo un progetto alternativo. Non stanno suggerendo che Israele adotti una costituzione con garanzie formali di uguaglianza, diritti civili, democrazia o chiarezza sulla questione dei rapporti tra Stato e religione. Non hanno intenzione di denunciare le mire espansionistiche di Levin, Smotrich e Ben Gvir perché tali mire e la convinzione che la Terra di Israele sia del popolo ebraico è intrinseca all’ethos sionista. Non sono in grado di definire cosa effettivamente ne sia della democrazia israeliana se continua a governare in modo antidemocratico milioni di palestinesi senza concedere loro pari diritti.

Tuttavia il baratro che, come avvertono alcuni, potrebbe portare Israele a una guerra civile non riguarda visioni contrapposte del Paese. Il fatto è che un gruppo non si accontenta più di aspettare le “giuste condizioni” per realizzare il sogno sionista della sovranità ebraica su tutta la Terra di Israele, mentre l’altro preferisce attenersi alla tradizione politica di guadagnare tempo decidendo di non decidere.

Per Netanyahu, Levin, Smotrich e Ben Gvir le conseguenze della formalizzazione di un regime di apartheid che mini la nozione di Israele come una democrazia, e alcuni dei privilegi e vantaggi che questa definizione offre loro, valgono il costo, se pure il mondo è intenzionato a imporne uno. E proporre una vera visione alternativa richiederebbe all’opposizione un livello di riflessione su se stessa e una sfida a convinzioni fondamentali che praticamente nessuno intraprenderebbe volontariamente.

Michael Schaeffer Omer-Man è direttore di ricerca per Israele-Palestina al DAWN [Democracy for the Arab World Now, istituto di ricerca statunitense, ndt.]. Fino al 2019 è stato direttore di +972 Magazine. Ha lavorato anche con agenzie internazionali umanitarie e per i rifugiati nel contesto Israele/Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quale ruolo avrà Sionismo Religioso nel prossimo governo israeliano?

Redazione di Al Jazeera

22 dicembre 2022 – Redazione Al Jazeera

Sionismo Religioso è una forza in crescita in Israele e godrà di una forte presenza nel prossimo governo israeliano.

La formazione del governo più di destra di Israele è stata annunciata dopo che il Primo Ministro incaricato del Paese, Benjamin Netanyahu, ha chiamato il Presidente Isaac Herzog per informarlo.

Se il partito Likud di Netanyahu costituisce il cuore del nuovo governo, gli alleati di estrema destra che fanno parte del movimento ideologico Sionismo Religioso, dopo i buoni risultati ottenuti a novembre nelle elezioni della Knesset, il Parlamento, occuperanno posizioni di rilievo che influenzeranno la politica nei confronti dei palestinesi che vivono nei territori occupati.

La presenza di questi politici ai vertici di Israele sarebbe stata impensabile solo alcuni anni fa, ma il loro emergere è indicativo della crescita del movimento Sionismo Religioso in Israele.

Facciamo un’analisi più puntuale.

Che cosa è Sionismo Religioso?

  • Costituitosi come un’ideologia nazionalista laica, il Sionismo fu inizialmente contrastato da molti ebrei ortodossi. Una parte significativa di ebrei continuò ad opporsi al Sionismo anche dopo la nascita di Israele nel 1948, considerandolo non conforme alla legge ebraica.

  • Il movimento ideologico Sionismo Religioso emerse come modo per avvicinare gli ebrei religiosi al Sionismo, staccato dalle sue influenze secolari. Mentre la rivendicazione nazionalista del popolo ebraico nei confronti della Palestina storica era al centro del pensiero del Sionismo tradizionale, per i Sionisti religiosi era centrale il concetto della terra di Israele “promessa da Dio” al popolo ebraico.

  • Il movimento è cresciuto solo quando la comunità ortodossa è diventata più numerosa in Israele e il Paese è diventato più di destra.

Quali risultati hanno avuto nelle elezioni israeliane i partiti di Sionismo Religioso?

Secondo i media israeliani dovrebbero entrare nel nuovo Parlamento israeliano nove coloni che vivono nella Cisgiordania occupata, sei dei quali fanno parte di una coalizione di partiti che si è presentata unitamente sotto il simbolo di Sionismo Religioso alle elezioni parlamentari.

. L’alleanza di Sionismo Religioso si è affermata come principale partner della coalizione di Netanyahu ed è il terzo gruppo alla Knesset.

  • L’alleanza è composta principalmente dal partito Sionismo Religioso di Bezalel Smotrich e dal partito Potere Ebraico di Itamar Ben-Gvir. Netanyahu li aveva incoraggiati a formare una lista unica alle elezioni per superare la soglia di ingresso alla Knesset. Il gruppo ha ottenuto 14 seggi prima di separarsi nuovamente, ma i partiti restano ideologicamente simili.

Che posizioni hanno i partiti di Sionismo Religioso nei confronti dei palestinesi?

  • Sia Smotrich che Ben-Gvir sono espliciti circa la loro intenzione di espandere gli insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata e di annettere la terra palestinese e sono tristemente noti per incitare alla violenza contro i palestinesi. Entrambi sono coloni che vivono all’interno della Cisgiordania.

  • Smotrich ha chiesto pubblicamente l’annessione della Cisgiordania occupata, mentre Ben-Gvir afferma di opporsi ad uno Stato palestinese ed ha guidato incursioni di coloni sulla spianata della moschea di Al Aqsa e nel quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme est occupata.

  • Il curriculum di Ben-Gvir include anche una condanna nel 2007 per incitamento razziale contro gli arabi e sostegno al “terrorismo”, nonché attivismo anti-LGBTQ.

  • All’inizio del mese Ben-Gvir ha richiesto l’espulsione da Israele dei giornalisti di Al Jazeera subito dopo che la rete aveva inoltrato richiesta formale alla Corte Penale Internazionale (CPI) di indagare e perseguire gli assassini della sua giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa a maggio.

Quali ruoli si prevedono nel prossimo governo per gli esponenti di Sionismo Religioso?

  • Il 16 dicembre la coalizione del governo entrante ha approvato in prima lettura la normativa che consentirà a Smotrich di diventare “ministro indipendente” incaricato della costruzione delle colonie nella Cisgiordania occupata, attraverso la più influente autorità in quei luoghi – il Ministero della Difesa – che comprende l’esercito israeliano.

Se approvata, sarebbe la prima volta che viene creata una simile posizione e darebbe a Smotrich il potere di portare avanti i suoi obbiettivi di impedire le costruzioni palestinesi nell’ Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il diretto controllo dell’esercito israeliano – espandendovi la costruzione delle colonie israeliane illegali.

  • Intanto Ben-Gvir è pronto a ricoprire il ruolo chiave di Ministro della Sicurezza Interna, che soprassiederà non solo alle operazioni di polizia, ma anche alla polizia israeliana di frontiera. Quest’ultima è parte delle forze che gestiscono l’occupazione sui palestinesi a Gerusalemme est e controllano i posti di blocco militari in Cisgiordania.

  • Attraverso il Ministero Ben-Gvir avrà anche il controllo del sistema penitenziario israeliano.

Con le tensioni che si sono accese nella Cisgiordania occupata lo scorso anno, l’effetto di simili personaggi in importanti posizioni chiave probabilmente non farà che infiammare ulteriormente la situazione sul campo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




È in arrivo l’annessione della Cisgiordania a Israele, ma non come ve la sareste aspettata

Lili Galili

17 dicembre 2022 – Middle East Eye

Le organizzazioni dei coloni hanno giocato un ruolo chiave nei negoziati per formare il governo e hanno come obiettivo il completo controllo della Cisgiordania

Il primo dicembre, subito dopo la firma degli accordi di coalizione fra il partito Likud di Benjamin Netanyhau e le fazioni di estrema destra, Sionismo Religioso e Potere Ebraico, l’organizzazione dei coloni Yesha Council [che riunisce i rappresentanti delle colonie illegali della Cisgiordania, N.d.T.] ha postato un messaggio compiaciuto su Facebook. “Ringraziamenti speciali ai nostri rappresentanti che hanno collaborato con gli esperti di Yesha Council durante i negoziati,” proclama dopo aver ringraziato tutti le persone coinvolte.

