L’ANP accusata di essere uno ‘Stato di polizia’ a causa dell’arresto di un regista palestinese

Shatha Hammad da Nablus, Palestina

14 settembre 2020 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha effettuato 30 arresti politici, 33 convocazioni per interrogatori e nove incursioni a partire da agosto

Di fronte al palazzo del Consiglio dei Ministri palestinese a Ramallah il 66enne Asaad Thaher cammina con il suo bastone, accanto a decine di poliziotti antisommossa e transenne di ferro, per andare a sedersi e prendere fiato.

Thaher è arrivato da Nablus, la sua città nel nord della Palestina, ad un’ora circa di macchina, per recarsi al quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah a chiedere giustizia per suo figlio Abdel-Rahman.

Il regista trentottenne è detenuto dall’ANP dal 19 agosto, quando è stato arrestato dal corpo di sicurezza preventiva.

Non so niente di Abdel-Rahman. Non lo vedo da quando è stato arrestato”, ha detto Thaher a Middle East Eye. “Sono molto preoccupato ed ho paura per lui…Non ho la minima informazione che possa alleviare le mie preoccupazioni”, ha detto prima di scoppiare in lacrime, incapace di continuare a parlare.

Invece ha interpellato un gruppo di circa 50 giornalisti che il 9 settembre avevano tenuto un presidio di solidarietà, insieme alla famiglia di Abdel-Rahman, davanti all’ufficio del Primo Ministro Mohammed Shtayyeh. Hanno chiesto il rilascio del detenuto, il rispetto della libertà di parola e di espressione e la fine della detenzione da parte dell’ANP di giornalisti e attivisti.

Nel contempo le forze di sicurezza dell’ANP hanno formato uno stretto cordone intorno all’ufficio di Shtayyeh, hanno dispiegato poliziotti antisommossa e minacciato l’immediata interruzione del sit-in se qualcuno avesse tentato di avanzare.

Abdel Rahman è stato arrestato la sera del 19 agosto mentre lasciava il suo posto di lavoro al centro televisivo An-Najah a Nablus, dove produce e presenta diversi programmi in tv.

Il giorno dopo all’una di notte le forze di sicurezza hanno fatto irruzione a casa sua ed hanno confiscato la sua attrezzatura, computer e files.

Il raid è stato terribile. I miei figli, uno di quattro anni e l’altro di otto, hanno visto il loro padre con le manette ai polsi ed in un tale stato di umiliazione”, ha detto a MEE Rasha, la moglie di Rahman.

Questo ha provocato loro un forte trauma psicologico. Non ho potuto spiegar loro che cosa stava succedendo.”

Il regista ha una laurea in architettura, ma ha a lungo lavorato nel campo dei media e dell’arte come giornalista e presentatore, con programmi su canali quali la televisione giordana Ro’ya, la televisione locale Wattan e la televisione britannica Al Araby. Abdel Rahman ha anche prodotto parecchi documentari e programmi satirici.

Arresto arbitrario

Secondo il suo avvocato Muhannad Karajeh dell’associazione di Ramallah ‘Avvocati per la Giustizia’, quasi un mese dopo Abdel Rahman resta in prigione con accuse che includono “vilipendio dell’autorità”.

La causa è pendente, e il tribunale continua a prorogare la sua detenzione basandosi sulle richieste della procura di “proseguire le indagini”.

Abdel Rahman non ha commesso alcun reato. Lo stanno interrogando solo relativamente al suo lavoro artistico e di informazione”, ha affermato Rasha.

Karajeh ha spiegato a MEE che non è ancora riuscito ad incontrare il suo cliente di persona e quindi non conosce dettagliatamente le sue condizioni di detenzione e durante gli interrogatori. All’avvocato è stato anche impedito di prendere visione dell’intera documentazione sull’indagine e di averne una copia.

Mi è stato permesso di vedere solo delle parti della documentazione investigativa e tutte riguardano il suo lavoro artistico e sui media, che è critico riguardo all’Autorità Nazionale Palestinese e al suo comportamento, e si tratta di lavori che sono stati diffusi sui canali televisivi di Ro’ya e Al Araby”, ha detto Karajeh a MEE.

L’avvocato ha detto che accusano Abdel-Rahman anche sulla base di generiche attività come “avviare un gruppo WhatsApp” e “comunicare in rete con persone influenti fuori dalla Palestina”, e che per la maggior parte gli interrogatori hanno riguardato il suo lavoro prima del 2016.

In base al documento che Karajeh ha visionato, una delle domande che il procuratore capo ha rivolto ad Abdel-Rahman è stata: “Qual è la tua definizione di libertà di opinione e di espressione?”, cosa che secondo Karajeh dimostra, insieme ai fatti relativi all’intero caso, che la sua detenzione riguarda quello che ha detto.

Avvocati per la Giustizia’ afferma che la protratta detenzione di Abdel- Rahman è una violazione della legge fondamentale palestinese, che garantisce la libertà di opinione e di espressione.

In una dichiarazione l’associazione ha affermato che “ciò che viene attribuito a Thaher non si discosta da un naturale esercizio di libertà di opinione e di espressione” e ha definito il suo arresto “arbitrario”.

Le forze di sicurezza dell’ANP hanno rifiutato di rilasciare commenti pubblici sul caso o fornire informazioni ai giornalisti.

Karajeh ha sottolineato che finora le autorità hanno trattato Abdel-Rahman ignorando le garanzie di un processo equo, come le visite dell’avvocato, negandogli una copia della documentazione e rifiutando il suo rilascio.

Il periodo di fermo di Abdel -Rahman è scaduto, ma il servizio di sicurezza preventiva continua a chiedere ulteriori proroghe della sua detenzione col pretesto di indagine in corso,” ha aggiunto.

Rasha ha potuto visitare Abdel-Rahman solo una volta dal suo arresto, per mezz’ora. Dice che suo marito ha cercato di rassicurarla, ma che “non stava per niente bene.”

Cercava di mostrarsi forte, ma non era così e aveva paura di parlare”, aggiunge. Afferma che, quando lo ha visto in tribunale, “mostrava segni di stanchezza, sfinimento e malattia.”

In seguito la famiglia è venuta a sapere che il loro figlio era stato portato in ospedale almeno una volta.

Stato di emergenza

Lo stato di emergenza imposto dall’ANP a partire da marzo per contrastare la diffusione del Covid-19 è stato caratterizzato da continui arresti politici in un contesto di violazioni della libertà di espressione, nonostante le dichiarazioni di Shtayyeh che avrebbe garantito la libertà di parola.

Il Comitato delle Famiglie dei Prigionieri Politici nella Cisgiordania occupata ha condannato le violazioni dei diritti umani fondamentali da parte dei servizi di sicurezza, rilevando soprattutto il continuo rinnovo dello stato di emergenza in violazione della Legge Fondamentale Palestinese. Il comitato ha affermato in una dichiarazione di aver osservato un incremento delle violazioni da parte dell’ANP a partire da agosto, compresi 30 casi di arresti politici, 33 convocazioni per interrogatori e nove irruzioni in case e posti di lavoro.

L’attivista per i diritti umani e giornalista Majdouline Hassouna dice a MEE di ritenere che la protratta detenzione di Abdel-Rahman e l’indagine sulle sue produzioni artistiche e sui media rappresentano una grave escalation contro la libertà dei giornalisti e le libertà di opinione e di espressione.

Gli attacchi ai giornalisti da parte dell’ANP non sono mai cessati. Tuttavia oggi appare chiaro che aumenteranno e diventeranno sistematici”, ha detto Hassouna. “È facile per i servizi di sicurezza accusarci di appartenere a qualche partito e costruire accuse per fornire una copertura alla nostra detenzione per via dei nostri diritti di opinione, espressione e del nostro lavoro giornalistico.

Oggi non esiste alcuna struttura giudiziaria o politica che faccia pressione sui servizi di sicurezza per il rilascio di Abdel-Rahman. Siamo diventati uno stato di polizia”, ha affermato, aggiungendo che lei e i suoi colleghi intendono rivolgersi ad ambasciate e consolati per premere per il suo rilascio, nel timore che venga sottoposto a tortura o ricatto per estorcergli una confessione. 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I palestinesi devono respingere e ignorare le false dichiarazioni degli USA e a livello internazionale

Ramona Wadi

3 settembre 2020 – Middle East Monitor

Come prevedibile, il consigliere esperto di Donald Trump, Jared Kushner, non ha dato mostra di alcuna sagacia storica quando ha giustificato la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli EAU e riguardo a quanto ciò influenzerà di diritti politici del popolo palestinese. I palestinesi, ha dichiarato, non dovrebbero “rimanere attaccati al passato”. Questa è stata un’affermazione generica, tipica non solo degli USA, ma anche della comunità internazionale e delle sue astrazioni riguardo a “pace” e “negoziati”, che hanno preso il sopravvento rispetto a chiamare l’espansione colonialista israeliana su terra palestinese esattamente per quello che è.

C’è una differenza tra gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo favorevole per entrambe le parti e la coercizione per obbligare una popolazione colonizzata ad accettare le richieste del colonizzatore e dei suoi alleati. Riguardo ai palestinesi, ha aggiunto Kushner, “devono venire al tavolo delle trattative. La pace sarà a loro disposizione, ci sarà un’opportunità pronta per loro appena saranno pronti a coglierla.”

