Thomas Friedman si sbaglia di nuovo – questa volta sull’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele

James North

14 agosto 2020 – MondoWeiss

Thomas Friedman [commentatore e autore politico americano, tre volte vincitore del Premio Pulitzer ed editorialista settimanale del New York Times, ndtr.] sbaglia sempre sul Medio Oriente, e ha di nuovo sbagliato. Il suo articolo sul New York Times di sabato, “Un terremoto geopolitico ha appena colpito il Medio Oriente”, interpreta male l’accordo Israele-Emirati Arabi Uniti – e mostra ancora una volta come Friedman abbia avuto paura di prendere posizione sulla prevista annessione da parte di Israele del 30 % della Cisgiordania palestinese.

Friedman l’ha presa al contrario. L’accordo, che si limita a ratificare la cooperazione già esistente tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele, non è un “terremoto” – ma, almeno per ora, ha ridotto le occasioni di disordini in Palestina ed evitato un’enorme crisi del sostegno statunitense a Israele, in particolare all’interno della comunità ebraica. Lo stesso Friedman riconosce che:Se Israele avesse annesso parte della Cisgiordania, avrebbe diviso ogni sinagoga e comunità ebraica in America in annessionisti intransigenti contro anti-annessionisti progressisti.

Oggi riconosce che l’annessione costituirebbe “un disastro incombente” per “la comunità ebraica americana”.

Fermiamoci un attimo e consideriamo il patetico primato di Friedman nelle ultime settimane. È il giornalista di affari esteri più influente al mondo, venerato specialmente in molte delle case ebraiche statunitensi. Si è fatto un nome coprendo dal 1980 il Medio Oriente. Ma non ha pubblicato una sola parola contro l’annessione di Israele fino a ieri, quando gli Emirati Arabi Uniti e Donald Trump lo hanno spiazzato. Friedman è un codardo intellettuale. Si è comportato esattamente come l’organizzazione di punta della lobby israeliana americana, l’AIPAC, che allo stesso modo non ha dichiarato alcun allarme per l’annessione, ma è subito intervenuta nel sostenere l’accordo Emirati Arabi Uniti-Israele.

Larticolo di Friedman include ulteriori prove della sua negligenza giornalistica. Dopo aver sottolineato che la proposta di annessione è “un piano molto pro-Israele” – punto di vista su cui aveva sinora mantenuto il silenzio – ha aggiunto: “(Mi chiedo se l’ambasciatore di Trump in Israele, David Friedman, un estremista pro-colonie, abbia incoraggiato Bibi [Netanyahu] a pensare che avrebbe potuto farla franca.)”

Friedman “si chiede”? Il punto centrale dell’essere un giornalista influente è poter raggiungere al telefono chiunque si voglia. Ieri non ha avuto problemi ad ottenere immediatamente una risposta di prima mano da Itamar Rabinovich, ex ambasciatore israeliano, e da Ari Shavit, lo scrittore.

Non ha Friedman sicuramente qualche fonte in Israele che avrebbe potuto fornire dettagli eloquenti sull’ “estremismo pro-colonie” dell’ambasciatore statunitense Friedman? Il quotidiano israeliano Haaretz copre Friedman continuamente.

Thomas Friedman ha commesso in passato errori peggiori sul Medio Oriente. Ha appoggiato con entusiasmo l’invasione dell’Iraq del 2003 e, a differenza di molti appassionati sostenitori dellepoca non ha mai ammesso di essersi sbagliato o detto di essere dispiaciuto. “Lo rifarei”, ha detto. Ha parlato enfaticamente del sovrano de facto dell’Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed, e ha fatto un po’ marcia indietro solo dopo che il principe ereditario ha ordinato il terribile omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi.

Ma ci sono segnali incoraggianti del fatto che l’influenza di Friedman stia progressivamente diminuendo. I commenti dei lettori all’editoriale di oggi, ad esempio, sono fortemente critici. La migliore risposta a Friedman da un lettore, “Russell in Oakland”, andava direttamente al punto: Insomma Israele ha annunciato il suo piano per commettere un crimine, l’annessione dei territori della Cisgiordania, e poi accetta di firmare la “pace” con un paese con cui, per quanto ne so, non era in guerra in cambio di non commettere quel crimine. Per ora.

La tragedia è che Friedman continua ad occupare spazi giornalistici che potrebbero essere occupati da qualcuno intelligente che non ha paura di scrivere quello che pensa.

(traduzione dall’ inglese di Luciana Galliano)




“Una pugnalata alle spalle”: i palestinesi denunciano l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati e Israele

MEE e agenzie

venerdì 14 agosto 2020 – Middle East Eye

I palestinesi e i loro sostenitori hanno condannato duramente l’accordo concluso da Abu Dhabi con Israele, che ha peraltro annunciato per bocca del suo primo ministro Benjamin Netanyahu che l’annullamento del progetto di annessione che si pensava fosse previsto nel patto non è garantito

Questo giovedì in un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) con il sostegno degli Stati Uniti, definendolo un “tradimento di Gerusalemme, di Al-Aqsa e della causa palestinese” ed esigendone il ritiro.

Questo accordo, che dovrà essere firmato tra tre settimane a Washington, farebbe di Abu Dhabi la terza capitale araba a seguire questa via dalla creazione di Israele.

La direzione (palestinese) afferma che né gli EAU né nessun’altra controparte hanno il diritto di parlare in nome del popolo palestinese, né consente a chicchessia di intervenire negli affari palestinesi riguardanti i loro legittimi diritti sulla loro patria.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha richiamato il suo ambasciatore ad Abu Dhabi e chiesto una “riunione d’urgenza” della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI) per denunciare il progetto.

La normalizzazione delle relazioni tra Israele e le potenze del Golfo come Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati è uno degli aspetti del piano dell’amministrazione Trump per il Medio Oriente, accolto dagli israeliani ma duramente criticato dai palestinesi.

Questo piano prevede anche l’annessione da parte di Israele della Valle del Giordano e di centinaia di colonie ebraiche in Cisgiordania, giudicate illegali dal diritto internazionale. Giovedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto di aver “rinviato” questo progetto, senza tuttavia “avervi rinunciato”.

La dirigenza palestinese “rifiuta questo scambio tra la sospensione dell’annessione illegale e la normalizzazione con gli EAU che avviene a spese dei palestinesi,” continua il comunicato, che definisce l’accordo tra Israele e gli Emirati “un’aggressione contro i palestinesi.”

Hanan Ashrawi, una dei maggiori esponenti dell’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania, ha dichiarato che in questo modo Israele è stato ricompensato per le sue azioni illegali dal 1967 nei territori palestinesi.

Gli EAU hanno rivelato alla luce del sole i loro rapporti segreti e la normalizzazione con Israele. Vi preghiamo, non fateci dei favori. Non siamo la foglia di fico di nessuno!” ha twittato.

Possiate voi non provare mai la sofferenza di vedersi rubare il proprio paese; possiate voi non provare mai il dolore di vivere prigionieri sotto occupazione; possiate voi non assistere mai alla demolizione della vostra casa o all’uccisione dei vostri cari. Possiate voi non essere mai venduti dai vostri ‘amici’,” ha aggiunto.

Awni Almashni, un responsabile del movimento Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas, e attivista della città di Betlemme, in Cisgiordania, ha dichiarato a Middle East Eye che la pace nella regione non potrà essere ottenuta che risolvendo i problemi che i palestinesi devono affrontare.

Gli accordi che Israele cerca di concludere con i Paesi musulmani ed arabi sono un mezzo per eludere ed evitare la questione palestinese, ma qualunque piano di pace con un Paese arabo non è che un’illusione e non risolverà il problema principale tra Israele e la Palestina,” ha avvertito.

In passato Israele ha cercato di costruire la pace con certi Paesi arabi, ma noi sappiamo che non ha raggiunto nessun tipo di pace nella regione.”

L’attivista nota che l’annessione è stata congelata molto prima dell’annuncio di giovedì, grazie al popolo palestinese e al rifiuto categorico da parte della comunità internazionale.

Secondo lui legare l’annessione all’intesa tra gli EAU e Israele “è un tentativo di presentare l’accordo con Israele come un successo, cosa che non è affatto.”

Hamas, il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza assediata da Israele, ha definito “pericoloso” l’accordo tra Israele e gli Emirati.

L’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è uno sviluppo pericoloso nel segno della normalizzazione e un colpo a tradimento contro i sacrifici del popolo palestinese,” ha dichiarato.

Per i comitati di resistenza popolare della Striscia di Gaza l’accordo “rivela l’ampiezza della cospirazione contro (il) popolo e (la) causa (palestinesi).”

Lo consideriamo una pugnalata alle spalle perfida e velenosa contro la nazione e la sua storia,” ha aggiunto l’organizzazione.

Anche la Jihad islamica, un altro gruppo della resistenza che opera da Gaza, ha condannato il patto: “Chiunque non sostenga la Palestina con una pallottola dovrebbe vergognarsi,” ha dichiarato.

Da parte sua l’Alleanza Nazionale Democratica, nota anche con il nome di partito Balad [gruppo politico arabo-israeliano, ndtr.], ha dichiarato che la decisione “incoraggia Israele a continuare con le attuali politiche (…) che privano i palestinesi dei loro legittimi diritti storici. Gli EAU si sono ufficialmente uniti a Israele contro la Palestina e si sono collocati nel campo dei nemici del popolo palestinese.”