Con l’aiuto di dio presto un nuovo governo sarà formato e si troverà davanti alle sfide di costruzione, sviluppo e conservazione della terra in Giudea e Samaria,” si aggiunge, usando i nomi israeliani per la Cisgiordania occupata.

Ha fatto eco il capo di Karnei Shomron, un altro influente gruppo di coloni, che ha affermato su Ynet TV [notiziario e sito web israeliano di contenuti generali, N.d.T.] che la prima cosa che Bezalel Smotrich, leader di Sionismo Religioso, dovrebbe fare quando sarà al potere è applicare la sovranità israeliana in Giudea e Samaria.

Per oltre 55 anni non sono state prese decisioni. È ora di annettere Giudea e Samaria come sono state annesse le Alture di Golan,” ha aggiunto.

Questi commenti la dicono lunga. Non solo rivelano la portata del coinvolgimento delle organizzazioni dei coloni nei negoziati per formare il governo, ma ci offrono la possibilità di intravedere la pressione futura a cui sottoporranno i politici che alcuni chiamano ancora “rappresentanti”.

Tuttavia “rappresentanti” non è la parola giusta per queste persone. Questo governo di “Hilltop Youth [“Gioventù della Cima della Collina”, giovani estremisti religiosi nazionalisti e molto violenti che stabiliscono avamposti illegali in Cisgiordania, N.d.T.] non rappresenta il suo elettorato, è il volto della sua parte più radicale.

Israeliani di sinistra, centro e destra scioccati stanno già cercando di capire quale impatto avrà sulla loro vita di ogni giorno questo governo di destra radicale/ultra-ortodossa. Ma essa non intende cambiare solo la natura di Israele, ma anche la dimensione del Paese. In altre parole: l’annessione di terre palestinesi.

Di questi tempi il termine “annessione” è raramente menzionato, sia dalla coalizione entrante che dalla sua malconcia opposizione, occupata in altre questioni più scottanti.

È una decisione consapevole per timore della reazione internazionale. La nuova coalizione può facilmente liquidare poche manifestazioni di centinaia, o persino migliaia, di sinistrorsi indeboliti, giustamente preoccupati per la distruzione del sistema giuridico israeliano. Avere a che fare con la condanna internazionale o persino le sanzioni è tutt’un’altra storia.

Questo potrebbe non spaventare il messianico Smotrich o Itamar Ben-Gvir, leader dal grilletto facile di Potere Ebraico, ma certamente terrorizza Netanyahu. Egli sa molto bene che non può inimicarsi la comunità internazionale e, più precisamente, il mondo arabo, con il problema del nucleare iraniano e l’opzione dell’esercito israeliano di combatterlo, sospeso sulla sua testa come una spada di Damocle.

In queste circostanze l’uso dell’eufemismo “esercizio della sovranità” sembra più accettabile di “annessione”. Proprio come lo scellerato grido di “morte agli arabi” è stato rimpiazzato, per ordine di Ben-Gvir, con “morte ai terroristi”, la connotazione negativa di annessione unilaterale è ora intenzionalmente rimpiazzata con una frase giudicata più legittima politicamente.

Da una prospettiva giuridica sono la stessa cosa. In una recente intervista radiofonica, Simha Rotman, parlamentare del Sionismo Religioso, ha sostenuto che non si può annettere un territorio che era una specie di “terra di nessuno”. Tuttavia si può, e si deve, esercitare legalmente la sovranità.

I primi passi

Sebbene quasi mai menzionati dai futuri ministri, tutti gli atti e gli accordi della coalizione implicano l’annessione.

Il segno più allarmante è il trasferimento di due unità dell’esercito responsabili di amministrare l’occupazione alla totale responsabilità del partito di Smotrich grazie a un incarico ministeriale nel ministero della Difesa. Le due unità, l’Amministrazione Civile e il Cogat (Coordinatore delle Attività Governative nei Territori), gestiscono tutti gli aspetti della vita civile nell’Area C cisgiordana, il 60% [del territorio occupato, N.d.T.] completamente amministrata da Israele [in base agli accordi di Oslo, N.d.T.], incluso il movimento di persone e beni fra Gaza, Israele e la Cisgiordania.

Assegnare la responsabilità di queste unità a Smotrich non solo gli permette di espandere le colonie e rafforzare i poteri contro i palestinesi, ma anche di limitare ulteriormente i movimenti degli abitanti dentro e fuori l’enclave di Gaza.

Questo ministro di nuova nomina giocherà un ruolo centrale in tutto ciò che è relativo alla gestione della vita dei palestinesi e israeliani in Cisgiordania, incluse la pianificazione del territorio e l’autorizzazione di avamposti illegali. In altre parole: annessione de facto dell’Area C con il suprematista ebraico Smotrich quale unico governatore dei territori occupati.

Persino chi a sinistra sostiene che l’annessione de facto è già stata realizzata ammette che ciò implica un drammatico cambiamento di politiche e rafforza l’apartheid. Questi sono passi preliminari verso la completa annessione dell’area. È già stato tentato e ha fallito per la pressione internazionale. A differenza della forza bruta di precedenti tentativi di annessione, il nuovo approccio è tattico e venduto come cambiamenti amministrativi. De facto? È molto di più.

Questi sono i primi passi di una vera e propria annessione. Udi Dekel, ex generale di brigata, ora vice direttore dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, definisce questi cambiamenti recenti come il passaggio da “annessione strisciante” ad “annessione rapida”.

Importanti ex funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana dicono che si aspettano che Smotrich annetta la Cisgiordania. Un ex funzionario ha detto ad Haartez [quotidiano progressista israeliano N.d.T.] : “Senza dubbio Smotrich sta per attuare l’annessione.”

Una minaccia anche per Israele

Yehuda Etzion non potrebbe essere più d’accordo o sperare di più.

Etzion è stato membro del gruppo terrorista ebraico clandestino che ha partecipato al complotto per far saltare in aria la Cupola della Roccia, ora è attivista di estrema destra e fondatore di un gruppo che opera perché gli ebrei vengano autorizzati a pregare nella moschea di Al-Aqsa, conosciuta dagli ebrei come Monte del Tempio.

È stato personalmente coinvolto nella compilazione della “lista dei desideri” delle organizzazioni dei coloni data a Smotrich e Ben-Gvir quando stavano negoziando con Netanyahu. Questa settimana, parlando a Middle East Eye, sembrava speranzoso circa le intenzioni di Ben-Gvir sulla moschea di al-Aqsa, come l’autorizzazione alle preghiere del Sabato e la revoca della norma che permette la visita del sito agli ebrei solo in gruppi organizzati.

Non mi aspetto un’annessione su vasta scala, dato che Bibi non la vuole veramente,” ha detto a MEE, usando il nomignolo con cui comunemente ci si riferisce a Netanyahu.

Mi aspetto veri cambiamenti nell’Area C, dove precedenti governi di Bibi hanno permesso ai palestinesi di costruire mentre le colonie ebraiche potevano crescere a stento,” ha sostenuto, nonostante decine di migliaia di nuove case di coloni siano state costruite in violazione del diritto internazionale e case, scuole e ospedali palestinesi siano stati regolarmente demoliti.

Essendo un processo cumulativo, non significa annessione. Questi due ministri, Ben-Gvir e Smotrich, metteranno in atto importanti cambiamenti. L’unica domanda è: Bibi permetterà di fare quello che ha promesso loro negli accordi che ha firmato? Io so che tendono a dubitarne.”

In una pubblicazione dell’Istituto per gli Studi di Sicurezza Nazionale della scorsa settimana, Dekel fa un riferimento alle possibili ripercussioni della futura annessione.