Quello che Kushner dice non è altro se non che i palestinesi saranno obbligati ad accettare di essere colonizzati come parte di un accordo, oppure obbligati ad essere colonizzati senza di esso. Più o meno nello stesso modo in cui il compromesso dei due Stati garantiva la preservazione di Israele, che venisse o meno messo in pratica il paradigma.

La normalizzazione non è ciò che sembra, cioè, con le parole del primo ministro Benjamin Netanyahu, “pace in cambio di pace”. L’accordo tra Israele e gli EAU elimina i palestinesi dall’equazione, quindi non c’è pace, ma una metaforica e verbale eliminazione della popolazione indigena dall’attuale narrazione politica, per abbinarsi alla pulizia etnica che i paramilitari sionisti hanno operato prima, durante e dopo la Nakba del 1948.

A livello internazionale il discorso è simile. L’ONU e i leader internazionali stanno parlando dell’opportunità di riprendere i negoziati, quindi si schierano con gli USA benché il quadro di riferimento per la “pace” differisca. Kushner è semplicemente stato più esplicito nel travisare la lotta anticolonialista dei palestinesi come “rimasti attaccati al passato”, mentre la comunità internazionale ha utilizzato il passato del popolo palestinese, aiutata e sostenuta dall’interesse dell’ONU nel progetto coloniale sionista, per rinchiuderli all’interno dell’inganno diplomatico.

Quindi da una parte gli USA hanno totalmente rimosso la storia palestinese, mentre l’ONU la riconosce per i propri fini. Entrambi hanno manifestato, in modi diversi, il rifiuto palestinese di negoziati con termini che sono già compromessi. Tuttavia l’ONU rifiuta di ammettere il fatto di avere un alleato nell’Autorità Nazionale Palestinese, che continua nel suo doppio gioco di rifiutare il negoziato rimanendo legata al compromesso dei due Stati.

Dopotutto c’è un tacito accordo tra l’ONU e l’ANP. Persino in tempi in cui è necessaria un’alternativa, il leader dell’ANP Mahmoud Abbas non si allontana dall’avvertimento del segretario generale dell’ONU António Guterres, secondo cui “non c’è un piano B.”

Con una simile coesione internazionale contro i palestinesi, indubbiamente Kushner si sente appoggiato nelle sue affermazioni secondo cui essi sono “rimasti attaccati al passato”, non da ultimo perché anche l’ONU ha relegato i palestinesi a una questione per la quale il tempo è passato, rendendo irrilevante, attraverso il suo appoggio a un contesto che porta all’ingiustizia, il loro legittimo diritto al ritorno. Tuttavia le affermazioni riguardanti i palestinesi sono sbagliate ed essi devono respingere ed ignorare le false dichiarazioni internazionali sulla loro situazione.

Sappiamo per certo che vogliono continuare a vivere sulla loro terra, con l’autonomia e l’indipendenza che può venire solo dalla decolonizzazione. Quello che gli USA e la comunità internazionale rifiutano di ammettere e di accettare è che per i palestinesi non ci può essere un progresso senza la loro terra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gaza entra nella seconda settimana di isolamento tra le difficoltà per il controllo dell’epidemia

DALLA REDAZIONE DI Mondoweiss

4 SETTEMBRE 2020 Mondoweiss

Gli ultimi dati:

32.817 palestinesi sono risultati positivi per COVID-19; 24.445 in Cisgiordania; 697 a Gaza; 7.675 a Gerusalemme Est; 192 morti

126.419 israeliani sono risultati positivi per COVID-19; 993 morti;

mercoledì Israele ha registrato il maggior numero di nuovi casi con 3.074 persone risultate positive

Per la seconda settimana di seguito la maggior parte della Striscia di Gaza resta sotto isolamento mentre le autorità sanitarie, nel tentativo di rallentare la diffusione del coronavirus, si affrettano ad incrementare rapidamente i test e impongono ai palestinesi di restare nelle loro case. La scorsa settimana l’intera Striscia di Gaza è stata isolata, quando sono stati scoperti i primi casi di trasmissione all’interno della comunità. Questa settimana gli isolamenti sono stati limitati a 19 focolai.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo ultimo rapporto sulla situazione ha fatto una descrizione del coprifuoco a più livelli di Gaza, riferendo che a nord non c’è “nessun movimento tranne che per motivi di emergenza fino a nuovo avviso”, e nel centro e nel sud le persone sono costrette nelle loro case durante la notte tra le 20:00 e le 8:00.

Allo stesso tempo i test, che erano circa 18.000 la scorsa settimana, sono aumentati nel corso della settimana successiva, quando l’OMS, in collaborazione con l’Agenzia austriaca per lo sviluppo, ha consegnato altri 50 kit di test, sufficienti per sottoporre a screening quasi 5.000 persone, e ulteriori 4.000 tamponi. Dal 24 agosto più di 7.000 persone sono state sottoposte al test e quasi 500 sono risultate positive.

Nello stesso momento in cui venivano emessi gli ordini di isolamento a Gaza è stato interrotto il servizio idrico, lasciando molti palestinesi in quarantena nelle loro case con circa quattro ore di elettricità al giorno e senza acqua dal rubinetto. Torniamo un po’ indietro per fare chiarezza:

In concomitanza con la pandemia c’è stata un’escalation tra Hamas e Israele che ha avuto poca copertura mediatica. I palestinesi di Gaza hanno rilasciato dei palloncini che trasportavano dispositivi incendiari e lanciato razzi su Israele, e Israele ha sferrato quasi ogni notte attacchi aerei contro Gaza. Nel contesto di queste ostilità Israele ha fermato il trasferimento di carburante, il che ha fatto interrompere il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. Ciò ha di punto in bianco lasciato i palestinesi in una crisi energetica che poi è sfociata in una crisi idrica.

A Gaza il servizio idrico comunale dipende dal flusso costante di energia verso gli impianti di desalinizzazione al fine di depurare l’acqua che viene pompata da pozzi che attingono da una falda acquifera. L’intera operazione collassa se manca la corrente.

Per una famiglia l’interruzione si è rivelata fatale.

Omar al-Hazeen ha usato delle candele per illuminare la sua casa nel campo profughi di al-Nuseirat, nella parte centrale della striscia di Gaza. Mercoledì è scoppiato un incendio nella camera da letto condivisa da tre dei suoi figli che sono rimasti tragicamente uccisi nell’incendio.

Niente elettricità, niente acqua, l’isolamento priva i più poveri di Gaza del sostentamento essenziale

Tareq S. Hajjaj ha riportato sul nostro sito le conseguenze devastanti parlando con le famiglie del quartiere di Shujaiyeh, nel nord-est di Gaza.

Abbiamo sentito e visto i pericoli di questa pandemia, ma restare a casa costituisce un ulteriore pericolo mortale. Potremmo morire di fame, ha detto Baker Mousa, 52 anni, ad Hajjaj che lo ha intervistato davanti alla sua casa, dove il soggiorno è stato trasformato in un piccolo negozio di alimentari. “Giorni fa ho dovuto bussare alla porta del mio vicino per prendere dell’acqua.”

Hajjaj ha scoperto che a Shujaiyeh molte persone, essendo loro impedito di lasciare le loro case a causa delle misure di isolamento e restando bloccate in casa con i rubinetti asciutti, hanno dovuto fare la difficile scelta di acquistare l’acqua al posto del cibo.

Hajjaj racconta:

Majeda al-Zaalan, 49 anni, siede al tavolo della sua cucina con i suoi tre figli adolescenti e organizza le loro razioni per la giornata. Divide una singola porzione di pane e formaggio da condividere in quattro. Successivamente fa le razioni dell’acqua, dando a ciascuno tre litri al giorno per uso personale. Nel corso dell’ultima settimana ha fatto il bucato per la casa una volta e a ciascuno è stata concessa una doccia.

Afferma: “In questi tempi l’acqua è la cosa più preziosa e deve esserci in ogni casa ma sfortunatamente di solito non l’abbiamo per nulla”.

Al – Zaalan prosegue: ‘La famiglia viveva con una piccola entrata del mio figlio maggiore Ahmed, che vendeva boccette di profumo in una strada principale. Ma da lunedì nessuno di noi ha attraversato la porta per uscire”. Ora la sua unica fonte di reddito proviene da una sovvenzione dell’organizzazione benefica britannica Oxfam International che le fornisce la modesta cifra di 30 euro al mese.

“Ho solo la mia famiglia – prosegue – e non ho intenzione di perdere nessuno di loro.”

Cosa ha portato all’epidemia?

Il dottor Yasser Jamei, responsabile del Gaza Community Mental Health Program, il più grande istituto palestinese della Striscia di Gaza per la salute mentale, ha raccontato come i funzionari siano venuti a conoscenza della diffusione inosservata del coronavirus abbastanza per caso.

Jamei riporta una sinossi dal tracciamento dei contatti,

lunedì 24 agosto 2020 drammatiche notizie per la popolazione nella Striscia di Gaza. Quel giorno, l’ospedale Makassed di Gerusalemme ha informato le autorità sanitarie che una donna di Gaza che era presente all’ospedale è risultata positiva al COVID-19. La donna era lì per fare compagnia alla figlia malata che aveva ricevuto un permesso per uscire da Gaza per motivi umanitari. Erano arrivate a Gerusalemme sei giorni prima. Il ministero della salute di Gaza ha contattato la famiglia della donna che vive nel campo profughi di Maghazi, nella parte centrale della Striscia, e ha sottoposto al test i suoi familiari. Quattro di loro sono risultati positivi, di cui uno è proprietario di un supermercato. Un altro lavora in una scuola.