Una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv”

Anche vari Paesi della regione hanno condannato l’accordo.

Questo venerdì la Turchia ha così accusato gli Emirati Arabi Uniti di “tradire la causa palestinese” accettando di firmarlo.

Gli Emirati Arabi Uniti cercano di presentarlo come una sorta di sacrificio per la Palestina, mentre tradiscono la causa palestinese per i propri meschini interessi,” ha reagito in un comunicato il ministero degli Esteri turco.

La storia e la coscienza dei popoli della regione non dimenticheranno questa ipocrisia e non la perdoneranno mai,” ha aggiunto.

Ardente difensore della causa palestinese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan critica regolarmente i Paesi arabi che accusa di non adottare un atteggiamento sufficientemente fermo di fronte a Israele.

La vivace reazione di Ankara arriva anche nel momento in cui le relazioni tra la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, due rivali regionali, sono tese. I due Paesi si scontrano in particolare in Libia, dove sostengono campi opposti.

Anche l’Iran ha condannato duramente l’accordo, descritto come una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv, che rafforzerà senza dubbio l’asse della resistenza nella regione. Il popolo oppresso di Palestina e tutte le Nazioni libere del mondo non perdoneranno mai la normalizzazione dei rapporti con l’occupante e il regime criminale di Israele, così come la complicità con i crimini del regime,” ha dichiarato in un comunicato il ministero iraniano.

La Giordania, che nel 1994 ha firmato un trattato di pace con Israele, diventando il secondo Paese arabo dopo l’Egitto a farlo, non ha né accolto favorevolmente né condannato l’accordo, ritenendo che il suo futuro dipenderà dalle prossime iniziative di Israele e in particolare dal fatto che possa spingere Israele ad accettare uno Stato palestinese sulla terra che ha occupato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Se Israele l’ha considerato come un incitamento a mettere fine all’occupazione (…) ciò porterà la regione verso una pace giusta,” ha dichiarato il ministro degli Affari Esteri Ayman Safadi in un comunicato ai mezzi di informazione statali.

Annullamento o semplice rinvio dell’annessione?

Secondo Abu Dhabi, in cambio di questo accordo Israele ha accettato di “mettere fine alla realizzazione dell’annessione dei territori palestinesi.”

Durante una telefonata tra il presidente Trump e il primo ministro Netanyahu si è trovato un accordo per mettere fine a una qualunque ulteriore annessione,” ha affermato il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed ben Zayed al-Nahyane sul suo account twitter.

Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non lo ha confermato, parlando di un semplice “rinvio”.

L’annessione di parti di questo territorio palestinese occupato è “rinviata”, ma Israele non vi ha “rinunciato”, ha affermato Netanyahu. “Ho portato la pace, realizzerò l’annessione,” ha persino proclamato.

La formulazione è stata scelta con cura dalle diverse parti. ‘Pausa temporanea’, non è definitivamente scartata,” ha sostenuto da parte sua l’ambasciatore americano in Israele David Friedman.

Ciononostante l’accordo è stato ben accolto da gran parte della comunità internazionale.

Così la Francia ha giudicato che “la decisione presa in questo contesto dalle autorità israeliane di sospendere l’annessione dei territori palestinesi (è) una tappa positiva, che (dovrebbe) diventare una misura definitiva,” secondo il capo della diplomazia francese, Jean-Yves Le Drian.

Per le Nazioni Unite questo accordo potrebbe creare “un’occasione per i dirigenti israeliani e palestinesi di riprendere negoziati concreti, che portino a una soluzione dei due Stati in base alle risoluzioni dell’ONU a questo riguardo,” ha dichiarato il segretario generale dell’organizzazione, António Guterres.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




La bomba Peter Beinart: “Non credo più in uno Stato ebraico”

Sylvain Cypel

24 luglio 2020 – Orient XXI

È una bomba che l’accademico americano Peter Beinart ha lanciato all’inizio di luglio nel suo ambiente intellettuale ed affettivo con la pubblicazione uno dopo l’altro di due articoli nei quali mette in discussione l’esistenza stessa dello Stato di Israele. “Yavneh: A Jewish Case for Equality in Israel-Palestine” (Yavneh: un appello ebraico per l’uguaglianza in Israele – Palestina) è comparso il 7 luglio nel trimestrale progressista Jewish Currents, di cui Beinart è redattore capo. Il secondo, sotto il titolo più provocatorio “I No Longer Believe in a Jewish State” (Non credo più in uno Stato Ebraico), è uscito il giorno dopo sul New York Times.

Fortemente impregnato di cultura ebraica, osservante senza essere praticante, Peter Beinart (49 anni) è politologo, docente alla City University di New York. È anche giornalista, collaboratore fisso del mensile the Atlantic [rivista progressista USA di cultura, letteratura, politica estera, salute, economia, tecnologia e scienza politica, ndtr.] e del quotidiano ebraico di New York The Forward [storico giornale della comunità ebraica USA, ndtr.]. Si definisce da sempre sionista progressista (“liberal”). Nel suo articolo sul New York Times si rivolge direttamente a quelli che hanno la sua stessa affiliazione sionista, alla quale intende essere fedele, per dire a loro di aver aderito con entusiasmo all’idea degli accordi di Oslo, firmati nel 1993, quella dei due Stati per due popoli che vivessero in pace uno di fianco all’altro. Così, scrive, si poteva continuare ad essere “al contempo progressisti e sostenitori di uno Stato ebraico.” Ma “gli avvenimenti (che hanno fatto seguito ad Oslo) hanno spento questa speranza.” Non possiamo esimerci dal constatare che “nella pratica, Israele ha già annesso la Cisgiordania da molto tempo.” Quanto alla possibilità di due Stati sovrani separati, essa è svanita (è divenuta, precisa in un altro articolo, un “mascheramento” per meglio inasprire la spoliazione dei palestinesi occupati. Noi ebrei progressisti dobbiamo affrontare questa realtà e “deciderci”. Quanto a lui, la questione è risolta: bisogna, conclude, “sposare l’obiettivo non dei due Stati, ma quello dell’uguaglianza dei diritti per gli ebrei ed i palestinesi” che abitano questa stessa terra.

Israele, uno Stato intrinsecamente segregazionista

Sul piano politico questa uguaglianza, secondo lui, può prendere la forma di uno Stato unico con diritti uguali per tutti – un uomo, una donna, un voto -, oppure di una “confederazione di due Stati profondamente integrati” tra loro. In questi due casi, continua, Israele smetterà di essere uno Stato ebraico. A quelli che pretendono nel migliore dei casi che sia un utopista, e nel peggiore un traditore della causa sionista, Beinart ribatte in anticipo che in primo luogo Israele è già di fatto uno Stato binazionale, dove una nazione ne domina un’altra. E in secondo luogo che “la soluzione dell’uguaglianza dei diritti è diventata più realista di quella della separazione” dati gli sviluppi sul terreno, dove le due popolazioni vivono sempre più interconnesse, mentre ogni giorno tra loro si rafforza la segregazione. In breve, dato che lo Stato ebraico non potrà più essere altro che quello che è diventato, uno Stato intrinsecamente segregazionista, ritiene che sia venuto il momento di trarne le conseguenze: questo Stato non ha più un futuro, almeno un futuro degno di essere appoggiato.

Quale sarebbe pertanto il futuro politico degli ebrei su questa terra comune agli israeliani e ai palestinesi? In subordine, come rimanere sionisti rinunciando nel contempo allo Stato ebraico? Beinart tenta di rispondere più nel dettaglio a queste domande nell’altro articolo, più lungo e più intimo. Il nocciolo della sua risposta risiede in un’idea…a dir poco bizzarra: “L’essenza del sionismo, proclama, non è di costruire uno Stato ebraico sulla Terra d’Israele, ma di crearvi un focolare ebraico.” D’altra parte “i primi sionisti si preoccupavano, innanzitutto, di creare un posto che servisse come rifugio e un luogo di rivitalizzazione” dell’ebraismo, non uno Stato.

Egli fa appello ai mani di Ahad Haam (Asher Ginsburg), uno dei primi sionisti che, contro il fondatore del movimento Théodor Herzl, alla fine del XIX secolo sostenne la creazione non di uno Stato ebraico, ma di un centro culturale sulla terra d’Israele che costituisse essenzialmente un polo spirituale per gli ebrei di tutto il mondo. Ahad Haam criticò anche l’atteggiamento dei primi coloni ebrei in Palestina nei confronti della popolazione locale.

Beinart fa anche riferimento a Martin Buber, filosofo ebreo tedesco sionista che negli anni ’30 propugnava l’edificazione di uno Stato binazionale di ebrei e arabi palestinesi insieme. Promuovere l’uguaglianza tra ebrei israeliani e arabi palestinesi “non vuol dire necessariamente abbandonare il sionismo”, ma solo l’idea di uno Stato ebraico, sostiene Beinart. Meglio: sarebbe tornare in qualche modo a un sionismo originario. Preservare il futuro degli ebrei israeliani passerebbe per l’abbandono di un Stato ebraico a beneficio di uno Stato binazionale (o di una confederazione) in cui gli ebrei non avrebbero più a disposizione un loro Stato, ma un “focolare” culturale che potrebbero sviluppare in pace.