Vi afferma che applicare la sovranità israeliana in Cisgiordania e trasferire potere su di essa dal ministero della Difesa a uno civile attirerà la condanna e l’attenzione internazionali e aumenterà la qualificazione di Israele come un regime di apartheid.

Queste denunce saranno ancorate nel parere legale della Corte Internazionale di Giustizia e saranno un’altra arma nella campagna internazionale contro Israele,” scrive.

Il parlamentare laburista Nachman Shai, ministro uscente degli Affari della Diaspora, aggiunge un’altra prospettiva. “A questo punto le comunità ebraiche in America sono preoccupate principalmente per le implicazioni che avranno direttamente per loro le politiche del nuovo governo, come le questioni sospese della legge del ritorno [l’estrema destra religiosa intende restringere i criteri per la concessione del diritto a emigrare in Israele, N.d.T.] o se i ministri di nuova nomina definiranno come assolutamente non ebrei gli ebrei riformati, il movimento a cui appartiene la maggioranza degli ebrei americani,” ha detto a MEE.

Al momento questa rabbia è passiva, ha detto. Ma potrebbe diventare un’opposizione più problematica per Israele: incoraggiare gli USA a non proteggere più il Paese alle Nazioni Unite o persino ad appoggiare le sanzioni a causa dell’annessione.

Data la nuova situazione non li vedo dimostrare a sostegno di Israele, impegnare i propri rappresentanti al Congresso o agire contro le politiche della loro amministrazione. Potrebbero non unirsi mai al movimento BDS [acronimo di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, N.d.T.], ma non lo osteggeranno,” afferma.

È una pericolosa rotta di collisione. L’unico a capire tutte le conseguenze è Bibi stesso, ma d’altro canto il Bibi del 2022 non è il Netanyahu che conosciamo. È una persona diversa.”

Come Israele.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Secondo un sondaggio, un terzo dei giovani ebrei statunitensi vede Israele come genocida

Ali Abunimah

15 luglio 2021 –Electronic Intifada

Sono in crescita i tentativi da parte di Israele e della sua lobby di assimilare la contestazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese al pregiudizio anti-ebraico.

Eppure un recente sondaggio indica che questa campagna è fallita persino tra la stragrande maggioranza degli elettori ebrei americani.

Il sondaggio commissionato dal Jewish Electorate Institute [Istituto per l’elettorato ebraico, ndtr.], un’organizzazione guidata da sostenitori del Partito Democratico, riporta diversi dati interessanti.

Un quarto degli elettori ebrei americani concorda sul fatto che Israele sia uno Stato di apartheid, un numero che sale fino al 38% tra coloro che hanno meno di 40 anni.

Nel complesso il 22% degli elettori ebrei concorda sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio nei confronti dei palestinesi, cifra che sale fino ad un sorprendente 33% nella categoria dei più giovani.

Inoltre secondo il 34% degli elettori ebrei intervistati la condotta di Israele nei confronti dei palestinesi è simile al razzismo negli Stati Uniti. Cifra che va oltre i due su cinque tra chi ha meno di 40 anni.

E’probabile che tali risultati provochino sgomento tra i leader dei gruppi di pressione che sono da tempo preoccupati per l’erosione del sostegno a Israele tra gli ebrei americani, in particolare tra i più giovani.

Ciò che inoltre colpisce è che anche gli ebrei che non sono d’accordo sul fatto che Israele commetta apartheid e genocidio spesso non considerano tali dichiarazioni come antisemite.

Ad esempio, il 62% degli intervistati non è d’accordo sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio, ma di questi solo la metà considera tale affermazione come “antisemita”.

Aperti alla soluzione a uno Stato

Gli ebrei americani sono anche più aperti di quanto generalmente si creda riguardo alla questione di una soluzione politica per palestinesi e israeliani.

Mentre il 61% degli intervistati sostiene ancora la soluzione ormai moribonda dei due Stati, una minoranza considerevole – il 20 % – è favorevole a una soluzione democratica di uno Stato con uguali diritti per tutti coloro che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

Solo il 19% è a favore dell’annessione formale da parte di Israele della Cisgiordania occupata senza la concessione di uguali diritti ai palestinesi – in effetti quella che è, se non di nome, di fatto, la situazione attuale.

E riguardo la questione degli aiuti statunitensi a Israele, il 71% complessivamente li considera “importanti”.

Ma il 58% concorda sul fatto che gli Stati Uniti dovrebbero impedire l’utilizzo da parte di Israele di tali aiuti per la costruzione di insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata. Contemporaneamente, il 62% è favorevole al fatto che gli Stati Uniti ristabiliscano gli aiuti ai palestinesi tagliati dall’amministrazione Trump.

Questa indagine non ha chiesto agli intervistati opinioni sul movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni guidato dai palestinesi, ma lo ha fatto un sondaggio tra ebrei americani del Pew Research Center [agenzia statunitense di ricerca su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici sugli Stati Uniti ed il mondo in generale, ndtr.] pubblicato a maggio.

Quest‘ultimo rivela che il 34% degli ebrei americani “si oppone fortemente” al movimento BDS. In linea con i risultati di altre indagini, si sono mostrati maggiormente ostili al BDS le persone più anziane, i repubblicani e i religiosi.

Affermazioni false sull’antisemitismo

Ogni volta che l’attenzione mondiale è focalizzata sulle atrocità di Israele, i gruppi di pressione israeliani spesso cercano di deviare l’attenzione verso una presunta ondata di antisemitismo.

Neppure lo scorso maggio, quando Israele ha massacrato decine di bambini a Gaza, è stata un’eccezione.

I principali lobbisti israeliani e i mass-media hanno parlato di un’ondata di presunti attacchi antiebraici negli Stati Uniti.

Eppure una meticolosa indagine del giornalista Max Blumenthal ha rivelato che queste affermazioni erano infondate.

Quello che stanno facendo negli Stati Uniti è fondamentalmente cercare di trovare una via di fuga dalle scene che anche la CNN stava mostrando, come le torri sede degli organi di informazione a Gaza venivano distrutte senza motivo … o di intere famiglie sterminate, per sostituire l’immagine delle vittime palestinesi con quella di … ebrei americani”, ha detto Blumenthal a The Electronic Intifada Podcast il mese scorso.

Questo non vuol dire che non ci sia fanatismo antiebraico e che non debba costituire un problema. In effetti, il 90% degli intervistati – una cifra che varia a malapena in base all’età o all’osservanza religiosa – è preoccupato per l’antisemitismo negli Stati Uniti.

Ma tra uomini e donne e in tutte le fasce d’età il 61% degli elettori ebrei intervistati è più preoccupato per l’antisemitismo della destra politica. Nel complesso, solo il 22% ha dichiarato di essere preoccupato per “l’antisemitismo di sinistra”.

Ciò indica che in generale gli ebrei americani non sono vittime della propaganda secondo cui la sinistra è piena di animosità antiebraica, anche se i gruppi di pressione hanno ignorato o minimizzato il fanatismo e persino la violenza letale della destra contro gli ebrei per concentrarsi invece nell’attaccare e colpevolizzare il movimento di solidarietà con i Palestinesi.

Dato che le persone di sinistra tendono ad appoggiare maggiormente i diritti dei palestinesi e ad essere più critiche nei confronti di Israele i gruppi di pressione si sono concentrati nel diffamare con falsi i partiti e i leader della sinistra, ad esempio la deputata democratica Ilhan Omar e l’ex leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn – come antisemiti.

È una strategia fondata sulla malafede che mira a punire e spaventare le persone fino a portarle a tacere sulla Palestina e ad utilizzare tutta l’energia che potrebbe essere investita nel sostegno ai diritti dei palestinesi in un dibattito difensivo su cosa sia o non sia antisemita.

Mira anche a dividere i movimenti di sinistra e a cooptare nell’azione di sostegno a Israele figure influenti che si atteggiano ancora come “progressisti”.