Poco prima di lasciare Gaza, la donna risultata positiva a Gerusalemme aveva partecipato a un matrimonio. Le grandi feste erano state vietate, ma poche settimane prima [della sua partenza, ndtr.] le autorità locali hanno adottato misure diverse al fine di allentare le restrizioni. Ciò era stato giustificato dal fatto che Gaza veniva considerata libera da COVID. Le moschee sono state riaperte. Sono state permesse le riunioni e nella prima settimana di agosto gli studenti sono rientrati a scuola”.

Subire la pandemia sotto l’occupazione

Per buona parte dell’estate abbiamo riferito dello sbalorditivo aumento del numero di nuovi casi giornalieri in Cisgiordania, dove si è verificata una seconda ondata più virulenta del coronavirus. L’OMS riferisce che, soltanto in agosto, il numero totale di coloro che sono risultati positivi in tutti i territori palestinesi occupati è raddoppiato da 15.201 a 31.929. La maggior parte dell’incremento interessa la Cisgiordania.

Questa settimana la corrispondente di Mondoweiss, Yumna Patel, ha pubblicato un secondo video della sua serie in cinque parti che racconta come i palestinesi stanno subendo la pandemia sotto l’occupazione. La sua ultima puntata ci porta al villaggio di al-Walaja, nei pressi di Betlemme, che si trova nell’Area C della Cisgiordania [area sotto esclusivo controllo israeliano, ndtr.], e osserva che “all’Autorità Nazionale Palestinese è stato qui impedito di portare aiuto con interventi di contenimento” e che il governo israeliano “non ha fornito nulla” ai palestinesi “in termini di test, trattamento o contenimento del coronavirus”.

Patel riferisce:

Immagina di essere lasciato a difenderti da solo contro il coronavirus mentre la tua casa è minacciata di demolizione e la tua famiglia vive sotto l’occupazione militare.

Questa è la realtà per i palestinesi che vivono nel villaggio di Al-Walaja, annidato tra le colline di Betlemme e Gerusalemme, nel sud della Cisgiordania occupata”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’uccisione di Iyad al-Halak: famiglia ed avvocati accusano Israele di cercare di insabbiare il caso

Redazione di MEE

28 agosto 2020 – Middle East Eye

Sono sorte preoccupazioni dopo che il Ministero della Giustizia israeliano ha riconsiderato l’assassinio del palestinese autistico, sostenendo l’assenza di prove video.

La famiglia di un giovane palestinese autistico ucciso dalla polizia israeliana a maggio ha accusato la polizia di “aver distrutto deliberatamente le videocamere” che contenevano le prove dell’omicidio.

Iyad al-Halak, di 32 anni, il 30 maggio è stato ucciso da un poliziotto di frontiera israeliano mentre si recava ad una scuola per disabili nella città vecchia di Gerusalemme est occupata.

Un’inchiesta sulla sua uccisione è stata ostacolata dalla mancanza di ogni prova video, nonostante informazioni secondo cui nella zona dove è stato ucciso vi fossero almeno 10 telecamere di videosorveglianza.

L’uccisione di Halak in un deposito di rifiuti nella città vecchia ha provocato proteste in Palestina, in Israele e all’estero e, nonostante l’isolamento per il coronavirus, ha scatenato numerose manifestazioni.

Venerdì, parlando con l’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese WAFA, il padre di Halak ha accusato la polizia israeliana di cercare di insabbiare il caso di suo figlio e di aver distrutto le telecamere di sorveglianza che hanno documentato l’incidente.

Per tre mesi il governo di occupazione (Israele) non ha preso alcuna misura punitiva contro gli assassini di Iyad”, ha detto. “Stanno cercando di cancellare il crimine e farla franca riguardo all’omicidio.”

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, mercoledì un ufficio del Ministero di Giustizia israeliano ha effettuato una ricostruzione della scena, dopo aver detto che non vi erano registrazioni video dell’incidente.

In risposta, gli avvocati della famiglia Halak hanno sollecitato il ministero a “rivelare immediatamente l’identità dei colpevoli” e pubblicare le prove video.

Il ritardo fino ad ora, tre mesi dopo il delitto, nel portare davanti alla giustizia i responsabili è sospetto e preoccupante”, hanno affermato gli avvocati in una dichiarazione rilasciata a Middle East Eye.

Tutte le prove raccolte nel dossier dell’inchiesta indicano che si è trattato di un vero e proprio omicidio, quindi non è giustificabile impiegare così tanto tempo per raggiungere una decisione sul caso.”

I palestinesi hanno a lungo accusato Israele di condurre indagini superficiali sui delitti commessi dalle forze armate o dai coloni israeliani contro i palestinesi. Gli israeliani sono raramente posti sotto processo per l’uccisione di palestinesi e, se risultano colpevoli, normalmente vengono condannati a pene miti.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Crepe nel muro di separazione israeliano e la fragilità del potere di Netanyahu

Shir HeverNadia Nasser-Najjab

19 agosto 2020 – MiddleEastEye

Anche se quest’estate con l’allentamento delle misure di sicurezza alcuni palestinesi sono potuti andare in spiaggia, dietro questo si celano i problemi che affliggono il primo ministro israeliano.

Questa estate i media israeliani hanno riferito con sorpresa una scena inaudita: migliaia di famiglie palestinesi sulle spiagge di Tel Aviv e di altre città israeliane. Gli israeliani si sono abituati a svolgere la loro routine senza vedere i 2 milioni e mezzo di vicini della Cisgiordania occupata, che vivono giusto dall’altra parte del muro di separazione.

Da una spiaggia di Tel Aviv, dei palestinesi hanno condiviso il video di un bagnino israeliano che lasciava entrare i palestinesi di Nablus. La voce che i soldati stessero chiudendo un occhio di fronte ai famosi varchi nel muro si è diffusa rapidamente tra i palestinesi, che si sono affrettati ad approfittare dell’occasione, pagando prezzi esorbitanti ai taxi per andare oltre il muro.

Molti giovani palestinesi hanno visto per la prima volta il mare (che dista meno di 100 chilometri da gran parte della Cisgiordania occupata) e alcune famiglie hanno approfittato dell’occasione per visitare le zone in cui vivevano le loro famiglie prima della Nakba del 1948.

Qualche giornalista ha aspettato a riferire questi fatti finché i passaggi nel muro non sono stati nuovamente chiusi. In effetti la scorsa settimana, non appena la notizia delle famiglie palestinesi sulle spiagge è apparsa sulle pagine dei giornali israeliani, l’esercito ha rapidamente e aggressivamente richiuso i varchi per evitare l’accusa di essere indulgente con i palestinesi.

Rafforzare il potere coloniale

Negli ultimi anni, migliaia di lavoratori palestinesi sono entrati in Israele attraverso i buchi nel muro di separazione in cerca di lavoro e spesso muovendosi proprio sotto gli occhi dei soldati israeliani. La richiesta di manodopera palestinese a buon mercato, e la consapevolezza tra i politici israeliani del fatto che il reddito ricavato dal lavoro fatto in Israele sia un’ancora di salvezza essenziale per l’economia palestinese in rovina hanno dissuaso l’esercito israeliano dal sigillare quei buchi.

Ma nell’epoca del coronavirus è stato davvero sorprendente vedere che i buchi nel muro venivano usati non solo dai lavoratori, ma anche da intere famiglie.

La politica arbitraria di apertura e chiusura dei passaggi attraverso il muro crea tra i palestinesi un senso di incertezza, e rafforza il potere coloniale delle autorità israeliane sulla popolazione palestinese.

Quando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha impartito direttive alle persone perché rispettassero il blocco del Covid-19 e rimanessero a casa, sapeva benissimo che le sue istruzioni sarebbero state ignorate. E con il coordinamento della sicurezza con Israele sospeso per via dei piani di annessione del primo ministro Benjamin Netanyahu, le forze di sicurezza palestinesi non si sono nemmeno preoccupate di impedire alle persone di entrare in Israele – un’ulteriore umiliazione e indebolimento per l’autorità e la legittimità dell’ANP.

I palestinesi però sanno che l’improvvisa e inaspettata clemenza rispetto ai valichi non è un segno della generosità israeliana. Il colonizzatore “non regala niente per niente”, come disse una volta il filosofo Frantz Fanon.

Per anni, un piccolo gruppo di donne israeliane ha fatto entrare clandestinamente [in Israele] dei palestinesi sulle proprie auto attraverso i posti di blocco, prendendo le corsie riservate agli ebrei israeliani. La più famosa è Ilana Hammerman, che ha spesso sfidato le autorità israeliane portando palestinesi attraverso il checkpoint.

Non è mai stata arrestata, probabilmente perché ciò svelerebbe regole dell’apartheid che consentono agli ebrei di attraversare i posti di blocco solo se non hanno palestinesi in auto. Ma lasciando che le aperture nel muro rimangano aperte, le autorità israeliane rendono irrilevante l’attivismo di Hammerman e altri.