L’uguaglianza e la parità al cuore del progetto

Nell’immediato, è improbabile che l’argomento della preservazione del sionismo convinca i sionisti contemporanei, e neppure i palestinesi, in primo luogo perché il libro fondatore del sionismo non si intitola “Il focolare ebraico”, né “Il centro spirituale ebraico”, ma piuttosto “Lo Stato ebraico”, e che non si tratta di un equivoco. Inoltre perché i pensatori a cui Beinart fa riferimento rimasero entrambi estremamente marginali in seno al sionismo. Infine, e soprattutto, perché si può difficilmente cancellare più di un secolo di storia del sionismo “reale”, che ha costantemente mostrato che intendeva erigere uno Stato etnico ebraico a danno della popolazione autoctona della Palestina.

Ma in fondo la questione che sembra assillare Beinart, cioè la conservazione della legittimità iniziale del sionismo, non ha nessuna importanza pratica per l’oggetto stesso del suo articolo, perché l’essenziale è che egli colloca al centro delle sue preoccupazioni le nozioni di uguaglianza, di parità tra di due protagonisti del conflitto, gli ebrei israeliani e i palestinesi. Si può condividere o essere in disaccordo con la prospettiva di uno Stato in comune evocata da Beinart, o anche considerarla possibile ma irrealistica nell’immediato. In ogni caso, non si può eludere la questione della necessaria uguaglianza “in dignità e diritti”, come dice la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dei palestinesi con i loro oppressori. Ponendo questo presupposto come la chiave per la fine del conflitto, Beinart ammette di giungere a una rottura radicale con lo Stato d’Israele e la sua politica segregazionista, e chiede ai suoi lettori di portare fino in fondo questa rottura insieme a lui.

Ciò che è necessario, ritiene, è uscire dalla trappola infernale che blocca ogni sviluppo della situazione. Perché, secondo lui, l’apparente status quo attuale porta al peggio, cioè all’esasperazione di una tendenza israeliana il cui vero obiettivo mira a una nuova “espulsione massiccia” dei palestinesi. L’annessione di una grande parte della Cisgiordania prevista da Israele, scrive, “non è la fine del viaggio. Non è che una stazione lungo la via che porta all’inferno.”

Una legge del ritorno per gli ebrei e i palestinesi

A partire da qui Beinart propone di promuovere lo Stato binazionale come unica opzione, innanzitutto perché una simile prospettiva, l’idea dell’uguaglianza, porta a pensare al suo contenuto. Così, a differenza del Sudafrica del dopo apartheid, l’uguaglianza dei cittadini in uno Stato comune tra palestinesi e israeliani dovrà non solo proteggere i diritti individuali di ognuno, ma anche i diritti nazionali delle due popolazioni. Beinart immagina una legge del ritorno che, contrariamente a quella che attualmente esiste in Israele a favore esclusivo degli ebrei, riguarderebbe sia gli ebrei che i palestinesi della diaspora, come l’aveva immaginata a suo tempo l’intellettuale palestinese Edward Said, E ne conclude:

Dopo generazioni, gli ebrei hanno concepito lo Stato ebraico come un tikun (il termine, di origine biblica, significa “riparazione”), un rimedio, un mezzo per superare l’eredità del genocidio. Ma ciò non ha funzionato. Per giustificare l’oppressione dei palestinesi da parte nostra, l’idea di uno Stato ebraico ha richiesto che vedessimo in loro dei nazisti (…) Il vero tikun risiede nell’uguaglianza, in un focolare ebraico che sia anche un focolare palestinese. Solo aiutando i palestinesi ad avere accesso alla libertà noi ci libereremo del peso del genocidio.”

E sogna, in uno Stato comune, un “museo della Nakba [la “Catastrofe”, la pulizia etnica che ha cacciato buona parte della popolazione palestinese dall’attuale territorio dello Stato di Israele, ndtr.]” che sarebbe costruito sul luogo che ospita il cimitero di Deir Yassin, luogo simbolo di un massacro commesso nel 1948 dalle forze israeliane. Deir Yassin, villaggio raso al suolo diventato il quartiere ebraico di Kfar Shaul, si trova solo a 1,5 km dallo Yad Vashem, il museo memoriale della Shoah.

Sviluppando questa visione, Beinart aderisce a quella di Avraham Burg, ex-presidente del parlamento israeliano e dell’Organizzazione Sionista Mondiale che, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David nel luglio 2000, ha progressivamente cambiato opinione a favore di un abbandono delle basi ideologiche del sionismo, sostenendo l’idea che uno Stato ebraico porterà alla rovina gli israeliani ebrei “chiusi in un ghetto sionista”, in quanto questo Stato strumentalizza il passato degli ebrei per meglio imporre ai palestinesi un regime di ingiustizia permanente.

Beinart aderisce soprattutto alle idee del grande storico anglo-americano Tony Judt, che nel 2003 aveva suscitato negli Stati Uniti una clamorosa polemica interrogandosi sulla possibilità di uno Stato unico comune degli ebrei israeliani e dei palestinesi, cioè un futuro in cui non ci sarebbe più posto per uno Stato ebraico. Riservando solo ai cittadini ebrei una serie di diritti, l’idea stessa di uno Stato ebraico, riteneva, era “ancorata ad un altro tempo”, quello di un nazionalismo su base etnica. Quindi la società israeliana non poteva che sprofondare in una chiusura criminale senza futuro. In conclusione Israele “è diventato oggi dannoso per gli ebrei.”

La sua posizione appoggia una campagna antisemita”

Diciassette anni fa Judt era stato oggetto di una virulenta campagna da parte delle istituzioni ebraiche americane, che intendevano rendere illegittima la sua voce. Nonostante il sostegno della New York Review of Books [prestigiosa rivista culturale statunitense, ndtr.], si era ritrovato molto isolato. Oggi gli articoli di Peter Beinart sono stati accolti nella comunità ebraica e fuori da essa in modo molto diverso. Da questo punto di vista sono sintomatici dell’evoluzione in atto negli Stati Uniti.

In Israele gli articoli di Beinart sono stati nel complesso ignorati (e in Francia ancor di più). Sul quotidiano Haaretz [principale quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] Gideon Levy, anche lui sostenitore di uno Stato binazionale, l’ha calorosamente applaudito: finalmente, scrive, “Beinart ha visto la luce.” Il suo collega Anshel Pfeffer, al contrario, respinge la “realtà pratica” della sua visione, sia per gli ebrei israeliani che per i palestinesi. Beinart, sostiene, non vive dove succedono le cose, ma in un ambiente di intellettuali palestinesi e israeliani emigrati negli Stati Uniti. Su Yedioth Aharonoth, il principale quotidiano israeliano, Dror Yemini scrive: “Negare agli ebrei il diritto di possedere un focolare nazionale è antisemita. Beinart non è antisemita. Le sue intenzioni sono diverse, ma la sua posizione sostiene una campagna antisemita.” Un classico…

Al contrario negli Stati Uniti gli articoli sono stati molto discussi, provocando reazioni spesso prevedibili. Alan Dershowitz, l’“avvocato” compulsivo di Israele in ogni circostanza, ha ovviamente evocato una “soluzione finale alla Beinart”. Ma in un tweet l’ex-consigliere per la sicurezza nazionale di Barak Obama, Ben Rhodes, ha lodato il suo “coraggio” e la sua “riflessione”. E Rob Eshman, editore di The Forward, il sito quotidiano ebraico di New York, il giorno dopo è andato oltre: “Che ci piaccia o meno, Peter Beinart descrive la realtà.”

Lo status quo è inaccettabile”

Sul Los Angeles Times l’editorialista Nicholas Goldberg fornisce una chiave di lettura delle molteplici reazioni registrate: “Alcuni diranno che Beinart tradisce il sionismo e mette in pericolo gli ebrei, altri che propone la sola alternativa etica, moderna ed ugualitaria a un secolo di nazionalismi falliti. Molti preferiranno rilanciare l’opzione dei due Stati. Io faccio parte di quest’ultima categoria. Ma il cambiamento di opinione di Beinart, benché provocatorio, è stimolante. Ci ricorda che lo status quo è inaccettabile.”

Questa reazione è sintomatica del cambiamento epocale a cui si assiste negli Stati Uniti. A differenza del fiume di ingiurie che ha subito Judt 17 anni fa, l’idea di una vita di ebrei e palestinesi in uno Stato comune è ammessa da molti come legittima. Certo, su questo punto Pfeffer ha ragione: senza dubbio ciò è più vero negli ambienti accademici che in quelli politici, così come il sostegno al boicottaggio di Israele è più diffuso nei campus americani che altrove. Ma, fino a nuovo ordine, è proprio in quegli ambienti che in genere nascono le idee nuove. E la legittimità delle idee professate da Beinart è significativa del processo di delegittimazione che riguarda ormai lo Stato d’Israele negli Stati Uniti in circoli che non smettono di allargarsi – in primo luogo nel cuore stesso dell’ebraismo americano.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde, e in precedenza direttore di redazione del Courrier international [settimanale francese simile a Internazionale, ndtr.]. È autore di Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse [I murati vivi. La società israeliana in un vicolo cieco] (La Découverte, 2006) e di L’État d’Israël contre les Juifs [Lo Stato d’Israele contro gli ebrei] (La Découverte, 2020).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Israele distrugge un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus a Hebron

Akram Al-Waara , Mustafa Abu Sneineh – Cisgiordania occupata

22 luglio 2020 – Middle East Eye

I soldati israeliani avrebbero assistito per due mesi alla costruzione di questa struttura indispensabile prima di inviare i bulldozer

Le autorità israeliane hanno distrutto un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus che doveva fungere da guida nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

La Cisgiordania fatica a contenere la seconda ondata di infezioni da coronavirus, dopo che sembrava aver avuto successo nel bloccare la pandemia con un rigido isolamento per parecchie settimane in marzo.