Tuttavia il sondaggio del Jewish Electorate Institute suggerisce che la maggior parte degli ebrei americani capisce che la più grande minaccia alla loro sicurezza non viene dai sostenitori dei diritti dei palestinesi, ma dalla destra politica bianca anti-palestinese, anti-musulmana, suprematista e razzista.

Difficile da far accettare

Può sembrare sorprendente che un numero significativo di ebrei americani ora accetti che Israele sia uno Stato genocida e di apartheid.

Ma ciò riflette tendenze più ampie nella società americana, specialmente tra i giovani, di crescente sostegno per i diritti dei palestinesi e di scetticismo nei confronti di Israele.

A parte gli ebrei ortodossi, gli ebrei americani costituiscono un collegio elettorale particolarmente aperto e progressista: nel complesso il 68% afferma che se si tenesse un’elezione oggi voterebbe per il Partito Democratico.

L’82% degli elettori ebrei intervistati si descrive come moderato, di ampie vedute o progressista. Solo il 16% si identifica come conservatore.

È davvero difficile far accettare Israele – uno Stato segregazionista e di apartheid – a un gruppo che in enorme maggioranza professa di sostenere la giustizia razziale e i valori progressisti negli Stati Uniti.

Un indicatore di questa realtà è la clamorosa svolta su Israele annunciata l’anno scorso da Peter Beinart. Influente commentatore sionista progressista, Beinart ha difeso a lungo la soluzione dei due Stati e si è opposto al BDS.

Beinart ha riconosciuto che il suo approccio era arrivato a un vicolo cieco e ha abbracciato la soluzione di un unico Stato basato sull’uguaglianza dei diritti, provocando costernazione e rabbia tra i leader della lobby pro Israele.

La questione è stata affrontata anche da Marisa Kabas in un articolo su Rolling Stone scritto a maggio nel corso dell’attacco israeliano a Gaza.

Kabas scrive come lei e molti dei suoi giovani coetanei ebrei americani siano “alle prese con la versione di Israele presentata in viaggi organizzati da enti come Birthright [ONLUS israeliana che sponsorizza viaggi gratuiti in Israele, Gerusalemme e le alture del Golan per giovani adulti di origine ebraica di età compresa tra 18 e 32, ndtr.] rispetto a ciò che hanno visto accadere nella realtà“.

Sostiene che fanno fatica a “conciliare l’amore per la loro gente e la loro storia con l’impegno per la giustizia razziale e sociale, e che le azioni di Israele in Palestina sembrano andare contro il ‘tikkun olam’ – il principio ebraico di migliorare il mondo attraverso l’azione”.

Questione con bassa priorità

E contrariamente all’impressione che si potrebbe avere seguendo le principali lobby israeliane o ascoltando i politici compiacenti, il sondaggio indica che per la maggior parte degli ebrei americani Israele ha una priorità molto scarsa.

È vero che il 62% degli intervistati afferma di essere “legato affettivamente” a Israele, mentre il 38% afferma di non esserlo. Tuttavia quest’attaccamento si indebolisce un po’ tra i più giovani o i meno religiosi.

Ma quanto sarebbero diversi questi numeri se un sondaggista interrogasse un campione che rappresentasse tutti gli americani sul loro “legame affettivocon Israele?

Per decenni, dopotutto, i leader politici statunitensi hanno dichiarato agli americani di avere un legame speciale e indissolubile con Israele, diverso che con qualsiasi altro Paese.

Influenti personalità americane di religione cristiana come il pastore John Hagee, il fondatore di Christians United for Israel [organizzazione cristiana americana che sostiene Israele, ndtr.], addirittura dicono ai loro fedeli che sostenere Israele è un dovere religioso.

In ogni caso, il legame affettivo – qualunque cosa significhi – non si traduce apparentemente in priorità politiche.

Solo il 4% degli elettori ebrei indica Israele come una delle due questioni principali su cui vorrebbe che il governo degli Stati Uniti si concentrasse, mentre il 3% elenca l’Iran, un’altra ossessione delle lobby pro Israele.

Invece, con un ampio margine di vantaggio, le principali preoccupazioni sono il cambiamento climatico, i diritti di voto e le questioni economiche. Solo tra gli ebrei ortodossi una minoranza significativa – il 18% – vede Israele come una priorità.

Per la maggior parte degli elettori ebrei, secondo il Jewish Electorate Institute, Israele è una “questione con bassa priorità“.

Non è mai successo che gli ebrei americani sostenessero in modo omogeneo Israele o la sua ideologia sionista di Stato colonialista, sebbene sia gli antisemiti che i sionisti siano stati felici di permettere che questa idea prosperasse per i propri fini.

Questo sondaggio, che si aggiunge ad altre testimonianze, aiuta a sfatare questo mito.

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [ La battaglia per la giustizia in Palestina, ndtr.] ora pubblicato da Haymarket Books.

Ha scritto anche One Country : A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Un Paese: una proposta coraggiosa per porre fine all’impasse israelo-palestinese, ndtr.]. Le opinioni sono solo mie.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Biden difende Israele mentre il Jewish National Fund israeliano progetta l’insediamento di nuove colonie

Tamara Nassar

15 febbraio 2021, Electronic Intifada

Secondo quanto riferito, il Fondo Nazionale Ebraico di Israele [ente non profit dell’Organizzazione sionista mondiale con poteri para-statali fondato nel 1901 a Basilea per comprare e acquisire terra nella Palestina ottomana ed espandere l’insediamento degli ebrei, ndtr.] sta pianificando di acquistare terra palestinese di proprietà privata nella Cisgiordania occupata per espandere le colonie di soli ebrei.

Domenica la dirigenza dell’organizzazione ha approvato la proposta, che era stata riportata dai media israeliani nei giorni precedenti. Il consiglio di amministrazione dovrebbe prendere una decisione finale dopo le elezioni politiche israeliane di marzo.

Sembra che la proposta del Fondo dia priorità all’espansione delle colonie nella Valle del Giordano, nella Gerusalemme occupata, nel blocco degli insediamenti di Gush Etzion nella Cisgiordania meridionale e nell’area delle colline a sud di Hebron. Secondo i media israeliani, il gruppo non costruirà nuove colonie ma amplierà quelle già esistenti.

L’ “ampliamento” delle colonie esistenti – spesso ben oltre i confini originali – è uno stratagemma che Israele utilizza da tempo nel tentativo di minimizzare le critiche internazionali alla sua colonizzazione della terra palestinese. Inoltre, “l’acquisto di terreni” da parte delle organizzazioni israeliane delle colonie in Cisgiordania è spesso fraudolento.

Sebbene la mossa del Fondo venga descritta nei media israeliani come un “importante cambiamento politico”, essa è del tutto coerente con la sua agenda storica.

Sin dalla sua creazione nel 1901 da parte di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista di colonizzazione della Palestina, il Fondo ha un obiettivo fondamentale: acquisire terra palestinese ad uso esclusivo degli ebrei.

Terra rubata

 L’organizzazione ha collaborato alla pulizia etnica dei palestinesi sulle loro terre al fine di costruirvi colonie per soli ebrei.

Il Fondo pretende di possedere circa il 15% della terra nell’attuale Israele.

Questa terra è riservata all’uso esclusivo degli ebrei, anche se gran parte di essa è stata rubata ai palestinesi. Il Fondo tenta spesso di dare una facciata di ambientalismo alla colonizzazione della terra palestinese. Notoriamente pianta foreste sulle rovine dei villaggi palestinesi per cancellarne la presenza.

A causa del suo ruolo nella pulizia etnica e nel razzismo, gli attivisti di tutto il mondo hanno fatto una campagna per privare il Fondo del suo status di ente di beneficenza, che gli permette di raccogliere donazioni deducibili dalle tasse. Il giornalista israeliano Barak Ravid ha riferito che l’ultima mossa del Fondo è stata sollecitata dalla lobby degli insediamenti israeliani.