Distogliere l’attenzione del pubblico

Una spiegazione ancora migliore per la decisione presa dal governo di allentare il blocco è la precaria situazione politica di Netanyahu. Ogni volta che le proteste contro il suo governo si fanno sentire, Netanyahu utilizza una crisi nella sicurezza per distogliere l’attenzione pubblica dai problemi economici e legali che affliggono la sua amministrazione.

Dieci anni fa, mentre i manifestanti invocavano giustizia sociale, Netanyahu ha falsamente accusato gli abitanti della Striscia di Gaza di essere coinvolti in un attacco che aveva avuto origine in Egitto, e ha ordinato il bombardamento del territorio costiero. Allo stesso modo, nel 2014-15, mentre gli investimenti stranieri in Israele crollavano e il Paese affrontava una crisi abitativa, Netanyahu spostò l’attenzione sull’Iran, affermando che prima di potersi prendere cura della qualità della vita bisogna prendersi cura della “vita stessa”.

Adesso i manifestanti stanno protestando contro le pesanti conseguenze economiche provocate dal blocco del Covid-19, la massiccia disoccupazione e il fatto che Netanyahu sia piuttosto impegnato a combattere le accuse di corruzione che ad affrontare la crisi – e niente può essere più utile di una piccola guerra o di una rivolta palestinese per dichiarare elezioni anticipate e vincerle come “Mr. Security”.

Sembra ormai chiaro che Benny Gantz, il “primo ministro di rimpiazzo” e rivale di Netanyahu, abbia interessi opposti. Nella sua qualità di ministro della Difesa è nella posizione ideale per mettere a frutto quanto appreso come comandante dell’esercito israeliano, vale a dire che le restrizioni alla libera circolazione dei palestinesi non creano sicurezza per gli israeliani, anzi – e che lasciare le famiglie palestinesi passare attraverso i varchi del muro diminuisce la loro motivazione immediata ad attaccare Israele.

Provocazioni fallite

Netanyahu non ha perso l’occasione di scatenare un po’ di violenza e cavalcare l’ondata di paura per un altro mandato come primo ministro, ma i suoi tentativi di provocare uno scontro con Hezbollah in Libano sono falliti, con l’esplosione di Beirut che rende il momento particolarmente inopportuno perché le forze israeliane scatenino attacchi mentre il resto del mondo invia aiuti.

Quindi, proprio come il suo predecessore Ehud Olmert, Netanyahu ha spostato l’attenzione dal Libano alla Striscia di Gaza. All’inizio di questo mese, alcuni palloni che trasportavano materiali incendiari sono stati lanciati da Gaza in Israele, provocando incendi nei campi israeliani. Non sono stati riportati feriti, tuttavia Netanyahu li ha usati come giustificazione per lanciare attacchi aerei, chiudere posti di blocco, fermare l’importazione di combustibile a Gaza e persino bloccare gli aiuti del Qatar al territorio assediato.

Tutto ciò, tuttavia, non è riuscito finora a indurre Hamas ad un attacco di ritorsione. Hamas ha già una chiara comprensione della politica israeliana e sa esattamente cosa Netanyahu stia cercando di ottenere.

Qualche gita al mare non farà dimenticare ai palestinesi il dolore dell’occupazione, né allevierà lo stress e la paura di una vita senza diritti – ma questa breve storia è sufficiente a dimostrare che il muro non ha mai riguardato la sicurezza israeliana, e che separare le diverse popolazioni che vivono sotto il controllo israeliano non è sostenibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è membro del consiglio di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East [Voce ebraica per una pace giusta in Medio Oriente].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Una pugnalata alle spalle”: i palestinesi denunciano l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati e Israele

MEE e agenzie

venerdì 14 agosto 2020 – Middle East Eye

I palestinesi e i loro sostenitori hanno condannato duramente l’accordo concluso da Abu Dhabi con Israele, che ha peraltro annunciato per bocca del suo primo ministro Benjamin Netanyahu che l’annullamento del progetto di annessione che si pensava fosse previsto nel patto non è garantito

Questo giovedì in un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) con il sostegno degli Stati Uniti, definendolo un “tradimento di Gerusalemme, di Al-Aqsa e della causa palestinese” ed esigendone il ritiro.

Questo accordo, che dovrà essere firmato tra tre settimane a Washington, farebbe di Abu Dhabi la terza capitale araba a seguire questa via dalla creazione di Israele.

La direzione (palestinese) afferma che né gli EAU né nessun’altra controparte hanno il diritto di parlare in nome del popolo palestinese, né consente a chicchessia di intervenire negli affari palestinesi riguardanti i loro legittimi diritti sulla loro patria.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha richiamato il suo ambasciatore ad Abu Dhabi e chiesto una “riunione d’urgenza” della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI) per denunciare il progetto.

La normalizzazione delle relazioni tra Israele e le potenze del Golfo come Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati è uno degli aspetti del piano dell’amministrazione Trump per il Medio Oriente, accolto dagli israeliani ma duramente criticato dai palestinesi.

Questo piano prevede anche l’annessione da parte di Israele della Valle del Giordano e di centinaia di colonie ebraiche in Cisgiordania, giudicate illegali dal diritto internazionale. Giovedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto di aver “rinviato” questo progetto, senza tuttavia “avervi rinunciato”.

La dirigenza palestinese “rifiuta questo scambio tra la sospensione dell’annessione illegale e la normalizzazione con gli EAU che avviene a spese dei palestinesi,” continua il comunicato, che definisce l’accordo tra Israele e gli Emirati “un’aggressione contro i palestinesi.”

Hanan Ashrawi, una dei maggiori esponenti dell’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania, ha dichiarato che in questo modo Israele è stato ricompensato per le sue azioni illegali dal 1967 nei territori palestinesi.

Gli EAU hanno rivelato alla luce del sole i loro rapporti segreti e la normalizzazione con Israele. Vi preghiamo, non fateci dei favori. Non siamo la foglia di fico di nessuno!” ha twittato.

Possiate voi non provare mai la sofferenza di vedersi rubare il proprio paese; possiate voi non provare mai il dolore di vivere prigionieri sotto occupazione; possiate voi non assistere mai alla demolizione della vostra casa o all’uccisione dei vostri cari. Possiate voi non essere mai venduti dai vostri ‘amici’,” ha aggiunto.

Awni Almashni, un responsabile del movimento Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas, e attivista della città di Betlemme, in Cisgiordania, ha dichiarato a Middle East Eye che la pace nella regione non potrà essere ottenuta che risolvendo i problemi che i palestinesi devono affrontare.

Gli accordi che Israele cerca di concludere con i Paesi musulmani ed arabi sono un mezzo per eludere ed evitare la questione palestinese, ma qualunque piano di pace con un Paese arabo non è che un’illusione e non risolverà il problema principale tra Israele e la Palestina,” ha avvertito.

In passato Israele ha cercato di costruire la pace con certi Paesi arabi, ma noi sappiamo che non ha raggiunto nessun tipo di pace nella regione.”

L’attivista nota che l’annessione è stata congelata molto prima dell’annuncio di giovedì, grazie al popolo palestinese e al rifiuto categorico da parte della comunità internazionale.

Secondo lui legare l’annessione all’intesa tra gli EAU e Israele “è un tentativo di presentare l’accordo con Israele come un successo, cosa che non è affatto.”

Hamas, il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza assediata da Israele, ha definito “pericoloso” l’accordo tra Israele e gli Emirati.

L’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è uno sviluppo pericoloso nel segno della normalizzazione e un colpo a tradimento contro i sacrifici del popolo palestinese,” ha dichiarato.

Per i comitati di resistenza popolare della Striscia di Gaza l’accordo “rivela l’ampiezza della cospirazione contro (il) popolo e (la) causa (palestinesi).”

Lo consideriamo una pugnalata alle spalle perfida e velenosa contro la nazione e la sua storia,” ha aggiunto l’organizzazione.

Anche la Jihad islamica, un altro gruppo della resistenza che opera da Gaza, ha condannato il patto: “Chiunque non sostenga la Palestina con una pallottola dovrebbe vergognarsi,” ha dichiarato.

Da parte sua l’Alleanza Nazionale Democratica, nota anche con il nome di partito Balad [gruppo politico arabo-israeliano, ndtr.], ha dichiarato che la decisione “incoraggia Israele a continuare con le attuali politiche (…) che privano i palestinesi dei loro legittimi diritti storici. Gli EAU si sono ufficialmente uniti a Israele contro la Palestina e si sono collocati nel campo dei nemici del popolo palestinese.”

Una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv”

Anche vari Paesi della regione hanno condannato l’accordo.

Questo venerdì la Turchia ha così accusato gli Emirati Arabi Uniti di “tradire la causa palestinese” accettando di firmarlo.

Gli Emirati Arabi Uniti cercano di presentarlo come una sorta di sacrificio per la Palestina, mentre tradiscono la causa palestinese per i propri meschini interessi,” ha reagito in un comunicato il ministero degli Esteri turco.

La storia e la coscienza dei popoli della regione non dimenticheranno questa ipocrisia e non la perdoneranno mai,” ha aggiunto.

Ardente difensore della causa palestinese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan critica regolarmente i Paesi arabi che accusa di non adottare un atteggiamento sufficientemente fermo di fronte a Israele.

La vivace reazione di Ankara arriva anche nel momento in cui le relazioni tra la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, due rivali regionali, sono tese. I due Paesi si scontrano in particolare in Libia, dove sostengono campi opposti.