Hebron, la città più grande del territorio e locomotiva economica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), è stata particolarmente colpita. Fino ad oggi nei territori palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese ha registrato 65 decessi legati al coronavirus.

Il Comune di Hebron ha realizzato un centro di crisi dedicato al coronavirus, ma la stigmatizzazione sociale e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana hanno ostacolato il suo lavoro.

Raed Maswadeh, ingegnere trentacinquenne la cui famiglia possiede il terreno sul quale è stata costruita la struttura, riferisce a Middle East Eye che tre mesi fa il Comune si è rivolto ai palestinesi per raccogliere denaro per la costruzione di questo centro.

La mia famiglia ha deciso di donare il proprio terreno all’ingresso settentrionale di Hebron per costruire una clinica di tracciamento del COVID-19”, racconta Maswadeh.

È stata costruita in memoria del nonno, morto recentemente di coronavirus. Maswadeh riferisce che il progetto è costato alla sua famiglia circa 250.000 dollari.

Questo terreno si trova nella zona C, una parte della Cisgiordania sotto totale controllo di Israele, che non rilascia quasi mai i permessi edilizi agli abitanti palestinesi. I coloni israeliani nella regione invece non hanno alcun problema di questo genere.

Maswadeh dice che, come per molte strutture nella regione, hanno cominciato a costruire il centro senza il permesso edilizio.

Se lo avessimo richiesto non lo avremmo ottenuto. Pensavamo che forse, con il COVID-19, ci sarebbero state delle eccezioni”, spiega.

Strumento di pressione

Il progetto mirava ad alleviare la pressione sugli ospedali di Hebron dove vengono curati i pazienti colpiti dalla malattia, che hanno raggiunto la loro capacità massima.

Maswadeh racconta a MEE che la costruzione è stata inaugurata due mesi fa e che i soldati israeliani pattugliavano la zona. Hanno visto che i bulldozer e i materiali da costruzione entravano sul posto, ma non hanno detto niente, prosegue.

Tuttavia il 12 luglio hanno ricevuto un ordine militare, consegnato da un comandante dell’esercito israeliano, di interrompere la costruzione.

Farid al-Atrash, avvocato specializzato nei diritti umani ed attivista di Hebron, spiega a MEE che la città è stata colpita dalla crisi ed ha un disperato bisogno di questo centro.

In questo modo possiamo controllare meglio le persone che entrano ed escono da Hebron e controllare il virus”, spiega.

Secondo lui la demolizione potrebbe essere un modo per Israele di far pressione sull’ANP perché riprenda il coordinamento amministrativo, che è stato interrotto come segno di protesta contro i progetti israeliani di annessione di alcune aree della Cisgiordania.

In generale Israele complica la lotta contro il virus per i palestinesi. Dopo che l’ANP ha interrotto ogni coordinamento con Israele, gli israeliani usano ogni mezzo a loro disposizione per fare pressione sull’ANP perché lo ripristini”, sostiene.

Faranno tutto ciò che possono per renderci la vita qui ancora più difficile.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’occupante israeliano teme una possibile riconciliazione palestinese

Adnan Abu Amer

11 luglio 2020 – Chronique de Palestine

I recenti incontri tra i rappresentanti di Fatah e di Hamas hanno ricevuto ampia copertura da parte dei media israeliani.

Queste riunioni sono fonte di grande inquietudine se servono a garantire al movimento Hamas una copertura politica e relativa alla sicurezza nella Cisgiordania occupata, consentendogli di riprendere le azioni di resistenza contro Israele. Soprattutto se l’Autorità palestinese pone fine alla persecuzione del movimento di resistenza islamica…

L’ultimo incontro a distanza si è svolto tra Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah ed ex capo della Forza di Sicurezza preventiva (dell’Autorità Nazionale Palestinese, o ANP), e Saleh Al-Arouri, vice-responsabile dell’ufficio politico di Hamas, che Israele presenta come “l’ideatore degli attacchi armati in Cisgiordania”.

Gli israeliani ritengono che questa riunione abbia dato semaforo verde ad Hamas per agire in Cisgiordania, anche se Mahmoud Abbas [presidente dell’ANP, ndtr.] non auspica il ritorno della resistenza armata.

Quello tra Rajoub- Al-Arouri è stato seguito da un altro incontro, tra Ahmed Helles, responsabile di Fatah per le questioni di Gaza, e Husam Badran, responsabile delle relazioni nazionali di Hamas. L’occupante israeliano teme che ciò sia il segnale della fine della situazione relativamente sotto controllo sul terreno.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a parecchi incontri tra Fatah e Hamas e a tanti abbracci, sorrisi e strette di mano. In quasi tutte queste occasioni – troppo numerose per contarle – si è sentito affermare da Gaza, dal Cairo, da Beirut, da Doha e da Mosca, come da altri luoghi mantenuti segreti, che si è aperta una nuova pagina nelle loro relazioni. Tuttavia il punto comune di tutti questi annunci è che non hanno dato alcun risultato.

Questa volta ci si può aspettare qualcosa di diverso?

Non abbiamo altro nemico che Israele”

A proposito di queste recenti riunioni, gli israeliani hanno notato due novità: 1) né Rajoub né Al-Arouri hanno fatto dichiarazioni pubbliche sulla fine delle divisioni, la formazione di un governo di unità o l’indizione di nuove elezioni; 2) chi ha spinto i vecchi dirigenti a riprendere i colloqui è stato Israele.

Dal punto di vista israeliano, durante la conferenza stampa successiva alla riunione l’ANP ha avuto un chiaro obbiettivo, e non si è trattato di una riconciliazione con Hamas. Ha inteso solo contrariare Israele dopo aver messo fine al coordinamento in materia di repressione. Ma dare semaforo verde a Hamas per agire in Cisgiordania è la tappa successiva della campagna contro l’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.].

Certo non l’hanno detto così, ma era questa la conclusione, dopo che si sono ascoltate espressioni come “una lotta comune sul terreno”. Rajoub ha dichiarato: “Non abbiamo altro nemico che Israele” e Al-Arouri è parso felice di questo annuncio ed ha chiamato ad una lotta comune in Cisgiordania.

Nonostante tutti questi aspetti, gli israeliani sono convinti che Abbas si atterrà alla sua politica di opposizione alla lotta armata. Si può immaginare che non voglia davvero vedere le bandiere verdi di Hamas sventolare ad ogni angolo di strada nel territorio palestinese sotto occupazione…

Tuttavia, quando Rajoub parla di Hamas in termini di lotta comune contro il piano israeliano di annessione, e seduto virtualmente accanto alla persona responsabile della creazione dell’infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania, corre il rischio di “cavalcare la tigre”. Questo incontro tra Fatah e Hamas può avere conseguenze immediate sulla volontà di quest’ultimo di condurre attacchi di resistenza armata nei territori occupati.

Semaforo verde” per il movimento Hamas nella Cisgiordania occupata?

Quanto ai dibattiti in Israele, essi insistono sul fatto che l’incontro tra Rajoub e Al-Arouri è il segnale di un partenariato tra Fatah e Hamas. Una simile cooperazione inquieta al massimo grado gli israeliani perché, per quanto limitata possa essere, resta un elemento di primaria importanza per il loro Paese. La velocità con cui è stato raggiunto l’accordo tra i due movimenti ha sorpreso i servizi di sicurezza israeliani, anche se non avevano escluso questa possibilità dal momento in cui Benjamin Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione.

Gli israeliani non prestano molta attenzione a ciò che viene detto durante le conferenze stampa palestinesi organizzate congiuntamente da Fatah e Hamas, poiché quel che conta è ciò che avviene sul terreno. Tutto dipende quindi dal possibile annuncio da parte dell’ANP che non fermerà i membri di Hamas e li lascerà agire liberamente in Cisgiordania.

Parlando di queste riunioni tra Fatah e Hamas, gli israeliani rivelano alcune informazioni importanti relativamente ai partecipanti. Rajoub, per esempio, è uno dei principali aspiranti alla successione di Abbas, e si è alleato con l’ex capo dei servizi di informazione, Tawfik Tirawi, e con il nipote di Yasser Arafat, Nasser Al-Qudwa.

Recentemente si è anche in parte riconciliato con il suo antico rivale Mohammed Dahlan, che è stato cacciato dalla Palestina occupata e vive in esilio a Abu Dhabi e in Serbia, da dove cerca continuamente di conquistarsi amicizie ed influenza tra le fila di Fatah.

Sempre secondo quanto si discute in Israele, Rajoub non è il prescelto di Abbas per la sua successione, né quello dell’ANP. Tuttavia il capo dell’ANP ha scelto Rajoub per coordinare le proteste contro i piani di annessione israeliani, e Rajoub si presenta anche come il solo uomo di Fatah in grado di raggiungere un accordo con Hamas.