I leader dei coloni mirano a più che raddoppiare il numero di coloni ebrei da circa 400.000 a un milione nell’Area C, il 60% della Cisgiordania occupata che rimane sotto il completo dominio militare israeliano. Il Fondo da sempre opera per colonizzare la terra di tutta la Palestina storica – sia nella parte risultante dalla fondazione di Israele nel 1948 che nei territori che occupa dal 1967 – tanto direttamente che attraverso gruppi di facciata.

In risposta all’articolo del quotidiano israeliano Haaretz, il Fondo ha detto di “aver operato nel corso degli anni e di continuare a farlo in modo trasparente, in tutte le parti della Terra di Israele, comprese la Giudea e la Samaria”. Giudea e Samaria è il nome che Israele usa per la Cisgiordania occupata, per addurre una rivendicazione pseudo-biblica sulla terra palestinese. Tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, comprese Gerusalemme Est e le alture del Golan in Siria, sono illegali secondo il diritto internazionale e sono considerate crimini di guerra.

In risposta ai piani del Fondo, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che l’amministrazione statunitense ritiene “sia fondamentale astenersi da passi unilaterali che esacerbino le tensioni e che minino gli sforzi per far avanzare una soluzione negoziata a due Stati”.

L’amministrazione Biden sostiene la politica di Trump

Sebbene possa sembrare una critica rispetto all’amministrazione Trump, questa dichiarazione non rappresenta un cambiamento sostanziale. Pressato dai giornalisti, Price si è apertamente rifiutato di definire illegali le colonie israeliane – come avevano fatto tradizionalmente per decenni le amministrazioni statunitensi anche se non hanno mai intrapreso alcuna azione per fermarle.

 Invece, Price ha sostenuto il cambiamento di politica dell’amministrazione Trump del novembre 2019 dichiarando che le colonie non violano il diritto internazionale. L’amministrazione Biden sembra non meno determinata di Trump a proteggere Israele dalle conseguenze delle sue azioni. Dopo che all’inizio di questo mese la sentenza della Corte Penale Internazionale ha aperto la strada a un’indagine sui crimini di guerra israeliani in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, compresa la costruzione di colonie, l’amministrazione Biden ha espresso senza mezzi termini la sua opposizione all’indagine.

Nel frattempo Israele ha continuato a demolire case e strutture palestinesi a ritmo accelerato. Negli ultimi mesi, le forze israeliane hanno più volte sequestrato e distrutto strutture della comunità di Khirbet Humsa nella Cisgiordania occupata. Secondo la documentazione delle Nazioni Unite nel mese di febbraio Israele ha demolito e sequestrato più di 60 strutture della comunità e ha sfollato con la forza 175 persone – più di metà delle quali bambini. Tutto questo fa parte dell’impegno di lunga data di Israele a cambiare con la forza la composizione demografica nell’area – pulizia etnica – e garantire una maggioranza ebraica in preparazione dell’annessione.

 

Ali Abunimah ha contribuito alle ricerche.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Una Palestina post-Trump

Ahmed Abu Artema

Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace.

17 gennaio 2021 – Al Jazeera

I palestinesi dovrebbero smettere di sperare in un cambio di politica a Washington e andare avanti con la loro lotta per la libertà.

Per decenni i palestinesi hanno sofferto sotto l’occupazione coloniale israeliana sostenuta e consentita dall’appoggio politico, finanziario e militare degli USA. Ciò ha permesso ad Israele di espandere progressivamente la sua occupazione e colonizzazione della Palestina, al punto che oggi solo circa il 5% della terra della Palestina storica è realmente controllato dai palestinesi.

Questo processo è proseguito per anni, pressoché indisturbato da un controllo internazionale, con la copertura del “processo di pace” di Washington e della sua autoproclamata posizione di mediatore tra le parti palestinese ed israeliana.

Tuttavia quando Donald Trump è diventato presidente USA nel 2017 ha interrotto questo processo di graduale colonizzazione accuratamente costruito. Ha adottato il programma israeliano più razzista ed estremista e ha cancellato la pratica consolidata di onorare formalmente i diritti dei palestinesi.

Al governo di destra israeliano è stato dato il via libera per fare ciò che voleva, mentre il presidente americano ha continuato a legittimare le sue azioni illegali e criminali. Questo ha di fatto accelerato la prassi di creare “fatti sul terreno” – cioè l’usurpazione della terra palestinese e la sovversione di ogni autorità politica palestinese, al punto che è diventato impossibile soddisfare le richieste dei palestinesi ed i loro diritti sono diventati irrilevanti.

Quindi che cosa significa per i palestinesi l’eredità di Trump?

Quattro anni di Trump

Anche se il Congresso USA nel 1995 approvò un disegno di legge che riconosceva Gerusalemme come capitale di Israele, le successive amministrazioni USA ne hanno rinviato l’applicazione a causa della mancanza di un accordo tra l’Autorità Nazionale Palestinese ed Israele sullo status della città santa.

Il 6 dicembre 2017 Trump ha trasformato in realtà ciò che era già sulla carta, emanando un ordine esecutivo di trasferimento dell’ambasciata USA in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Ciò è avvenuto il 14 maggio dell’anno seguente, che coincideva con il 70^ anniversario della Nakba e che Israele ha segnato con il massacro di decine di palestinesi a Gaza.

Qualche mese dopo Trump ha annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA). Questa non è stata solo una catastrofe per milioni di palestinesi che dipendono dall’agenzia per il cibo, l’istruzione e la sanità, ma è stato un tentativo di cancellare lo status di rifugiati dei palestinesi e, di conseguenza, il loro diritto al ritorno. Cercando di distruggere l’UNRWA, Trump stava eseguendo gli ordini del governo israeliano che per decenni ha fatto il possibile per impedire ai palestinesi colpiti dalla pulizia etnica di ritornare e rivendicare la propria terra.

Il diritto al ritorno è stato ulteriormente compromesso anche dall’ “accordo del secolo” proposto da Trump e da suo genero Jared Kushner. Mutuando il linguaggio delle precedenti “iniziative di pace” USA, la proposta prometteva “pace” e “prosperità” per i palestinesi, ma respingeva la maggior parte delle loro richieste, compresa l’autodeterminazione attraverso uno Stato palestinese sovrano. Intanto il 18 novembre 2019 il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha annunciato che il governo USA non considerava la costruzione delle colonie israeliane in Cisgiordania una violazione del diritto internazionale.

Nei suoi ultimi mesi da presidente, Trump non ha mancato di fare un altro generoso regalo ad Israele: la normalizzazione con gli Stati arabi. È stato un altro duro colpo per la causa palestinese.

In seguito alla seconda Intifada la Lega Araba – su iniziativa del defunto re saudita Abdullah – si era impegnata a normalizzare le relazioni con Israele solo in cambio della creazione di uno Stato palestinese sui confini del 1967, del ritorno dei rifugiati e del ritiro di Israele dalle Alture del Golan.

In agosto [2020] gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno firmato accordi di normalizzazione con Israele, sotto l’egida dell’amministrazione Trump, senza pretendere alcuna concessione sulla questione palestinese del ritorno: il Marocco e il Sudan poco dopo hanno fatto altrettanto. E’stata una palese rottura con l’accordo arabo su “terra in cambio di pace”.

Così, alla fine della presidenza Trump, i palestinesi appaiono spogliati di tutto ciò di cui potevano esserlo.

Una Palestina post-Trump

La vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali USA di novembre sembra aver portato un certo ottimismo in alcuni ambienti palestinesi rispetto al fatto che gli USA modificheranno la propria politica verso i palestinesi. Non dimentichiamo che la politica di Trump non è mai stata in contraddizione con la tradizionale posizione di Washington sulla Palestina, che mostrava pieno e incondizionato appoggio allo Stato di Israele.

Aspettarsi che Biden cambierà qualcosa o rimedierà ai danni del suo predecessore è una follia. Di fatto lui e la sua squadra hanno ampiamente chiarito che non ribalteranno le decisioni di Trump, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. La sua amministrazione non appoggerà la lotta dei palestinesi per la giustizia; non si adopererà per la loro liberazione, per la fine dell’occupazione israeliana, per lo smantellamento del regime di apartheid israeliano o per il ritorno dei rifugiati palestinesi nella loro patria.