Anche l’Iran ha condannato duramente l’accordo, descritto come una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv, che rafforzerà senza dubbio l’asse della resistenza nella regione. Il popolo oppresso di Palestina e tutte le Nazioni libere del mondo non perdoneranno mai la normalizzazione dei rapporti con l’occupante e il regime criminale di Israele, così come la complicità con i crimini del regime,” ha dichiarato in un comunicato il ministero iraniano.

La Giordania, che nel 1994 ha firmato un trattato di pace con Israele, diventando il secondo Paese arabo dopo l’Egitto a farlo, non ha né accolto favorevolmente né condannato l’accordo, ritenendo che il suo futuro dipenderà dalle prossime iniziative di Israele e in particolare dal fatto che possa spingere Israele ad accettare uno Stato palestinese sulla terra che ha occupato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Se Israele l’ha considerato come un incitamento a mettere fine all’occupazione (…) ciò porterà la regione verso una pace giusta,” ha dichiarato il ministro degli Affari Esteri Ayman Safadi in un comunicato ai mezzi di informazione statali.

Annullamento o semplice rinvio dell’annessione?

Secondo Abu Dhabi, in cambio di questo accordo Israele ha accettato di “mettere fine alla realizzazione dell’annessione dei territori palestinesi.”

Durante una telefonata tra il presidente Trump e il primo ministro Netanyahu si è trovato un accordo per mettere fine a una qualunque ulteriore annessione,” ha affermato il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed ben Zayed al-Nahyane sul suo account twitter.

Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non lo ha confermato, parlando di un semplice “rinvio”.

L’annessione di parti di questo territorio palestinese occupato è “rinviata”, ma Israele non vi ha “rinunciato”, ha affermato Netanyahu. “Ho portato la pace, realizzerò l’annessione,” ha persino proclamato.

La formulazione è stata scelta con cura dalle diverse parti. ‘Pausa temporanea’, non è definitivamente scartata,” ha sostenuto da parte sua l’ambasciatore americano in Israele David Friedman.

Ciononostante l’accordo è stato ben accolto da gran parte della comunità internazionale.

Così la Francia ha giudicato che “la decisione presa in questo contesto dalle autorità israeliane di sospendere l’annessione dei territori palestinesi (è) una tappa positiva, che (dovrebbe) diventare una misura definitiva,” secondo il capo della diplomazia francese, Jean-Yves Le Drian.

Per le Nazioni Unite questo accordo potrebbe creare “un’occasione per i dirigenti israeliani e palestinesi di riprendere negoziati concreti, che portino a una soluzione dei due Stati in base alle risoluzioni dell’ONU a questo riguardo,” ha dichiarato il segretario generale dell’organizzazione, António Guterres.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




“Una rara opportunità”: palestinesi attraversano un varco nella barriera di separazione per godersi il mare

Ahmad Al-Bazz e Oren Ziv 

11 agosto 2020 – +972

Migliaia di famiglie palestinesi stanno passando attraverso grandi buchi nella barriera della Cisgiordania per visitare la costa, mentre l’esercito israeliano per lo più fa finta di niente.

Nelle ultime due settimane decine di migliaia di palestinesi della Cisgiordania hanno viaggiato liberamente nelle città e paesi al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] attraverso brecce nella barriera di separazione israeliana, e la maggior parte di loro si è diretta verso le spiagge.

Questo attraversamento di massa, avvenuto mentre i soldati israeliani stavano a guardare, ha coinciso con la festa musulmana del Eid al-Adha [festa del sacrificio], che dura quattro giorni ed è iniziata il 30 luglio. Ogni anno i palestinesi che celebrano la ricorrenza in occasione della festa presentano domanda per avere permessi, che a volte il ministero della Difesa concede in base a condizioni molto restrittive.

Quest’anno Israele non ha concesso permessi festivi, apparentemente a causa della crisi da COVID-19, ma il varco nella barriera di separazione ha consentito ai palestinesi di andare comunque verso la costa, in genere a loro vietata, per festeggiare i giorni di festa.

I buchi nella barriera si trovano soprattutto lungo la parte centro-settentrionale della Cisgiordania, benché ce ne siano alcuni anche nei pressi di Hebron [Al-Khalil in arabo] e Modi’in [nella zona centro-meridionale, ndtr.]. Uno dei principali punti di passaggio si trova nei pressi del villaggio cisgiordano di Far’oun, a ovest di Tulkarem, dove sono stati usati dai viaggiatori locali almeno due buchi larghi tre metri.

Lo scorso mercoledì, quando +972 ha visitato quella parte della barriera, che è attrezzata con sensori di movimento e telecamere di sorveglianza, i palestinesi attraversavano tranquillamente in sicurezza sotto gli occhi di due soldati israeliani che stavano controllando la zona. +972 ha visto tre jeep militari israeliane passare davanti ai varchi senza impedire ai palestinesi di attraversare.

Sul lato israeliano della barriera decine di autisti di autobus offrivano ai palestinesi che passavano dalla loro parte di portarli ad Haifa, Giaffa e Acre [città israeliane da cui nel ’48 furono espulsi molti palestinesi, ndtr.]. Dalla parte opposta, oltre a qualche ambulante che vendeva i propri prodotti nell’affollato punto di passaggio, c’erano autisti che offrivano di riportarli nelle città cisgiordane di Nablus e Tulkarem.

Questa mattina l’esercito israeliano ha chiuso con filo spinato il buco nella barriera a Far’oun e sparato lacrimogeni contro i palestinesi che si trovavano lì vicino e stavano cercando di attraversare. Tuttavia i viaggiatori si sono spostati verso altri varchi aperti più avanti lungo la barriera.

Che permesso potrei avere?”

Dalla fondazione di Israele nel 1948 i palestinesi sono stati sottoposti a limitazioni sempre diverse sugli spostamenti, prima sotto il governo militare all’interno della Linea Verde sui cittadini palestinesi di Israele fino al 1966, poi sotto l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Queste restrizioni sono state notevolmente estese in seguito alla firma degli accordi di Oslo negli anni ’90 e alla costruzione del muro di separazione israeliano iniziata negli anni 2000. Mentre ai palestinesi della Cisgiordania con permessi viene in genere richiesto di attraversare certi posti di controllo per soli palestinesi, i cittadini israeliani viaggiano liberamente senza permessi e con pochi controlli attraverso i checkpoint per soli israeliani sulla Linea Verde.

Sto visitando Giaffa per la prima volta dal 1999,” dice K.J., che ha chiesto l’anonimato per la sua sicurezza personale e ha viaggiato con sua moglie e due figlie. Aggiunge di non aver potuto andare al di là della Linea Verde o all’estero a causa di un “divieto dovuto a motivi di sicurezza” imposto alla sua famiglia dalle autorità israeliane. “Questo buco è una rara opportunità di visitare il territorio del 1948 (all’interno della Linea Verde).

Il sistema di permessi di Israele, gestito dal ministero della Difesa, vieta agli uomini palestinesi con meno di 50 anni e alle donne con meno di 45 di attraversare la Linea Verde senza un permesso. Chiunque sia più giovane deve fare richiesta per ragioni specifiche, come lavoro o cure mediche.

Alcuni palestinesi che attraversano i varchi nella barriera affermano di non avere i requisiti per ottenere i permessi in base alla rigida normativa israeliana. “Sono giovane e celibe. Che permesso potrei avere?” dice M.A., affermando che non gli è mai stato concesso un permesso di viaggio.

Lunedì pomeriggio centinaia di palestinesi hanno continuato ad attraversare la barriera nella zona di Tulkarem. La mattina soldati israeliani che stazionavano a Far’oun hanno lanciato lacrimogeni contro quelli che cercavano di attraversare, ma in seguito la gente ha continuato a passare dall’altra parte senza problemi.

La polizia militare israeliana ha arrestato e rimandato indietro decine di palestinesi che cercavano di attraversare la barriera tra Zeita, un villaggio palestinese nella zona di Tulkarem, e Jatt, una cittadina palestinese in Israele. Uno degli arrestati afferma di essere entrato in Israele con un permesso, ma che voleva tornare indietro attraverso quel punto di passaggio. “Possiamo tornare da dove vogliamo,” dice.

Salah, un altro palestinese arrestato, mentre veniva preso da una jeep militare ha raccontato a +972: “Se non vogliono che entriamo, perché hanno aperto la barriera? O chiudono i buchi o smettono di intervenire quando noi entriamo (in Israele) per andare a lavorare o alla spiaggia.” Un soldato gli ha risposto: “È una barriera, perché di punto in bianco la state attraversando? Non potete attraversare qui.”

Chi ha fatto il buco?

Secondo gli abitanti palestinesi di Far’oun il buco nella barriera, come molti altri come questo, è stato praticato in origine da passeur che portano lavoratori palestinesi a giornata all’interno della Linea Verde. Questo varco è stato a lungo una causa di conflitto tra l’esercito israeliano e i lavoratori palestinesi “che a volte è finito con incursioni nel mio villaggio e persino con spari contro i lavoratori,” afferma Khaled Badir, un giornalista palestinese che vive a Far’oun.

Secondo lui, in seguito alla crisi del COVID-19 e alle conseguenti restrizioni imposte sui lavoratori con permesso, un numero maggiore di persone ha iniziato a utilizzare i buchi nella barriera, ma l’esercito israeliano non ha fatto niente per bloccare il crescente uso. “Abbiamo iniziato a renderci conto che l’esercito sta implicitamente consentendo ai lavoratori di attraversare non presentandosi vicino alla barriera durante le ore in cui passano i pendolari,” dice.