Del resto, il fratello di Rajoub, Sheikh Nayef Rajoub, è un alto dirigente di Hamas in Cisgiordania.

Al-Arouri è un uomo molto astuto e di grande acume ed ha subito capito i vantaggi di un incontro con Rajoub. Ora è convinto che Hamas sarà in grado di organizzare grandi manifestazioni in Cisgiordania, cosa che Fatah non è stata capace di fare. I militanti di Hamas non rischieranno un arresto da parte delle forze di repressione dell’ANP e potranno riunirsi, almeno nei circoli politici.

Secondo l’interpretazione israeliana, le riunioni tra Fatah e Hamas potrebbero creare una situazione positiva per la resistenza sulla scena palestinese, dato che gli scontri tra i dirigenti dei due movimenti sarebbero sostituiti da un coordinamento e da garanzie reciproche. È davvero l’ultima cosa che Israele si augura….

Adnan Abu Amer dirige il dipartimento di scienze politiche e di mezzi di comunicazione dell’università Umma Open Education di Gaza, dove tiene corsi sulla storia della causa palestinese, la sicurezza nazionale e Israele. È titolare di un dottorato in storia politica all’università di Damasco e ha pubblicato parecchi libri sulla storia contemporanea della causa palestinese e del conflitto arabo-israeliano. Lavora anche come ricercatore e traduttore per centri di ricerca arabi ed occidentali e scrive regolarmente su quotidiani e riviste arabi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Come la guerra di propaganda israeliana riduce l’Europa al silenzio

Gideon Levy

6 luglio 2020 – Middle East Eye

l diluvio di accuse esagerate di antisemitismo, a volte senza alcun fondamento, si è rivelato di dubbia efficacia.

La Segretaria di Stato all’Educazione del governo ombra del partito laburista britannico, Rebecca Long-Bailey, è stata recentemente dimissionata per aver diffuso sulle reti sociali un articolo in cui affermava, tra le altre cose, che Israele aveva addestrato la polizia americana ad utilizzare la tecnica del soffocamento consistente nel premere un ginocchio sul collo, praticata su George Floyd [afroamericano ucciso per soffocamento dalla polizia di Minneapolis, la cui morte ha dato inizio a molte proteste negli USA e nel mondo, ndtr.].

Nelle ultime settimane questa affermazione è circolata ampiamente nell’ambito della sinistra mondiale. Il segretario del partito Laburista inglese Keir Starmer ha accusato Long-Bailey di aver postato un articolo contenente una “teoria cospirazionista antisemita”. Evidentemente dopo le dimissioni di Jeremy Corbin il vento del cambiamento ha soffiato sul partito laburista britannico– e questo cambiamento non prelude a niente di buono. 

Osare criticare Israele

Il 25 giugno Middle East Eye ha pubblicato delle informazioni contenute nell’articolo in discussione sottoponendole a ‘fact-checking’ [verifica dei fatti, ndtr.]. L’accusa secondo cui Israele ha insegnato alla polizia americana il metodo di soffocamento che ha causato la morte di Floyd è infondata. Da decenni la polizia degli Stati Uniti ha il grilletto terribilmente facile quando sono coinvolti dei cittadini neri – ben prima che lo Stato d’Israele e la sua polizia venissero creati.

La polizia americana non ha certo bisogno della consulenza israeliana per essere capace di uccidere in gran numero civili neri innocenti.

Resta il fatto che l’inquietante velocità con cui Long-Bailey è stata sostituita nel governo ombra dovrebbe preoccupare i partigiani dei diritti umani ben più della credibilità di qualunque articolo che lei ha condiviso su internet. Long-Bailey è stata silurata per il solo motivo che ha osato condividere un articolo che criticava Israele, non perché ha osato pubblicare un articolo carente di basi fattuali.

Starmer non si preoccupa certo allo stesso modo dell’attendibilità degli articoli diffusi dai membri del suo partito. Si inquieta di più per l’immagine antisemita, non sempre giustificata, che si affibbia al suo partito.

Anche se le accuse dell’articolo fossero state inventate e senza alcun fondamento, resta molto improbabile che Long-Bailey sarebbe stata liquidata in questo modo se avesse postato false accuse contro qualunque altro Paese al mondo. In Europa, quando si tratta di critiche a Israele, le regole del gioco sono diverse. C’è Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra.

Efficace propaganda sionista

In questi ultimi anni la propaganda israeliana è stata coronata da buon esito in Europa. Il licenziamento di Long-Bailey è solo un successo tra tanti altri. Ultimamente, sotto la direzione di un Ministero degli Affari Strategici relativamente nuovo nel governo israeliano – e con la cooperazione dell’establishment sionista nel resto del mondo – la propaganda sionista ha adottato una nuova strategia, che si rivela di un’efficacia senza precedenti.

Israele e l’establishment sionista in molti Paesi hanno iniziato a definire come antisemita ogni critica a Israele. Questo ha ridotto al silenzio gli europei. I propagandisti di Israele sfruttano cinicamente il senso di colpa dell’Europa che permane ancora riguardo al passato, spesso a ragione – e le accuse hanno raggiunto il proprio obbiettivo.

Continua ad essere difficile criticare Israele, l’occupazione, i crimini di guerra che l’accompagnano, le violazioni del diritto internazionale o il trattamento dei palestinesi da parte di Israele; tutto questo è etichettato come antisemitismo e sparisce immediatamente dal dibattito. Oltre a questa campagna di catalogazione, la maggior parte delle Nazioni occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno adottato delle leggi che mirano a dichiarare guerra al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) – del tutto legittimo -, tentativo che ha lo scopo di penalizzare le sue attività e i suoi attivisti.

È incredibile che questa lotta contro un’occupazione e la sua infrastruttura legale sia oggetto di una delegittimazione e di una criminalizzazione intense. Provate a immaginare se un altro tipo di lotta condotta, per esempio, contro le fabbriche dove si sfrutta la miseria nel sud-est asiatico, contro la produzione di carne su scala industriale o i grandi campi di concentramento in Cina, fosse definita “criminale” in Occidente. Difficile da immaginare.

Eppure la lotta contro l’apartheid israeliana – e non c’è lotta più incontestabilmente morale – oggi è considerata criminale. Al di là del coronavirus, provate oggi a prenotare un grande spazio pubblico da qualche parte in Europa per un evento di solidarietà con i palestinesi. Provate a pubblicare un articolo contro l’occupazione israeliana sugli organi di stampa tradizionali. L’occhiuta macchina della propaganda israeliana vi scoverà immediatamente, vi accuserà di antisemitismo e vi ridurrà al silenzio.

Sostenere la libertà di espressione

Ridurre al silenzio: non c’è un’altra espressione per descrivere la situazione. Ciò significa che questo problema non può riguardare solo coloro che si occupano della causa palestinese, deve diventare una preoccupazione urgente per chiunque sostenga la libertà di espressione.

Israele non potrà certo beneficiare a lungo della sua campagna aggressiva, quasi violenta, che potrebbe ritorcersi sia contro lo Stato israeliano che contro gli ebrei in generale, suscitando l’opposizione, addirittura la repulsione, tra i sostenitori della libertà di espressione. Per una ragione sconosciuta ciò non si è – ancora – verificato, l’Europa ha piegato la testa e si è arresa senza condizioni di fronte a questa pioggia di accuse eccessive di antisemitismo, a volte del tutto infondate. L’Europa è stata ridotta al silenzio.

Sicuramente bisogna combattere l’antisemitismo. Esso esiste, continua a mostrare i denti, riaccende i ricordi del passato. Ma la critica necessaria e legittima dell’occupazione israeliana o anche del sionismo non può essere associata all’antisemitismo.

Se Israele compie crimini di guerra bisogna opporvisi e condannarli. È più che un diritto; è un dovere. Come accidenti potrebbe trattarsi di antisemitismo? Come ha fatto una lotta di coscienza a diventare un tabù?

Se Israele evoca l’annessione di territori occupati e la trasformazione di Israele in uno Stato di apartheid non solo de facto, ma de jure, è un dovere opporvisi e denunciare le intenzioni di Israele. Se Israele bombarda i civili indifesi a Gaza, come si fa a non opporsi? Tuttavia questo è diventato quasi impossibile in Europa e negli Stati Uniti.

Confusione sistemica

Ormai da quasi un secolo i palestinesi sono privati del loro Paese. In questi ultimi 53 anni hanno anche vissuto sotto occupazione militare senza diritti, senza un presente né un futuro, le loro terre violate e la loro libertà annientata, la loro vita e la loro dignità considerate senza valore – e improvvisamente la lotta contro tutto questo viene proibita.

Vi è una confusione sistemica sconcertante: l’occupante ha il diritto di difendersi e chiunque lotti contro l’occupazione si trova tra gli accusati. Invece di denunciare l’occupazione israeliana, di attaccarla e infine cominciare a farle pagare un costo sanzionando il Paese responsabile – cosa che l’Europa ha fatto molto giustamente nei giorni seguenti l’annessione della Crimea da parte della Russia -, invece di definire apartheid l’apartheid israeliana, perché non vi è altra parola per descriverla, i suoi detrattori sono ridotti al silenzio.

È disgustoso, immorale e ingiusto. L’Europa non può, e non deve, continuare a restare in silenzio riguardo a questo, anche se il prezzo da pagare è di essere definiti antisemiti.