La lezione che i palestinesi dovrebbero imparare dai quattro lunghi anni della presidenza Trump non deve poggiare sul fatto che un’amministrazione USA possa mai sostenere i loro interessi e diritti o diventare un arbitro obiettivo. L’élite politica americana è fautrice dell’occupazione e della colonizzazione israeliana della Palestina, tale è sempre stata e tale rimarrà in futuro. E, proprio come Trump, continuerà a concedere a Israele tutto quel che vuole, che sia la legittimazione dei suoi illegali furti di terra o un’illimitata fornitura di sofisticati armamenti da usare contro i palestinesi.

Appoggiato in pieno dagli USA, Israele continua a creare “fatti sul terreno”, a stabilire un dominio assoluto su tutta la Palestina storica e a rendere impossibile uno Stato palestinese. Ma c’è una cosa che Israele non è assolutamente in grado di fare, nonostante la sua potenza militare, le sue risorse finanziarie e l’illimitato sostegno da parte di una superpotenza: non può cancellare i palestinesi.

Sei milioni di palestinesi – privati della loro libertà e della loro patria – continuano a vivere nella Palestina storica. Milioni di altri palestinesi vivono nei vicini Paesi arabi e nella diaspora. La loro identità, la loro mera esistenza erodono giorno dopo giorno l’inganno che Israele ha usato per mascherare il proprio apartheid e presentarsi al mondo come un “modello di democrazia”. Più importante ancora, la vita e lo spirito dei palestinesi minano attivamente l’occupazione e l’apartheid israeliani.

I palestinesi subiscono terribili deprivazioni e soprusi da parte degli israeliani, ma sono tenaci. La loro stessa esistenza è diventata resistenza. E il tempo non è dalla parte del loro aguzzino. In questo momento Israele può sembrare un colonizzatore vittorioso, avendo eliminato quasi tutti gli ostacoli all’annessione della Cisgiordania. Ma la lotta palestinese sta facendo progressi. In un futuro non troppo lontano la giustizia prevarrà e i palestinesi otterranno la loro libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista palestinese e un attivista per la pace. È autore del libro “Caos organizzato” e di numerosi articoli ed è uno dei promotori della Grande Marcia del Ritorno. È un rifugiato del villaggio di Al Ramla in Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele deve essere sanzionato per aver rifiutato ai palestinesi le vaccinazioni contro il Covid-19.

David Hearst

14 gennaio 2021 – Middle East Eye

La politica di Israele sul vaccino contro il coronavirus lo pone in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e dovrebbe portare a sanzioni

Israele da tempo ha abbandonato l’argomentazione, tanto spesso sentita durante la costruzione del muro, secondo cui la sua espansione in Cisgiordania oltre i suoi confini del 1967 sia un atto di autodifesa.

L’annessione da parte di Israele, culminata lo scorso anno nella dichiarazione del progetto di annettere fino al 60% della Cisgiordania, oggi è inquadrata come l’adempimento di una profezia biblica, secondo cui gli ebrei espulsi dalla terra di Israele sono destinati a ritornarvi. Questo fondamentalismo si propaga in una miriade di modi ben oltre la comunità dei coloni e la destra nazional-religiosa.

Annessione e sovranità

Dalla frase “L’anno prossimo a Gerusalemme” cantata alla fine del Seder pasquale [festa rituale che segna l’inizio delle festività della Pasqua ebraica, ndtr.] ai tentativi di stabilire l’identità delle antiche pietre intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme attraverso l’archeologia, all’uso delle parole bibliche Giudea e Samaria per definire la Cisgiordania, il piano per costruire uno Stato i cui confini riconosciuti si estendano un giorno dal fiume al mare [dal Giordano al Mediterraneo orientale, ndtr.] è più che mai condiviso.

Secondo questa logica, il territorio che la comunità internazionale riconosce come occupato dovrebbe invece essere definito conteso. Solo una piccola parte dei profughi palestinesi espulsi da questa terra verrebbe riconosciuta come tale.

L’annessione non è altro che un’estensione della sovranità.

Le parole politicamente marginali nel corso di un decennio sono diventate opinione corrente nel successivo. I sionisti progressisti [lala di centro-sinistra del movimento sionista, ndtr.] hanno reagito con orrore alla nomina di Tzipi Hotovely [del partito nazionalista e di destra Likud, sotto la guida di Netanyahu, ndtr.] come attuale ambasciatrice di Israele nel Regno Unito. L’ex ministra delle colonie ha detto, tra le altre cose: “Questa terra è nostra. È tutta nostra. Non siamo venuti qui per scusarci”. Ma Hotovely dall’estrema destra sta solo dicendo ad alta voce ciò che molti, sia laici che religiosi, ora credono sia un dato di fatto.

A sinistra non c’è una figura, dal defunto Amos Oz in poi, che sfidi la Legge del Ritorno [emanata in Israele nel 1970, stabilisce che qualsivoglia persona nel mondo può stabilirsi in Israele e acquisire così la cittadinanza israeliana se è in grado di dimostrare di essere ebrea, ndtr.], la quale alimenta questa spinta verso est, o che la veda come qualcosa di diverso da un atto di rinascita ebraica. Nessuna forma di binazionalismo liberale potrebbe funzionare, ha detto Oz, “tranne che in sei luoghi: Svizzera, Svizzera, Svizzera, Svizzera, Svizzera e … Svizzera”.

Ma le convinzioni fondamentaliste sul destino di Israele non sono applicate universalmente come a prima vista sembrerebbe.

La politica sul Covid-19

Ci sono momenti in cui ai ministri israeliani conviene rinunciare a qualsiasi discorso sull’estensione della sovranità sui palestinesi. Fanno anzi il contrario rimuovendola. Questo è uno di quei momenti.

Il ministero della Salute israeliano non sembra avere alcun piano né alcuna responsabilità per la vaccinazione dei palestinesi che sono sotto occupazione o nelle loro prigioni. Il Covid distingue nei fatti tra palestinesi e israeliani. Al 9 gennaio, ha riferito l’OLP [Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndtr.], c’erano 165.000 casi attivi in ​​Palestina e Gerusalemme Est e 1.735 morti.

Mustafa Barghouti, un medico che fa parte del comitato sanitario palestinese sul Covid-19 ed ex ministro, ha scritto: “Ogni giorno vengono registrati più di 1.800 nuovi casi. Il tasso di contagio tra coloro che vengono sottoposti al test è nelle due aree [Palestina e Gerusalemme Est, ndtr.] del 30%, rispetto al 7,4% in Israele “.

Essendo diventato il primo Paese al mondo a vaccinare con la prima delle due dosi di somministrazione il 20% della sua popolazione, una percentuale dieci volte superiore a quella del Regno Unito e degli Stati Uniti, Israele si sta affermando come leader mondiale. Ma questa fretta si ferma davanti al muro, quando si tratta dei palestinesi sotto il suo controllo.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha affermato che il ministero della Salute israeliano ha respinto una richiesta avanzata, in occasione di “contatti informali”, di vaccinare gli operatori sanitari palestinesi in prima linea. “Il ministero della Salute israeliano ha affermato che avrebbe esaminato questa opzione, ma che al momento non era in grado di fornire vaccini a causa della loro carenza in Israele”, ha detto Gerald Rockenschaub, funzionario dell’OMS, nelle vesti di inviato dell’organismo internazionale per i palestinesi.

Anche il ministro della Pubblica Sicurezza israeliano ha inizialmente deciso di non vaccinare i prigionieri palestinesi che sono detenuti in condizioni di affollamento con scarsa o nessuna protezione contro il virus. Ci sono 4.400 palestinesi nelle prigioni israeliane, tenuti in celle sovraffollate, con scarsa igiene, umidità e mancanza di aria fresca.