È stata la prima volta che Badir ha assistito al fatto che i soldati israeliani abbiano fatto finta di niente mentre i palestinesi passavano attraverso la breccia nella barriera per entrare in Israele. “Sono sicuro che si tratta di una decisione presa dagli alti comandi. Ma non capisco la ragione che ci sta dietro,” afferma.

All’inizio di agosto, durante l’Eid, il buco nei pressi di Far’oun è diventato sempre più trafficato, in quanto i palestinesi sono stati informati attraverso le reti sociali della rara opportunità di attraversare la barriera. Ci sono state reazioni contrastanti riguardo a quelli che approfittavano del varco: anche se alcuni invitavano gli amici a visitare luoghi in genere a loro vietati, altri hanno criticato il fatto di contravvenire alla chiusura totale dovuta al COVID-19 imposta dall’Autorità Nazionale Palestinese durante l’Eid.

L’ANP deve ancora emanare un comunicato ufficiale riguardo agli spostamenti a Far’oun. Tuttavia i mezzi di informazione palestinesi hanno riportato che la ministra della Salute dell’ANP, Mai Kaileh, ha evidenziato i “gravi rischi” di viaggiare nelle “zone del ‘48” a causa dell’alto numero di casi di COVID-19 tra gli israeliani.

Nel contempo Bashar Masri, un imprenditore e uomo d’affari palestinese, ha chiesto all’ANP di riconsiderare le attuali regole riguardanti il COVID-19, affermando che queste “provocano una depressione economica sul mercato palestinese… dopo che improvvisamente l’occupazione ha aperto i posti di controllo, cosa che ha spinto le persone a viaggiare per svago e per fare spese (nei mercati israeliani).”

Ma le affermazioni di Masri, ed altre simili, hanno provocato grandi proteste da parte dei palestinesi, che hanno invitato altri come loro “a viaggiare ed andare a vedere le città da cui sono stati espulsi nel 1948.” In risposta alcuni palestinesi hanno postato su Facebook storie in cui i visitatori cantano canzoni palestinesi di liberazione, mentre altri foto dei loro parenti rifugiati che visitano, per la prima volta dopo molti anni, le città di origine da cui vennero cacciati.

Se solo potessimo entrare sempre”

A poche decine di chilometri di distanza, lungo il litorale tra Giaffa e Tel Aviv, migliaia di palestinesi si sono goduti la spiaggia, e qualcuno ci è rimasto fino a notte. Quelli che hanno viaggiato dalla Cisgiordania erano facilmente identificabili, perché continuavano a stare in acqua persino dopo che per quel giorno i bagnini erano tornati a casa. Molti di loro hanno postato sulle reti sociali immagini riprese in diretta per le loro famiglie rimaste a casa.

Osama, 43 anni, di Nablus, che è andato in spiaggia a Giaffa con la moglie e i figli, non aveva visto il mare da 34 anni. i suoi familiari ci sono stati per la prima volta.

È una sensazione incredibile,” dice. “Mio nonno era di Giaffa, di Kufr Salame [villaggio a sud di Tel Aviv, distrutto dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.]. Per guadagnarsi da vivere confezionava arance, e venne espulso durante la Nakba [la “catastrofe” in arabo, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel ’48, ndtr.].”

Osama aggiunge di non essere sicuro se sia stato per ragioni economiche o politiche che gli è stato concesso di attraversare la Linea Verde, ma ciò non incide sulla sua gioia per aver avuto questa possibilità. “Spero di poter tornare, ma chissà cosa succederà domani,” dice.

Rashid, 16 anni, di Deir Abu Mash’al, nei pressi di Ramallah, racconta come lui e i suoi amici sono entrati in Israele attraverso il varco nei pressi del villaggio di Ni’lin senza essere bloccati dai soldati.

Questa è la seconda volta nella mia vita che vado al mare,” afferma. “Sono contentissimo. Se solo potessimo entrare sempre!”

Alaa, una laureata in pubbliche relazioni di Nablus, è andata in spiaggia con i suoi amici, con cui ha raccolto conchiglie e ha scritto parole sulla sabbia. “Sono entusiasta di essere qui,” dice. “Non ho avuto paura di attraversare la barriera.”

Basel, 42 anni, di Qalquilya, dice di non essere mai stato sulla spiaggia prima. È stato accompagnato da sua moglie e da tre figli, che sono rimasti in mare dopo il tramonto. “Siamo rimasti rinchiusi per cinque mesi, per via del coronavirus, in isolamento a casa. Dovevamo uscire a prendere aria,” dice Basel. “La gente è disoccupata. È meglio che (la barriera) sia aperta, in modo che la gente possa lavorare e andare a farsi un giro. È meglio che morire chiusi in casa imprigionati.”

Anche il valico di Allenby dalla Cisgiordania alla Giordania è soggetto a nuove restrizioni a causa della pandemia da coronavirus, facendo sentire i palestinesi ancor più in gabbia del solito.

Basel stenta a descrivere le sue impressioni su Giaffa: “È veramente la sposa del mare, come si dice. Dopo la spiaggia andremo al (famoso ristorante di Giaffa) “Il vecchio e il mare”, che ci hanno detto essere eccellente.” Benché il viaggio sia stato dispendioso, dato che è disoccupato, Basel afferma di aver intenzione di tornare il prossimo mese.

La scorsa settimana sono tornato qui tre volte,” dice un giovane di Jayyous, nei pressi di Qalqilya. “Sono passati cinque anni dall’ultima volta che sono stato in spiaggia.”

Le scene sulla spiaggia di Giaffa hanno ricordato quanto il litorale sia vicino alla Cisgiordania, e come sarebbe una situazione “normale”, senza separazioni.

Se fosse un vero confine, pensi che lo lascerebbero attraversare dalle persone?”

Questa settimana il confine tra Israele e la Cisgiordania era praticamente del tutto cancellato,” ha twittato sabato un giornalista israeliano. Questa è stata infatti l’impressione presso la barriera di separazione e in spiaggia. Molte persone hanno evidenziato che non c’erano soldati presenti nei vari punti attraverso i quali sono passati in Israele, o se c’erano, i soldati sono semplicemente rimasti a guardare da lontano.

Un cinquantenne di Betlemme, che con la moglie e la figlia ha viaggiato da Far’oun a Giaffa, dice: “La situazione della Cisgiordania è arrivata a un punto di rottura. C’è tensione, e trovare la barriera aperta sta consentendo alle persone di respirare un po’, di godersi la spiaggia.”

Benché l’Eid sia finito la scorsa settimana, durante il fine settimana e anche dopo il flusso di visitatori verso la spiaggia è continuato. Anche se non si sa per quanto tempo questa politica ufficiosa durerà, i media israeliani sono rimasti relativamente indifferenti alla questione, e qualcuno ha notato che la situazione pone scarsi rischi per la sicurezza o per la salute. Ci sono stati persino commenti ironici sul fatto che, in assenza dei turisti dall’estero, ci sono stati almeno turisti palestinesi dalla Cisgiordania.

Si sono fatte varie supposizioni sul perché sia stato consentito ai palestinesi di entrare in Israele attraverso buchi nella barriera di sicurezza, e un’ipotesi è che ciò rappresenti un’esibizione di autorità da parte di Israele.

La ragione per cui è tutto aperto è politica,” dice un autista di Taybeh in attesa di passeggeri. “(Israele) vuole dimostrare chi comanda, e indebolire l’ANP. Quando l’ANP istituisce una chiusura totale, Israele apre tutto.”

Nei pressi di uno dei varchi nella barriera un palestinese di 60 anni dà una spiegazione simile. “Vogliono dimostrare che non ci sono Israele e Palestina, ma solo un unico territorio. Si stanno preparando ad annettere tutta la Cisgiordania. Se ci fosse un vero confine, pensi che lascerebbero passare la gente? Vogliono annullare la frontiera.”

Ci hanno impedito di entrare, ma io sto andando in Palestina,” ha detto un altro mentre stava attraversando la barriera con la sua famiglia. “Abbiamo aspettato per decenni che (il confine) fosse aperto, e ora possiamo andare liberamente in spiaggia.”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che loro non si occupano della questione del movimento dei palestinesi attraverso i varchi nella barriera di separazione.

Ahmad Al-Bazz è un giornalista e documentarista che vive nella città cisgiordana di Nablus. Dal 2012 è membro del collettivo di fotografi “Activestills” [collettivo di fotografi impegnato nel sostegno dei diritti dei popoli oppressi con particolare riguardo ai palestinesi, ndtr.].

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia “Activestills” e redattore di Local Call [versione in lingua ebraica di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità che si mobilitano e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sulle case popolari e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e su quelle a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele distrugge un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus a Hebron

Akram Al-Waara , Mustafa Abu Sneineh – Cisgiordania occupata

22 luglio 2020 – Middle East Eye

I soldati israeliani avrebbero assistito per due mesi alla costruzione di questa struttura indispensabile prima di inviare i bulldozer

Le autorità israeliane hanno distrutto un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus che doveva fungere da guida nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

La Cisgiordania fatica a contenere la seconda ondata di infezioni da coronavirus, dopo che sembrava aver avuto successo nel bloccare la pandemia con un rigido isolamento per parecchie settimane in marzo.