Queste accuse non devono continuare a ridurre al silenzio l’Europa. Gli ebrei e i sionisti israeliani formulano false accuse, e allora?

Long-Bailey ha condiviso un articolo online, che forse non meritava di essere diffuso. Dimissionarla è un problema ben più grave.

Gideon Levy è un giornalista e membro del comitato di redazione del quotidiano Haaretz. E’entrato a Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vice caporedattore del giornale. Ha vinto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union [Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani di Israele nel 1996. Il suo ultimo libro, ‘La punizione di Gaza’, è stato pubblicato dalle edizioni Verso nel 2010.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Ex presidenti e personalità latinoamericane chiedono sanzioni contro l’apartheid israeliano

4 luglio 2020 – Monitor de Oriente

Oggi più di 320 personalità pubbliche, accademici, ex-presidenti e parlamentari di tutta l’America latina hanno presentato una dichiarazione congiunta contro i piani israeliani di annessione di grandi estensioni della Cisgiordania occupata.

Tra i firmatari ci sono il premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel; i musicisti brasiliani Chico Buarque e Caetano Veloso; gli ex-presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff (Brasile), Pepe Mujica (Uruguay), Fernando Lugo (Paraguay), Rafael Correa (Ecuador) ed Ernesto Samper (Colombia); l’ex-ministro degli Esteri del Brasile Celso Amorim; Paulo Sérgio Pinheiro, ex- segretario per i Diritti Umani del Brasile ed attuale presidente della Commissione Arns per la Difesa dei Diritti Umani. Anche più di 60 deputati brasiliani di vari partiti – che comprendono il PSOL [Partito Socialismo e Libertà, di estrema sinistra], il PT [Partito dei Lavoratori, di sinistra], il PCdoB [Partito Comunista del Brasile, estrema sinistra] e il PDT [Partito Democratico Laburista, di centro sinistra] – hanno firmato il documento.

La dichiarazione resa pubblica ieri al margine di una iniziativa della società civile sudafricana e come parte di una risposta unitaria di Africa, Asia e America latina, chiede sanzioni contro Israele e la ricostituzione del Comitato Speciale dell’ONU contro l’apartheid per bloccare le politiche israeliane di colonizzazione.

La crescente gravità delle violazioni da parte di Israele e la sua impunità ci impongono di rispondere all’appello lanciato dalla grande maggioranza delle organizzazioni della società civile palestinese…Appoggiamo la richiesta del popolo palestinese che si ponga fine al commercio di armi e alla cooperazione militare e in materia di sicurezza con Israele; che si annullino gli accordi di libero commercio con questo Stato; che si proibisca il commercio con le illegali colonie israeliane; che si chieda conto alle persone e ai soggetti che cooperano, complici di questo regime di occupazione e di apartheid. Ci impegniamo a lavorare, nei nostri rispettivi contesti nazionali, per sostenere l’applicazione di queste misure,” dice la dichiarazione.

La campagna ha ottenuto anche le firme di decine di accademici brasiliani, tra cui l’antropologo del Museo Nazionale Eduardo Viveiros de Castro, il pluripremiato scrittore Milton Hatoum e il fumettista Carlos Latuff. Altri firmatari sono l’ex-sindaco di São Paulo Fernando Haddad; Sônia Guajajara, dirigente del Coordinamento dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB); Débora Silva del Movimento delle Madri di Maggio; Guilherme Boulos, coordinatore del Movimento dei Lavoratori senza Casa (MTST); Douglas Belchior del Movimento Negro Uneafro; João Pedro Stédile del Movimento dei Lavoratori senza Terra (MST); dirigenti sindacali, come Sérgio Nobre della Central Unificata dei Lavoratori (CUT) e Carlos Prates della CSP-Conlutas; Juliano Medeiros, presidente del Partito Socialismo e Libertà (PSOL); José Maria de Almeida, presidente del Partito Socialista Unificato dei Lavoratori (PSTU); Edmilson Costa, segretario generale del Partito Comunista Brasiliano (PCB); Maria Carolina de Oliveira, segretaria dei Rapporti Internazionali dell’ Unione Nazionale degli Studenti (UNE).

Firmando il documento l’ex-primo ministro brasiliano Celso Amorim ha affermato che “l’annessione del territorio palestinese da parte di Israele non solo è una violazione delle leggi internazionali e una minaccia per la pace, ma anche un’aggressione contro gli uomini e le donne che hanno lottato contro il colonialismo e l’apartheid. La voce del Sud deve essere ascoltata.”

Inoltre anche il movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) in America latina ha lanciato una campagna denominata “No all’Annessione” (#NoALaaAnexación).

Il prossimo sabato attivisti sudafricani manifesteranno in rete contro i progetti di annessione e l’apartheid israeliani. Tra le personalità pubbliche che parteciperanno all’evento ci saranno Omar Barghouti, fondatore del movimento BDS; Mandla Mandela, nipote di Nelson Mandela; Rajmohan Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi; l’attivista sudafricano Phakamile Hlubi Majola; l’ex ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim; la deputata cilena Karol Cariola.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




L’organizzazione razzista filo-israeliana ADL cerca di cooptare Black Lives Matter

Ali Abunimah

29 giugno 2020 – Electronic Intifada

Per quanti desiderano la fine del razzismo istituzionalizzato, questi sono tempi esaltanti, in quanto attivisti e organizzazioni dei neri guidano una protesta globale contro i simboli e le strutture della supremazia bianca.

Ma in questi giorni, nel caso in cui un’organizzazione razzista si mascheri da organizzazione per i diritti civili, rischia di essere smascherata.

È un gioco d’equilibrio che per anni ha tormentato l’Anti Defamation League [Lega contro la Diffamazione], un’importante organizzazione della lobby israeliana negli Stati Uniti.

La sua controparte nel Regno Unito sta affrontando lo stesso problema.

La crisi è particolarmente acuta proprio ora, in quanto l’ADL cerca di presentarsi come un’alleata di Black Lives Matter [Le vite dei neri contano, movimento di protesta contro la violenza della polizia e il razzismo nei confronti delle minoranze, ndtr.], difendendo nel contempo Israele dalle critiche riguardo ai suoi progetti di annettere terre palestinesi nella Cisgiordania occupata, accentuando ulteriormente il sistema di apartheid.

Una nota fatta trapelare e ottenuta la scorsa settimana dal giornalista Josh Leifer di “Jewish Currents” [rivista trimestrale ebraica USA di sinistra, ndtr.] evidenzia il dilemma dei dirigenti dell’ADL.

Questa nota illustra come il gruppo lobbystico possa, nelle parole di Leifer, “trovare il modo di difendere Israele dalle critiche senza inimicarsi altre organizzazioni per i diritti civili, rappresentanti eletti di colore e attivisti e sostenitori di Black Lives Matter.”

L’essenza della strategia è di consentire alcune tenui critiche contro Israele respingendo nel contempo descrizioni più precise e puntuali delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele come ‘apartheid’ e ‘separati ma uguali’ – quest’ultimo è un termine a lungo utilizzato per rendere accettabili la segregazione razziale e la sottomissione imposte con la violenza e legalizzate negli Stati Uniti.

Gli autori di questa nota temono che uno scontro con le forze progressiste riguardo all’annessione possa portare l’ADL dalla “parte sbagliata” del movimento Black Lives Matter e “mettere in dubbio i rapporti tra l’ADL e molte organizzazioni e coalizioni per i diritti civili.”

È paradossale che l’ADL tema che Israele venga associato all’apartheid.

Mentre negli anni ’80 e 90’ il regime sudafricano dell’apartheid armato da Israele stava ancora distruggendo vite dei neri in quel Paese, l’ADL gestiva una rete di spionaggio negli Stati Uniti.

Oltre ad infiltrare gruppi solidali con i palestinesi, lo spionaggio dell’ADL passava agli efferati servizi segreti sudafricani documenti segreti sugli attivisti contrari all’apartheid.

L’ultima indiscrezione filtrata dall’ADL conferma timori rivelati in un rapporto privato ottenuto da Electronic Intifada nel 2017.

Quel rapporto – scritto insieme dall’ADL e dal Reut Institute, un gruppo israeliano di esperti – lamentava che gli attivisti della campagna per i diritti dei palestinesi fossero stati “in grado di inserire la lotta palestinese contro Israele come parte della lotta di altre minoranze oppresse quali gli afro-americani, i latinos e la comunità LGBTQ.”

Il rapporto raccomandava che i gruppi sionisti cercassero di ostacolare questa dinamica “collaborando con altri gruppi di minoranza sulla base di valori condivisi e interessi comuni come una riforma della giustizia penale, il diritto di immigrare o lottando contro il razzismo e i reati motivati da odio.” Oggi l’ADL vede Black Lives Matter come un’opportunità di incrementare la sua credibilità portando avanti nel contempo il suo programma anti-palestinese.

Appello per una censura più severa

L’ADL è uno dei molti gruppi lobbystici che, come il governo israeliano, hanno a lungo visto Black Lives Matter come una grave minaccia strategica.