Condizioni in cui è impossibile praticare il distanziamento sociale, lavarsi le mani, indossare indumenti protettivi o disinfettare le celle. “Questo ha reso i prigionieri palestinesi estremamente vulnerabili. Dallo scoppio della pandemia 189 prigionieri sono risultati positivi. I prigionieri infettati dal virus hanno segnalato cure pessime, isolamento, un antidolorifico e un limone”, afferma il rapporto dell’OLP.

Giovedì, sotto la pressione del presidente israeliano Reuvin Rivlin, il ministro della Salute Yuli Edelstein ha ceduto, riferendo a NPR [National Public Radio è un’organizzazione indipendente no-profit comprendente oltre 900 stazioni radio statunitensi, ndtr.] che i prigionieri palestinesi avrebbero ricevuto il vaccino la prossima settimana. Rivlin gli ha detto che privare i prigionieri del vaccino violerebbe i valori democratici.

‘I nostri vicini’

Tuttavia questa stessa responsabilità da parte dello Stato di Israele non sembra valere per i palestinesi [che vivono] nelle aree sotto la sua occupazione. Edelstein li chiama, invece, “vicini” che dovrebbero in realtà imparare a prendersi cura di se stessi.

Edelstein ha dichiarato lunedì a Sky News: “Penso che abbiamo aiutato i nostri vicini palestinesi sin dalle prime fasi di questa crisi, comprese le attrezzature sanitarie, comprese le medicine, compresi i consigli, comprese le forniture”.

“Non credo che ci sia nessuno in questo Paese, qualunque sia la sua opinione, che possa immaginare che io, con tutta la buona volontà, sottragga ad un cittadino israeliano un vaccino per consegnarlo ai nostri vicini”.

L’uso della parola “vicino” per descrivere i palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme è un’assurdità legale. Per stabilirlo, mi sono rivolto a Sir Geoffrey Bindman, avvocato della Corona [titolo giuridico onorifico britannico, ndtr.], uno degli esperti giuristi britannici in materia di diritti umani. Bindman ha esaminato le implicazioni legali internazionali della responsabilità di Israele di fornire il vaccino per il Covid-19 ai palestinesi sotto sua occupazione.

Egli ha sostenuto che sarebbero obbligati a farlo ai sensi dell’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, che stabilisce che Israele, in quanto potenza occupante, deve garantire “l’adozione e l’applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”.

Egli ha dichiarato a MEE: “Israele ha degli obblighi su due livelli: l’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra impone obblighi al governo israeliano in quanto potenza occupante. L’etica medica richiede a tutti i membri della sua comunità professionale di non discriminare tra coloro che devono curare e di occuparsi di tutti i pazienti al meglio delle loro capacità“.

Bindman ha contestato la definizione dei palestinesi sotto la sua responsabilità come “vicini” da parte del ministro della Sanità israeliano.

“Non sono vicini di casa. Sono persone sotto occupazione e questo significa che Israele ha l’obbligo, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, di assicurarsi che siano adeguatamente curati. Israele ha violato la Convenzione di Ginevra in tutti i modi”.

Compromessa

L’Autorità Nazionale Palestinese, come sempre, è compromessa, divisa tra il suo desiderio di evidenziare le responsabilità di Israele e il suo evidente fallimento nel portare avanti le proprie. Le scadenze per l’arrivo del vaccino sono arrivate e passate, ma tale vaccino deve ancora materializzarsi. La ministra della Salute palestinese, Mai al-Kaila, ha annunciato che il suo ministero ha approvato il vaccino russo Sputnik V per l’uso d’emergenza in Palestina e che “non appena arriverà” sarà distribuito agli operatori sanitari, ai malati e agli anziani.

E il MOH [ministero della Salute palestinese] ha già ricevuto una lettera formale da AstraZeneca secondo cui i vaccini arriveranno “tra la metà e la fine” di febbraio. Dichiarazioni vaghe, ma ancora nessun piano per un programma di vaccinazione di massa. Il MOH afferma che sta lavorando con l’OMS e le società private per garantire il maggior numero di vaccini possibile, ma il divario tra parole e azioni non è mai stato così evidente.

Con l’indifferenza della comunità internazionale, ciò è destinato a persistere. I membri palestinesi della Knesset hanno fatto appello a Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite, riguardo la responsabilità di Israele di distribuire vaccini nell’area che l’ONU designa come Territori Palestinesi Occupati (TPO).

“Nello specifico il governo israeliano dovrebbe rendere noto il numero di dosi riservate ai palestinesi nei territori occupati, fornire una tempistica specifica per il loro trasferimento, garantire che i vaccini assegnati alle popolazioni palestinesi siano della stessa qualità di quelli distribuiti ai cittadini israeliani, facilitare l’ingresso nei TPO di vaccini e dispositivi medici e revocare il blocco della Striscia di Gaza per garantire che il sistema sanitario palestinese possa funzionare correttamente”, ha scritto a Lynk il dottor Yousef Jabareen, a capo del comitato per le relazioni internazionali della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

La comunità internazionale non solo ha accettato che Israele rimanga impunito rispetto al diritto internazionale, ma ne è diventata complice. La terza agenzia per la fornitura di aiuti sanitari ai palestinesi è l’UNWRA, i cui finanziamenti si sono prosciugati per opera del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ma anche dei suoi alleati arabi.

Gli aiuti degli Emirati Arabi Uniti all’UNWRA – $ 52 milioni [43 milioni di euro, ndtr.] nel 2018, sono stati ridotti a $ 1 milione [830.000 euro, ndtr.] nel 2020. Anche l‘Arabia Saudita ha tagliato, tra il 2018 e il 2020, i suoi finanziamenti di $ 20 milioni [17 milioni di euro, ndtr.].

Bindman lamenta la mancata applicazione del diritto internazionale e suggerisce che la risposta giusta della comunità internazionale sarebbe costituita dalle sanzioni da parte dei Paesi membri delle Nazioni Unite. “L’applicazione del diritto internazionale è estremamente debole perché dipende dalla volontà delle Nazioni che lo stanno violando di correggere i propri errori”.

Alla domanda se la saga del Covid sarebbe motivo valido per delle sanzioni contro Israele, Bindman ha risposto: “Assolutamente sì”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è il redattore capo di Middle East Eye. Ha lavorato per The Guardian [quotidiano britannico indipendente, nato a Manchester nel 1821, con sede a Londra, ndtr.] come capo redattore agli esteri. Nel corso di una carriera durata 29 anni, ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato da parte dell’IRA, Esercito Repubblicano Irlandese, nei confronti del primo ministro Margareth Thatcher avvenuto il 12 ottobre 1984 al Grand Brighton Hotel di Brighton, in Inghilterra, in cui la Thatcher rimase illesa ma morirono 5 esponenti del suo partito, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sulle reazioni lealiste in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del Nord, sui primi conflitti dopo la scissione dall’ex Jugoslavia di Slovenia e Croazia, sulla fine dell’Unione Sovietica, sui fatti della Cecenia con lo scoppio dei relativi focolai di guerra. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per Guardian Europe, quindi è passato nel 1992 alla sede editoriale di Mosca, prima di diventare capo redattore nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nella redazione esteri, è diventato editorialista europeo e poi editorialista associato per il settore esteri. È entrato a far parte di The Guardian da The Scotsman [giornale scozzese con sede ad Edimburgo, ndtr.], dove ha lavorato come corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’albero dei soldi americani: la storia mai raccontata degli aiuti statunitensi ad Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2021 – Counterpunch

Il 21 dicembre scorso il Congresso USA ha approvato il Pacchetto di Aiuti per il Covid 19, come parte di una misura più ampia del valore di $2.3 trilioni [1.870 miliardi di euro, ndtr.] che coprirà la spesa per il resto dell’anno finanziario. Come al solito i rappresentanti USA hanno destinato una massiccia somma di denaro ad Israele.