Hebron, la città più grande del territorio e locomotiva economica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), è stata particolarmente colpita. Fino ad oggi nei territori palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese ha registrato 65 decessi legati al coronavirus.

Il Comune di Hebron ha realizzato un centro di crisi dedicato al coronavirus, ma la stigmatizzazione sociale e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana hanno ostacolato il suo lavoro.

Raed Maswadeh, ingegnere trentacinquenne la cui famiglia possiede il terreno sul quale è stata costruita la struttura, riferisce a Middle East Eye che tre mesi fa il Comune si è rivolto ai palestinesi per raccogliere denaro per la costruzione di questo centro.

La mia famiglia ha deciso di donare il proprio terreno all’ingresso settentrionale di Hebron per costruire una clinica di tracciamento del COVID-19”, racconta Maswadeh.

È stata costruita in memoria del nonno, morto recentemente di coronavirus. Maswadeh riferisce che il progetto è costato alla sua famiglia circa 250.000 dollari.

Questo terreno si trova nella zona C, una parte della Cisgiordania sotto totale controllo di Israele, che non rilascia quasi mai i permessi edilizi agli abitanti palestinesi. I coloni israeliani nella regione invece non hanno alcun problema di questo genere.

Maswadeh dice che, come per molte strutture nella regione, hanno cominciato a costruire il centro senza il permesso edilizio.

Se lo avessimo richiesto non lo avremmo ottenuto. Pensavamo che forse, con il COVID-19, ci sarebbero state delle eccezioni”, spiega.

Strumento di pressione

Il progetto mirava ad alleviare la pressione sugli ospedali di Hebron dove vengono curati i pazienti colpiti dalla malattia, che hanno raggiunto la loro capacità massima.

Maswadeh racconta a MEE che la costruzione è stata inaugurata due mesi fa e che i soldati israeliani pattugliavano la zona. Hanno visto che i bulldozer e i materiali da costruzione entravano sul posto, ma non hanno detto niente, prosegue.

Tuttavia il 12 luglio hanno ricevuto un ordine militare, consegnato da un comandante dell’esercito israeliano, di interrompere la costruzione.

Farid al-Atrash, avvocato specializzato nei diritti umani ed attivista di Hebron, spiega a MEE che la città è stata colpita dalla crisi ed ha un disperato bisogno di questo centro.

In questo modo possiamo controllare meglio le persone che entrano ed escono da Hebron e controllare il virus”, spiega.

Secondo lui la demolizione potrebbe essere un modo per Israele di far pressione sull’ANP perché riprenda il coordinamento amministrativo, che è stato interrotto come segno di protesta contro i progetti israeliani di annessione di alcune aree della Cisgiordania.

In generale Israele complica la lotta contro il virus per i palestinesi. Dopo che l’ANP ha interrotto ogni coordinamento con Israele, gli israeliani usano ogni mezzo a loro disposizione per fare pressione sull’ANP perché lo ripristini”, sostiene.

Faranno tutto ciò che possono per renderci la vita qui ancora più difficile.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




L’occupante israeliano teme una possibile riconciliazione palestinese

Adnan Abu Amer

11 luglio 2020 – Chronique de Palestine

I recenti incontri tra i rappresentanti di Fatah e di Hamas hanno ricevuto ampia copertura da parte dei media israeliani.

Queste riunioni sono fonte di grande inquietudine se servono a garantire al movimento Hamas una copertura politica e relativa alla sicurezza nella Cisgiordania occupata, consentendogli di riprendere le azioni di resistenza contro Israele. Soprattutto se l’Autorità palestinese pone fine alla persecuzione del movimento di resistenza islamica…

L’ultimo incontro a distanza si è svolto tra Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah ed ex capo della Forza di Sicurezza preventiva (dell’Autorità Nazionale Palestinese, o ANP), e Saleh Al-Arouri, vice-responsabile dell’ufficio politico di Hamas, che Israele presenta come “l’ideatore degli attacchi armati in Cisgiordania”.

Gli israeliani ritengono che questa riunione abbia dato semaforo verde ad Hamas per agire in Cisgiordania, anche se Mahmoud Abbas [presidente dell’ANP, ndtr.] non auspica il ritorno della resistenza armata.

Quello tra Rajoub- Al-Arouri è stato seguito da un altro incontro, tra Ahmed Helles, responsabile di Fatah per le questioni di Gaza, e Husam Badran, responsabile delle relazioni nazionali di Hamas. L’occupante israeliano teme che ciò sia il segnale della fine della situazione relativamente sotto controllo sul terreno.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a parecchi incontri tra Fatah e Hamas e a tanti abbracci, sorrisi e strette di mano. In quasi tutte queste occasioni – troppo numerose per contarle – si è sentito affermare da Gaza, dal Cairo, da Beirut, da Doha e da Mosca, come da altri luoghi mantenuti segreti, che si è aperta una nuova pagina nelle loro relazioni. Tuttavia il punto comune di tutti questi annunci è che non hanno dato alcun risultato.

Questa volta ci si può aspettare qualcosa di diverso?

Non abbiamo altro nemico che Israele”

A proposito di queste recenti riunioni, gli israeliani hanno notato due novità: 1) né Rajoub né Al-Arouri hanno fatto dichiarazioni pubbliche sulla fine delle divisioni, la formazione di un governo di unità o l’indizione di nuove elezioni; 2) chi ha spinto i vecchi dirigenti a riprendere i colloqui è stato Israele.

Dal punto di vista israeliano, durante la conferenza stampa successiva alla riunione l’ANP ha avuto un chiaro obbiettivo, e non si è trattato di una riconciliazione con Hamas. Ha inteso solo contrariare Israele dopo aver messo fine al coordinamento in materia di repressione. Ma dare semaforo verde a Hamas per agire in Cisgiordania è la tappa successiva della campagna contro l’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.].

Certo non l’hanno detto così, ma era questa la conclusione, dopo che si sono ascoltate espressioni come “una lotta comune sul terreno”. Rajoub ha dichiarato: “Non abbiamo altro nemico che Israele” e Al-Arouri è parso felice di questo annuncio ed ha chiamato ad una lotta comune in Cisgiordania.

Nonostante tutti questi aspetti, gli israeliani sono convinti che Abbas si atterrà alla sua politica di opposizione alla lotta armata. Si può immaginare che non voglia davvero vedere le bandiere verdi di Hamas sventolare ad ogni angolo di strada nel territorio palestinese sotto occupazione…

Tuttavia, quando Rajoub parla di Hamas in termini di lotta comune contro il piano israeliano di annessione, e seduto virtualmente accanto alla persona responsabile della creazione dell’infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania, corre il rischio di “cavalcare la tigre”. Questo incontro tra Fatah e Hamas può avere conseguenze immediate sulla volontà di quest’ultimo di condurre attacchi di resistenza armata nei territori occupati.

Semaforo verde” per il movimento Hamas nella Cisgiordania occupata?

Quanto ai dibattiti in Israele, essi insistono sul fatto che l’incontro tra Rajoub e Al-Arouri è il segnale di un partenariato tra Fatah e Hamas. Una simile cooperazione inquieta al massimo grado gli israeliani perché, per quanto limitata possa essere, resta un elemento di primaria importanza per il loro Paese. La velocità con cui è stato raggiunto l’accordo tra i due movimenti ha sorpreso i servizi di sicurezza israeliani, anche se non avevano escluso questa possibilità dal momento in cui Benjamin Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione.

Gli israeliani non prestano molta attenzione a ciò che viene detto durante le conferenze stampa palestinesi organizzate congiuntamente da Fatah e Hamas, poiché quel che conta è ciò che avviene sul terreno. Tutto dipende quindi dal possibile annuncio da parte dell’ANP che non fermerà i membri di Hamas e li lascerà agire liberamente in Cisgiordania.

Parlando di queste riunioni tra Fatah e Hamas, gli israeliani rivelano alcune informazioni importanti relativamente ai partecipanti. Rajoub, per esempio, è uno dei principali aspiranti alla successione di Abbas, e si è alleato con l’ex capo dei servizi di informazione, Tawfik Tirawi, e con il nipote di Yasser Arafat, Nasser Al-Qudwa.

Recentemente si è anche in parte riconciliato con il suo antico rivale Mohammed Dahlan, che è stato cacciato dalla Palestina occupata e vive in esilio a Abu Dhabi e in Serbia, da dove cerca continuamente di conquistarsi amicizie ed influenza tra le fila di Fatah.

Sempre secondo quanto si discute in Israele, Rajoub non è il prescelto di Abbas per la sua successione, né quello dell’ANP. Tuttavia il capo dell’ANP ha scelto Rajoub per coordinare le proteste contro i piani di annessione israeliani, e Rajoub si presenta anche come il solo uomo di Fatah in grado di raggiungere un accordo con Hamas.

Del resto, il fratello di Rajoub, Sheikh Nayef Rajoub, è un alto dirigente di Hamas in Cisgiordania.

Al-Arouri è un uomo molto astuto e di grande acume ed ha subito capito i vantaggi di un incontro con Rajoub. Ora è convinto che Hamas sarà in grado di organizzare grandi manifestazioni in Cisgiordania, cosa che Fatah non è stata capace di fare. I militanti di Hamas non rischieranno un arresto da parte delle forze di repressione dell’ANP e potranno riunirsi, almeno nei circoli politici.

Secondo l’interpretazione israeliana, le riunioni tra Fatah e Hamas potrebbero creare una situazione positiva per la resistenza sulla scena palestinese, dato che gli scontri tra i dirigenti dei due movimenti sarebbero sostituiti da un coordinamento e da garanzie reciproche. È davvero l’ultima cosa che Israele si augura….

Adnan Abu Amer dirige il dipartimento di scienze politiche e di mezzi di comunicazione dell’università Umma Open Education di Gaza, dove tiene corsi sulla storia della causa palestinese, la sicurezza nazionale e Israele. È titolare di un dottorato in storia politica all’università di Damasco e ha pubblicato parecchi libri sulla storia contemporanea della causa palestinese e del conflitto arabo-israeliano. Lavora anche come ricercatore e traduttore per centri di ricerca arabi ed occidentali e scrive regolarmente su quotidiani e riviste arabi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Per i giornalisti palestinesi, gli attacchi violenti delle forze israeliane fanno parte del lavoro

Juman Abu Arafeh 

4 luglio 2020 Middle East Eye

Gli abusi nei confronti dei giornalisti, che comprendono aggressioni e arresti, sono aumentati negli ultimi mesi specialmente nella Gerusalemme occupata.

Messa alle corde e impaurita, Sondus Ewies, giornalista palestinese di 23 anni, parlava nervosamente con un gruppo di agenti israeliani radunatisi intorno a lei mentre stava girando un film il mese scorso nella moschea di Al-Aqsa.

“Non ho fatto nulla. Stavo solo filmando e facendo il mio lavoro”, ricorda di avergli detto.

Ewies ha poi tirato fuori il suo tesserino internazionale di giornalista, sperando di evitare la detenzione, ma è accolta con una scrollata di spalle da un agente che le ha risposto: “Questa è una carta fasulla che non riconosciamo.”

Gli agenti israeliani hanno arrestato Ewies e sequestrato il suo telefonino. È stata quindi sottoposta a interrogatorio e le è stato imposto il divieto di visitare il complesso della moschea, situato nella Gerusalemme est occupata, per tre mesi.

Non era il suo primo incontro con le autorità israeliane. Ewies è stata interrotta più volte mentre era in onda ed è stata anche picchiata mentre copriva varie proteste.

A Middle East Eye ha detto di temere più il temporaneo divieto che l’effettiva detenzione.

Ewies vive nel quartiere palestinese di Ras al-Amoud, appena a sud del complesso della moschea Al-Aqsa, avendo fatto di quest’ultima una parte centrale del suo lavoro giornalistico. Dice di aver contato le ore per entrare nel complesso della moschea dopo che era stato chiuso per due mesi a causa della pandemia di coronavirus.

Molti giornalisti palestinesi affrontano arresti e divieti temporanei di accesso al complesso per avervi filmato incursioni dei coloni o forze israeliane che aggredivano i fedeli.

Nel 2016, le autorità israeliane hanno redatto liste nere con i nomi dei palestinesi, giornalisti compresi, a cui è vietato entrare nel complesso.

Dall’inizio di giugno, le autorità israeliane hanno emanato circa 10 mandati di comparizione a giornalisti e fotografi per interrogarli su come informano riguardo ad eventi politici.

Divieti alle agenzie stampa palestinesi

Ewies è una delle tante giornaliste che hanno subìto molestie da parte delle forze israeliane mentre erano in servizio.

La nota giornalista locale Christine Rinawi, di 31 anni, lavorava da 10 anni per Palestine TV, una stazione che opera nell’ambito dell’emittente palestinese pubblica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quando è stata incarcerata nel dicembre 2019.

Il mese prima l’allora Ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Gilad Erdan aveva emanato un decreto per chiudere gli uffici della TV palestinese per sei mesi, sostenendo che la sua attività costituiva una violazione agli accordi di Oslo che vietano la presenza dell’ANP nella Gerusalemme est occupata da Israele. L’ordine è stato rinnovato nel maggio 2020.

Subito dopo la chiusura, il personale dell’emittente di Gerusalemme ha deciso di contestare la decisione e di proseguire il proprio lavoro.

A dicembre, durante la trasmissione del terzo episodio di un programma in diretta, le forze israeliane hanno arrestato la presentatrice Dana Abu Shamsia e il cameraman Amir Abed Rabbo. Rinawi e un altro cameraman, Ali Yassin, furono anch’essi poco dopo arrestati e portati in un centro di interrogatori.

Per Rinawi, la chiusura della Palestine TV fa parte delle restrizioni imposte da Israele sulla documentazione degli abusi israeliani da parte dei media palestinesi.

“Hanno cercato di aggredirci e ci hanno trattati come criminali”, dice a MEE.

L’ufficiale mi ha detto: ‘Vai a lavorare a Betlemme o Ramallah. Ti è proibito lavorare a Gerusalemme, sia in strada che sottoterra o vicino al bagno o in salotto’ “.

Durante l’iniziale chiusura di sei mesi della Palestine TV, i servizi segreti israeliani hanno convocato Rinawi cinque volte per interrogarlo.

La Palestine TV non è il solo centro di informazione palestinese ad essere bandito da Gerusalemme dalle autorità israeliane. Negli ultimi anni, Al Quds, Palestine Today, Qpress e l’Elia Youth Media Foundation [associazione giovanile non profit, ndtr.] sono stati tutti sottoposti a divieti.

Nel corso degli anni, Rinawi ha subito diverse aggressioni mentre svolgeva il suo lavoro. Nel 2019, è stata spinta e strattonata dai soldati israeliani durante una trasmissione in diretta, che è stata interrotta quattro volte.

Nel 2015, schegge di una granata stordente l’hanno colpita agli occhi mentre copriva la situazione nella moschea di Al-Aqsa.

Un anno prima, lei e il suo cameraman erano stati colpiti con proiettili di gomma mentre riferivano degli eventi verificatisi dopo il rapimento e l’uccisione dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir.

Più pericolosa delle armi

Ata Owaisat, di 50 anni, del quartiere di Jabal al-Mukaber a Gerusalemme, ha iniziato la sua carriera come fotoreporter 19 anni fa. Ha lavorato con l’agenzia di stampa Associated Press e l’organizzazione di notizie israeliana Yedioth Ahronot.

Ha detto di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati israeliani hanno rotto la sua attrezzatura fotografica.

“Uno di loro mi ha detto letteralmente ” la tua macchina fotografica è più pericolosa delle armi “, dice a MEE.

“Sono stato picchiato e umiliato mentre svolgevo il mio lavoro, sono stato ostacolato, fermato, perquisito, interrogato e bandito da Al-Aqsa”.

La carriera giornalistica di Owaisat è stata bruscamente interrotta nel 2013, quando ha subito un grave infortunio e il conseguente trauma psicologico, compreso un disturbo post-traumatico da stress. Ha detto che gli è difficile parlare di quel giorno.

L’8 marzo 2013, Owaisat prese la sua macchina fotografica e andò a seguire gli scontri ad Al-Aqsa, dove le forze israeliane stavano sparando granate stordenti e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro i palestinesi che protestavano nel complesso della moschea contro le violazioni israeliane.

Owaisat fu colpito alla bocca da un oggetto metallico che non è stato in grado di identificare, che gli causò una copiosa emorragia.

“Ho perso parte dei miei denti, del labbro superiore e il mio viso era sfigurato”, ha ricordato.

Dopo essere stato colpito, Owaisat ha momentaneamente perso conoscenza ma è stato presto risvegliato da calci e insulti prima di perdere di nuovo conoscenza.

L’equipaggio di un’ambulanza lo portò in ospedale.

“Ho visto la morte negli occhi”, ha detto.

In seguito Owaisat ha avuto difficoltà a mangiare, parlare e persino a sorridere. Ha subito diverse operazioni per ricostruire viso e denti.

Ha anche smesso di lavorare per un anno, dopo di che ha ricevuto un referto medico che specificava il trauma psicologico che gli impedisce di riprendere il suo lavoro.

Restrizioni generalizzate

Oltre ai giornalisti di Gerusalemme, anche i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza assediata sono sottoposti a una pletora di violenze.

Il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) ha segnalato 18 di tali abusi durante il mese di maggio, inclusi attacchi fisici, arresti e la chiusura di uffici in tutti i territori palestinesi.

Anche un recente rapporto della Commissione per le Libertà del Sindacato Giornalisti Palestinesi ha riscontrato che le autorità israeliane hanno commesso 760 violazioni nel 2019.

Nasser Abu Bakr, il presidente del Sindacato, ha commentato la cosa dicendo che Israele concentra le sue restrizioni e l’ostruzionismo sui giornalisti a Gerusalemme, che considera la propria capitale.

Ha aggiunto che tali incidenti sono aumentati negli ultimi mesi, portando il Sindacato ad avvertire la Federazione internazionale dei Giornalisti (IFJ) dell’elevato numero di infrazioni contro i giornalisti a Gerusalemme e invitandola a intervenire.

Abu Bakr ha dichiarato a MEE che una delegazione della Federazione aveva richiesto al governo israeliano di porre fine alle violenze e di riconoscere la tessera stampa internazionale, senza risultato.

“Forniamo supporto più che possiamo. Abbiamo una riunione al sindacato la prossima settimana e la situazione dei giornalisti a Gerusalemme sarà il primo punto dell’ordine del giorno”, ha detto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)