Il suo tentativo di cooptare il movimento Black Lives Matter per controllare e disinnescare le critiche contro il duro regime razzista israeliano nei confronti dei palestinesi è attualmente in corso. L’organizzazione fa parte della campagna “Basta lucrare sull’odio”, che sta facendo pressione sulle grandi multinazionali perché nel mese di luglio tolgano la pubblicità da Facebook per protestare contro il presunto fatto che il gigante delle reti sociali non reprima i discorsi d’odio.

Nomi importanti come Unilever e Starbucks hanno già accettato di aderire.

Ci sono concreti motivi di preoccupazione riguardo a questa campagna: in effetti chiede che Facebook agisca come censore e arbitro della verità, un ruolo che nessuno vuole sia giocato da un’impresa privata senza alcun controllo.

È particolarmente preoccupante, dato che Facebook ha già nominato nel suo nuovo organismo di controllo un ex- funzionario del governo israeliano responsabile della censura. Mentre pochi potrebbero avere dei problemi riguardo al fatto di veder cancellare piattaforme pubbliche di suprematisti bianchi e nazisti, la realtà è che i palestinesi sono stati tra i principali obiettivi della censura in rete, soprattutto da parte di Facebook.

Gruppi lobbystici israeliani, compresa l’ADL, hanno promosso una definizione ingannevole e con motivazioni politiche di antisemitismo che mette sullo stesso piano da una parte le critiche alle politiche israeliane e alla sua ideologia razzista sionistica di Stato, e dall’altra il fanatismo antiebraico.

Hanno spinto governi, istituzioni e imprese di reti sociali ad adottare questa falsa definizione per far tacere i sostenitori dei diritti umani dei palestinesi.

La campagna “Basta lucrare sull’odio” chiede esplicitamente che Facebook “trovi e rimuova gruppi pubblici e privati che si concentrano su suprematismo bianco, milizie, antisemitismo, cospirazioni violente, negazione dell’Olocausto, disinformazione sui vaccini e negazionismo sul clima.”

Per quanto si debbano detestare tali punti di vista, questa è una richiesta piuttosto ampia di censura e controllo delle opinioni, che è improbabile si fermi lì.

Eppure, significativamente, non ci sono richieste di rimozione contro gruppi antimusulmani, nonostante l’incremento dell’islamofobia sulla piattaforma. Questo tipo di odio a quanto pare va benissimo!

La campagna “Basta lucrare sull’odio” fornisce anche un pretesto perché le grandi multinazionali si facciano una pubblicità positiva facendo in realtà ben poco per opporsi al razzismo strutturale. Senza dubbio queste multinazionali saranno contente di ricominciare a fare pubblicità su un Facebook ripulito da ogni opinione dissenziente.

Boicottaggio per me ma non per te

C’è anche la totale ipocrisia dell’ADL, che chiede un boicottaggio contro Facebook mentre attacca e calunnia il BDS – la campagna nonviolenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni per porre fine al razzismo e ai crimini di Israele contro i palestinesi.

L’Anti-Difamation League ha persino appoggiato le leggi contro il BDS, sapendo benissimo che queste norme sono incostituzionali perché violano la libertà di parola.

Indubbiamente l’ADL valorizza i propri diritti costituzionali di chiedere un boicottaggio di Facebook anche quando cerca di calpestare i diritti altrui alla libertà di parola, compresi quanti credono che ai palestinesi non dovrebbero essere negati i diritti nella loro stessa terra solo perché non sono ebrei.

Ma, appoggiando la campagna “Basta lucrare sull’odio”, l’ADL unisce le proprie forze con le principali organizzazioni nere progressiste per i diritti civili, come “Color of Change” [Colore del Cambiamento] e la storica NAACP [National Association for the Advancement of Colored People, una delle più antiche ed importanti associazioni per i diritti civili negli Stati Uniti, ndtr.], utilizzando quindi questi rapporti per conquistarsi una cedibilità totalmente immeritata come alleato antirazzista.

Attivisti neri in GB chiedono sanzioni contro Israele

Il problema rappresentato dall’ADL e dalla lobby israeliana nel suo complesso è stato messo in evidenza durante il fine settimana, quando Black Lives Matter UK, una coalizione antirazzista, ha twittato il suo sostegno alla lotta palestinese:

Mentre Israele procede verso l’annessione della Cisgiordania e la maggioranza della politica britannica mette a tacere il diritto di criticare il sionismo e prosegue il colonialismo di insediamento israeliano, noi stiamo in modo forte e chiaro con i nostri compagni palestinesi,” ha twittato l’organizzazione.

Il tweet ha avuto decine di migliaia di likes e re-twittaggi.

Black Lives Matter UK vi ha fatto seguire una serie di tweet che smascherano le affermazioni della lobby israeliana secondo cui le critiche a Israele sono antisemite.

Un tweet ha dichiarato che, in vista dell’annessione, “noi stiamo con la società civile palestinese nel chiedere sanzioni mirate in linea con le leggi internazionali contro il regime colonialista e di apartheid israeliano.”

I tweet sono stati particolarmente significativi in quanto la politica britannica rimane nella morsa di una caccia alle streghe contro chi critica Israele, soprattutto all’interno del principale partito di opposizione, quello Laburista.

Come prevedibile il tweet ha suscitato l’immediata ostilità da parte del Jewish Labour Movement, un gruppo lobbystico all’interno del partito Laburista che ha agito per conto dell’ambasciata israeliana.

Mike Katz, presidente del Jewish Labour Movement, ha affermato di essere “rattristato” nel vedere i tweet di Black Lives Matter UK.

Ha anche affermato che alcuni membri della sua organizzazione “rifiutano l’annessione e le colonie”.

Ciò può essere visto come un ennesimo tentativo di deviare le critiche contro Israele verso una forma “attenuata” accettabile, concentrata solo su un numero ridotto di azioni israeliane, cercando al contempo di escludere le critiche al sionismo.

Il Board of Deputies [Comitato dei Deputati], un’organizzazione ebraica britannica all’interno della Camera dei Comuni e uno dei principali gruppi filo-israeliani, ha, come prevedibile, accusato Black Lives Matter UK di avere “pregiudizi antisemiti”.

Ma il Board ha insistito che ciò “non ci impedirà di stare dalla parte del popolo nero nella sua richiesta di giustizia.”

Ma, di fatto, appoggiare Israele e il sionismo è del tutto incompatibile con ogni richiesta di giustizia. Nessuna campagna di astute manovre di diversione e pubbliche relazioni può nascondere questa semplice verità: non puoi essere un antirazzista razzista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Netanyahu è una finzione. L’apartheid è in atto da decenni

Richard Silverstein

24 giugno 2020 Middle East Eye

L’annessione è una finzione.

Non fraintendetemi: questo non significa che il proposito di annessione della Valle del Giordano da parte di Israele non causerà ulteriori espropriazioni ai palestinesi. Israele ruberà il 30% della terra riservata a uno Stato palestinese sulla base di precedenti proposte di pace fallite, causando ulteriore sofferenza ai palestinesi.

Ma questa particolare proposta di annessione, sulla quale il nuovo governo israeliano si è accordato nel suo programma di coalizione, rappresenta un diversivo, una distrazione dalla natura sistemica dell’espropriazione israeliana nei confronti dei palestinesi. Essa consente ai sionisti progressisti e alla comunità internazionale di focalizzare la loro attenzione sul come annullare questa grave ingiustizia, sollevandoli dalla responsabilità riguardo all’intero regime di apartheid sviluppato da Israele, sia all’interno che all’esterno della linea verde [linea di demarcazione fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti esistente dalla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 -1949 n.d.tr.].

Intolleranza religiosa

Dichiarazioni di leader ebrei britannici, membri del Congresso degli Stati Uniti, funzionari dell’Unione Europea ed esperti in diritti umani hanno ammonito sulle conseguenze dell’annessione. Hanno preso di mira il ventre molle, “moderato”, della coalizione di governo, i membri della Knesset del partito Blu e Bianco [partito di centro, ndtr.], dicendo loro con quanta riprovazione il mondo avrebbe guardato Israele se questa proposta fosse stata approvata.

Ma tutto questo lamentarsi dei progressisti distoglie da un male molto più profondo: un regime di suprematismo ebraico basato sull’intolleranza religiosa e sulla pulizia etnica.

Il problema con lo Stato israeliano non è legato ad una politica particolare, per quanto odiosa. Risale alle stesse fondamenta dello Stato e al pensiero dei suoi fondatori, in primis David Ben-Gurion. Mentre tra i primi leader sionisti esistevano alcune voci che cercavano l’integrazione, o almeno la coesistenza pacifica, con i loro vicini palestinesi, Ben-Gurion era un massimalista che nei suoi diari e lettere ha fatto propria la pulizia etnica molto prima di fondare lo Stato.

Il sine qua non dello Stato era per lui una maggioranza e la superiorità degli ebrei. Gli “arabi” avrebbero potuto rimanere all’interno dei confini della nuova Nazione, ma solo se avessero accettato la loro condizione di inferiorità.

Anche allora Ben-Gurion temeva così tanto la presenza palestinese che lui e la milizia Palmach [“compagnie d’attacco”, forze paramilitari fondate all’epoca del protettorato britannico, ndtr.] organizzarono e condussero il Piano Dalet, [“Piano D”, redatto durante la prima fase della guerra arabo-israeliana del 1948, ndtr.] che provocò la Nakba – l’espulsione di 750.000 palestinesi, in concomitanza con la fondazione di Israele nel 1948.

Le comunità palestinesi sopravvissute alla guerra rimasero sotto la legge marziale per due decenni, sebbene non rappresentassero alcuna minaccia per la sicurezza.

Bollire la rana

Come ebreo americano, sono cresciuto con il sionismo progressista. Mi è stato insegnato sin da piccolo che Israele era uno Stato ebraico e democratico. Mi è stato insegnato ad essere orgoglioso della coesistenza reciproca di quei due termini. Ma la componente religiosa dell’identità israeliana, come è stata definita, preclude la democrazia; non possono coesistere. Mi ci sono voluti decenni per rendermene conto.

Mentre sarebbe sconsigliato tentare di eliminare o reprimere la religione in uno Stato Israele-Palestina veramente democratico, la religione dovrebbe essere separata dalla governance politica se questo Stato dovesse mai diventare normale.

Le religioni dei cittadini ebrei e palestinesi di Israele rimarranno determinanti per loro e per le loro identità. Se praticate in modo appropriato, arricchirebbero il tessuto dello Stato senza pregiudicare un gruppo religioso o etnico rispetto a un altro. Ma l’attuale regime israeliano ha molto in comune con la repubblica islamica iraniana, il protettorato islamico dell’Arabia Saudita o i talebani afgani piuttosto che con la democrazia occidentale.

Uno degli aspetti astuti dell’espansionismo sionista è quello di perseguire i suoi obiettivi gradualmente, piuttosto che tutti in una volta. La povera rana non si rende conto di essere bollita nella pentola fino a quando non è troppo tardi, perché la fiamma aumenta la temperatura gradualmente e quasi impercettibilmente.

Pertanto, Netanyahu ha già rinunciato alla sua proposta originale di annettere l’intera Valle del Giordano. Ora si sta baloccando con un'”annessione leggera”, che comprenda le principali enclavi di colonie di Ariel, Maaleh Adumim e Gush Etzion, lasciando intatto il resto del territorio. Ciò nasconde il fatto che una volta che questi blocchi diverranno parte di Israele, il territorio circostante risulterà palestinese solo di nome; tutto ciò che rimarrà sarà circondato da recinzioni, strade e infrastrutture israeliane. E Israele potrebbe, in un secondo momento, annettere il resto.

L’unica cosa positiva

In un recente webinar su Middle East Eye, il professor Rashid Khalidi [noto storico americano-palestinese, ndtr.] ha descritto l’annessione come “in gran parte un diversivo”, osservando che essa è in corso in un modo o nell’altro dal 1967, con le leggi israeliane già applicate in tutti i territori occupati.

“Dobbiamo pensare in termini più ampi rispetto al linguaggio strettamente diplomatico che è stato utilizzato. Israele ha iniziato ad annettere, costruendo la realtà di uno Stato unico, dal 1967. Questo [attuale piano di annessione] è solo un piccolo passo nel processo”, ha detto Khalidi, osservando che la proposta più limitata di Netanyahu riguardante le tre enclavi di insediamenti coloniali equivale a una “farsa”.

“Dovremmo parlare in termini molto più essenziali dei problemi strutturali sistemici che sarà necessario affrontare se questo problema deve essere risolto su una base giusta ed equa”, ha affermato.

Se c’è un lato positivo nel piano di annessione, è che i sionisti progressisti, i quali una volta denunciavano il movimento di boicottaggio e chiunque etichettava Israele come uno Stato di apartheid, sono stati costretti a fare i conti con il fallimento della loro visione.

Benjamin Pogrund, attivista anti-apartheid sudafricano, che ha trascorso decenni a combattere l’idea che Israele sia uno Stato di apartheid, ha recentemente dichiarato in un’intervista: “Se annettiamo la Valle del Giordano e le aree coloniali, siamo un’apartheid. Punto. Non ci sono dubbi al riguardo.”

I bantustan sudafricani [enclavi di confinamento razziale del Sudafrica dell’era dell’apartheid, n.d.tr.] “erano semplicemente una forma più raffinata di apartheid per mascherare la realtà”, ha aggiunto Pogrund, osservando che le conseguenze della prevista annessione da parte israeliana “saranno ovviamente estremamente gravi. I nostri amici nel mondo non saranno in grado di difenderci ”.

Crepe e divisioni

Allo stesso modo, anche il partito tedesco pro-Israele Die Linke [La Sinistra, ndtr.] ha chiesto di sanzionare Israele se questo programma andrà avanti. “Se il governo israeliano dovesse decidere di attuare l’annessione – ha affermato in una nota – Die Linke proporrà la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Questo protocollo UE è importante non solo perché offre a Israele scambi senza dazi doganali e privilegi degli Stati membri, ma anche per lo status che conferisce a Israele, sia in Europa che nel mondo. Perdere questi privilegi sarebbe un duro colpo economico e politico.

Come notato dal giornalista Ali Abunimah, la dichiarazione del partito, si avvicina all’abbandono della soluzione dei due Stati, che è il nucleo del sionismo progressista che Die Linke sostiene: “Di fronte all’apparente rifiuto del governo israeliano di un equa soluzione con due Stati, in cui i cittadini di entrambe le parti vivrebbero con pari diritti, Die Linke chiede pari diritti civili per palestinesi e israeliani “, ha affermato il partito.

“Per Die Linke, il seguente principio vale ovunque e sempre: tutti gli abitanti di ogni Paese dovrebbero godere di pari diritti, indipendentemente dalla loro religione, lingua o gruppo etnico.”

È importante non esagerare il significato di questi cambiamenti. Sicuramente segnano delle variazioni nelle fila dei sostenitori progressisti di Israele. Non vi sono, inoltre, dubbi sugli scivolamenti tettonici nella politica americana su Israele / Palestina, che hanno notevolmente ampliato il dibattito. Ma come abbiamo visto in passato, proprio come le placche tettoniche possono rompersi e dividersi, le forze geologiche possono riportarle di nuovo insieme.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato ad esporre gli eccessi dello Stato di sicurezza nazionale israeliano. I sui lavori sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, A Time to Speak Out [Un tempo per parlare a voce alta, ndtr.] (Verso) ed è autore di un altro saggio della raccolta, Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: punti di vista alternativi sulla governance] (Rowman & Littlefield)

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Senza il via libera USA, Netanyahu rinvia l’annessione ma non rinuncia

Michele Giorgio

1 luglio 2020, Nena News  da Il Manifesto

Oggi avrebbe dovuto essere il giorno previsto dal governo israeliano per l’avvio della cosiddetta estensione di sovranità al 30% della Cisgiordania. Ma in assenza dell’ok definitivo da Washington, scrive la stampa locale, il premier congela il piano. Previste per oggi manifestazioni di protesta nei Territori Occupati, mentre cresce la contrarietà al piano dei democratici statunitensi

Non sarà il primo luglio la data di inizio dell’annessione unilaterale a Israele del 30% della Cisgiordania, ma nei Territori occupati si svolgeranno ugualmente le previste manifestazioni di protesta del «Giorno della rabbia» palestinese.

«Stiamo lavorando (all’annessione) e continueremo a lavorarci nei prossimi giorni», ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu dopo aver incontrato l’ambasciatore Usa Friedman e l’inviato speciale americano Berkowitz. Oggi perciò non accadrà nulla. E sarà così per il resto della settimana, scriveva ieri il Jerusalem Post citando fonti americane.

In più di una occasione Netanyahu aveva indicato il primo giorno di luglio come quello dell’avvio dell’iter legislativo per «l’estensione della sovranità israeliana» su larghe porzioni di Cisgiordania, territorio palestinese che Israele ha occupato nel 1967 al termine della Guerra dei sei giorni. Ora frena ma non rinuncia. Non lo preoccupano più di tanto le critiche dell’Onu e gli ammonimenti dell’Ue. E neppure le esitazioni del suo principale partner di governo Gantz.

Gli occorre però il via libera definitivo degli Usa all’annessione che con ogni probabilità sarà limitata nella sua prima fase – quindi senza la Valle del Giordano – e completata nei prossimi mesi, prima delle presidenziali Usa di novembre quando il suo alleato Trump rischierà di lasciare la Casa Bianca al suo rivale democratico Biden. Il premier israeliano vede crescere nel Partito democratico il dissenso verso le politiche di Israele.

Ieri anche il senatore democratico Sanders, il rappresentante più noto e autorevole della corrente socialista nel suo partito, ha aggiunto il suo nome a una lettera, «Apartheid», contro il piano di Israele di annettere parti della Cisgiordania. Fatta circolare dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, la lettera chiede di bloccare gli aiuti militari statunitensi a Israele se Netanyahu attuerà il piano di annessione che, si legge, creerebbe una realtà di apartheid in Cisgiordania.

Il testo di Ocasio-Cortez è diverso per contenuto e tono da una lettera anti-annessione più moderata diffusa all’inizio di giugno e firmata da oltre 190 deputati democratici della Camera dei rappresentanti, tra i quali persino storici alleati di Israele come Ted Deutch e Steny Hoyer. L’iniziativa non pare destinata a raccogliere un alto numero di firme. Tuttavia, assieme alla lettera diffusa all’inizio del mese scorso, conferma che tra i democratici il dibattito su Israele e palestinesi è più vivo che mai e si sta intensificando. E Joe Biden, pur rappresentando l’establishment tradizionale del partito, non potrà non tenerne conto.