Proprio mentre disoccupazione e povertà stanno raggiungendo livelli record in seguito ai ripetuti lockdown, gli USA ritengono essenziale fornire ad Israele $3.3 miliardi [2,69 miliardi di euro, ndtr.] in “assistenza alla sicurezza” e $500 milioni [407 milioni di euro, ndtr.] per la cooperazione USA-israeliana nella difesa missilistica.

Mentre un misero aiuto di 600 dollari [490 euro, ndtr.] alle famiglie americane in difficoltà è stato per mesi al centro di intensi dibattiti, non si è discusso molto fra i politici americani sui grandi fondi elargiti ad Israele, che non hanno alcun ritorno.

Il sostegno ad Israele è considerato una priorità bipartisan e da decenni viene visto come l’elemento più stabile dell’agenda della politica estera USA. Sollevare semplicemente la questione di come Israele utilizzi quei fondi – se gli aiuti militari siano usati attivamente per sostenere l’occupazione illegale della Palestina, per finanziare le colonie ebraiche e l’annessione di terre palestinesi o per violare i diritti umani dei palestinesi – è assolutamente tabù.

Uno dei pochi membri del Congresso a chiedere che gli aiuti ad Israele siano condizionati al rispetto dei diritti umani è il senatore Democratico del Vermont Bernie Sanders, che è stato anche uno dei principali candidati presidenziali del Partito Democratico. “Non possiamo dare carta bianca al governo israeliano…Abbiamo il diritto di esigere il rispetto dei diritti umani e della democrazia”, aveva detto Sanders nell’ottobre 2019.

Il suo rivale Democratico, l’attuale Presidente eletto Joe Biden, ha subito replicato: “L’idea che io ritiri, come è stato suggerito da altri, gli aiuti militari ad Israele, è bizzarro”.

Non è certo un segreto che Israele sia il maggiore beneficiario al mondo degli aiuti USA dai tempi della II Guerra mondiale. Secondo dati del Servizio Ricerca del Congresso, Israele ha ricevuto ben 146 miliardi di dollari [119 miliardi di euro, ndtr.] dei contribuenti americani a partire dal novembre 2020.

Gran parte dei fondi ricevuti dagli USA fra il 1971 e il 2007 si sono rivelati fondamentali perché Israele si desse una solida base economica. Da allora in avanti gran parte del denaro è stato destinato ad attività militari, compresa la sicurezza delle colonie illegali israeliane.

Nonostante la crisi finanziaria USA del 2008, i soldi americani hanno continuato a fluire verso Israele, la cui economia è passata quasi indenne attraverso la recessione globale.

Nel 2016 gli USA hanno promesso addirittura di aumentare il flusso. L’amministrazione Democratica di Barack Obama, che viene spesso – seppure a torto – considerata ostile nei confronti di Israele, aveva aumentato significativamente i fondi USA ad Israele. Nel Memorandum di Intesa decennale, infatti, Washington e Tel Aviv hanno concluso un accordo che garantisce ad Israele $38 miliardi [31 miliardi di euro, ndtr.] in aiuti militari USA per gli esercizi finanziari 2019-2028. Questo rappresenta l’esorbitante cifra di $8 miliardi [6,50 miliardi di euro, ndtr.] in più rispetto al precedente accordo decennale che scadeva alla fine del 2018.

I nuovi fondi statunitensi sono divisi in due categorie: $ 33 miliardi [27 miliardi di euro, ndtr.] in contributi militari ed altri $ 5 miliardi [4 miliardi di euro, ndtr.] in difesa missilistica.

La generosità USA viene tradizionalmente attribuita all’incommensurabile influenza dei gruppi pro-israeliani, AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) in testa, ma negli ultimi quattro anni questi gruppi non hanno dovuto sforzarsi più di tanto, perché sono stati pezzi potenti all’interno dell’Amministrazione stessa ad agire come sostenitori di primo piano di Israele.

Oltre agli infiniti “omaggi politici” che l’Amministrazione Trump ha elargito negli ultimi anni ad Israele, ora essa sta pure prendendo in considerazione la possibilità di accelerare la procedura di assegnazione dei fondi rimanenti secondo l’ultimo Memorandum di Intesa, che attualmente ammontano a $26,4 miliardi [21,5 miliardi di euro, ndtr.]. Secondo documenti ufficiali del Congresso, gli USA “potrebbero anche approvare ulteriori vendite di F-35 e velocizzare la consegna degli KC-46A, aerei militari per il rifornimento in volo e trasporto strategico, ad Israele.

Questi non sono che una parte dei fondi e benefici ricevuti da Israele. Gran parte di essi passano inosservati, in quanto fluiscono attraverso canali indiretti oppure vengono propagandati sotto il termine flessibile di “cooperazione”.

Per esempio, fra il 1973 e il 1991 la imponente cifra di $460 milioni [375 milioni di euro, ndtr.] di fondi USA è andata a finanziare l’emigrazione ebraica verso Israele. Molti di questi nuovi immigranti sono gli stessi militanti israeliani che occupano attualmente le colonie illegali in Cisgiordania. In questo caso particolare il denaro va all’organizzazione benefica United Israel Appeal, che a sua volta lo passa all’Agenzia Ebraica, la stessa Agenzia che nel 1948 ha avuto un ruolo centrale nella fondazione di Israele sulle rovine delle città e villaggi palestinesi.

Decine di milioni di dollari mascherati da donazioni benefiche vengono regolarmente inviati in Israele sotto forma di “elargizioni deducibili dalle tasse per le colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme Est,” ha scritto il New York Times. Gran parte dei soldi, propagandati come donazioni per finalità educative e religiose, spesso finiscono col finanziare e comprare abitazioni per i coloni illegali, “oltre a cani da guardia, giubbotti antiproiettile, cannocchiali da puntamento e veicoli per proteggere avamposti (ebraici illegali) all’interno delle zone occupate (palestinesi).”

Molto spesso il denaro USA finisce nei forzieri statali israeliani con pretesti ingannevoli. Per esempio l’ultimo Pacchetto di Incentivi comprende $50 milioni [41 milioni di euro, ndtr.] di fondi destinati al Nita M. Lowey Middle East Partnership for Peace Funds, che in teoria fornisce investimenti in “scambi interpersonali e cooperazione economica…fra israeliani e palestinesi al fine di sostenere la soluzione negoziata e sostenibile dei due Stati.”

Questi soldi invece non sono funzionali ad alcuno scopo particolare, dal momento che Washington e Tel Aviv sono impegnati per garantire il fallimento di un accordo di pace negoziato e lavorano fianco a fianco per uccidere la ormai defunta soluzione dei due Stati.

La lista potrebbe continuare all’infinito, anche se gran parte dei soldi non sono inclusi nei pacchetti di aiuti ufficiali da USA ad Israele. Proprio per questo essi raramente vengono esaminati e tanto meno sono sottoposti a copertura mediatica.

E’ dal febbraio 2019 che gli USA hanno ritirato ogni finanziamento all’Autorità Palestinese in Cisgiordania, inoltre hanno tagliato gli aiuti all’Agenzia ONU per i Profughi palestinesi (UNRWA), l’ultima salvaguardia rimasta per assicurare istruzione di base e assistenza sanitaria a milioni di profughi palestinesi.

A giudicare dalla sua tradizione di continuo sostegno nei confronti della macchina militare israeliana e della incessante espansione coloniale in Cisgiordania, Washington insiste nel ricoprire il ruolo di principale benefattore – se non partner diretto – di Israele mentre respinge del tutto i palestinesi.

Aspettarsi che gli USA giochino un ruolo costruttivo nel conseguimento di una pace giusta in Palestina non riflette solo un’insostenibile ingenuità, ma pure caparbia ignoranza.

Ramzy Baroud è giornalista e curatore di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri, l’ultimo dei quali è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons(Clarity Press, Atlanta). Il dott. Baroud è ricercatore presso il Centro per gli Affari Islamici e Globali (CIGA) della Istanbul Zaim University (IZU). Il suo website è www.ramzybaroud.net

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )